“Chiusura degli OPG:quale formazione per gli operatori” – Roma 26-27 novembre 2015


Psichiatria Democratica
Corso di aggiornamento accreditato ECM

“Chiusura degli OPG:quale formazione per gli operatori”
Roma, 26-27 novembre 2015

La comprensione e il trattamento della grave sofferenza mentale richiedono nuove offerte formative. Una
visione minimamente critica riconosce le profonde crisi disciplinari e l’insufficienza dei percorsi didatticimagg iormente diffusi (di base, di specializzazione, di aggiornamento).
Da anni il modello bio-medico risulta dominante nonostante le scarsissime evidenze (sia eziologiche che
terapeutiche) e questo dominio appare incomprensibile soprattutto di fronte alle situazioni di forte gravità e multiproblematiche come quelle che, in maniera paradigmatica, interessano i soggetti con sofferenza mentale che commettono reato. D’altro canto è un fatto che il campo della salute mentale è diventato sempre più residuale all’interno del Sistema Sanitario. L’aziendalizzazione ed i tagli lineari hanno spesso logorato non solo le concrete pratiche di cura e assistenza, ma la possibilità stessa di progettualità e di innovazione aprendo il fianco alle inevitabili semplificazioni operative e scientifiche.

Cos’è la sostenibilità per i NoGrazie?

1. Che cosa significa per la nostra associazione applicare nel lavoro che portiamo avanti, nell’ambito della salute, la visione forte della sostenibilità, come descritta dalla Carta di Bologna?

 

L’industria della salute (produttori di farmaci, vaccini, strumenti diagnostici e terapeutici, alimenti e qualsiasi altro presidio sanitario) è un settore in continua crescita ed espansione. Come in ogni settore produttivo, l’obiettivo primario è l’incremento delle vendite e del conseguente profitto, al di là degli obiettivi dichiarati (Merck: migliorare e salvare vite nel mondo; Pfizer: allungare e migliorare significativamente la vita; Astra Zeneca: sviluppare medicine che cambiano la vita delle persone, etc).

 

Ma per noi cittadini spendere di più significa incrementare la salute? Al di sotto di una certa spesa sanitaria per abitante all’anno, esiste una correlazione lineare fra questa e l’attesa di vita. Ma sopra un certo limite, la curva si appiattisce e spendendo di più non si hanno ulteriori benefici. Gli USA, per esempio, hanno di gran lunga la più alta spesa sanitaria al mondo, ma i loro cittadini non godono di migliore salute rispetto a quelli dei paesi che spendono la metà; anzi, quasi tutti gli indicatori di salute degli USA stanno al di sotto di quelli della media dei paesi industrializzati.

 

Inoltre, è difficile che questa correlazione positiva si possa mantenere nei prossimi decenni, stante il fatto che i farmaci, soprattutto quelli oncologici e di origine biotecnologica, hanno costi a crescita esponenziale a fronte di un guadagno a volte di pochi mesi di “vita” (sulla qualità di quest’ultima ci sarebbe molto da dire). Non sappiamo se l’acquisto di questi farmaci possa far “saltare il banco” del welfare sanitario e annullare il beneficio del “tutto a tutti” fino ad ora ragionevolmente mantenuto dai sistemi sanitari dei paesi occidentali.

 

Queste riflessioni non affrontano il problema dei paesi in via di sviluppo, nei quali la spesa sanitaria pro capite è decisamente più bassa (anche se l’attesa di vita non lo è necessariamente), la situazione sanitaria peggiore e molti dei farmaci da noi comunemente in uso non possono essere garantiti se non dietro pagamento diretto.

 

Da quanto scritto sopra, ci sembra evidente che i sistemi di salute che danno la priorità al mercato siano difficilmente sostenibili, oltre che ingiusti, viste le disparità tra e nei paesi. Un sistema di salute sostenibile non può che reggere su altri valori: priorità alla prevenzione primaria, attenzione ai determinanti sociali, economici e ambientali, cure essenziali per tutti, appropriatezza. E deve essere in grado di regolare il mercato. In questo senso, è molto probabile, se non certo, che si debba pensare a qualche forma di decrescita, privilegiando la qualità rispetto alla quantità, e facendo meglio con meno.

 

2. Che cosa, nell’ambito di competenza della nostra associazione, facciamo e/o potremmo fare per implementare la visione forte della sostenibilità nell’ottica delineata dalla carta di Bologna.

 

Prima riflessione: non accettare come innovativo ogni nuovo farmaco, strumento diagnostico, alimento o altro presidio sanitario immesso in commercio; cercare invece di valutare il rapporto costo/efficacia, dove nei costi si dovrebbero includere anche gli effetti avversi, cioè i danni alla salute e all’ambiente, oltre agli effetti su eguaglianza e determinanti sociali. Questo atteggiamento permetterebbe di migliorare l’allocazione di risorse puntando su presidi sanitari veramente essenziali, in linea con l’impegno della rivista Préscrire, ad esempio.

 

Seconda riflessione: una parte dell’incremento della spesa sanitaria è del tutto ingiustificato perché correlato alla corruzione, che si prende una grossa fetta di danaro sottratta al miglioramento della salute e della qualità di vita di tutti. Calcolando una spesa globale per la salute di 7mila miliardi di $ l’anno, si stima che il 10-25% si perda nei rivoli della corruzione. Per gli USA vuol dire da 82 a 272 miliardi di $ persi nel 2011. Nel 2014, su 175 paesi monitorati l’Italia è risultata essere al 69° posto come grado di corruzione, con un punteggio di 43/100 (dove 100 sta per assenza di corruzione). Le risorse assorbite da corruzione e frodi si stimano essere attorno al 5,6% del bilancio della sanità. Considerando la spesa sanitaria italiana di circa 110 miliardi di euro l’anno, è tra i 5 e i 6 miliardi di euro, il costo della corruzione in salute. Dove va questa enorme somma di denaro?

 

La corruzione prospera sul terreno del conflitto di interessi, che è uno degli argomenti principali di attenzione dei NoGrazie. Conflitti di interesse che si manifestano in manipolazione dei trial clinici, in occultamento di dati, in distorsione dell’informazione su farmaci e altri presidi sanitari, in eccesso di diagnosi e trattamento. Un secondo ambito d’azione può tradursi dunque nell’evidenziare il conflitto di interessi attraverso il quale la spesa sanitaria viene gonfiata senza un corrispondente beneficio in termini di salute. Anche questa attività porta in direzione di un qualche tipo di decrescita, favorendo la sostenibilità.

 

Rimanendo sul conflitto di interessi, la nostra azione può cercare di evidenziare e diffondere dati su interazioni fra industria della salute e operatori e servizi sanitari in iniziative promozionali mascherate da educative, ma volte in ultima analisi ad una espansione di consumi. Anche questo è un ambito in cui i NoGrazie possono impegnarsi per una salute più sostenibile.

 

3. Cosa vorremmo per il futuro della rete? Breve descrizione di alcune proposte pratiche.

 

Per quanto riguarda i rapporti con la Rete Sostenibilità e Salute, sarà importante condividere obiettivi e fare in modo che ogni nodo della rete agisca nella stessa direzione per raggiungerli, anche se ovviamente con attività diverse. Ogni associazione dovrebbe avere una visione globale dei progetti e delle attività delle altre associazioni. A volte sarà possibile coniugare assieme alcune attività, altre volte si potrà arrivare a collaborare; in generale, sarebbe auspicabile avere una strategia comune sui punti di maggiore convergenza dei singoli obiettivi.

Il linciaggio morale dei NoGrazie è efficace ☺

Sono iscritto alla Società Italiana di Reumatologia (SIR) ed ho deciso di non partecipare più al congresso annuale, per varie ragioni, soprattutto economiche, visto che ora, da pensionato, pagherei di tasca mia, ma anche per evitare il linciaggio (morale) dei NoGrazie. La tassa d’iscrizione è oramai vicina all’affitto mensile di un mini arredato, poi c’è il pernottamento, in hotel a 3 o 4 stelle (gli unici proposti, vicini) per almeno 3 notti, e il viaggio, spesso in località raggiungibili in tempi accettabili solo con l’aereo. In passato non mi facevo molti scrupoli e partecipavo quasi regolarmente, anche se immaginavo che l’evento fosse completamente finanziato dall’industria farmaceutica. Le Società Scientifiche lo sanno bene e possono così gonfiare a dismisura la tassa d’iscrizione.

 

In media al congresso annuale partecipano un migliaio di medici, fate un po’ i conti. É poco credibile che un medico sborsi di tasca propria circa 2000 euro per un evento soltanto per metà scientifico (percentuale arbitraria ed ottimistica). L’industria del farmaco paga poi profumatamente gli spazi espositivi, dove un metro quadro costa come a Manhattan. Cosa si chiede in cambio? Basta sfogliare il programma per accorgersi che i cosiddetti simposi satellite, dedicati in genere alla presentazione di un farmaco, fanno la parte del leone. Hanno luogo in orari di piena mattina, spesso nella sala principale, sono pubblicizzati da dépliant presenti in ogni cartellina congressuale. Questa contiene poi una decina di bugiardini di altri farmaci, di altri simposi satellite, otre a penne, gadget, blocchi per appunti, tutti rigorosamente griffati dal logo degli sponsor.

 

Ma vi sono anche altre ragioni di scontento, quelle strettamente professionali. In tre giorni o più di congresso le perle di saggezza, i take home messages, come s’usa dire, si rivelano spesso ben pochi. Gli eventi “scientifici” sono spesso relegati in orari antelucani o in salette laterali di difficile reperire, frequentati da uno sparuto manipolo di giovani. Dove sono gli altri congressisti? Fanno lo struscio negli stand delle varie compagnie farmaceutiche, pieni di luci e colori, macchine del caffè, bibite, tramezzini, gadget a profusione e di ogni tipo (da arraffare scusandosi: “…non li prendo per me sai… quando torno i miei figli …“), fra salottini, separé, schermi giganti, sorrisi e computer con videogames immunologici, quiz a premi (altri gadget), facilmente ottenibili dietro compilazione di moduli con il proprio indirizzo, e-mail, fax, cellulare, segno zodiacale, ascendente…così sei schedato per sempre. Il Congresso finisce nel tardo pomeriggio, ma molti congressisti sono usciti prima, alcuni con moglie e figli, per le visite guidate alle bellezze dell’amena località che ospita la manifestazione. Fine della giornata in un locale alla moda, dove lo sponsor Trimalcione offrirà un’epica cena di pesce da narrare ai colleghi increduli, al rientro.

 

Ammettiamolo, noi medici non siamo certo probi viri, ma certamente le Società Scientifiche si comportano spesso da mala bestia: forse è proprio da qui che dovrebbe iniziare la nostra moral suasion. Ma sarà dura!

 

Giovanni Peronato, 2009

 

Accade”

 

Accade quando esci da un sistema ed entri in un altro, un po’ come quando dall’Italia passi in un altro paese e ti accorgi che quello che è normale da queste parti da altre parti non lo è.

 

Accade quando esci dall’ospedale e vai a lavorare sul territorio. É accaduto a me, quindi, che dopo vent’anni di Ospedale sono andata a lavorare in Consultorio. Per un po’ di tempo non ho capito quale fosse il ruolo di un’infermiera pediatrica in Consultorio poi, piano piano, sono diventata più consapevole che esistevano altre cose oltre al pericolo e alla patologia e dopo ancora un altro po’ mi sono sentita recettiva al cambiamento.

 

E ho cambiato: il Movimento, in Ospedale si corre (almeno spesso è necessario correre) in Consultorio si può andare piano, il territorio non ha urgenze non c’è necessità di essere veloci e quindi mi sono calmata.

 

Ho imparato: la Delega, in Ospedale ho svestito e rivestito tantissimi neonati per le visite pediatriche, anche davanti ai genitori, lo facevo perché così si fa in ospedale, perché le infermiere sono veloci e pratiche e i genitori sono lenti e impacciati. In Consultorio ho imparato a farmi un po’ da parte e a restituire ai genitori e ai bambini/e la cura dei movimenti impacciati, ma delicati e rispettosi, delle mani di famiglia.

 

Ho approfondito: la Fisiologia, in Ospedale si Cura, in Consultorio si fa Prevenzione e io ho avuto necessità di studiare e appropriarmi o ri-appropiarmi di temi con i quali non avevo dimestichezza.

 

Ho scoperto: l’Allattamento Materno. Per anni, in Ospedale pur “promuovendo” l’Allattamento Materno ho preparato tanti biberon di formula non indispensabili, fatto doppie pesate, consigliato alle mamme cose che avevano la sola validità di essere state tramandate per tradizione orale da una generazione all’altra di operatori sanitari che, come me, venivano da un periodo storico in cui il Piano di Studi non comprendeva né l’Allattamento né la Fisiologia della Lattazione.

 

Ho purificato: gli Ambienti, ho studiato il Codice (ndr: Internazionale sulla Commercializzazione dei Sostituti del Latte Materno) e conosciuto i Nograzie e ho guardato con il terzo occhio quello che mi circondava; ora qui in Consultorio, nella mia stanza, non c’è una penna, un fermacarte, un calendario, un’agenda, un poster con un logo, quei pochi presidi che servono li ordiniamo alla farmacia della ASL.

 

Ho semplificato: l’Assistenza; difficilmente consiglio l’acquisto di un prodotto/presidio ai genitori (pompette aspira muco, cuscini allattamento, paracapezzoli….).

 

Ho fatto un bagno di umiltà. Diciamo che ci sto lavorando. Sto imparando a stare zitta, ascolto le donne per molto più tempo di quanto mi sarei mai aspettata di saper fare.

 

Ho conosciuto: il valore del lavoro d’équipe e il sacrificio del proprio ego che questo comporta.

 

Ho addestrato: le mie mani a non toccare, perché ho imparato che non è rilevante che io riesca ad aiutare una madre a sistemare il bambino per un buon attacco e una poppata efficace, ma è rilevante che lei a casa sua riesca ad aiutarsi da sola.

 

Ho esercitato: sto esercitando un comportamento assertivo che mi permette di non ricevere informatori o di non accettare biglietti da visita, gadget e campioni di prodotti/presidi per l’infanzia e le donne senza alcun senso di colpa, senso di colpa che ho riconosciuto provenire da un addestramento strisciante di anni e anni in cui credevo che l’informatore portasse con sé l’aggiornamento.

 

Accade che conosco donne e uomini nel momento più fragile e potente della vita, quando stanno per diventare e sono appena diventati genitori, e accade che mi sono sentita e mi sento gratificata quando per esempio:

A. padre di A. di un mese di vita da poco mi ha detto: “abbiamo necessità di venire tutti i giorni qui, almeno per un po’.” Li ho accolti e dopo 10 giorni di sedute quotidiane hanno raggiunto il loro obbiettivo di allattamento e oggi non verranno.

V. madre di M. di tre mesi di vita da poco mi ha detto: “mi sento insicura e dubbiosa ma non voglio fare con mia figlia quello che mi dicono di fare, voglio capire, conoscere e scegliere insieme a suo padre il nostro modo di crescerla”.

 

Accade che la vita è cambiamento e accade che questo lavoro mi piace assai.

 

Susanna Maccioni, 2015

Appropriatezza secondo Slow Medicine e Medicina Democratica

Slow Medicine, movimento di professionisti e cittadini per una cura sobria rispettosa e giusta, ritiene che il Decreto Ministeriale “sull’appropriatezza prescrittiva” sia una buona occasione per affrontare un argomento che quasi mai viene affrontato in modo costruttivo. Slow Medicine ha sempre richiamato l’attenzione dei professionisti su questo tema, troppo spesso condizionato dagli interessi del mercato, e ha sempre sollecitato i professionisti a farsi carico in prima persona del problema.

 

Più che di appropriatezza prescrittiva si dovrebbe parlare di appropriatezza clinica: effettuare la prestazione giusta in modo giusto, al momento giusto, al paziente giusto. Nel decreto, invece, sono comprese pratiche, come quelle odontoiatriche, i cui criteri di erogazione non attengono all’appropriatezza clinica bensì alla scelta politica italiana di non assicurarle a tutti i cittadini tramite il servizio sanitario.

 

Posto poi che qualunque esame, intervento chirurgico, dispositivo medico o farmaco è da considerarsi appropriato se esercita un effetto utile o benefico per chi ne usufruisce e se tali benefici superano i possibili danni, secondo Slow Medicine l’appropriatezza della prescrizione di una pratica (diagnostica o terapeutica):

  1. Va riferita al caso  specifico e quindi non è un valore assoluto, ma relativo alle condizioni, in genere sempre complesse, in cui quella pratica viene consigliata dal medico al paziente.
  2. Deve rispondere ai criteri di sobrietà, rispetto e giustizia. Un intervento che non rispetti il malato, in quanto persona nel suo complesso, con i suoi valori e le sue preferenze, non è appropriato ancorché possa apparire scientificamente corretto. Utilizzare pratiche inefficaci o inappropriate è una pratica comune e ampiamente documentata che, oltre ad essere dannosa, spreca preziose risorse e sottrae, nel quadro di un sistema universalistico pubblico, l’opportunità a qualcun altro di ricevere le cure di cui ha bisogno.
  3. Non comprende solo il sovra-utilizzo, cioè le pratiche erogate in eccesso, senza un favorevole rapporto tra benefici e rischi, ma anche il sotto-utilizzo, cioè le pratiche che secondo le prove scientifiche apportano benefici, ma che non vengono erogate a sufficienza, come ad esempio in Italia le cure ad anziani e disabili.
  4. Deve essere valutata dal medico con indipendenza ed autonomia rispetto alle pressioni del mercato tendenti a farlo prescrivere al solo scopo di profitto e alle spinte istituzionali tendenti solo a un risparmio economico.
  5. Cambia di giorno in giorno, in relazione allo sviluppo delle conoscenze e delle tecnologie. L’agire del medico non può essere oggetto di mediazione politica e l’idea di praticare la medicina secondo regole stabilite da provvedimenti governativi con il principale obiettivo di ridurre i costi e con minaccia di sanzioni per i medici che non le rispettano, rappresenta un vero e proprio attentato alla professione.

 

Ogni medico aggiornato e attento alla letteratura scientifica sa molto bene che una parte consistente delle cure mediche non sono né efficaci, né appropriate. Sono inappropriate, ad esempio, quasi la metà delle indagini radiologiche ambulatoriali, il 50% delle angioplastiche eseguite su pazienti con angina stabile e gran parte delle artroscopie nei pazienti con artrite del ginocchio; i check-up non servono a nulla e almeno il 20% dei farmaci sono prescritti per indicazioni non validate dalla ricerca. I dati reperibili nella letteratura internazionale relativi a prestazioni inappropriate sono innumerevoli.

 

La questione non è di natura economica, ma riguarda direttamente la salute delle persone, che da un sovra- o da un sotto-utilizzo di prestazioni diagnostiche e di trattamenti farmacologici e chirurgici può ricevere seri danni. In questo senso i media possono giocare un ruolo informativo indispensabile per evidenziare comportamenti inappropriati e pericolosi, che alimentano sprechi e producono effetti diseducativi e dannosi per la salute. Si calcola, per esempio, che almeno la metà delle raccomandazioni attinenti alla salute formulate nei talk show non siano basate su prove scientifiche, siano contraddette dalle conoscenze disponibili o siano state sponsorizzate da portatori di interesse. D’altra parte, fino a quando ai cittadini e ai pazienti viene fatto credere che tutte le cure che ricevono sono utili, che fare di più è sempre meglio, che la tecnologia è in grado di risolvere ogni problema, sarà inevitabile che qualsiasi tentativo di riduzione delle prestazioni (anche di quelle inutili) venga considerato un attentato alla salute.

 

Slow Medicine ritiene che la strada da percorrere passi inevitabilmente dalla capacità del medico di avvalersi di cure scientificamente provate, ma anche dalla sua abilità nell’avviare una relazione di cura con il paziente, fatta di visita, ascolto, suggerimenti, consigli, e, solo alla fine, di prescrizioni. L’eccessiva fiducia riposta nelle tecnologie ha offuscato il valore del dialogo e dell’interazione con il paziente come fattori essenziali della cura.

 

A questo proposito, in analogia a quanto avviato in ambito internazionale da Choosing Wisely, Slow Medicine ha lanciato in Italia il progetto Fare di più non significa fare meglio, secondo cui le società scientifiche s’impegnano ad individuare alcune pratiche (esami e trattamenti) a rischio di inappropriatezza, allo scopo di discutere con i pazienti benefici e rischi associati a tali pratiche e aiutarli a decidere nel modo migliore. Alla campagna, avviata con l’adesione di FNOMCeO, IPASVI, Partecipasalute, Altroconsumo, Slow Food, e molte altre Associazioni di professionisti e di pazienti, hanno finora aderito 34 società scientifiche italiane, con l’individuazione, ad oggi, di più di 100 pratiche. Questo è un esempio concreto di come, tramite il coinvolgimento dei professionisti con le loro società scientifiche, in alleanza con le associazioni dei pazienti e dei cittadini, si può evitare la prescrizione di pratiche inappropriate nell’interesse stesso di pazienti e cittadini, e nel contempo ridurre gli sprechi delle preziose risorse del servizio sanitario

 

Il consiglio direttivo di Slow Medicine, 29 Settembre 2015

 

Ma quale appropriatezza?

 

É stata definita dal Ministro della Sanità una lista di 208 esami medici a rischio di inappropriatezza, con delle sanzioni per quei medici che non rispetteranno la norma. É vero che nella pratica corrente molte visite, esami, farmaci e persino interventi chirurgici non rispondono a un evidente beneficio per la salute e possono a buon conto definirsi inappropriati. Queste prestazioni, a volte dettate dalla cosiddetta medicina difensiva altre da interessi o da imperizia hanno dei costi economici evidenti, dei costi clinici, perché ciò che non è utile è spesso dannoso, dei costi organizzativi in quanto vanno ad intasare liste d’attesa già lunghe.

 

Noi non crediamo che la correzione di queste anomalie passi semplicemente attraverso un intervento normativo. Un conto è introdurre e promuovere delle linee guida condivise per la gestione dei casi clinici, altro è introdurre delle norme restrittive; senza voler enfatizzare più di tanto la libera scelta dei medici bisogna anche considerare che un tale tipo di norma ha come risultato di omologare i disturbi, le malattie e i malati come se ogni caso non avesse una propria storia clinica e ognuno non avesse diritto alla propria soggettività.

 

Quella che va ad essere approvata ci sembra una scorciatoia che, lontano dal risolvere il problema, allontanerà i cittadini dal Servizio Sanitario Nazionale spingendoli verso prestazioni private e forme di sanità integrativa. É anche evidente, visto il contesto e le misure che sono state prese negli ultimi anni, che si tratta di una scelta di taglio della spesa (il fine immediato parrebbe essere essenzialmente quello di trovare una copertura per una effimera riduzione della tassazione generale) e non di salvaguardia della salute, altrimenti si andrebbe in altra direzione: pensiamo alla modalità di pagamento a prestazione in atto dalla metà degli anni ‘90 prevalentemente negli ospedali (i cosiddetti DRG) e per le prestazioni ambulatoriali che, nonostante le proposte alternative fatte da molte organizzazioni, compresa Medicina Democratica, provocano a catena prestazioni cliniche ingiustificate. Si sono verificati interventi della magistratura in proposito che hanno mostrato la punta dell’iceberg, senza peraltro provocare nell’autorità sanitaria la necessità di andare a rivedere il sistema che continua a pagare la malattia, invece di pagare la salute.

 

Come afferma Slow Medicine, rete di professionisti e di cittadini che si riconosce in una medicina sobria, rispettosa e giusta: “bisogna spendere meglio, non spendere meno, nella sanità italiana. Si concorda pienamente sulla necessità di aumentare l’appropriatezza clinica e di ridurre l’eccessivo ricorso a molti esami e trattamenti, ma si dissente sul fatto che questo venga imposto per decreto con l’unico fine del risparmio economico e attraverso meccanismi sanzionatori per i medici”.

 

Ci vuole un’azione tesa a fare sì che i medici assumano una forte responsabilità condividendo le scelte con i pazienti che devono necessariamente essere informati in modo completo. Non serve scontrarsi con i medici e con le loro organizzazioni. Nella sanità, come nella scuola non si possono fare riforme o prendere misure senza il coinvolgimento dei soggetti interessati, ovvero senza gli operatori sanitari e i cittadini organizzati in associazioni e movimenti per il diritto alla salute. É questo che auspichiamo come Medicina Democratica: costruire un’ampia rete che lotti contro tutte le misure controriformatrici per mantenere e affermare il diritto alla salute, costituzionalmente garantito, universale, gratuito (comprese le cure odontoiatriche), partecipato. Anche di questo discuteremo nel nostro prossimo congresso nazionale che si terrà a Firenze i prossimi 19-20-21 novembre.

 

Medicina Democratica Onlus, Milano 24 Settembre 2015

Zucchero per bambini e bustarelle per accademici

 

 

Zucchero per bambini: una tavola rotonda ad invito della Sugar Association

Questa settimana ho deciso di postare un commento sulle politiche dello zucchero.

 

Strano. Non sono stato invitato a questo evento, ma qualcuno che era stato invitato mi ha passato l’invito. Anche voi sarete tristi per non essere stati invitati.

 

“La contatto a nome del Dr Courtney Gaine, dell’ufficio affari scinetifici della Sugar Association, in merito a una tavola rotonda ad invito sul ruolo dello zucchero nel sostenere una dieta densa di nutrienti per i bambini tra 12 e 24 mesi di età. L’evento sarà patrocinato dall’Università del Colorado, dipartimento di pediatria diretto dal Dr Ronald Kleinman della Scuola di Medicina dell’Università di Harvard, sarà co-presieduto dal Dr Frank Greer della Scuola di Medicina dell’Università del Wisconsin, e sarà facilitato da Sylvia Rowe. La tavola rotonda è finanziata da una donazione educativa non condizionata della Sugar Association. Obiettivi della tavola rotonda:

  • Mettere a disposizione un forum per discutere gli spazi per la scienza e la ricerca sul ruolo degli zuccheri come strategia che potrebbe aiutare i genitori a far transitare con successo i loro figli tra 12 e 24 mesi di età da un’alimentazione complementare a una dieta con una varietà di cibi ricchi di nutrienti della tavola familiare.
  • Generare potenziali idee per la ricerca e domande su questo argomento che possano guidare in futuro l’alimentazione dei bambini, dalla nascita a 24 mesi di età, e poterle poi integrare nelle linee guida sull’alimentazione degli americani previste per il 2020.
  • Dare forza a un’estensione della ricerca mediante collaborazioni pubblico/privato tra l’industria, l’accademia e il governo.

Aree di interesse proposte: la tavola rotonda è stata provvisoriamente divisa in 5 aree: 1) alimenti di transizione per i bambini e politiche sulla nutrizione; 2) fisiologia; 3) zuccheri nell’alimentazione dei bambini; 4) strategie di alimentazione per i genitori: nuove evidenze scientifiche; e 5) il futuro della ricerca.

Onorario: La Sugar Association le rimborserà tutte le spese di viaggio, e le darà in più un onorario di 2000 $ per coprire la revisione degli abstract e la presentazione, onorario che riceverà verso la metà di ottobre, dopo la sua partecipazione alla tavola rotonda per un giorno e mezzo.”

 

Questo invito richiede una traduzione. Potrei interpretare male, ma da come la vedo io la Sugar Association sta pagando 2000 $ ad alcuni accademici perché appoggino implicitamente:

  • La promozione dell’uso di zuccheri come modo per far sì che i bambini abbiano una dieta salutare.
  • La certezza che le linee guida del 2020 non dicano nulla sul bisogno di ridurre gli zuccheri nella dieta dei bambini (anche se non sono ancora disponibili le linee guida del 2015).
  • La garanzia che le agenzie governative non consiglino o non promuovano politiche per incoraggiare a consumare meno zucchero.

 

Che tristezza.

1. http://www.foodpolitics.com/2015/09/sugars-for-toddlers-an-invitational-roundtable-from-the-sugar-association/

Angelo Stefanini segnala questa notizia apparsa sul blog Food Politics il 21 settembre 2015.(1)

Paroxetina inefficace e dannosa negli adolescenti

Esiste uno studio che raggiunge il record nel riunire il maggior numero di caratteristiche deteriori, il fenomeno del ghostwriting, l’occultamento dei dati negativi, la distorsione e falsificazione dei risultati e l’uso indiscriminato di questi ultimi per incrementare vendite off label. Si tratta dello studio 329, condotto tra il 1994 e il 1998 da Smith Kline Beecham, dal 2000 Glaxo Smith-Kline (GSK), con l’obiettivo di valutare l’efficacia della paroxetina (commercializzata come Paxil® e Seroxat®) e dell’imipramina verso placebo, nella depressione maggiore degli adolescenti.

Lo studio non aveva prodotto i risultati aspettati e i dati negativi venivano occultati pubblicando solo quelli favorevoli, per non sfavorire le vendite, come si legge in una mail interna di GSK, “minimize any potential negative commercial impact”.

 

Lo studio così “addomesticato”, dopo il rifiuto di pubblicazione da parte di JAMA, usciva nel 2001 sulla rivista JAACAP (Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry) a firma di ben 22 autori, nessuno dei quali aveva in realtà scritto una sola riga; lo studio era stato commissionato infatti ad una agenzia esterna. In precedenza il primo autore (fantasma) della pubblicazione, il noto psichiatra statunitense Martin Keller, era stato oggetto di un articolo apparso sul Boston Globe che riportava i suoi stretti legami finanziari con le aziende farmaceutiche, discreditando nel contempo la Brown University dove lavorava. Della vicenda si interessò il procuratore generale di New York, Eliot Spitzer, che nel giugno del 2004 accusò GSK di avere nascosto i reali risultati dello studio 329 (oltre 10mila pagine desecretate per l’indagine). Tra le accuse del procuratore anche l’ampia prescrizione off label del farmaco, a soggetti al di sotto dei 18 anni, nonostante non fosse mai stato registrato per tale utilizzo.

 

Vi era poi un’ulteriore motivazione, la più pesante di tutte: dalla disamina dei dati completi risultava che la paroxetina oltre ad essere inefficace, esponeva gli adolescenti a rischio di suicidio. Negli studi occultati, il 7,7% dei giovani aveva sviluppato propositi suicidi vs 3% dei trattati con placebo. GSK aveva ingannato i medici con regali e ospitalità ai congressi, dove altri medici, lautamente pagati per questo, confermavano sicurezza ed efficacia della paroxetina negli adolescenti. Secondo la sentenza del dipartimento di giustizia erano stati usati allo scopo “i rappresentanti delle vendite, finti comitati di esperti e programmi di Educazione Medica Continua apparentemente indipendenti.”

 

I dati reali sulla paroxetina erano sempre stati nascosti per spingere al massimo le vendite senza l’onere di dover registrare il farmaco per indicazione pediatrica. Si calcola che nel 2001 le vendite di Paxil avessero raggiunto un fatturato di 3 miliardi di $, nel 2002 le prescrizioni di Paxil negli USA superavano i due milioni e almeno 900mila di queste ricette erano indirizzate ad adolescenti con disturbi del comportamento, redatte anche da semplici medici di famiglia o pediatri. Alla fine, il 3 luglio 2012, GSK dovette pagare una multa di 3 miliardi di dollari, la cifra più consistente di tutti i tempi.

 

La mancata pubblicazione dei trial clinici e l’impossibilità di accedere alla documentazione completa degli studi pubblicati in modo parziale è un problema di straordinaria importanza, su cui siamo tornati più volte aderendo anche all’iniziativa AllTrials (http://www.alltrials.net/) lanciata un paio di anni fa dal BMJ, Ben Goldacre e numerosi altri soggetti. Lo scorso anno, il BMJ dava la notizia paradossale di un RCT tenuto nascosto per 20 anni, i cui risultati avrebbero potuto influenzare positivamente molti pazienti. Ricordiamo ancora un volta l’accorata lettera al BMJ del compianto Alessandro Liberati. Affetto da mieloma, doveva decidere se sottoporsi a un secondo trapianto di midollo. Tra le evidenze a disposizione c’erano quattro trials randomizzati i cui risultati non erano stati ancora pienamente pubblicati. “Perché,” si chiedeva Liberati, “(…)l’informazione esiste, ma non è disponibile?”

 

Nel 2013, facendo seguito alle molteplici richieste di poter accedere ai dati completi e pretendere la pubblicazione di tutti gli RCT, alcuni ricercatori tra cui Peter Doshi, editor associato del BMJ, e Tom Jefferson, epidemiologo consulente della Cochrane Collaboration sui vaccini, lanciavano una nuova iniziativa con acronimo RIAT (Restoring Invisible and Abandoned Trials) con la quale si invitavano tutti i ricercatori disponibili a rivedere la documentazione di RCT non pubblicati o pubblicati solo parzialmente per confrontarne i risultati ottenuti con quelli già noti.

 

“Dopo questa proposta”, scrive Fiona Godlee, editore capo del BMJ,” il mio pensiero è andato subito allo studio 329”. Con oltre due anni di lavoro sulle 10mila pagine di dati grezzi, David Healy, lo psichiatra inglese autore di Pharmageddon, e altri due colleghi, sono giunti al traguardo della pubblicazione del primo RIAT, quello appunto relativo allo studio 329, con conclusioni diametralmente opposte rispetto al lavoro originale del 2001. In quest’ultimo si concludeva che la paroxetina era “generally well tolerated and effective”, mentre il RIAT di Healy sostiene con cognizione di causa che la paroxetina non è “neither safe nor effective”. Da qui il commento sarcastico di Peter Doshi: “ nessuna acrobazia epistemologica sembra capace di riconciliare le due conclusioni”.

 

Ma l’incredibile è che, di fronte a questo capovolgimento a 180 gradi dei risultati, né gli autori dello studio pubblicato su JAACAP, né il comitato etico della rivista, né l’Università Brown per la quale lavorava Martin Keller, né le società scientifiche cui questi ricercatori fanno capo, hanno fatto il ben che minimo tentativo di marcia indietro: nessuna correzione, nessun ritiro dell’articolo, nessun commento, nessuna espressione di scuse, racconta ancora Doshi; non è saltato fuori alcun responsabile. Tutti gli interessati hanno rifiutato di rispondere (al BMJ, ai giornalisti) o di commentare i fatti. Solo alcuni hanno giustificato il silenzio per non ingigantire la vicenda. Da cui  il commento di Ivan Oransky, conduttore di Retraction Watch Blog: le controversie non cessano semplicemente non parlandone più; con il silenzio, è più probabile che la situazione peggiori (http://retractionwatch.com/?s=study+329).

 

Giovanni Peronato

 

Bibliografia consultata

Doshi P. No correction, no retraction, no apology, no comment: paroxetine trial reanalysis raises questions about institutional responsibility. BMJ 2015; 351:h4629

Le Noury J, Nardo JM, Healy D, et al. Restoring Study 329: efficacy and harms of paroxetine and imipramine in treatment of major depression in adolescence. BMJ 2015;351:h4320.

Keller MB, Ryan ND, Strober M, et al. Efficacy of paroxetine in the treatment of adolescent major depression: a randomized, controlled trial. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry 2001;40:762-72.

Doshi P, Dickersin K, Healy D, Vedula SS, Jefferson T. Restoring invisible and abandoned trials: a call for people to publish the findings. BMJ 2013;346:f2865.

 

PS. La storia dello studio 329 è stata estesamente raccontata da Ben Goldacre nel suo “Effetti Collaterali” e da David Healy in “Pharmageddon”, a cui rimando per una conoscenza esaustiva delle vicende, molto più intricate e complesse di come sono state qui riassunte.

Promozione commerciale di farmaci innovativi?

Da quasi cinquant’anni l’anticoagulante usato da milioni di persone nel mondo è il warfarin, dal costo di pochi euro. Ora ci sono altri tre nuovi farmaci (Pradaxa, Xarelto and Eliquis) che hanno la stessa efficacia del vecchio prodotto, ma costano molto, molto di più. Il loro vantaggio consiste unicamente nel fatto che non si devono fare controlli periodici del sangue o evitare certi cibi che possono farne variare l’attività come nel caso del warfarin. La battaglia per la loro promozione è veramente furiosa; per questi tre farmaci le case produttrici hanno speso in tutto 19.4 milioni di $ negli ultimi 5 mesi del 2013. Questa elevata somma di danaro è stata impiegata in maggior parte per inviti a pranzo, ospitalità in albergo, iscrizione a congressi o per onorari a medici esperti che spiegassero le caratteristiche estremamente simili dei 3 prodotti.

 

Queste informazioni ci vengono dal database di ProPublica, un’organizzazione indipendente di giornalisti investigativi, e riguardano il periodo agosto – dicembre 2013. I dati, riportati dal New York Times,(1) ci insegnano molte cose; la più sorprendente è che quelli maggiormente promossi non sono i farmaci più innovativi ma i cosiddetti me-too, prodotti che devono sgomitare per dimostrare di essere quello che non sono, innovativi appunto. In testa nella graduatoria delle spese di promozione con 9 milioni di $ è Victoza, un nuovo incretino-mimetico della danese Novo Nordisk, che stimola la produzione di insulina. Questo farmaco è gravato da possibili effetti collaterali quali pancreatite, cancro tiroideo e pancreatico, che ne avevano ritardato l’approvazione da parte di FDA. Al secondo posto con 8milioni di $ troviamo Eliquis, uno dei tre anticoagulanti già citati. La terza posizione è occupata da un antiaggregante piastrinico, Brilinta, che vorrebbe poter scalzare il più noto Plavix, ora presente come generico, dopo la scadenza del brevetto. Il dr Robert Takata, esperto di medicina d’urgenza a Detroit, ha ricevuto ben 75mila$ per fare promozione di Brilinta. Intervistato, ha dichiarato di aver ricevuto onorari anche per promuovere Xareltro e che il mercato degli anticoagulanti è oggi molto fertile e robusto (lo dice un esperto). AstraZeneca, che produce Brilinta, ha ammesso che gli incentivi economici sono essenziali in quanto i medici sono partner indispensabili nello sforzo di far arrivare questi nuovi farmaci ai pazienti.

 

La battaglia è sempre più furiosa, dicevamo, perché i prodotti sono molti, le loro caratteristiche e indicazioni spesso sovrapponibili, bisogna quindi convincere lo stesso medico che “a” è meglio di “b” e poi del contrario. È sorprendente invece che farmaci veramente innovativi come quelli che guariscono definitivamente l’epatite C, o per indicazioni oncologiche primarie, non compaiano nella lista di ProPubica. La spiegazione è semplice: poiché sono efficaci e non hanno alternativa valida, si promuovono da soli.

 

Anche i cosiddetti devices non scherzano. Il sistema di chirurgia robotica DaVinci è in testa nelle spese sostenute per quanto riguarda le apparecchiature medicali, anche se molti esperti lo hanno giudicato un marchingegno poco utile, costoso e usato troppo spesso, con conseguenze negative sui pazienti e alcuni decessi. La promozione del robot è costata negli ultimi 5 mesi del 2013 ben 12.8 milioni di $, esclusi gli stanziamenti per la ricerca e le royalties. Ricordo per inciso che l’Italia è il terzo paese nel mondo, dopo USA e Giappone, per numero di queste apparecchiature, davanti a Francia, Germania e Inghilterra.

 

Libera traduzione e adattamento di Giovanni Peronato

 

1. Ornstein C, Grochowski Jones R. The drugs that companies promote to doctors are rarely breakthroughs. New York Times January 7, 2015 http://www.nytimes.com/2015/01/08/upshot/the-drugs-that-companies-promote-to-doctors-are-rarely-breakthroughs.html

Infermieri, cura delle ferite e conflitti d’interesse

Per chi legge il tedesco potrebbe essere interessante questo articolo, di cui traduciamo qui sotto il riassunto in inglese.(1) Si tratta di un’indagine su un campione di infermieri tedeschi, austriaci e svizzeri, relative ai loro conflitti d’interesse nel campo della cura delle ferite.

 

Gli infermieri nel campo della cura delle ferite sono sempre più corteggiati dall’industria di queste cure. È stata realizzata un’inchiesta sulle percezioni degli infermieri riguardanti la loro partecipazione al marketing. Sulla base di strumenti già esistenti, è stato sviluppato un questionario standardizzato con 39 voci e scale di Likert a 5 livelli. Il questionario è stato inviato per posta elettronica agli infermieri associati alla Società Austriaca per le Cure Vascolari, alla Società Tedesca di Cura delle Ferite, e all’Associazione Svizzera per la Cura delle Ferite. 178 infermieri hanno risposto: il 75% donne, età compresa tra 27 e 70 anni (mediana 45), con 0-40 anni di pratica (mediana 9) nel campo d’interesse. Solo meno di un quarto (23%) di coloro che hanno risposto non hanno partecipato ad alcuna forma di marketing nell’anno precedente l’indagine. In generale, i piccoli regali erano accettati più spesso dei regali costosi. La maggioranza degli infermieri apprezza i regali poco costosi, quelli educativi e quelli che possono tradursi in benefici per i pazienti. La maggioranza dei partecipanti si considera poco influenzabile in termini decisionali, in comparazione con i medici. Il comportamento e le attitudini degli infermieri è ambivalente. L’occorrenza di conflitti d’interesse è in parte giustificata dalla percezione di benefici per i pazienti. La mancanza di conoscenze sull’argomento e la desiderabilità sociale possono essere la causa di quest’attitudine acritica. Per un approccio più critico sono necessari alti standard di educazione e di etica.

 

Alberto Apostoli e Adriano Cattaneo

 

1. Panfil EM, Zima K, Lins S, Köpke S, Langer G, Meyer G. Interessenkonflikte mit der Industrie – eine Befragung von Pflegenden im Bereich der Wundversorgung in Deutschland, Österreich und der Schweiz. Pflege 2014;27(3):191-9

Il mercato dell’osso fragile

Due articoli apparsi di recente sulle pagine del BMJ ci fanno riconsiderare il problema dell’osteoporosi da una prospettiva non convenzionale, attraverso la quale si intravedono forti interessi commerciali nonché tutti gli elementi del disease mongering.

 

1. Osteoporosi: sovradiagnosi e sovratrattamento

 

Teppo Järvinen, docente di ortopedia all’Università di Helsinki, è sempre stato una voce critica sul problema dell’osteoporosi, soprattutto per gli aspetti fortemente mercantili. É ritornato sull’argomento nel maggio di quest’anno con un articolo apparso sul BMJ per la serie Too Much Medicine.(1) L’oggetto del contendere è l’eccesso di diagnosi e l’acriticità con cui vengono prescritti a pioggia i supplementi di calcio e di vitamina D.

 

La stessa definizione di osteoporosi (≤ -2.5 DS: densità dell’osso ridotta di almeno due deviazioni standard e mezzo rispetto alla media di un campione di donne in età fertile) arriva nel 1994 come accordo tra un gruppo di esperti dell’OMS e della European Foundation for Osteoporosis durante un incontro tenutosi a Sheffield, UK, sponsorizzato dalle principali aziende farmaceutiche allora interessate al mercato dell’osso fragile.(2) Un anno dopo appare sul mercato un primo farmaco che dimostra di poter prevenire le fratture di femore, l’alendronato, seguito da altre molecole simili, raggruppate sotto il termine di bisfosfonati.

 

Alla soglia dell’anno 2000 diviene statisticamente evidente che la maggioranza delle fratture si verifica in donne con densità minerale ossea non ancora patologica, ma definita come osteopenia (compresa fra -1 DS e -2.5 DS). Risulta chiaro allora che trattare anche le donne osteopeniche, in numero decisamente maggiore di quelle osteoporotiche, non sarebbe risultato cost-effective. Si è corsi ai ripari producendo nel 2008 un algoritmo (segreto) sula base di un calcolatore denominato FRAX, consultabile online (https://www.shef.ac.uk/FRAX/tool.jsp), secondo il quale la soglia di intervento terapeutico viene indicata per un rischio di frattura di femore a 10 anni superiore al 3%. L’algoritmo (mai verificato in studi clinici) è stato concordato con il supporto delle maggiori aziende produttrici di farmaci dedicati e di importanti gruppi di pressione quali la statunitense National Osteoporosis Foundation (NOF) e la europea International Osteoporosi Foundation (IOF). Il sito ha avuto finora 10 milioni di accessi per la misurazione del rischio di frattura. Con i criteri FRAX è stato calcolato che si dovrebbero trattare con farmaci il 72% delle donne statunitensi con più di 65 anni e il 93% di quelle con più di 75 anni. Un numero almeno doppio della popolazione individuata con i soli criteri della densità minerale ossea applicato in precedenza. L’incremento di diagnosi ha portato ad un aumento delle persone da trattare fino ad arrivare al binomio inscindibile overdiagnosis/overtreatment. Il mercato degli apparecchi per la misurazione della densità minerale dell’osso è esploso di pari passo con quello dei farmaci. Oggi le richieste di MOC (mineralometria ossea computerizzata) iniziano al momento della menopausa, spesso con ripetizioni ravvicinate, quando la maggior parte delle linee guida suggerisce la prima MOC al 65° anno di età, in assenza di fattori di rischio, con controlli successivi in questo caso anche dopo 15 anni.(3)

 

L’alendronato, il primo apparso sul mercato e poi gli altri cugini bisfosfonati, fatturavano 300 milioni di $ nel 1996, per poi triplicare i guadagni fra il 2001 e il 2008 ed attestarsi a 11 miliardi di $ nel 2015. Questo successo planetario, però, non si spiegherebbe in base all’efficacia del trattamento, invero decisamente modesta. Dagli studi in nostro possesso, per evitare una sola frattura di femore si devono trattare in media 175 donne per tre anni consecutivi. Mancano inoltre studi sulla popolazione più a rischio. Nonostante l’età media per una frattura di femore sia in Europa attorno agli 80 anni e i tre quarti di tutte le fratture da fragilità si manifesti oltre i 75 anni, solo tre su 23 RCT considerati fondamentali hanno compreso nel campione donne ultra 75enni e per di più senza riuscire a dimostrare una chiara efficacia preventiva.

 

L’altra metà del cielo, in questo caso i soggetti di sesso maschile, vanno incontro ad osteoporosi con incidenza molto più bassa, così solo 3-4 fratture di femore su 10 avvengono nei maschi. Nonostante questi ultimi vengano regolarmente trattati, a vent’anni dal primo bisfosfonato, in commercio non abbiamo ancora un solo RCT che ne dimostri l’efficacia nei soggetti di sesso maschile.

 

Un recente studio canadese ha paragonato i risultati della prevenzione farmacologica attraverso un database che raccoglieva 65.659 fratture di femore: nessuna differenza significativa tra diverse regioni, alcune con un consumo di bisfosfonati pari a cinque volte superiore alla media. Non esiste a tutt’oggi uno studio serio di farmacoeconomia su costi/efficacia, dal momento che quelli pubblicati si basano su simulazioni al computer che estrapolano i dati di efficacia su campioni di donne più giovani (60-80 anni), verso donne più anziane (> 80 anni) e maschi, con un probabile rischio di sovrastima nel considerare la riduzione del rischio assoluto.

 

La sovradiagnosi comporta anche le preoccupazioni di una donna che si sente ammalata solo perché il suo osso è risultato più fragile del dovuto alla misurazione densitometrica. Uno studio ha dimostrato come la paura di una frattura renda il soggetto meno attivo per il timore di cadere e fatturarsi, con il risultato paradossale di peggiorare ulteriormente il metabolismo osseo. Alla fine Järvinen conclude che l’approccio farmacologico al problema della prevenzione delle fratture non è percorribile né come strategia terapeutica né per il rapporto costo/efficacia. La terapia farmacologica raggiunge risultati modesti, è seguita in genere da una scarsa compliance e comporta un notevole disagio psicologico oltre ad effetti collaterali non marginali.

 

2. Osteoporosi e relazioni pericolose

 

Industria farmaceutica e alimentare, gruppi di sostegno e ricerca medica sono legati in una rete di interessi con al centro l’osteoporosi. Due ricercatori dell’Università di Aukland, Nuova Zelanda, fanno il punto su vitamina D e sali di calcio, il cui consumo si è espanso a dismisura senza un corrispondente supporto di evidenze d’efficacia nella prevenzione delle fratture osteoporotiche.(4) Partendo dall’assunto che la dieta degli anziani è carente di calcio rispetto agli standard proposti dai nutrizionisti, le linee guida ne continuano a raccomandare l’assunzione quotidiana anche dopo il 2010, quando veniva evidenziato che tali supplementi non riducono il rischio di frattura nelle persone anziane.

 

Il successo della vitamina D si basa essenzialmente su uno studio francese, condotto su donne anziane molto fragili, residenti in casa di riposo, e sui risultati di un altro RCT che definiva come ‘adeguati’ i livelli di vitamina D in base ai corrispondenti valori del paratormone. Nel 2010, le deboli evidenze sulla vitamina D venivano seriamente minate da 14 RCT dei quali tre soltanto positivi, nove senza alcun effetto e due con un aumento del rischio di frattura. Una Cochrane Review concludeva nel 2009 che la vitamina D non ha razionale in anziani che vivano in modo indipendente.(5) Nel 2014, una metanalisi e una revisione sistematica apparse su Lancet definiscono ‘inappropriato’ l’uso di vitamina D se non in caso di chiara deficienza.(6) Proprio in questi giorni (agosto 2015), è uscito su JAMA un RCT della durata di un anno che non ha trovato significativa differenza in tono muscolare, propensione alle cadute e densità minerale ossea nei tre gruppi di donne post-menopausali trattate con basse e alte dosi di vitamina D rispetto al gruppo placebo.(7) Non di secondaria importanza sono le segnalazioni sull’aumento di rischio cardiovascolare e di calcoli renali che si accompagnano alla supplementazione di calcio.

 

Indifferenti ai nuovi dati della letteratura, le linee guida continuano a raccomandare i supplementi quotidiani di questi due elementi, eccezion fatta per la USPSTF (United States Preventive Services Task Force) che si esprime ora contro l’uso di calcio e vitamina D. Molti farmaci suggeriti in passato per l’osteoporosi sono caduti in disuso (estrogeni, fluoro, calcitonina) in base ad evidenze negative della letteratura, ma non così è accaduto per i più fortunati calcio e vitamina D. Questo probabilmente è il risultato della maggiore convergenza di interessi fra l’industria farmaceutica, quella alimentare, i gruppi di pressione e il mondo accademico. Il mercato del calcio è arrivato a 6 miliardi di $ nel 2013, quello della vitamina D a quasi 800 milioni di $ negli USA. Ne hanno approfittato le aziende che commerciano prodotti alimentari con presenza di questi due elementi, come la neozelandese Fonterra e il colosso francese Danone, quest’ultimo con fatturato di prodotti latteo-caseari arrivato a 13 miliardi di $.

 

Un altro settore che sfrutta il mercato dell’osteoporosi riguarda la commercializzazione di kit per il dosaggio della vitamina D. In Australia per esempio le vendite sono salite da 800mila $ nel 2001 a 96 milioni di $ nel 2010. Nel Regno Unito la richiesta di test è quadruplicata in pochi anni, lo stesso è avvenuto in Canada e negli USA. Ne hanno beneficiato tra gli altri Roche, Abbott e Siemens, detentori di metodiche di dosaggio ampiamente pubblicizzate in Nord America ed Europa. Per inciso, un semplice dosaggio ematico dei livelli di vitamina D costa al NHS inglese 20 £.(8)

 

Altri elementi che spingono al consumo dei supplementi di calcio e vitamina D sono le fondazioni e i gruppi di pressione come i già citati NOF e IOF, largamente sponsorizzati da aziende farmaceutiche, mentre 12/22 sponsor ufficiali di NOF e 14/25 di IOF sono rappresentati da industrie del settore alimentare. Tre anni dopo la pubblicazione di evidenze negative sull’efficacia, la DSM, il più grande produttore mondiale di vitamina D, sponsorizzava una campagna dello IOF per denunciare la carenza vitaminica nella popolazione anziana europea e la necessità di usare supplementi per ridurre il rischio di frattura. Sempre lo IOF, nel 2014, lanciava con Danone una campagna sui benefici dello yoghurt sull’osso e la NOF si alleava con Bayer per promuovere l’uso del calcio nella donna anziana. Dopo alcune segnalazioni sul rischio cardiovascolare dei sali di calcio, il Council for Responsible Nutrition si affrettava a rilasciare un comunicato stampa per neutralizzarle, definendole semplici allarmismi che possono minare la fiducia del consumatore.

 

Da questa serie di dati si evidenzia la stretta interdipendenza dei soggetti interessati al mercato dell’osteoporosi, non ultimi i ricercatori in cerca di finanziamenti per pubblicazione di studi clinici e maggiore visibilità nel mondo scientifico. Per contro l’industria farmaceutica finanzia di preferenza gruppi di pressione che abbiano autorevoli figure accademiche come consulenti. Un esempio di questo legame si è avuto nel 2013 con la re-analisi dei dati sulla frattura di femore della Women’s Heath Initiative, dove si enfatizzavano gli ottimi risultati di calcio e vitamina D su un sottogruppo di partecipanti, quando invece i risultati globali precedentemente pubblicati erano del tutto negativi. Lo studio di re-analisi era supportato dalla NOF.

 

Come si è visto la rete di interessi è veramente complessa, ogni singolo nodo (industria farmaceutica, settore alimentare, gruppi di pressione, ricerca accademica) è legato a doppio filo con gli altri: l’industria acquista credibilità scientifica con conseguente aumento di vendite, le organizzazioni di pressione ricevono finanziamenti e si assicurano la sopravvivenza, i ricercatori acquisiscono fondi, consolidano la loro figura nel mondo accademico con pubblicazioni e presentazioni sponsorizzate. Gli unici che ci perdono sono i pazienti che rischiano di ricevere sovradiagnosi e sovratrattamenti, con effetti collaterali non piacevoli, e il sistema sanitario che vede crescere una spesa per trattamenti in gran parte inappropriati, con sottrazione di risorse per terapie efficaci.

 

Così la medicina perde credibilità. A questo punto, per contrastare questa deriva negativa, è certamente innovativa e interessante la scelta di rendere pubblici i finanziamenti dell’industria farmaceutica ai medici (Sunshine Act), ma tenendo conto di quanto fino a qui analizzato, andrebbero resi palesi anche i contributi da parte dell’industria alimentare.

 

Libera traduzione, commenti e adattamento di Giovanni Peronato

 

1. Järvinen T et al. Overdiagnosis of bone fragility in the quest to prevent hip fracture. BMJ 2015;350:h2088

2. Alonso-Coello P et al. Drugs for pre-osteoporosis: prevention or disease mongering? BMJ 2008;336:126-9

3. Gourlay ML et al. Bone-Density Testing Interval and Transition to Osteoporosis in Older Women. N Engl J Med 2012;366:225-33

4. Grey A, Bolland M. Web of industry, advocacy, and academia in the management of osteoporosis. BMJ 2015;351:h3170

5. Avenell A et al. Vitamin D and vitamin D analogues for preventing fractures associated with involutional and post-menopausal osteoporosis. Cochrane Database Syst Rev 2009 Apr 15;(2):CD000227. doi: 10.1002/14651858.CD000227.pub3.

6. Reid IR, Bolland MJ, Grey A. Effects of vitamin D supplements on bone mineral density: a systematic review and meta-analysis. Lancet 2014;383:146–55

7. Hansen KE et al. Treatment of Vitamin D Insufficiency in Postmenopausal Women. A Randomized Clinical Trial. JAMA Intern Med. Published online August 03, 2015. doi:10.1001/jamainternmed.2015.3874

8. Sattar N et al. Increasing requests for vitamin D measurement: costly, confusing, and without credibility. Lancet 2012;379(9811):95-6

Richard Horton, sibillino ma non troppo

What is medicine’s 5 sigma? Questo il titolo sibillino di un editoriale del Lancet firmato dal suo direttore, Richard Horton.(1) Il quale scrive che la scienza ha fatto una svolta nel buio. Si riferisce al resoconto di un incontro a porte chiuse fra addetti alla sanità tenutosi a Londra all’inizio di aprile di quest’anno, in cui si è discusso sulla riproducibilità e affidabilità della ricerca biomedica.

 

Horton premette di non poter citare nomi né rivelare il contenuto delle diapositive presentate, ma il nocciolo della questione è questo: circa la metà di quanto viene pubblicato è falso. Un annuncio che fa tremare i polsi agli addetti ai lavori.

 

La scienza ha fatto una svolta nel buio, con studi clinici indeboliti da campioni insufficienti, scarse dimostrazioni di efficacia clinica, e flagranti conflitti di interessi in molte pubblicazioni. I ricercatori hanno solo l’ossessione di raggiungere la significatività statistica, e questo amore smisurato per la significatività inquina la letteratura medica con dati statistici da racconti fantasy.

 

L’appiattimento generale alla ricerca dell’impact factor ha finora alimentato una competizione insana per arrivare comunque a pubblicare nelle poche riviste biomediche che contano realmente. Purtroppo la mole di danaro riversata in campo scientifico incentiva solo la produttività e l’innovazione e non porta certo a conclusioni veritiere.

 

Horton spiega alla fine il titolo enigmatico del suo articolo, riferito al valore della “p”. In medicina è sufficiente che sia <0.05, mentre nella fisica delle particelle è stata posizionata appunto a 5 sigma, che corrisponde a un valore di p di 3×10 elevato alla -7, pari circa a una su 3,5 milioni.

 

Probabilmente, conclude Horton, tra i vari problemi di credibilità c’è anche quello dell’asticella della significatività statistica, posizionata troppo in basso. Come rimediare a tutto questo? Chi ha il potere di influire sul cambiamento ha il dovere di agire subito, la scienza biomedica deve riconoscere che va intrapreso un novo cammino, anche se nessuno sembra pronto a fare il primo passo.

 

Giovanni Peronato

 

1. Horton R. Offline: What is medicine’s 5 sigma? Lancet 201;385:1380