TAC e RM: una risoluzione per sensibilizzare i medici

Ogni volta che si prescrive una procedura diagnostica o interventistica che comporta il rischio da radiazioni ionizzanti è importante tenere in considerazione il rapporto tra rischi e benefici. È per questo che WONCA Italia (afferente all’omonima organizzazione internazionale dei medici di famiglia, al quale Direttivo partecipa anche ISDE Italia) ha approvato una risoluzione riguardante l’appropriatezza e l’applicazione del principio di giustificazione sulla quale intende sensibilizzare i medici italiani.


Solo il 56% degli esami radiologici eseguiti in Italia risulta pienamente appropriato e siamo tra i Paesi più forniti di impianti TC e RM: soltanto la Regione Puglia ha lo stesso numero di impianti di tutta l’Inghilterra. Esistono larghissimi margini di intervento per evitare la prescrizione di esami inutili o superflui che potrebbero comportare per il paziente rischi da radiazioni.
Il Coordinamento delle Società Scientifiche aderenti al WONCA ha chiesto alle società scientifiche della radiologia e al Ministero della Salute di collaborare in vista dell’applicazione della direttiva EURATOM del 2013, che dovrà essere applicata nel nostro Paese entro la fine di quest’anno. Questa sottolinea la comune responsabilità dei medici che prescrivono gli esami e dei medici e operatori della radiologia che li eseguono. Soltanto una forte collaborazione tra tutti i soggetti coinvolti e con le istituzioni preposte può favorire la corretta applicazione del principio di giustificazione e l’appropriatezza, a tutto vantaggio dei pazienti.
La risoluzione è stata inviata anche al Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin.
Leggi la risoluzione di WONCA Italia

L’articolo TAC e RM: una risoluzione per sensibilizzare i medici sembra essere il primo su ISDE.

Lettera al Ministro Lorenzin

On. Lorenzin,
Molti operatori della sanità, dai ricercatori ai volontari, si chiedono come sia accettabile che un’azienda a larga partecipazione statale quale è la RAI possa avallare la convinzione che senza Telethon non ci sia ricerca per le malattie rare.

Ci si meraviglia che fino ad ora Lei non abbia preso le difese dei ricercatori che si suppone non si occupino solo di ricerche che tornano utili alle ditte farmaceutiche, ma si dedichino, usando fondi pubblici, anche a ricerche degne di rilievo scientifico, pur se utili solo a pochi individui.

La RAI dovrebbe fornire agli italiani informazioni più equilibrate. Non è possibile che si calendarizzi solo il fascino della bontà, sotto forma di donazione, e non ci s’impegni maggiormente nell’attivare l’attenzione verso l’educazione al bene comune, verso l’impegno che il Suo Ministero deve porre nei confronti di tutti i malati affetti da qualunque tipo di malattia.

Il nostro disagio è certamente anche il Suo. Tutti devono avere il diritto di donare ciò che ritengono opportuno a chicchessia; altro è sostituirsi al compito precipuo dello Stato. Le chiediamo pertanto che con la Sua autorevole voce rivaluti il ruolo della ricerca con fondi pubblici, che opera in modo scevro da interessi privati perché ciascun malato abbia pari dignità e pari diritto a trattamenti che agevolino la vita.

Grazie per l’attenzione.

Per gli associati e le associate a NoGrazie (http://www.nograzie.eu/)

Adriano Cattaneo

17 Gennaio 2016

 

Sprechi alimentari: a che punto siamo?

Acquistare merci che verranno presto buttate è uno degli effetti più eclatanti del consumismo. Siamo così abituati a possedere e a poter avere sempre di più, che raramente ci accorgiamo di quanto sprechiamo le risorse. Sappiano bene che le risorse del mondo sono limitate, eppure per molte persone questo non appare come un problema.

La FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, stima che nel mondo circa un terzo del cibo prodotto per il consumo umano venga buttato, corrispondente a circa 1.3 miliardi di tonnellate all’anno[i], e circa 800 milioni di persone risultano cronicamente sottonutrite[ii][iii].

Le perdite alimentari non sono solo un danno dal punto di vista della nutrizione mondiale, ma implicano corrispondenti sprechi delle risorse usate per la produzione: terreno, acqua, energia, incrementando le emissioni dei gas serra[iv],[v].

Il cibo si perde o spreca in più passaggi, durante la produzione agricola, la raccolta, la processazione industriale, la distribuzione, fino ad arrivare al consumatore finale[vi].

In Italia circa il 3% della produzione agricola rimane nei campi, ovvero circa 1.5 milioni di tonnellate. Nella trasformazione industriale si perderebbero altri 2 milioni di tonnellate e circa 300 mila tonnellate verrebbero sprecate nella distribuzione[vii]. Lo spreco domestico pro-capite si attesterebbe a circa 2,5 kg di cibo gettati ogni mese, per un costo di circa 32 euro al mese.

Recentemente abbiamo letto che in Francia è stata approvata una legge che costringerà i supermercati a donare il cibo invenduto in beneficenza[viii]. In Italia gli sprechi alimentari legati alla grande distribuzione sembrano essere in diminuzioni, grazie ad alcune iniziative come quella del Banco Alimentare[ix] o la vendita scontata dei prodotti in scadenza a fine giornata[x],[xi],[xii].

Il Ministero dell’Ambiente ha proposto una semplificazione normativa per quanto riguarda la donazione degli alimenti invenduti[xiii] ma ad oggi non sembra prevista una legge che, come avviene in Francia, la renda obbligatoria. Da qualche mese Avaaz  promuove una petizione che lo richiede[xiv].

In Italia, come nel resto del mondo, vi anche è il grosso problema della frutta e la verdura scartate dai supermercati per questioni estetiche, imponendo standard su taglia, forma e colore accettati, indipendentemente dai valori nutritivi, il gusto e la qualità del prodotto[xv].

Una possibile soluzione a questo è stata applicata Francia, dove una catena di supermercati ha iniziato a vendere la frutta e verdura di qualità ma non esteticamente bella a prezzi scontati del 30%[xvi], iniziative simili sono state portate avanti in altri paesi europei e negli USA[xvii].

Non sarebbe ora di prendere esempio?

Per quanto riguarda lo spreco domestico, cosa possiamo impegnarci a fare noi?

L’Unione Europea ci suggerisce 10 semplici passi per limitare gli sprechi[xviii].

Programmare la spesa per la settimana in base agli alimenti presenti nel frigo.

  1. Scrivere una lista dettagliata di cosa manca ed in quale quantità. Prediligere alimenti sfusi in modo da poterne acquistare esattamente la quantità necessaria.
  2. Verificare le date di scadenza.
    Ricordare che in caso di dicitura “da consumare preferibilmente entro” si parla di prodotti che garantiscono inalterato il proprio valore nutrizionale se consumati entro la data segnalata e successivamente le loro caratteristiche potrebbero venire alterate o compromesse. Se il prodotto è visivamente ed olfattivamente ancora buono, può essere consumato anche qualche giorno dopo la data scritta. La dicitura “da consumare entro”, invece, riguarda gli alimenti maggiormente deperibili (latte fresco, uova, yogurt, ricotta, …) . Il termine è rigido, perché il suo superamento potrebbe aver ripercussioni sulla salute. In alcuni casi è possibile una certa tolleranza, a patto che il prodotto sia stato conservato correttamente[xix].
  3. Considerare il proprio budget: sprecare cibo significa anche sprecare soldi
  4. Mantienere il frigo alla giusta temperatura, generalmente attorno ai 4°C
  5. Conservare il cibo conformemente a quanto scritto sull’involucro e in base alle esigenze dei diversi tipi di alimenti[xx],[xxi],[xxii].
  6. Cambiare la posizione degli alimenti in base alla data di acquisto (o autoproduzione).
    Portate gli alimenti più vecchi davanti e riponete quelli nuovi o a scadenza più lontana dietro, in modo da consumare prima quelli più vecchi o con scadenza più ravvicinata.
  7. Servire porzioni non abbondanti di cibo, in modo da evitare sprechi nel piatto. Ci sarà sempre tempo per un bis quando il piatto sarà vuoto!
  8. Usare gli avanzi! Invece di esser buttati nel cestino, gli avanzi possono essere usati il giorno seguente o congelati per un’altra occasione.La frutta che inizia ad ammollarsi può essere usata per fare frullati o torte. Le verdure vecchie possono essere usate per brodi o zuppe. Sul web si possono trovare molte ricette interessanti con gli scarti di frutta e verdura[xxiii].
  9. Congelare.
    Se si mangio poco pane si può congelarne dei pezzi e prenderli successivamente quando ce ne sarà bisogno.
    Molti alimenti già cotti possono essere surgelati in previsione delle volte in cui non si abbia voglia di cucinare.
    Inoltre la verdura fresca non acquosa può essere congelata, meglio dopo esser stata sbollentata. Si può per esempio preparare dei sacchetti per il minestrone tagliando la verdura sbollentata a cubetti.
  10. Convertire gli scarti in compost.
    Ovviamente non è sempre possibile recuperare tutto, soprattutto le bucce ed altri scarti alimentari. Però si può preparare del compost per le piante con una compostiera domestica, eventualmente fai da te[xxiv].

 

Noi aggiungeremmo anche

11.  Quando si va a mangiar fuori, ordinare solo ciò che si pensa di poter consumare. Se proprio non si riesce a finire tutto, si può domandare al ristoratore se sia possibile portar via gli avanzi. Sempre più ristoranti sono attrezzati per farlo, per cui chiedete pure senza imbarazzo!

Questi sono solo alcuni spunti per iniziare a rimboccarci le maniche.

Combattiamo anche noi gli sprechi alimentari!

 

Selene Bianco, circolo MDF di Torino

 



SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.240 DEL 18/01/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.240 DEL 18/01/16

 

INDICE

  • I pareri della Commissione degli Interpelli – N.5
  • Lavoro agile, tanto “agile” da essere volatile e insicuro per la salute e sicurezza
  • Jobs Act, la legge dell’insicurezza
  • Rischio fumo di tabacco: la politica aziendale
  • Macchine agricole: le scadenze della revisione e della formazione
  • L’esorbitanza nel comportamento del lavoratore infortunato

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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I PARERI DELLA COMMISSIONE DEGLI INTERPELLI – N.5

 

L’articolo 12 del D.Lgs.81/08 (Testo Unico sulla sicurezza) ha previsto la costituzione della Commissione degli Interpelli, composta da rappresentanti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del Ministero della salute, della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome con lo scopo di rispondere a “quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro” posti da Organismi associativi, Enti pubblici, Organizzazioni sindacali dei datori di Lavoro e dei lavoratori, Consigli nazionali degli ordini.

La Commissione degli Interpelli è stata effettivamente costituita con Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 28 settembre 2011.

Secondo il comma 3 dell’articolo 12 del D.Lgs.81/08 “Le indicazioni fornite nelle risposte ai quesiti di cui al comma 1 [quelli posti alla Commissione] costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza”.

Riporto pertanto in una nuova rubrica della mia newsletter tali pareri con il link per scaricare il testo completo del quesito e del parere della Commissione.

Marco Spezia

 

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IDONEITA’ TECNICO PROFESSIONALE DEI LAVORATORI AUTONOMI NELL’AMBITO DEL TITOLO IV DEL D.LGS. 81/2008

Interpello in materia di sicurezza n.7 del 2 maggio 2013

 

RICHIEDENTE

ANCE – Associazione Nazionale Costruttori Edili

 

QUESITO

L’ANCE, Associazione Nazionale Costruttori Edili, ha avanzato istanza d’interpello per conoscere il parere della Commissione relativamente alla corretta interpretazione di quanto riportato nell’allegato XVII comma 2, lettera d) del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni, con particolare riferimento alla documentazione minima che i lavoratori autonomi devono esibire al committente o al responsabile dei lavori ai fini della dimostrazione della idoneità tecnico professionale prevista per operare in un cantiere temporaneo o mobile cosi come definito nell’articolo 89 del D.Lgs.81/08.

 

CHIARIMENTO

Al riguardo va premesso che gli obblighi in materia di salute e sicurezza di un lavoratore autonomo sono in via generale riportati nell’articolo 21 del D.Lgs.81/08 e, con specifico riferimento al “cantiere temporaneo o mobile”, nell’articolo 94 del medesimo provvedimento.

In particolare, il primo comma dell’articolo 21, citato, identifica gli obblighi del lavoratore autonomo nell’utilizzo di attrezzature di lavoro e Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) in modo conforme “alle disposizioni di cui al Titolo III” (lettere a e b), e del munirsi di “tessera di riconoscimento” (lettera c).

L’articolo 21, comma 2, citato, prevede inoltre che i lavoratori autonomi, relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico hanno pure facoltà di:

  1. beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’articolo 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali;
  2. partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’articolo 37, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali.

Il Legislatore, nel rispetto dei principi e criteri direttivi generali contenuti nell’articolo 1 della Legge 3 agosto 2007, n.123, che prevedevano “adeguate e specifiche misure di tutela per i lavoratori autonomi, in relazione ai rischi propri delle attività svolte e secondo i principi della raccomandazione 2003/134/CE del Consiglio, del 18 febbraio 2003” ha introdotto non uno specifico obbligo ma una facoltà di “beneficiare della sorveglianza sanitaria” e di “partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro”.

Ai fini delta verifica dell’idoneità tecnico professionale di un lavoratore autonomo destinato a operare in un cantiere temporaneo o mobile, il Legislatore nell’allegato XVII, comma 2, lettera d) del D.Lgs.81/08 aveva previsto che il lavoratore autonomo dovesse esibire gli “attestati inerenti la propria formazione e la relativa idoneità sanitaria previsti dal presente Decreto Legislativo”.

Questa formulazione aveva creato notevoli difficoltà in quanto sembrava che quella “facoltà” di “beneficiare della sorveglianza sanitaria” e di “partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro diventasse invece, per un lavoratore autonomo, un obbligo necessario per dimostrare la propria idoneità tecnico professionale per operare in un cantiere temporaneo o mobile”.

Con la modifica introdotta con il D.Lgs.106/09, espressamente richiesta dalle parti sociali, il lavoratore autonomo deve esibire al committente o al responsabile dei lavori o, in caso di subappalto, al Datore di Lavoro dell’impresa affidataria gli “attestati inerenti la propria formazione e la relativa idoneità sanitaria ove espressamente previsti dal presente Decreto Legislativo”.

La modifica introdotta con il D.Lgs.106/09, all’allegato XVII, citata e volta a rilevare la non obbligatorietà della formazione e della sorveglianza sanitaria per i lavoratori autonomi tranne che le stesse non siano espressamente previste da disposizioni speciali anche di attuazione del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni.

Tale concetto, peraltro, è stato ribadito nel documento della Conferenza Stato-Regioni “Adeguamento e linee applicative degli accordi ex articolo 34, comma 2, e 37, comma 2 del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni”, in cui a stato specificato che le previsioni di cui all’accordo ex articolo 37 del “testo unico” di salute e sicurezza sulla formazione di lavoratori, dirigenti e preposti, non hanno efficacia obbligatoria, ma sono dirette a fornire ai lavoratori autonomi utile parametro di riferimento per la formazione. La medesima fonte rimarca che è altresì obbligatoria altra formazione rispetto a quella oggetto di regolamentazione da parte dell’accordo ex articolo 37 qualora quest’ultima sia disciplinata da disposizioni di legge speciali rispetto alla previsione generale riportata all’articolo 21, comma 2 (e ad esempio il caso della formazione necessaria per effettuare lavori in ambienti confinati obbligatoria anche per i lavoratori autonomi, ai sensi del D.P.R.177/11) del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni.

Pertanto un committente o un’impresa affidataria, in fase di verifica dell’idoneità tecnico professionale del lavoratore autonomo, è tenuto a verificare il possesso della documentazione, di cui all’allegato XVII da parte del lavoratore autonomo, ma non anche ad esigere, al medesimo, l’esibizione degli attestanti inerenti la propria formazione e l’idoneità sanitaria.

Di conseguenza, risulta legittimo sia l’affidamento di lavori al lavoratore autonomo in possesso di documentazione inerente la formazione e l’idoneità sanitaria sia l’affidamento di lavori al lavoratore autonomo privo dei predetti requisiti.

Resta fermo per il committente la facoltà di richiedere al lavoratore autonomo ulteriori requisiti rispetto a quelli minimi individuati dall’allegato XVII, anche qualora essi consistano nel possesso della documentazione appena citata.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.7 del 2 maggio 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.07.pdf

 

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ARTICOLO 41, COMMA 2 DEL D.LGS.81/08 E VISITA MEDICA PREVENTIVA

Interpello in materia di sicurezza n.8 del 24 ottobre 2013

 

RICHIEDENTE

Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro

 

QUESITO

Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, su proposta del Consiglio provinciale di Palermo, ha inoltrato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito alla corretta interpretazione dell’articolo 41, comma 2 del D.Lgs.81/08.

In particolare l’istante chiede di sapere “se la previsione di visita medica preventiva di cui all’ articolo 41, comma 2, lettera a) del Decreto debba ritenersi dovere operare ogni qualvolta il datore di lavoro provvede a effettuare l’assunzione del lavoratore o se nel caso in cui vi siano assunzioni dello stesso lavoratore successive a una interruzione del rapporto di lavoro, per mansioni uguali o sostanzialmente collegate alto stesso rischio, per il quale sia trascorso un termine breve e comunque entro la periodicità prevista dal medico competente per la visita successiva non necessita una nuova visita preventiva”.

 

CHIARIMENTO

Al riguardo si osserva che ]a sorveglianza sanitaria, disciplinata dall’articolo 41 del D.Lgs.81/08, è effettuata dal medico competente nei casi previsti dalla normativa vigente.

In particolare l’articolo 41, comma 2, lettera a) del D.Lgs.81/08 prevede una visita medica preventiva con l’obiettivo di “constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato, al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica”.

Il successivo comma prevede una “visita medica periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica la cui periodicità, qualora non prevista dalla relativa normativa, viene stabilita, di norma, in una volta l ‘anno”.

Tutto ciò premesso la Commissione ritiene che, nel caso di assunzioni successive, qualora il lavoratore sia impiegato in mansioni che lo espongono allo stesso rischio nel corso del periodo di validità della visita preventiva o della visita periodica di cui all’articolo 41, comma 2, lettera b) del D.Lgs.81/08 e comunque per un periodo non superiore ad un anno, il datore di lavoro non è tenuto ad effettuare una nuova visita preventiva, in quanto la situazione sanitaria del lavoratore risulta conosciuta dal medico competente.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.8 del 24 ottobre 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.08.pdf

 

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IMPRESE FAMILIARI

Interpello in materia di sicurezza n.9 del 24 ottobre 2013

 

RICHIEDENTE

CNA – Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e media impresa

 

QUESITO

La Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa ha inoltrato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito alla applicazione del D.Lgs.81/08 alla “impresa familiare di fatto (ai sensi dell’articolo 230 bis del Codice Civile) che opera con collaboratori senza essersi costituita con atto espresso: atto notarile dichiarativo”.

 

CHIARIMENTO

Al riguardo va premesso che l’articolo 230 bis del Codice Civile prevede che “salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato […]”.

Pertanto, il legislatore ha voluto introdurre una figura di impresa familiare fondata sulla “solidarietà familiare” e non su un rapporto contrattuale.

Tutto ciò premesso, la Commissione fornisce le seguenti indicazioni.

La Commissione ritiene sia possibile costituire, ai sensi dell’articolo 230 bis del Codice Civile, un’impresa familiare senza la necessità di uno specifico atto notarile.

E opportuno sottolineare che ai fini dell’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, alle imprese familiari si applica l’articolo 21 del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.9 del 24 ottobre 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.09.pdf

 

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FORMAZIONE ADDETTI EMERGENZA

Interpello in materia di sicurezza n.10 del 24 ottobre 2013

 

RICHIEDENTE

Consiglio Nazionale degli Ingegneri

 

QUESITO

Il Consiglio Nazionale degli Ingegneri ha avanzato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito ai corsi tenuti dagli ingegneri abilitati ai sensi della Legge n.818/84. In particolare chiedono di sapere se il suddetto professionista sia:

  • adeguatamente titolato, agli effetti del D.M.10/03/98, quale soggetto formatore per gli addetti alle aziende valutate a rischio media e basso;
  • sia abilitato al rilascio di attestati di frequenza per gli stessi corsi e se tali attestati siano validi agli effetti della documentazione e della formazione obbligatoria prevista nel D.Lgs.81/08.

 

CHIARIMENTO

Il D.M.10/03/98 non prevede né requisiti specifici né titoli ai fini dell’idoneità del soggetto formatore per gli addetti all’emergenza. I soggetti formatori devono possedere competenza nella materia antincendio.

Pertanto si ritiene che gli ingegneri, abilitati ai sensi della Legge n.818/84, possano svolgere i corsi per addetti all’emergenza e, quindi, rilasciare i relativi attestati di frequenza. Inoltre si sottolinea come, per le aziende individuate dall’allegato X del Decreto, “i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle emergenze”, debbano conseguire “l’attestato di idoneità tecnica di cui all’articolo 3 della Legge n.609/96”.

Infine la Commissione ritiene validi ai fini della formazione prevista dall’articolo 37, comma 9 del D.Lgs.81/08 i suddetti attestati.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.10 del 24 ottobre 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.10.pdf

 

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ACCORDO STATO-REGIONI DEL 21 DICEMBRE 2011

Interpello in materia di sicurezza n.11 del 24 ottobre 2013

 

RICHIEDENTE

Federambiente

 

QUESITO

La Federazione Italiana Servizi Pubblici Igiene Ambientale (Federambiente) ha avanzato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito all’Accordo Stato Regioni del 21/12/11 relativo alle modalità di svolgimento della formazione dei lavoratori, ai sensi dell’articolo 37, comma 2 del D.Lgs.81/08.

In particolare l’interpellante chiede di conoscere se la durata e i contenuti della formazione dei lavoratori possa prescindere dall’appartenenza a uno specifico settore Ateco e possa essere tarata sulla effettiva condizione di rischio che si rileva, per ciascuna attività lavorativa, a valle del processo di valutazione.

 

CHIARIMENTO

L’Accordo Stato Regioni del 21/12/11 disciplina la durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione, nonché l’aggiornamento dei lavoratori, ai sensi dell’articolo 37, comma 2 del D.Lgs.81/08. La suddetta formazione, come esplicitato nella premessa dell’Accordo in parola, da erogare al lavoratore e, per quanto facoltativa nell’articolazione, ai dirigenti e ai preposti, costituisce un percorso minimo da organizzare e integrare sulla base delle risultanze della valutazione dei rischi.

L’Accordo Stato Regioni del 25/07/12, concernente le linee guida applicative e integrative dell’Accordo Stato Regioni del 21/12/11, chiarisce che la classificazione dei lavoratori, “può essere fatta anche tenendo conto delle attività concretamente svolte dai soggetti medesimi, avendo a riferimento quanto nella valutazione dei rischi”.

Tutto ciò premesso la Commissione fornisce le seguenti indicazioni.

L’articolo 37, comma 1 del D.Lgs.81/2008, prevede che “il datore di lavoro assicura che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento ai […] rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda”.

Alla luce delle vigenti disposizioni normative e in particolare sulla base di quanto indicato negli Accordi Stato-Regioni citati in premessa, la formazione (che deve essere “sufficiente e adeguata”) va riferita all’effettiva mansione svolta dal lavoratore, considerata in sede di valutazione dei rischi; pertanto la durata del corso può prescindere dal codice Ateco di appartenenza dell’azienda.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.11 del 24 ottobre 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.11.pdf

 

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LAVORO AGILE, TANTO “AGILE” DA ESSERE VOLATILE E INSICURO PER LA SALUTE E SICUREZZA

 

Da: Diario Prevenzione

http://www.diario-prevenzione.it

sabato 16 gennaio 2016

 

Abbondano i disegni di legge per dare una parvenza di “legalità” alle forme di lavoro “precario” con la sostituzione delle parole che lo definiscono.

Da “precario” il lavoro diviene “agile”, e in alcune accezioni diviene addirittura “smart” dove di “smart” per il lavoratore vi è molto poco.

Tutto diviene indefinito, la cosiddetta cornice costruita per dare una parvenza di “legalità” per alcuni elementi diviene risibile rispetto, ad esempio, alle norme per la gestione della sicurezza sul lavoro.

 

Abbiamo tra le mani un ibrido che sta tra il regolamento aziendale tipo e un contratto commerciale ove il lavoratore è un fornitore in una relazione di potere sbilanciata. L’aspetto della prestazione è affidato al contratto individuale tra lavoratore e impresa, in una condizione di totale subalternità del lavoratore.

 

Orari, tempi di lavoro, aspetti gestionali sono consegnati alla trattativa individuale tra lavoratore e impresa. Abusi, truffe e compensi non pagati in ragione di contestazione della qualità della prestazione erogata dal lavoratore saranno possibili e numerosi in quanto le clausole contro gli abusi riguardano solo gli aspetti formali del contratto.

Il “dominus” è l’azienda committente “versus” il lavoratore che è monade isolata e debole.

Non esiste nessun accenno che richiami l’ergonomicità delle attrezzature fornite dal committente o proprie del lavoratore. Per fare un esempio i lavoratori “agili” del call center potranno operare con cuffie da tre soldi, apparecchiature di bassa qualità…

Non parliamo poi della prevenzione dello stress lavoro correlato totalmente ignorata in quanto il lavoro “agile” non sarebbe stressante per definizione…

 

I commi 2 e 3 dell’articolo 6 del Disegno di Legge sul “Lavoro agile” sono emblematici dell’assenza di tutela della salute di questi lavoratori.

Il Parlamento dovrà discutere seriamente prima di licenziare questo pericoloso pastrocchio ove di “agile” vi è solo l’amabile disinvoltura a evitare di affrontare la complessità dei problemi che questa tipologia di lavoro produrrà nel mercato del lavoro.

La pericolosità sta nella diffusione di un rapporto di lavoro di natura altamente subordinata spacciato come rapporto di lavoro autonomo “leggero” e senza rischi per la salute. La sua “pericolosità sociale” è pari solo a quella generata dai “Voucher”.

 

L’articolo 6 “Sicurezza sul lavoro” del Disegno di Legge sul “Lavoro agile” riporta quanto segue:

Il datore di lavoro deve garantire la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile.

Al fine di dare attuazione all’obbligazione di sicurezza, e tenuto conto dell’impossibilità di controllare i luoghi di svolgimento della prestazione lavorativa, il datore di lavoro deve consegnare una informativa periodica, con cadenza almeno annuale, nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alle modalità di svolgimento della prestazione.

Il lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile, per i periodi nei quali si trova al di fuori dei locali aziendali, deve cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro”.

 

La bozza del Disegno di Legge sul “Lavoro agile” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.diario-prevenzione.it/ddl/DDL-lavoro-autonomo-e-lavoro-agile-1%20%281%29%281%29.pdf

 

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JOBS ACT, LA LEGGE DELL’INSICUREZZA

 

Da: Rassegna.it

http://www.rassegna.it

15 gennaio 2016

 

Abolizione del Registro infortuni, riduzione dei componenti sindacali in Commissione consultiva, non applicazione delle tutele ai lavoratori con i voucher: questi i punti più controversi, che porteranno all’aumento di infortuni e malattie professionali

 

Non verrà certo meno nei prossimi mesi (e forse anni) l’esigenza da parte della CGIL di approfondire e soppesare gli effetti concreti che il Jobs Act (articolato finora in otto Decreti) dispiegherà nel prossimo futuro, soprattutto in materia di salute, sicurezza e prevenzione per i lavoratori e le lavoratrici.

Occorre dire subito, però, che non solo le misure specifiche dell’articolo 20 del D.Lgs.151/15 (cosiddetto “Decreto semplificazione”) e del Decreto riguardante le attività ispettive avranno un effetto sulle condizioni di vita e di lavoro nel nostro paese.

 

La norma sul demansionamento ad esempio, che abbiamo giudicato molto negativamente, oltre ad avere permesso alle aziende azioni finora non possibili, ha anche introdotto il concetto della “non obbligatorietà” della formazione specifica alla mansione prima del cambio della mansione stessa.

Può sembrare un dettaglio, ma non lo è. Cosa succede, in concreto, quando un lavoratore viene immediatamente adibito a un compito del quale non conosce i rischi specifici e le relative misure di prevenzione da adottare? Succede che l’incidenza di infortuni e malattie professionali aumenta, e aumenterà nei prossimi anni, per un’intrinseca falla che si crea nel sistema di prevenzione e protezione aziendale.

 

Come non pensare anche alla questione della sorveglianza elettronica (o classicamente “videosorveglianza”), che assegna al datore di lavoro la possibilità del controllo attraverso apparecchiature specificamente fornite per l’espletamento della prestazione lavorativa (come smartphone, tablet, personal computer), senza alcuna negoziazione con le rappresentanze sindacali o altro?

Oltre ai noti e sollevati problemi di privacy, è evidente come l’eventuale uso disciplinare o discriminatorio dei dati provenienti da questo tipo di controllo solleverà molti contenziosi, non aiutando certo il clima di benessere organizzativo necessario al nostro tessuto produttivo e aziendale.

 

Le misure contenute, infine, nel Decreto che istituisce l’Ispettorato nazionale per l’attività ispettiva, lasciano aperti molti problemi: il coordinamento sarà limitato ai soli Ministero del Lavoro, INPS e INAIL, o si realizzerà il famoso e auspicato coordinamento con il sistema di Regioni e ASL?

E le funzioni del cosiddetto “Ispettore unico”, la sua dote formativa e strumentale, quando vedranno la luce? Sono ancora molti, quindi, gli aspetti non chiariti da questo intervento di riforma che ha bisogno di decretazione attuativa per essere pienamente giudicato. Bisognerà dunque lavorarci sopra come Confederazione e come categorie, per far sì che, nelle possibilità concrete, esso possa rappresentare un reale elemento di avanzamento.

 

Ma torniamo all’articolo 20 del Decreto “semplificazioni”, che riguarda direttamente le materie di salute e sicurezza. Il primo problema evidente a chi legge (e a chi ha seguito la nostra campagna contraria, sfociata anche in un avviso comune, unitario con Confindustria, avverso al provvedimento) è la riduzione dei componenti della Commissione consultiva permanente (ex articolo 6 del D.Lgs.81/08) di espressione delle parti sociali, con l’introduzione al loro posto di componenti espressione del mondo associazionistico e tecnico professionale.

E’ evidente a chiunque abbia un po’ di discernimento e buona fede che in questo modo la “governance” della Commissione viene mutata con la modifica dei numeri necessari per l’espressione del parere, violando il principio del “tripartitismo” cui è informata la legislazione italiana ed europea in materia di salute e sicurezza. Il giusto ruolo delle parti sociali, a questo punto soccombente con la nuova disciplina rispetto alla parte di Stato e Regioni, è invece importantissimo e centrale per la trattazione di problemi che le suddette organizzazioni risolvono o tentano di risolvere ogni giorno nei posti di lavoro (reali e fisici) di questo paese. Ma la vulgata imperante rispetto alla “pletoricità” della Commissione stessa e al ruolo non più “utile” o “necessario” dei corpi intermedi all’interno della dinamica sociale e politica, ha deciso altro.

 

Gli altri due aspetti assolutamente negativi contenuti nel Decreto (rispetto ai quali come CGIL stiamo pensando a ricorsi di tipo giuridico in sede sia europea sia italiana), sono quelli relativi ai lavoratori retribuiti attraverso i voucher e all’abolizione del Registro infortuni.

Per i primi si prevede la non applicazione delle tutele relative alla prevenzione previste dal D.Lgs.81/08, se questi non prestano la propria opera nei confronti di un’impresa o di un professionista.

Ci si dimentica però che questa forma di lavoro, nata per regolamentare in qualche modo il lavoro accessorio e occasionale, riconducendolo nell’ambito della regolarità, è subito diventata una dilagante forma di precarietà: è evidente, dunque, la discriminatorietà della norma in questione nei confronti di centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici.

 

Altro punto negativo è quello dell’abolizione dell’obbligatorietà della tenuta del Registro infortuni, che doveva essere una misura collaterale al famoso Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione (SINP), sistema peraltro mai partito né deliberato dai governi dal 2008 a oggi.

La misura è del tutto favorevole a quelle aziende scorrette che non gradiscono che si tenga traccia di quanto succede all’interno dei loro luoghi di lavoro, che non gradiscono “intrusioni” da parte degli organi di vigilanza. E pensare, invece, che proprio la legislazione europea e la Direttiva relativa a queste materie prevedono che le aziende sono tenute ad adottare una simile forma di registro, che tracci gli accadimenti e sia a disposizione delle autorità e delle rappresentanza sindacali aziendali e territoriali.

 

Solo un accenno, in conclusione, a un’ulteriore questione la cui interpretazione è ancora controversa, ovvero l’abolizione dell’obbligo di comunicazione degli infortuni con una prognosi sotto i 30 giorni da parte del datore di lavoro, sostituita da una comunicazione da parte dell’INAIL. Oltre alle evidenti conseguenze di opacità e problematicità che la norma comporterebbe (fra cui la mancata comunicazione automatica all’autorità giudiziaria), la farraginosità della misura assegna all’INAIL un ruolo molto rilevante e anche rischioso.

 

Sebastiano Calleri

Responsabile nazionale Salute e Sicurezza CGIL

 

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RISCHIO FUMO DI TABACCO: LA POLITICA AZIENDALE

 

Da: PuntoSicuro

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4 gennaio 2016

 

L’approccio gestionale del fumo di tabacco è il modo concreto di trattare questo rischio per i lavoratori: conseguenze, vantaggi e svantaggi, le attività di promozione della salute.

 

In azienda è opportuno che il fumo di tabacco venga considerato attentamente sia per l’applicazione del divieto che per la valutazione del rischio globale. L’approccio gestionale del fumo di tabacco è il modo concreto di trattare un rischio per la salute in maniera efficace anche in azienda, offrendo ai lavoratori informazione e consulenza sull’argomento al fine di proteggerli dal fumo passivo, proponendo la disassuefazione ai fumatori attivi e cercando di evitare l’iniziazione al fumo dei non fumatori.

La presenza di lavoratori fumatori può comportare per l’azienda:

  • maggiori assenze per malattia;
  • aumento di incidenti e infortuni;
  • contrasti con i colleghi non fumatori;
  • possibile interazione fra i prodotti del fumo di tabacco e i fattori di rischio occupazionale, con maggiore probabilità di insorgenza di patologie.

 

Una gestione aziendale mirata al fumo di tabacco può determinare per tutti i lavoratori i seguenti vantaggi:

  • miglioramento delle condizioni di salute;
  • miglioramento delle relazioni con i colleghi (benessere personale e di gruppo);
  • miglioramento dell’ambiente di lavoro;
  • promozione della salute.

L’azienda può limitarsi all’applicazione di un piano che preveda il solo rispetto del divieto oppure può creare uno strumento di promozione della salute.

Nel primo caso il progetto sarà improntato per diffondere informazioni ai dipendenti sul rispetto della normativa, i divieti, le sanzioni, l’informazione sui danni da fumo attivo e passivo e avrà come obiettivo la difesa dei lavoratori dal fumo passivo.

Nel secondo caso potrà essere attivato un vero e proprio percorso di promozione della salute dedicato ai fumatori.

Il progetto di promozione della salute, oltre al rispetto della normativa sul posto di lavoro per la tutela dei non fumatori, si prefigge anche l’intento di aiutare i fumatori presenti in azienda a smettere, coinvolgendo il Medico Competente (ove previsto dalla normativa vigente), le ASL, i centri territoriali antifumo, il personale, sanitario e non, che possa essere di aiuto e supporto al fumatore che decida di smettere.

La politica aziendale deve essere strutturata in modo da fornire adeguata informazione ai lavoratori, sostegno costante e indicazioni sui soggetti e le strutture cui rivolgersi.

 

A questo fine appare essenziale:

  • costituire un Gruppo di lavoro aziendale con la partecipazione dei lavoratori;
  • valutare la situazione esistente nella propria azienda (sopralluoghi, questionari, ecc.);
  • scegliere fra divieto assoluto o parziale (zone per fumatori);
  • definire obiettivi (divieto o promozione della salute) e piano d’azione;
  • redigere il regolamento (regole, divieti, luoghi dove poter fumare, referenti, sanzioni, ecc.);
  • comunicare a tutti la politica aziendale (cartelli, incontri, ecc.);
  • offrire programmi per smettere di fumare (interni o esterni all’azienda);
  • monitorare l’attuazione del progetto (punti critici);
  • valutare i risultati a breve e lungo termine (6 – 12 mesi)
  • riproporre periodicamente il progetto.

Il Gruppo di lavoro, istituito dalla direzione aziendale, dovrebbe essere costituito da rappresentanti dei diversi settori (reparti, manutenzione, personale, ufficio tecnico, economato, ecc.), dal Medico Competente (ove previsto), dal Responsabile o da un Addetto del Servizio di Prevenzione e Protezione, dal Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, da lavoratori volontari ed eventualmente da rappresentanti dei servizi territoriali (ASL).

All’interno del gruppo dovrebbe essere nominato un referente con il compito di curare i rapporti con la direzione aziendale nelle varie fasi del progetto.

Sarebbe importante definire dei ruoli che possano persistere anche nel caso di cessazione degli incarichi.

 

Prima di stendere il progetto dovrebbe essere valutata la situazione presente in azienda riguardo l’abitudine al fumo di tabacco (presenza di fumatori, contrasti con i non fumatori, aree esterne per fumare, ecc.) e il rispetto del divieto.

L’opinione dei lavoratori potrebbe essere raccolta tramite la formulazione di un questionario da distribuire via mail o con il cedolino dello stipendio. Lo stesso potrebbe essere fatto periodicamente durante la realizzazione del progetto per verificare gli effetti della politica antifumo. Un’azione di propaganda sul progetto dovrebbe essere effettuata tramite gli stessi mezzi e con poster e dépliant illustrativi appositamente predisposti e collocati nelle varie strutture aziendali.

Il documento dell’INAIL “La gestione del fumo di tabacco in azienda” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/intranet/documents/document/ucm_201604.pdf

 

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MACCHINE AGRICOLE: LE SCADENZE DELLA REVISIONE E DELLA FORMAZIONE

 

Da: PuntoSicuro

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4 gennaio 2016

 

Un intervento si sofferma sulle novità normative nel comparto agricolo. La rete per il lavoro di qualità, la revisione delle macchine agricole e la formazione degli operatori. La scadenza del 31 dicembre 2015 per la revisione e l’abilitazione.

 

Nel nostro paese agricoltura e selvicoltura sono settori ad alto numero di infortuni. E se il nostro paese è caratterizzato dal grande impegno nell’ambito della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, i risultati in questi settori continuano ad essere altalenanti malgrado la buona qualità della legislazione e dalla grande competenza e passione degli operatori.

Ad affermarlo, intervenendo al Convegno “Salute e sicurezza in agricoltura e selvicoltura. Le prospettive. Il piano 2014-2018” che si è tenuto l’8 settembre 2015 a Lodi, è la senatrice Maria Grazia Gatti, componente della Commissione Agricoltura del Senato della Repubblica.

La senatrice è intervenuta nel Convegno, organizzato dall’ASL di Lodi, su due aspetti: la costituzione della rete per il lavoro agricolo di qualità e la Risoluzione in Commissione Agricoltura del Senato relativa alla revisione delle macchine agricole e alla formazione degli operatori votata prima della successiva emanazione del Decreto Ministeriale del 20 maggio 2015.

L’intervento ricorda che la rete per il lavoro agricolo di qualità (la cui cabina di regia nazionale è già operante) procederà a monitoraggi costanti, su base trimestrale, anche accedendo ai dati INPS su instaurazione, trasformazione e cessazione dei rapporti di lavoro, dell’andamento del mercato del lavoro agricolo, valutando in particolare il rapporto tra il numero dei lavoratori stranieri che risultano impiegati e il numero di lavoratori stranieri ai quali è stato richiesto il nulla-osta per il lavoro agricolo dagli sportelli unici per l’immigrazione. Promuoverà iniziative anche d’intesa con le autorità competenti e le parti sociali, in materia di politiche attive del lavoro, contrasto al lavoro sommerso e all’evasione contributiva, organizzazione e gestione dei flussi di manodopera stagionale, assistenza ai lavoratori stranieri immigrati.

Per quanto riguarda invece la revisione delle macchine agricole e la formazione professionale per il conseguimento dell’abilitazione all’uso, la relatrice racconta innanzitutto come si è arrivati al Decreto.

Se agricoltura e selvicoltura continuano a essere fra i settori con più infortuni mortali, anche nell’ultimo periodo una grande percentuale sono avvenuti su trattori e la principale causa è stata il ribaltamento/rovesciamento del mezzo. Nella maggior parte dei casi il capovolgimento trasversale e/o longitudinale del mezzo è avvenuto per sovraccarico del trattore, per sforzo eccessivo di traino, per manovre brusche e per eccessiva pendenza del terreno.

Si ricorda che i principali dispositivi di protezione sono rappresentati dall’installazione direttamente sul trattore di una struttura di protezione ROPS (Roll Over Protection Structure – Struttura di Protezione contro il Ribaltamento) tale da evitare o limitare i rischi in caso di capovolgimento e di schiacciamento e dalla cintura di sicurezza. Ai fini di sicurezza è indispensabile la contemporanea presenza dei due dispositivi.

Tuttavia dalle indagini sugli infortuni emerge anche che gli infortuni legati all’uso dei trattori agricoli o forestali sono, nella maggior parte dei casi, determinati oltre che dalle carenze delle attrezzature sotto il profilo della sicurezza e dall’eccessiva obsolescenza del parco macchine circolante, anche da carenze di formazione specifica degli operatori addetti all’uso. Quindi la revisione delle macchine con la eventuale rottamazione e la formazione degli operatori sono i due strumenti attraverso cui rendere il lavoro in agricoltura un lavoro più sicuro.

Una risoluzione della Commissione Agricoltura in Senato (di cui la senatrice è stata relatrice) ha fissato gli impegni per il governo nella attuazione del Decreto.

 

La risoluzione impegnava il Governo a:

  • far sì che non si prevedessero ulteriori proroghe rispetto all’entrata in vigore dell’obbligo della revisione delle macchine agricole e della formazione degli operatori, considerato che erano già tre le proroghe intervenute circa la revisione e due quelle sull’abilitazione obbligatoria;
  • prevedere, nella scrittura del Decreto Ministeriale con cui disporre le modalità di esecuzione della revisione, disposizioni volte a garantire non solo i profili di sicurezza di circolazione stradale delle macchine agricole ma anche quelli attinenti alla sicurezza sui luoghi di lavoro; questo è il punto fondamentale e richiederà un impegno particolare del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali;
  • prevedere che la revisione si effettui non solo con controlli visivi ma anche con controlli adeguati (sull’usura e su altri profili);
  • a prevedere una scalettatura delle revisioni che permetta una copertura progressiva in tempi adeguati di tutto il parco macchine e, a regime, una revisione periodica;
  • a prevedere la possibilità di utilizzare officine mobili presso le aziende o punti di raccolta che facilitino il conferimento delle macchine agricole oggetto di revisione;
  • a prevedere meccanismi che consentano la rottamazione delle macchine agricole più obsolete con tariffe e procedure semplificate che incentivino l’eliminazione delle macchine più pericolose;
  • a prevedere tariffe di revisione che favoriscano l’avvio della campagna tenendo anche conto della difficile situazione economica delle imprese;
  • per quanto riguarda i finanziamenti, a incrementare, da parte del Governo e degli enti strumentali (INAIL), i fondi per i bandi specifici per la revisione delle macchine agricole, oltre a stabilire una relazione con le Regioni affinché i Piani di sviluppo rurale inseriscano nella specifica della misura 17 le revisioni delle macchine agricole come misura di ammodernamento delle imprese ed incremento della sicurezza sul lavoro.

Inoltre per quanto concerne la formazione degli operatori la risoluzione impegnava il Governo a:

  • a rafforzare le sperimentazioni realizzate anche in collaborazione con l’INAIL e il Ministero del lavoro, dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca negli istituti tecnici-agrari con l’obiettivo di rendere istituzionalizzato il conseguimento del patentino;
  • a verificare tutte le possibilità per favorire la formazione all’uso dei trattori come strumenti di lavoro con tariffe adeguate, prendendo parte eventualmente a stabilire relazioni fra soggetti formatori e produttori di macchine agricole per un utilizzo migliore della disponibilità data dai produttori a fornire le macchine per la formazione;

Infine per quanto riguarda la revisione delle macchine agricole e la formazione degli operatori la risoluzione impegnava il Governo a:

  • prevedere dei punti di controllo per verificare l’andamento dei processi e la necessita di aggiustamenti o di nuove norme (in particolare, per quanto riguarda la formazione sarà importante verificare la necessita di adeguare i programmi, anche per una più completa integrazione e formazione della manodopera straniera molto presente nel settore).

Ricordiamo che il decreto del 20 maggio 2015 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.149 del 30 giugno 2015) ha stabilito i tempi per procedere alla revisione obbligatoria delle macchine agricole e delle macchine operatrici.

Tuttavia le modalità di esecuzione della revisione (articolo 5, comma 1) dovranno essere definite con un Decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, ed è con questo Decreto che si dovrà corrispondere alle altre richieste del Parlamento.

 

E poi si tratterà di monitorare attentamente il processo per intervenire in caso di intoppi e rallentamenti ed inoltre bisognerà favorire in tutti i modi sia il processo di revisione che quello della formazione.

Segnaliamo in conclusione che il Decreto prevede che i trattori agricoli siano sottoposti a revisione generale “a far data dal 31 dicembre 2015 e, successivamente, ogni 5 anni, entro il mese corrispondente alla prima immatricolazione secondo l’anno stabilito nella tabella” di cui all’allegato 1 del Decreto Ministeriale.

Mentre le altre macchine agricole semoventi a due o più assi e i rimorchi agricoli (aventi massa complessiva a pieno carico superiore a 1,5 tonnellate e con massa complessiva inferiore a 1,5 tonnellate, se le dimensioni d’ingombro superano i 4 metri di lunghezza e 2 metri di larghezza) sono sottoposte a revisione generale obbligatoria a far data dal 31 dicembre 2017.

 

E’ diversa invece la data per alcune particolari macchine operatrici:

  • macchine impiegate per la costruzione e la manutenzione di opere civili o delle infrastrutture stradali o per il ripristino del traffico;
  • macchine sgombraneve, spartineve o ausiliarie, quali spanditrici di sabbia e simili;
  • carrelli, quali veicoli destinati alla movimentazione di cose.

Queste macchine sono sottoposte alla revisione generale a far data dal 31 dicembre 2018.

Senza dimenticare, infine, che riguardo alla formazione professionale per il conseguimento dell’abilitazione all’uso delle macchine agricole, il Decreto rinvia a quanto già stabilito dall’ Accordo Stato-Regioni del 22 febbraio 2012, concernente l’individuazione delle attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori, nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione, i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di validità della formazione, in attuazione dell’articolo 73, comma 5, del Decreto Legislativo del 9 aprile 2008, n.81.

E anche in questo caso è da segnalare la scadenza del 31 dicembre 2015.

E’ infatti in questa data che (dopo le proroghe del “Decreto del Fare”: Legge n.98/13 e della Legge 11/15) è entrato in vigore l’obbligo dell’abilitazione all’uso delle macchine agricole considerate nell’Accordo del 22 febbraio 2012.

L’Intervento della senatrice Maria Grazia Gatti al convegno “Salute e sicurezza in agricoltura e selvicoltura. Le prospettive. Il piano 2014-2018” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151230_Sicurezza_agricoltura_gatti.pdf

Il Decreto 20 maggio 2015 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti “Revisione generale periodica delle macchine agricole ed operatrici, ai sensi degli articoli 111 e 114 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285” è consultabile all’indirizzo:

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/06/30/15A04679/sg

 

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L’ESORBITANZA NEL COMPORTAMENTO DEL LAVORATORE INFORTUNATO

 

Da: PuntoSicuro

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11 gennaio 2016

di Gerardo Porreca

 

Nel concetto di esorbitanza del comportamento del lavoratore infortunato vanno incluse l’inosservanza di norme antinfortunistiche e una condotta contraria a precise direttive organizzative ricevute.

 

In questa Sentenza la Corte di Cassazione ha focalizzata la propria attenzione sui limiti di responsabilità del datore di lavoro e su quando il comportamento del lavoratore che ha subito un infortunio costituisce una evidente causa interruttiva del nesso causale fra una omissione del datore di lavoro stesso e l’evento lesivo, argomento sul quale per la verità la suprema Corte non sembra aver trovato una linea comune, univoca e condivisa.

Pur se il criterio idoneo a discriminare il comportamento anomalo del lavoratore da quello che non lo è, ha sostenuto nella Sentenza stessa la Corte suprema, è basato sullo svolgimento delle proprie mansioni nel concetto di esorbitanza vanno incluse anche l’inosservanza a precise norme antinfortunistiche o la condotta del lavoratore contraria a precise direttive organizzative ricevute sempre a condizione che tale comportamento non risulti determinato da carenze o inidoneità delle norme di sicurezza adottate dal datore di lavoro.

La Corte di Appello ha riformato, con esclusivo riferimento alla concessione delle circostanze attenuanti generiche e rideterminazione della pena in quindici giorni di reclusione, la pronuncia di condanna emessa dal Tribunale nei confronti di un datore di lavoro, imputato del reato previsto dall’articolo 590 del Codice Penale in relazione all’articolo 583 del Codice Penale perché, nella sua qualità, per colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia e inosservanza delle norme dettate per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in particolare per violazione dell’articolo 68 del D.P.R.547/55, omettendo di proteggere o comunque di dotare di idoneo dispositivo di sicurezza gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, ha cagionato ad una dipendente, con la qualifica di operaia addetta al reparto frigo, lesioni personali guaribili in 92 giorni.

L’infortunio era accaduto mentre la lavoratrice svolgeva mansioni di addetta a una foratrice allorquando questa si è inceppata a causa di una basetta facente parte del macchinario che si era incastrata nei meccanismi di trazione. In particolare la lavoratrice, nonostante fosse a conoscenza della procedura idonea a sbloccare la foratrice in sicurezza, ha preso un cacciavite e ha infilato la mano, protetta dal guanto, in un piccolo varco presente nel recinto di protezione in plexiglas posto a copertura degli ingranaggi del macchinario. Una volta sbloccato il meccanismo, la foratrice si è riattivata agganciando il guanto di protezione e trascinando la mano della lavoratrice stessa tra gli ingranaggi, con conseguente frattura esposta del terzo dito della mano destra.

Il datore di lavoro ha ricorso per Cassazione censurando la decisione impugnata sostenendo che la Corte di Appello avesse desunto la sua colpa dalla violazione di una generica norma cautelare, ossia dall’aver omesso di adottare la cautela di impedire l’avvicinamento della lavoratrice alla zona di operazione della macchina, mentre l’imputazione si riferiva alla specifica norma cautelare dettata dall’articolo 68 del D.P.R.547/55 che prevede che “gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, quando possono costituire un pericolo per i lavoratori, devono, per quanto possibile, essere protetti o segregati oppure provvisti di dispositivo di sicurezza”.

Secondo il ricorrente, quindi, il Giudice avrebbe dovuto accertare in concreto l’avvenuta violazione della più generica regola cautelare così identificata e avrebbe dovuto altresì motivare l’insufficienza della barriera protettiva di plexiglas posta attorno alla macchina, tanto sotto il profilo dell’inidoneità della decisione aziendale di posizionare tale barriera alla distanza di almeno 85 centimetri dagli ingranaggi quanto sotto il profilo del posizionamento del varco di 10 centimetri a un’altezza tale da rendere necessaria una condotta positiva del lavoratore finalizzata al superamento dell’ostacolo costituito dalla posizione in quota della predetta fessura.

Nel ricorso l’imputato ha riscontrato, altresì, una violazione della legge penale sostanziale con riferimento ai principi che regolano l’individuazione della violazione di una regola cautelare. Premesso che l’infortunio era stato causato da una deliberata decisione della lavoratrice, munitasi di un cacciavite e arrampicatasi sui caricatori della macchina per accedere per il tramite di un varco di dieci centimetri alla zona meccanica della macchina, il ricorrente ha sostenuto l’erroneità della decisione di ritenere penalmente rilevante la condotta del datore di lavoro per aver tratto dall’articolo 2087 del Codice Civile il suo dovere di garantire la sicurezza assoluta dei lavoratori, per aver trascurato che la presenza dei varco di dieci centimetri costituiva una condizione essenziale per il funzionale esercizio della macchina e che la segregazione richiesta dall’articolo 68 del D.P.R.547/55 è imposta “per quanto possibile”, per avere altresì omesso di considerare il legittimo affidamento dell’imputato nel comportamento della dipendente conforme alle direttive ricevute, desumibile dall’obbligo diffuso che grava su tutti i soggetti dell’organizzazione aziendale, ivi inclusi i lavoratori a norma dell’articolo 20 del D.Lgs.81/08, a carico dei quali sono previste sanzioni penali in caso di inosservanza delle direttive comportamentali derivanti da soggetti apicali, per avere ritenuto che la condotta della lavoratrice rientrasse nel segmento lavorativo attribuitole nonostante si trattasse di condotta difforme dalle direttive di organizzazione ricevute ed esorbitante dalle mansioni attribuitele e per avere infine omesso di applicare il principio secondo il quale il vigente sistema penale non assicura la sua protezione a chi, nella piena consapevolezza del pericolo, si espone per propria decisione ad esso.

Il ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione. E’ risultata pacifica e condivisa, ha messo in evidenza la Corte suprema, la circostanza che la lavoratrice fosse stata adeguatamente informata sulle procedure che, in assoluta sicurezza e senza rischio alcuno per la sua incolumità, le avrebbero consentito di fronteggiare la situazione da cui si è originato l’infortunio. La stessa, infatti, per accedere alla macchina avrebbe dovuto aprire la porta di sicurezza, dotata di dispositivo di blocco del funzionamento all’apertura, ovvero chiamare l’addetto alla manutenzione. Nella Sentenza inoltre, ha fatto osservare la Sezione IV, è stato riportato quanto dalla stessa dichiarato e cioè che aveva già operato in precedenti analoghe occasioni nel rispetto delle prescrizioni di sicurezza.

E’ risultata pacifica, inoltre, la circostanza che il varco nel quale la lavoratrice ha infilato il braccio fosse funzionale al processo produttivo e che gli organi lavoratori della macchina fossero integralmente protetti e segregati, fatta eccezione per il suindicato varco, da un recinto di protezione. Sulla base di tali premesse la Corte territoriale, a differenza del Tribunale, non aveva ravvisata la violazione della specifica regola cautelare contestata, ossia quella di cui all’articolo 68 del D.P.R.547/55, ma ha confermata la pronuncia di condanna sussumendo la violazione nella generale norma prevenzionale dettata dall’articolo 2087 del Codice Civile secondo la quale l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

In merito al nesso di causalità, ha fatto notare altresì la Sezione IV, la Corte territoriale aveva escluso che il comportamento della lavoratrice avesse avuto effetto interruttivo sul presupposto che l’infortunio era riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta, essendo la dipendente addetta al controllo della macchina foratrice ed essendosi l’infortunio verificato all’interno del ciclo produttivo, e che la lavoratrice aveva compiuto un’operazione rientrante nel segmento di lavoro attribuitole. Secondo la stessa Corte territoriale quindi il comportamento della lavoratrice non è consistita in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e pertanto prevedibili scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro, ma è stato solo un gesto imprudente compiuto nell’esercizio delle proprie mansioni lavorative.

La Corte di Cassazione al fine di valutare la legittimità delle argomentazioni svolte in proposito dai giudici di merito ha ritenuto opportuno richiamare in sintesi alcuni principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in tema di condotta cosiddetta abnorme del lavoratore, da valutare in applicazione dell’articolo 41, comma 2 del Codice Penale, a norma del quale il nesso eziologico può essere interrotto da una causa sopravvenuta che si presenti come atipica, estranea alle normali e prevedibili linee di sviluppo della serie causale attribuibile all’agente e costituisca, quindi, un fattore eccezionale.

La Corte di Cassazione ha quindi messo in evidenza che nelle decisioni assunte precedentemente in merito dalla stessa Corte “se da un lato, è stato posto l’accento sulle mansioni del lavoratore, quale criterio idoneo a discriminare il comportamento anomalo da quello che non lo è, nel concetto di esorbitanza si è ritenuto di includere anche l’inosservanza di precise norme antinfortunistiche, ovvero la condotta del lavoratore contraria a precise direttive organizzative ricevute, a condizione che l’infortunio non risulti determinato da assenza o inidoneità delle misure di sicurezza adottate dal datore di lavoro”.

“In sintesi” – ha così proseguito la Sezione IV – “si può cogliere nella giurisprudenza di legittimità la tendenza a considerare interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore non solo quando essa si collochi in qualche modo al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso, ma anche quando, pur collocandosi nell’area di rischio, sia esorbitante dalle precise direttive ricevute e, in sostanza, consapevolmente idonea a neutralizzare i presidi antinfortunistici posti in essere dal datore di lavoro; quest’ultimo, dal canto suo, deve aver previsto il rischio e adottato le misure prevenzionistiche esigibili in relazione alle particolarità del lavoro”.

Dai principi così richiamati, ha così concluso la suprema Corte, si può, dunque, sviluppare il seguente corollario: “si deve ritenere abnorme o, comunque, eccezionale e, in quanto tale, idoneo a interrompere il nesso di causa tra la condotta datoriale e l’evento il comportamento del lavoratore esorbitante dalle precise direttive impartitegli, così qualificabile qualora, per la serie di operazioni messe in atto al fine di superare le barriere poste a presidio della sua sicurezza, riveli la piena consapevolezza di violare le prescrizioni datoriali ponendo inoltre in essere, come nel caso in esame, una condotta, ex se, fonte di pericolo (nella concreta fattispecie, la lavoratrice si era addirittura arrampicata sui bidoni di alimentazione del macchinario allungandosi per raggiungere in quota una piccola feritoia di 10 centimetri in cui infilare una mano con la quale impugnava un cacciavite, e ciò in assenza di qualsiasi esigenza tecnica che rendesse necessaria una così azzardata ed anomala e dunque imprevedibile manovra)”.

Alla luce in definitiva dei principi sopra indicati la Corte di Cassazione ha ritenuta quindi la pronuncia impugnata viziata dalla violazione dell’articolo 41, comma 2 del Codice Penale, laddove si è ritenuto che il comportamento della lavoratrice non fosse qualificabile come causa sopravvenuta sufficiente a determinare l’evento, nonostante fosse stato accertato che il datore di lavoro avesse adottato le misure prevenzionistiche funzionali a segregare gli organi lavoratori della macchina e avesse adeguatamente informato e formato la lavoratrice in merito ai comportamenti da adottare qualora si fosse verificato l’inceppamento del macchinario al quale era addetta e nonostante fosse stato accertato che la lavoratrice avesse violato le direttive ricevute mettendo in atto una serie di operazioni (prendere un cacciavite, raggiungere allungandosi il varco di dieci centimetri presente nel recinto segregatore e infilarvi il braccio) rivelatrici della piena consapevolezza di violare tali direttive.

Pertanto la Corte di Cassazione ha annullata la Sentenza impugnata senza rinvio “perché le pacifiche acquisizioni istruttorie enunciate nel provvedimento non consentivano di pervenire alla condanna, in presenza di una evidente causa interruttiva del nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e l’evento infortunistico ascrittogli”.

La Sentenza n.4890 del 2 febbraio 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=12580:2015-02-12-18-11-37&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

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Non asfaltiamo il futuro

2016.01.25 Parma - Sì al TI-BRE ferroviario e ciclabile - Locandina-programmaLunedì 25 Gennaio presso l’Auditorium Toscanini di Parma si terrà l’evento “Non asfaltiamo il futuro. No al TI-BRE autostradale. Sì al TI-BRE ferroviario e ciclabile”.

Tra i promotori la Sezione ISDE di Parma, il cui Presidente, Manrico Guerra, interverrà.

L’articolo Non asfaltiamo il futuro sembra essere il primo su ISDE.

Malattie da inquinamento dell’aria e rischi per la salute legati agli inceneritori

InquinamentoAtmosferico_316x180_6Sabato 16 Gennaio 2016 dalle ore 9:30 alle 13:00 si svolgerà il primo seminario “Ambiente e Salute” promosso da ISDE Chieti e dall’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Chieti.


L’argomento verterà su “Malattie da inquinamento dell’aria e rischi per la salute legati agli inceneritori” e si terrà presso l’Ordine dei Medici di Chieti (Via D. Spezioli 56, Scala L).
Scarica il programma.

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.239 DEL 13/01/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.239 DEL 13/01/16

 

INDICE

  • Le “Frequently Asked Questions” di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights! – n.8
  • Aumento dell’età pensionabile: una questione di vita o di morte
  • La gestione della sicurezza negli appalti
  • Scegliere i dispositivi di protezione dei piedi più idonei
  • Le conseguenze della normativa sulle malattie professionali
  • I rischi organizzativi e psicosociali nelle strutture ospedaliere

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO – KNOW YOUR RIGHTS! – N.8

 

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.

In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.

Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.

Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

 

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DOMANDA

Buongiorno,

una domanda: ieri sono andata a prendere il registro degli infortuni da gennaio a ora (tantissimi) che servono per la relazione di fine anno e mi è stato detto che non possono darmi la copia ma li devo trascrivere.

E’ possibile questo?

Ci vogliono dieci ore a trascrivere tutto.

Mi fai sapere?

Grazie.

 

RISPOSTA

Ciao Adriana,

sollevi un problema spinoso, che è stato oggetto da tempo di dibattito senza arrivare ancora a una risoluzione legislativamente definitiva.

Partiamo dal D.Lgs.81/08 che afferma all’articolo 18, comma 1, lettera o) (obblighi sanzionabili a carico del datore di lavoro e dei dirigenti):

Il datore di lavoro […], e i dirigenti […] devono consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a) [documento di valutazione dei rischi], anche su supporto informatico come previsto dall’articolo 53, comma 5, nonché consentire al medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera r); il documento è consultato esclusivamente in azienda”.

La lettera r) a cui fa riferimento la lettera o) afferma poi che:

Il datore di lavoro […], e i dirigenti […] devono comunicare in via telematica all’INAIL […] i dati e le informazioni relativi agli infortuni sul lavoro che comportino l’assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell’evento e, a fini assicurativi, quelli relativi agli infortuni sul lavoro che comportino un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni […]”.

L’articolo 50, comma 1, lettera e) del medesimo Decreto (attribuzioni dei RLS) afferma poi che:

Fatto salvo quanto stabilito in sede di contrattazione collettiva, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali”.

Quindi, secondo il Decreto, è evidente che il RLS debba ricevere la documentazione aziendale relativa a salute e sicurezza, tra cui il registro infortuni.

Il problema si pone sulle modalità di consegna, in quanto il citato articolo 18, comma 1, lettera o), relativamente al documento di valutazione dei rischi, ma la cui “ratio” si può estendere al resto della documentazione da consegnare al RLS, afferma che “il documento è consultato esclusivamente in azienda”.

Cosa significhi nella pratica ciò non è stato ancora specificato, in modo univoco in sede legislativa.

Non è stato quindi ancora specificato se consegna e la consultazione prevede solo la mera disponibilità dei documenti in azienda senza però che essi possano essere fotocopiati o portati fuori della azienda, oppure se sussiste quest’ultima possibilità.

La Commissione interpelli (Interpello in materia di sicurezza n.52 del 19 dicembre 2008) alla specifica domanda riguardante la “possibilità di consegna al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza del documento di valutazione dei rischi unicamente su supporto informatico” ha dato la seguente risposta:

Non essendo prevista alcuna formalità per la consegna del documento, l’adempimento all’obbligo di legge è comunque garantito mediante consegna dello stesso su supporto informatico, anche se utilizzabile solo su terminale video messo a disposizione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza giacché tale modalità, consentendo la disponibilità del documento in qualsiasi momento ed in qualsiasi area all’interno dei locali aziendali, non pregiudica lo svolgimento effettivo delle funzioni del RLS”.

Che sinceramente non chiarisce molto la questione, anche se afferma la necessità della “disponibilità del documento in qualsiasi momento ed in qualsiasi area all’interno dei locali aziendali”.

Più chiarificatrice (e decisamente più orientata a una garanzia reale delle attribuzioni del RLS) è la Sentenza del 29 gennaio 2010 della Sezione Lavoro del Tribunale Ordinario di Milano che a tale proposito ha affermato che:

Ad ogni modo, poiché il ruolo del RLS all’interno dell’azienda è posto a presidio e controllo della salvaguardia di intessi di primaria importanza, quali sono quelli relativi alla salute dei lavoratori ne deriva che il datore di lavoro dovrà consentire al RLS la consultazione del DVR per tutto il tempo che sarà necessario, tenuto conto della eventuale complessità del documento stesso. Non è dunque controvertibile il fatto che il datore di lavoro abbia l’obbligo di consegna del DVR al RLS; ciò che è cambiato è la possibilità alternativa per il RLS di richiedere in quale forma preferisca consultare il documento stesso”.

Al di là dell’affermazione di cui sopra, tale Sentenza ha valore particolarmente significativo poiché conferma il decreto ingiuntivo con cui il RLS aziendale aveva chiesto di poter consultare il DVR al di fuori della azienda e quindi, eventualmente di fotocopiarlo.

In conclusione, io mi rifarei a quest’ultima Sentenza (che però non sono sicuro che sia passata in giudicato), chiedendo alla tua azienda di poter consultare il Registro infortuni anche al di fuori dell’azienda oppure di fotocopiarlo.

Attenzione però che grazie al Governo Renzi, a seguito dei Decreti attuativi del Jobs Act decade l’obbligo di tenuta del Registro infortuni, in quanto uno di tali Decreti ha modificato l’articolo 53, comma 6 del D.Lgs.81/08 (tenuta delle documentazione) abrogando il periodo relativo alla tenuta del Registro infortuni.

Va osservato che l’abolizione del registro infortuni non esime il datore di lavoro e i dirigenti delle aziende di dotarsi di uno strumento di monitoraggio del fenomeno infortunistico, in quanto rimangono invariati l’articolo 18, comma 1, lettera r) (comunicazione in via telematica all’INAIL delle informazioni sugli infortuni che comportano l’assenza di almeno un giorno escluso quello dell’infortunio) e 35, comma 2, lettera b) (esame nell’ambito della riunione annuale del fenomeno infortunistico) del D.Lgs.81/08.

A tua disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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DOMANDA

Ciao,

nel mio ufficio (Poste) hanno fatto dei lavori edili per nuovi servizi, riducendo lo spazio per noi portalettere.

A me pare che esista uno spazio previsto, ma non ne sono sicuro.

Forse varia da lavoro a lavoro…

 

RISPOSTA

Ciao,

le dimensioni minime degli ambienti di lavoro a livello generale sono definite dal D.Lgs.81/08 (Decreto).

Il loro rispetto costituisce un obbligo sanzionabile a carico del datore di lavoro.

L’articolo 64, comma 1, lettera a) del Decreto impone infatti che:

Il datore di lavoro provvede affinché i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all’articolo 63, commi 1, 2 e 3”.

In particolare l’articolo 63, comma 1 impone poi che

I luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti indicati nell’allegato IV”.

Il mancato adempimento dei contenuti dell’allegato IV del Decreto e, di conseguenza, dell’articolo 64, comma 1 è sanzionato per datore di lavoro e dirigenti dall’articolo 68, comma 1, lettera b) del Decreto con l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.000 a 4.800 euro.

In merito agli spazi minimi degli ambienti di lavoro il punto 1.2 dell’allegato IV del Decreto, che riporto per intero, stabilisce che:

1.2. ALTEZZA, CUBATURA E SUPERFICIE

1.2.1. I limiti minimi per altezza, cubatura e superficie dei locali chiusi destinati o da destinarsi al lavoro nelle aziende industriali che occupano più di cinque lavoratori, ed in ogni caso in quelle che eseguono le lavorazioni che comportano la sorveglianza sanitaria, sono i seguenti:

1.2.1.1. altezza netta non inferiore a 3 metri;

1.2.1.2. cubatura non inferiore a 10 metri cubi per lavoratore;

1.2.1.3. ogni lavoratore occupato in ciascun ambiente deve disporre di una superficie di almeno 2 metri quadri.

1.2.2. I valori relativi alla cubatura e alla superficie si intendono lordi cioè senza deduzione dei mobili, macchine ed impianti fissi.

1.2.3. L’altezza netta dei locali è misurata dal pavimento all’altezza media della copertura dei soffitti o delle volte.

1.2.4. Quando necessità tecniche aziendali lo richiedono, l’organo di vigilanza competente per territorio può consentire altezze minime inferiori a quelle sopra indicate e prescrivere che siano adottati adeguati mezzi di ventilazione dell’ambiente. L’osservanza dei limiti stabiliti dal presente articolo circa l’altezza, la cubatura e la superficie dei locali chiusi di lavoro è estesa anche alle aziende industriali che occupano meno di cinque lavoratori quando le lavorazioni che in esse si svolgono siano ritenute, a giudizio dell’organo di vigilanza, pregiudizievoli alla salute dei lavoratori occupati.

1.2.5. Per i locali destinati o da destinarsi a uffici, indipendentemente dal tipo di azienda, e per quelli delle aziende commerciali, i limiti di altezza sono quelli individuati dalla normativa urbanistica vigente.

1.2.6. Lo spazio destinato al lavoratore nel posto di lavoro deve essere tale da consentire il normale movimento della persona in relazione al lavoro da compiere”.

Il punto 1.2.1 specifica che tali limiti sono validi “per aziende industriali che occupano più di cinque lavoratori, ed in ogni caso in quelle che eseguono le lavorazioni che comportano la sorveglianza sanitaria”. Pertanto visto che le Poste non sono aziende industriali, essi si applicano solo nel caso in cui siate sottoposti a sorveglianza sanitaria, anche in merito all’utilizzo dei videoterminali.

Negli altri casi (aziende non industriali e senza sorveglianza sanitaria, si applicano le prescrizioni impartite dai regolamenti urbanistici locali (punto 1.2.5).

In ogni caso gli spazi di lavoro devono essere tali da consentire piena libertà di movimento ai lavoratori (punto 1.2.6).

Immagino che i lavori di ristrutturazione siano stati svolti a seguito di progetto realizzato da professionista e che sia stata richiesta autorizzazione a costruire al Comune competente.

Pertanto ritengo che i limiti imposti dai regolamenti edilizi siano stati rispettati.

Provate però a fare una verifica in tal senso.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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DOMANDA

Salve,

nella nostra azienda si sta valutando la possibilità di introdurre il lavoro notturno per la gestione della centrale termica (attualmente affidata in appalto).

Le volevo chiedere se per cortesia mi può far sapere quali sono gli enti competenti che si occupano delle normative vigenti per la conduzione del lavoro notturno, in modo da poterli interpellare e avere delucidazioni in merito.

Grazie.
Saluti.

 

RISPOSTA

Ciao,

per tutto quanto attiene alla normativa di sicurezza sul lavoro (cioè le norme contenute all’interno del D.Lgs.81/08 “Testo Unico” sulla sicurezza) l’organismo pubblico di controllo è il settore Prevenzione Salute e Sicurezza sui Luoghi di Lavoro della ASL competente per territorio, i cui ispettori sono Ufficiali di Polizia Giudiziaria.

Per quanto invece attiene al rispetto della normativa sull’orario di lavoro (il D.Lgs.66/03) il controllo spetta all’Ispettorato del Lavoro competente per territorio, i cui ispettori sono pure Ufficiali di Polizia Giudiziaria.

Poiché le modifiche organizzative che intende adottare la tua azienda impattano su entrambi gli aspetti, io farei ricorso a entrambi gli Enti.

Tieni presente che, trattandosi di modifiche organizzative che toccano pesantemente gli aspetti di salute e sicurezza dei lavoratori, la tua azienda è obbligata a modificare il documento di valutazione dei rischi, analizzando cosa comporta la modifica relativamente ai rischi per la salute e la sicurezza e definendo misure di prevenzione e protezione per eliminare o ridurre l’aumento del rischio.

Il riferimento normativo è l’articolo 29, comma 3 del D.Lgs.81/08 che stabilisce che:

La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate. Nelle ipotesi di cui ai periodi che precedono il documento di valutazione dei rischi deve essere rielaborato, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, nel termine di trenta giorni dalle rispettive causali. Anche in caso di rielaborazione della valutazione dei rischi, il datore di lavoro deve comunque dare immediata evidenza, attraverso idonea documentazione, dell’aggiornamento delle misure di prevenzione e immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.

Ovviamente nella modifica del documento di valutazione dei rischi deve essere coinvolto, come specificato esplicitamente nel dettato normativo di cui sopra anche il Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Un caro saluto.

Marco

 

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DOMANDA

Ciao Marco,

ho visto sulla tua Newsletter l’articolo “Visite mediche a seguito di assenza lunga malattia” e avrei bisogno di un chiarimento su tale aspetto.

Mia moglie è stata in malattia più di 60 giorni per una frattura al polso sinistro per una caduta accidentale in un giorno festivo.

Mia moglie rientra lunedì prossimo, per cui volevo avere una dritta sulla procedura.

Non vorrei che il lunedì, non essendoci il medico competente in azienda, la rimandino a casa senza essere retribuita e con proprie ferie.

Grazie, ciao.

 

RISPOSTA

Ciao,

la visita medica a seguito di lunga assenza dal lavoro per motivi di salute è regolamentata dall’articolo 41, comma 2, lettera e-ter), che stabilisce che:

La sorveglianza sanitaria comprende […] visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione”.

La “ratio” del disposto legislativo è quella di stabilire se un lavoratore a seguito di una lunga assenza per motivi di salute (a seguito di malattia o di infortunio) sia ancora idoneo fisicamente a svolgere il lavoro specifico della sua mansione.

E’ compito del medico competente stabilire se la lunga assenza dal lavoro e la patologia che l’ha causata possano avere annullato o ridotto la idoneità del lavoratore a svolgere i compiti lavorativi propri della sua mansione, a fronte dei rischi specifici della mansione stessa.

Mi spiego con due esempi.

Se un videoterminalista (che svolge la sua mansione in un ambiente climaticamente adeguato, cioè con adeguato impianto di riscaldamento) manca per più di 60 giorni per una polmonite, il medico competente non potrà che, una volta acquisiti i referti medici relativi alla malattia, confermare l’idoneità del lavoratore alla sua mansione specifica che non comporta (a seguite della adeguata climatizzazione degli ambienti di lavoro) rischi di natura climatica fredda.

Se, al contrario, un addetto al magazzino (che svolge la sua mansione con ripetuti sollevamenti di carichi pesanti) manca per più di 60 giorni per un’ ernia discale, il medico competente dovrà, una volta acquisiti i referti medici relativi alla malattia, verificare se lo stato di salute del lavoratore sia già in grado di riprendere un’attività lavorativa potenzialmente a rischio per la colonna vertebrale interessata dalla patologia, esprimendo, in alternativa un giudizio di non idoneità totale, oppure di idoneità totale, oppure ancora di idoneità con prescrizione (non sollevare più di…kg).

Pertanto non ci sono regole assolute, ma solo relative alla patologia subita e alla mansione svolta.

E questo lo può stabilire solo il medico competente.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Un caro saluto.

Marco

 

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NOTA

Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:

ASL = Azienda Sanitaria Locale

CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro

DPI = Dispositivi di Protezione Individuali

DVR = Documento di Valutazione dei Rischi

DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto

RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione

RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza

D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)

 

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AUMENTO DELL’ETA’ PENSIONABILE: UNA QUESTIONE DI VITA O DI MORTE

 

Da La Città Futura

http://www.lacittafutura.it

 

8 Gennaio 2016

di Carmine Tomeo

 

Sotto il governo guidato dal segretario del PD, Matteo Renzi aumenta ancora l’età pensionabile.

Si dirà che questo è l’effetto della riforma Fornero. Ma quella riforma era nata con il cosiddetto governo tecnico di Mario Monti, sostenuto anche dal PD. E soprattutto, PD e alleati di centrodestra quella riforma non si sono mai sognati di modificarla. D’altronde, l’attuale Presidente del Consiglio è quello che nel 2013, poche settimane prima di assumere l’incarico di segretario del PD e a pochi mesi dall’inizio del suo mandato, senza titubanze affermava che “è naturale in un Paese che vive 20 anni in più rispetto al passato che si lavori qualche anno in più”.

Il risultato? In Italia aumentano i morti come fossimo in guerra. Il bilancio demografico dell’ISTAT mostra un aumento del numero di decessi nel 2015 di 68.000 unità in più rispetto al 2014, che trova ordini di grandezza comparabili, appunto, solo con gli anni di guerra.

 

Detto, fatto.

Da quest’anno si dovrà lavorare 4 mesi in più prima di poter andare in pensione. In questo modo, gli uomini, siano essi dipendenti o lavoratori autonomi, potranno andare in pensione all’età di 66 anni e 7 mesi, le donne, a 65 anni e 7 mesi per le lavoratrici del settore privato e a 66 anni e un mese per le lavoratrici autonome.

 

Provate a immaginare un uomo quasi settantenne su un ponteggio a mettere su mattoni o a spostare sacchi di cemento; oppure una donna ultrasessantenne costretta otto ore in piedi, assumere posizioni anche scomode per assemblare pezzi in serie ripetendo freneticamente la stessa operazione centinaia di volte al giorno.

Provate ad immaginare un’infermiera a 65 anni sollevare di peso e accudire pazienti anche più pesanti di lei; oppure un autotrasportatore di 66 anni costretto a lunghi ed estenuanti viaggi per consegnare merci qua e là lungo la Penisola e oltre.

 

Nel libro-intervista “La lotta di classe, dopo la lotta di classe”, Luciano Gallino spiegava che “La fatica non uccide sul colpo, ma peggiora la vita e l’accorcia”.

Il sociologo torinese affermava, dati alla mano, che la fatica da lavoro spiega un accorciamento della speranza di vita: “L’esistenza di forti disuguaglianze nella speranza di vita a danno delle persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso reddito e modesta posizione sociale è ampiamente documentata nella letteratura internazionale”.

Si arriva quindi a “una inaccettabile redistribuzione di risorse a scapito delle persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso reddito e modesta posizione sociale, risorse che vengono riversate sui gruppi sociali più avvantaggiati”, affermava Gallino.

E questo è un chiaro “indicatore di classe”.

 

Ecco, vista così, non è poi così naturale, come afferma Renzi, andare in pensione più tardi, mentre è palese l’attacco padronale contro quelle classi sociali più deboli fatte di persone che per il lavoro che svolgono vedono accorciata la loro speranza di vita; e che sono costrette a condizioni di vita, durante gli anni della pensione, sempre più drammatiche.

Dopo anni vissuti a lavorare subendo carichi e ritmi di lavoro sempre più intensi, i pensionati si ritrovano con schiene affaticate, braccia doloranti, malattie professionali. E con una pensione che troppo spesso non permette l’accesso alle cure mediche.

L’ultimo rapporto INPS (2014) mostra che quasi 5 milioni e mezzo di pensionati per vecchiaia percepisce mediamente poco più di 700 euro al mese. Soldi che spesso non sono sufficienti nemmeno per una vita dignitosa, specie con i tagli alla spesa sociale che sistematicamente e con cinismo vengono portati avanti da governi filo padronali.

 

Il risultato? Come detto, in Italia aumentano i morti come fossimo in guerra.

E’ presto per spiegare compiutamente il fenomeno, ma Gian Carlo Blangiardo, docente di demografia presso l’Università di Milano Bicocca, lancia un allarme. Secondo il professor Blangiardo, la rilevazione dell’ISTAT deve essere consegnata “alla riflessione sia del mondo scientifico, sia di quello della politica, della pubblica amministrazione e del welfare”. Siamo infatti di fronte ad “un evento straordinario che richiama alla memoria l’aumento della mortalità nei Paesi dell’Est Europa nel passaggio dal comunismo all’economia di mercato: un déjà vu che non vorremmo certo rivivere”.

Quell’economia di mercato la cui logica trova applicazione nei provvedimenti di governi nazionali come quello italiano che applicano servilmente i memorandum della troika. Provvedimenti che si traducono in tagli anche a settori essenziali come la sanità pubblica. Una politica, ricorda ancora Blangiardo, che “può avere effetti molto pesanti sul già fragile sistema demografico”.

 

Un altro dato dovrebbe fare riflettere chi, come Renzi, sostiene che è naturale aumentare l’età pensionabile: i morti sul lavoro.

Fino a tutto il mese di ottobre del 2015, sono stati denunciati 185 infortuni con esito mortale di lavoratori tra i 55 e i 64 anni e 79 di lavoratori di oltre 65 anni di età. Questo dato, in rapporto agli occupati delle stesse classi di età, si traduce con la macabra statistica di 7 morti ogni 100.000 lavoratori nella fascia di età tra i 55 ed i 64 anni e di 21 morti sul lavoro ogni 100.000 lavoratori che, compiuti 65 anni, anziché godersi una meritata pensione, la mattina si alzano per andare al lavoro.

La statistica fredda e spietata mostra che i lavoratori con più di 64 anni di età sono vittime di infortuni mortali con una frequenza maggiore di 5 volte rispetto a chi ha non più di 54 anni e addirittura 23 volte rispetto a lavoratori che hanno un’età compresa tra i 25 ed i 34 anni.

E siamo di fronte a cifre che sono confermate anno dopo anno e che sarebbero anche peggiori se non ci fermassimo a leggere i dati ufficiali dell’INAIL, visto che questi riguardano solo i lavoratori assicurati a quell’ente. Ma ciò dimostra il fatto che costringere al lavoro persone in età avanzata significa esporre cinicamente i lavoratori al serio rischio di abbandonare il posto di lavoro stesi dentro una bara.

 

E’ in un quadro così macabro che il governo guidato dal segretario del PD permette ancora l’innalzamento dell’età pensionabile.

C’è di che riflettere.

Soprattutto, c’è da incazzarsi e da cominciare ad organizzare una seria di risposta all’attacco di classe del padronato e dei governi suoi amici. E’ proprio il caso di dire che è una questione di vita o di morte.

 

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LA GESTIONE DELLA SICUREZZA NEGLI APPALTI

 

Da FILCAMS CGIL Lombardia

http://www.rlsfilcams-lombardia.org

 

Nella FILCAMS è un tema spesso sottovalutato dagli stessi lavoratori e delegati e di conseguenza anche dai funzionari, troppo impegnati nell’affrontare la quotidianità fatta di riduzioni di ore, mancati pagamenti continui cambi di datori di lavoro.

 

Per questo abbiamo tenuto il 9 dicembre 2015 a Milano un momento di studio e approfondimento sul tema insieme alla dottoressa Tiziana Vai dell’ASL città di Milano.

 

Vogliamo qui focalizzare l’attenzione di tutti su un tema su cui varrebbe la pena di intervenire.

 

Il D.Lgs.81/08 affronta il tema degli appalti nell’articolo 26, articolo poco letto e ancor meno utilizzato da RSA, RLS e funzionari sindacali.

Ora senza voler elencare tutti quelli che sono gli obblighi del committente in materia di sicurezza, vorremmo che i RLS degli appalti, ma anche i funzionari che seguono il settore iniziassero a esigere dal committente quanto previsto dal comma 3 del citato articolo 26 del D.Lgs.81/08:

“Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il coordinamento di cui al comma 2, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di attività a basso rischio d’infortuni e malattie professionali di cui all’articolo 29, comma 6-ter, con riferimento sia all’attività del datore di lavoro committente sia alle attività dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi, un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, adeguate e specifiche in relazione all’incarico conferito, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro, per sovrintendere a tali cooperazione e coordinamento. In caso di redazione del documento esso è allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere adeguato in funzione dell’evoluzione dei lavori, servizi e forniture. A tali dati accedono il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale […]”.

A seguire trovate un modulo di richiesta di tali dati.

 

Vi ricordiamoo ulteriori obblighi che riguardano le aziende che si sono dotate di un “modello organizzativo di gestione idoneo ad avere attività esimente della responsabilità amministrativa” (ai sensi del D.Lgs.231/01).

 

L’applicazione del modello di organizzazione e gestione di cui all’articolo 30 del D.Lgs.81/08 prevede tra l’altro l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi:

  • alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori (lettera f);
  • alla acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie per legge (lettera g);
  • alle periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate lettera h).

 

Le slides dell’intervento tenuto dalla dottoressa Tiziana Vai dell’ASL città di Milano, sono visionabili all’indirizzo:

http://www.rlsfilcams-lombardia.org/art-26-d-lgs-81-08-contratti-d-appalto-o-d-opera-o-di-somministrazione/

 

* * * * *

 

MODULO RELATIVO ALLA RICHIESTA DI INFORMAZIONI PER LAVORAZIONI AFFIDATE IN APPALTO

 

Al Datore di Lavoro dell’azienda appaltante

Al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione dell’azienda appaltante

 

OGGETTO: RICHIESTA DOCUMENTAZIONE DI CUI COMMI 3 E 5 DELL’ARTICOLO 26, COMMA 3 DEL D.LGS 81/08

 

Con la presente la scrivente Organizzazione Sindacale / lo scrivente Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza dell’azienda ________________ (appaltata) richiede ai sensi della normativa in oggetto di ricevere copia del Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza (DUVRI ex articolo 26, comma 3 del D.Lgs.81/08) da voi predisposto, in quanto committente, dell’appalto ___________ per lavorazioni da eseguire negli ambienti di lavoro della Vostra azienda e affidato alla azienda ________________ (appaltata).

 

Si richiede altresì di conoscere i dati relativi a “i costi delle misure adottate per eliminare o, ove ciò non sia possibile, ridurre al minimo i rischi in materia di salute e sicurezza sul lavoro derivanti dalle interferenze delle lavorazioni” così come previsto dal comma 5 dello stesso articolo 26.

 

In attesa di un vostro sollecito riscontro, vi inviamo i nostri distinti saluti.

 

Luogo e data

 

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SCEGLIERE I DISPOSITIVI DI PROTEZIONE DEI PIEDI PIU’ IDONEI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

29 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Informazioni sui dispositivi di protezione dei piedi e sulle calzature antinfortunistiche. I requisiti e le caratteristiche dei DPI, la classificazione, le protezioni particolari per attività specifiche e i fattori da valutare per la scelta.

 

In molte attività lavorative i piedi devono essere protetti da idonei Dispositivi di Protezione Individuali (DPI) in relazione a diverse tipologie di rischio.

Ad esempio rischi meccanici (schiacciamento, scivolamento, urti, tagli, ecc.), rischi chimici e biologici (dello sversamento di prodotti chimici, contatto con materiali biologici, ecc.), rischi fisici (umidità, acqua, temperatura, cariche elettrostatiche, ecc.).

 

Per parlare di calzature antinfortunistiche, di scarpe di sicurezza, ci soffermiamo oggi sul contenuto del progetto multimediale Impresa Sicura (un progetto elaborato da Ente Bilaterale Emilia Romagna, Ente Bilaterale Marche, Regione Emilia Romagna, Regione Marche e INAIL) che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come “Buona prassi” nella seduta del 27 novembre 2013.

Il documento “Impresa Sicura DPI”, correlato al progetto, presenta anche la struttura interna ed esterna delle calzature di sicurezza e ricorda che per evitare la contaminazione delle scarpe o degli stivali da materiale chimico o biologico, è possibile anche l’utilizzo di sovrascarpe/sovrastivali monouso, antiscivolo e antistatici, generalmente dotati di elastico o di lacci da legare sopra la tuta alla caviglia o al polpaccio.

In commercio si trovano anche sovrascarpe/sovrastivali di protezione contro altri rischi quali il calore, il freddo. Inoltre quando è necessario proteggere i polpacci si utilizzano stivali, ma anche ghette. Le ghette, a differenza degli stivali, sono un accessorio costituito solo dal gambale che ha il vantaggio di poter essere indossato e tolto senza coinvolgere la calzatura e quindi può essere utilizzato solo quando serve.

I requisiti richiesti per le calzature antinfortunistiche sono relativi alla sicurezza, alla salute, al comfort e all’estetica.

Queste sono alcune possibili caratteristiche relative alla salute e sicurezza:

  • tomaia resistente allo strappo e alla flessione;
  • fodere resistenti allo strappo e all’abrasione;
  • suola resistente all’abrasione, alle flessioni, all’idrolisi, agli idrocarburi;
  • resistenza al distacco della tomaia/suola;
  • resistenza alla corrosione dei puntali metallici;
  • protezione da rischio di scivolamento;
  • resistenza del battistrada agli oli minerali;
  • protezione delle dita del piede con puntale in acciaio resistente all’impatto fino a 200 Joule.

Le calzature antinfortunistiche si differenziano poi in relazione alle esigenze specifiche di utilizzo e alle caratteristiche corrispondenti richieste.

E dunque la scelta del corretto dispositivo di protezione dei piedi dipende dalla mansione del lavoratore, dalle caratteristiche delle stesse e dai rischi presenti nei luoghi di utilizzo.

Sono infatti disponibili calzature di materiale diverso e con caratteristiche diverse, quindi il termine generico “calzature antinfortunistiche” non è indicativo della esclusività del dispositivo di protezione.

 

In particolare si suddividono in due classi principali, in base al materiale del corpo della calzatura:

  • Tipo I: calzature di cuoio o altri materiali, escluse le calzature interamente in gomma o in polimero;
  • Tipo II: calzature interamente in gomma o in polimero.

 

Le classi I e II si possono poi distinguere in 3 categorie (di sicurezza, di protezione, da lavoro, cui corrispondono le sigle S, P, O derivanti dalle definizioni in inglese) in base alle caratteristiche di protezione, definite da norme tecniche separate: la differenza fra i tre tipi è data, in sostanza, dal diverso grado di protezione del puntale (assente in quelle da lavoro e in grado invece di assorbire la caduta di un peso di 20 kg da un’altezza di 1 metro, in quelle di sicurezza).

Inoltre, poiché gli scivolamenti e le cadute sono tra le maggiori cause di infortunio sul lavoro tutte le calzature antinfortunistiche (classe I o II) devono essere resistenti allo scivolamento.

Veniamo ai requisiti di protezione aggiuntivi alle dotazioni di base minime, requisiti che possono essere necessari per proteggere da alcuni rischi specifici.

Ad esempio, rispetto al rischio elettrico, si devono indossare calzature conduttive o almeno antistatiche: quelle conduttive (sigla C, classi I o II), sono necessarie quando occorre ridurre al minimo le cariche elettrostatiche potenziali causa di scintille (ad esempio nella manipolazione di esplosivi) e invece, al contrario, sono da evitare accuratamente se non è stato completamente eliminato il rischio di scosse elettriche prodotte ad esempio da elementi sotto tensione.

Le calzature isolanti (sigla I, pittogramma con doppio triangolo) sono solo di classe II, cioè interamente di gomma (cioè interamente vulcanizzate) o di materiale polimerico (cioè interamente formate) e sono necessarie quando si ha rischio di scosse elettriche (ad esempio nelle installazioni elettriche, nei lavori elettrochimici, se ci sono apparecchi elettrici danneggiati con elementi sotto tensione).

Riguardo invece ai rischi termici, si possono avere calzature che isolano il piede dal calore (HI), da usare quando si prevede presenza di forte calore (ad esempio se si deve calpestare una superficie calda, come nei lavori di bitumazione stradale o nella siderurgia), oppure, al contrario, calzature (CI) che isolano dal freddo (ad esempio per lavori all’esterno a basse temperature o industria alimentare con conservazione a freddo).

Esistono poi anche protezioni particolari per attività specifiche, come nel caso delle calzature resistenti:

  • al calore e spruzzi di metallo fuso, come può avvenire in fonderia o in saldatura, per cui è richiesto l’uso di specifica calzatura atta a proteggere contro i rischi termici;
  • al taglio da motosega a mano (sega a catena), sempre necessarie in tutte le attività che comportano il maneggiare una sega a catena (ad esempio lavori boschivi, costruzioni, industria del legno, ecc.); sono marcate con un pittogramma supplementare rappresentante una sega a catena e un livello di protezione (riferito alla velocità utilizzata nella prova);
  • agli incendi: le calzature resistenti ai rischi per la lotta agli incendi (protezione dal fuoco F) hanno una classificazione complessa ma, in estrema sintesi, sono marcate con un pittogramma apposito e un simbolo (HLN) che indica il livello di protezione relativo all’isolamento dal caldo.

Riguardo infine ai criteri generali di scelta, il documento segnala che prima di scegliere il modello più adatto all’utilizzatore, tra calzature basse o alla caviglia, stivali al polpaccio o al ginocchio o alla coscia, è indispensabile conoscere i rischi legati all’ambiente di lavoro, le condizioni ambientali e la mansione di colui che le deve indossare.

Ed è necessario operare una scelta fra le tre differenti categorie di calzature antinfortunistiche (S, P, O), in base ai rischi meccanici, e poi, se necessario, in base ai requisiti supplementari.

Quando, ad esempio, è presente il rischio di caduta di gravi e di schiacciamento delle dita (imprese edili, industrie metallurgiche, lavori agricoli, demolizioni di fabbricati, ecc.) a seconda dell’entità del rischio saranno necessarie calzature di sicurezza o di protezione con puntali (da S1 a S5 e da P1 a P5).

Quando è presente il rischio di perforazioni della suola da parte di oggetti appuntiti (ad esempio ristrutturazione di rustici, lavori stradali, lavori su impalcatura, demolizioni, cantieri edili in generale ed aree di deposito) è necessario come requisito aggiuntivo la resistenza alla perforazione (P).

Senza dimenticare che la scelta di calzature inadatte può comportare problemi e rischi aggiuntivi per l’operatore: peso eccessivo della calzatura, suola troppo rigida, cattiva traspirazione, sensibilizzazione, scorretta posizione del piede sul piano di calpestio o scelta inadatta rispetto al suolo su cui si deve camminare, fanno sì che l’operatore rinunci all’ utilizzo di questi DPI, esponendosi così al rischio.

L’accesso via internet al sito “Impresa Sicura” è gratuito e avviene, tramite registrazione, all’indirizzo:

http://impresasicura.org/ita/pages/home.php

 

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LE CONSEGUENZE DELLA NORMATIVA SULLE MALATTIE PROFESSIONALI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

29 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Alcuni interventi riflettono sulle conseguenze in questi ultimi venti anni della normativa in materia di salute e sicurezza sugli infortuni lavorativi e sulle malattie professionali. La situazione attuale, i mutamenti e i suggerimenti per il futuro.

 

La normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro (a partire dal D.Lgs.626/94 e con riferimento alle leggi successive come il D.Lgs.494/96, il D.Lgs.81/08 e le correlate leggi di modifica) ha portato importanti modifiche e cambiamenti.

Benché non sia facile verificarne i risultati, un convegno che si è tenuto il 27 ottobre 2015 a Milano, promosso da diverse associazioni, ha cercato di valutarli e di comprendere come poter meglio calibrare le future strategie e obiettivi di prevenzione.

Stiamo parlando del convegno dal titolo “A 20 anni dalla 626/94: quali risultati possiamo valutare?” che si è dunque soffermato a ragionare sui risultati in termini di salute e sicurezza nel lavoro conseguiti in conseguenza delle trasformazioni normative degli ultimi venti anni.

Trasformazioni che hanno comportato profonde modifiche nell’assetto istituzionale, nel sistema e nelle responsabilità delle imprese e più in generale nelle modalità e nell’assetto della prevenzione dei rischi lavorativi.

A presentare il convegno e queste modifiche è stato un intervento introduttivo a cura di Claudio Calabresi (Società Nazionale Operatori della Prevenzione).

L’intervento ha ricordato che l’andamento degli infortuni negli ultimi anni ha evidenziato un progressivo decremento, non senza criticità, certamente legato anche alle modifiche produttive e negli ultimi anni alla crisi e alla contrazione del lavoro (e c’è da aspettarsi, con l’attenuarsi della crisi, un arresto del decremento e forse un nuovo aumento, di cui sembra ci siano già i segnali).

Riguardo invece alle malattie professionali, si indica che tali malattie sono complessivamente aumentate negli ultimi 7-8 anni, sostanzialmente per il “decollo” delle patologie osteo-artro-muscolo-tendinee (70%), ma è probabile che in qualche tempo si ritorni ad una diminuzione.

Il relatore ricorda che stiamo assistendo a diverse elementi che potranno indurre nel prossimo futuro a modifiche delle conseguenze del lavoro sulla salute: le profonde modifiche produttive e dei rapporti di lavoro, con il procedere della terziarizzazione e il progressivo rilevante decremento delle attività manifatturiere, la flessibilità imponente con il frequente cambio di attività e mansioni di un gran numero di lavoratori, la precarizzazione, il non-lavoro, la disoccupazione alternata a lavori instabili, questi anni di crisi.

Mutamenti possono avvenire anche nella distribuzione e tipologia degli infortuni sia, forse soprattutto, nelle patologie professionali, con una diminuzione dei quadri “classici”.

Aumenteranno, infatti, le patologie psico-fisiche “multifattoriali” di non semplice interpretazione causale, sempre più di confine tra lavoro e vita. Occorre quindi “attrezzarsi” sempre di più per saper “leggere” (e far fronte a) questa probabile futura evoluzione.

Non ci si deve fermare poi agli infortuni e alle malattie professionali.

Ci sono infatti altri effetti (meno “classificati”) sulla qualità della vita, sulle variazioni biologiche, psico-fisiche nelle varie fasce di lavoratori, sulle patologie che apparentemente non sono tipicamente di origine lavorativa o vengono definite multifattoriali, sulla durata (o attesa) della vita.

Riguardo alla popolazione lavorativa di cui occuparsi, il relatore indica che la popolazione assicurata “stimata” presso l’INAIL è attualmente pari a circa 17 milioni di addetti, ma gli occupati stimati dall’ISTAT sono attualmente tra i 22 ed i 23 milioni e ci sono poi almeno circa 3 milioni di occupati (forse anche più) che non lavorano in regola.

In definitiva i lavoratori tutelati assicurativamente dall’INAIL, nei quali si “contano” i danni da lavoro, sono circa il 70% dei lavoratori effettivamente attivi nel Paese.

 

Claudio Calabresi, che si sofferma anche sulla presenza di disomogeneità, di diseguaglianze, in tema di diritti dei lavoratori, indica che occorre potenziare e accelerare la costruzione di un valido, organico e completo Sistema informativo, e aumentare la disponibilità e fruibilità delle informazioni per le varie categorie di soggetti interessati e coinvolti.

Per approfondire il tema delle conseguenze delle normative in materia di salute e sicurezza sulle malattie professionali, ci soffermiamo brevemente anche sull’intervento “Gli effetti dei cambiamenti normativi sulle malattie da lavoro”, a cura di Alberto Baldasseroni (Centro Regionale Infortuni e Malattie Professionali della Regione Toscana).

La relazione si sofferma ampiamente sulla storia del riconoscimento delle malattie professionali in Italia, a partire dall’Assicurazione obbligatoria contro le Malattie Professionali (Regio Decreto n.928 del 13 Maggio 1929), entrata in vigore il 1° gennaio del 1934, ma per l’indennizzabilità delle malattie dal 1° luglio del 1934.

Sono poi riportate indicazioni sull’andamento dei riconoscimenti con indennizzo delle 5 più frequenti malattie professionali (ipoacusia; dermatite da contatto e altri eczemi; affezione dei dischi intervertebrali; malattie dei tendini e affezioni delle sinoviali, tendini e borse; affezioni dei muscoli, legamenti, aponeurosi e tessuti molli). Indicazioni che mostrano ad esempio, come evidenziato già da Claudio Calabresi, l’aumento delle patologie osteo-artro-muscolo-tendinee e la diminuzione delle ipoacusie nel periodo tra il 1994 e il 2012.

Il relatore affronta poi il tema delle nuove patologie e indica anche che gli studi epidemiologici documentano in maniera robusta che lo stress causa incrementi nella patologia dei lavoratori esposti. Tuttavia i sistemi di monitoraggio delle malattie professionali attualmente esistenti nel nostro paese non sono in grado di cogliere questo fenomeno, dato che sono basati sull’accertamento individuale del rischio e del nesso tra esposizione e malattia.

E in assenza di sistemi di sorveglianza epidemiologica orientata a seguire (follow-up) il destino di salute di coorti di lavoratori esposti a noxae patogene, quali per esempio lo stress, è difficile che anche nel prossimo futuro si possa disporre di stime accurate dei danni dovuti a questo fattore di rischio.

Riportiamo infine le conclusioni della relazione.

Per avere un’idea più vicina alla realtà del carico di danni dovuto alle malattie professionali è importante uscire dalla “gabbia” del nesso individuale di causalità e dedicare risorse anche a stimare il “burden of disease” (carico di malattia) attribuibile al lavoro per decidere priorità e esigenze di salute. Ricordiamo che con disease burden si può intendere l’impatto di un problema di salute e il Global Burden of Disease è un sistema di misurazione della salute che consente di generare stime sul peso di singoli fattori o gruppi di fattori che sono in grado di orientare politiche e programmi.

In attesa di disporre di tali stime è comunque doveroso far buon uso degli strumenti basati sul computo dei casi di malattie per le quali sia stata individuata una causa lavorativa e che sono ormai disponibili per la programmazione e la valutazione del lavoro di prevenzione.

Il documento “Intervento di Claudio Calabresi” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151116_SNOP_risultati_20_anni_626.pdf

Il documento “Gli effetti dei cambiamenti normativi sulle malattie da lavoro” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151116_SNOP_effetti_20_anni_626.pdf

 

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I RISCHI ORGANIZZATIVI E PSICOSOCIALI NELLE STRUTTURE OSPEDALIERE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

30 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Per una valutazione efficace dei rischi negli ambienti ospedalieri bisogna tener conto anche degli aspetti psicologici e organizzativi. Focus sullo stress psichico tra gli operatori e sulle conseguenze sulla salute del lavoro notturno.

 

In questi mesi, presentando i rischi degli operatori sanitari (attraverso quanto riportato dal Servizio di Prevenzione e Protezione dell’ Azienda Sanitaria Locale Alba-Bra), ci siamo soffermati sui rischi chimici e biologici, sui rischi correlati alla movimentazione manuale dei carichi e dei pazienti e agli agenti fisici e sui rischi infortunistici.

Tuttavia negli ambienti sanitari per poter valutare efficacemente i rischi e tutelare adeguatamente la salute e sicurezza dei lavoratori, non bisogna dimenticare anche la rilevanza dei rischi psicosociali e dei rischi organizzativi.

 

A questo proposito il Servizio di Prevenzione e Protezione dell’ Azienda Sanitaria Locale Alba-Bra, ricorda che in ambiente ospedaliero sono frequentemente segnalate situazioni di stress psichico tra il personale. Le cause possono essere legate sostanzialmente a fattori di tipo individuale, organizzativo, sociale o culturale.

Ad esempio si fa riferimento al coinvolgimento emotivo richiesto talvolta dal paziente, l’impatto quotidiano con la sofferenza, il dolore o la morte, possono generare nel personale sanitario e in particolare in quell’infermieristico sensazioni di fallimento e distacco personale.

Inoltre si segnala che le condizioni dell’ambiente di lavoro prevedono molte volte un sovraccarico di lavoro, mancanza di pianificazione, svalutazione della professionalità, burocratizzazione eccessiva. Elementi che possono essere motivo di perdita d’interesse alla professione e alla responsabilità nel proprio lavoro.

Una adeguata prevenzione in ambito stress lavoro correlato dovrebbe, ad esempio, prevedere una riduzione dei sovraccarichi di lavoro, il coinvolgimento dei lavoratori nell’organizzazione, la formazione costante del personale e il suo sostegno psicologico finalizzato a sostenere angosce e ansie legate alla sofferenza, alle malattie e alla morte.

Riguardo ai rischi organizzativi, il Servizio di Prevenzione e Protezione si sofferma in particolare sul lavoro notturno, con riferimento anche a quanto contenuto nel Decreto Legislativo n. 532 del 26 novembre 1999, recante “Disposizioni in materia di lavoro notturno”.

Il D.Lgs. 532/1999 definisce:

  • lavoro notturno: l’attività svolta nel corso di un periodo di almeno sette ore consecutive comprendenti l’intervallo fra la mezzanotte e le cinque del mattino;
  • lavoratore notturno: qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga, in via non eccezionale, almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero; qualsiasi lavoratore che svolga, in via non eccezionale, durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro normale secondo le norme definite dal contratto collettivo nazionale di lavoro; in difetto di disciplina collettiva è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga lavoro notturno per un minimo di 80 giorni lavorativi all’anno.

Riguardo alle conseguenze sui lavoratori si sottolinea che l’alterazione delle condizioni di salute dei turnisti dipende oltre che dall’alterazione dei ritmi biologici (sfera biologica) anche dalle interferenze sulle abitudini alimentari e di sonno dei soggetti esposti (sfera lavorativa) e dalle eventuali interferenze sulla vita di relazione (sfera relazionale).

Il sonno è sicuramente il primo elemento a subire modifiche dal lavoro a turni. Una riduzione delle ore di sonno si determina già nel corso del turno mattutino in relazione all’alzata precoce. Inoltre nel turno notturno la riduzione del sonno è più vistosa in presenza di situazioni familiari ed abitative sfavorevoli, che limitano la possibilità di recupero successivo.

 

E comunque con il lavoro a turni ad alterarsi non è solo la quantità di sonno ma anche la sua qualità a causa della perturbazione delle fasi del sonno che riducono i periodi di sonno profondo e di sonno REM: ciò determina un minor effetto ristoratore del sonno che si accentua quando si dorme di giorno. E con l’età si assiste ad un’accentuazione delle alterazioni quantitative e qualitative del sonno. Si pensa che i lavoratori turnisti abbiano un più precoce invecchiamento funzionale rispetto a quelli non in turno anche a causa di tale fattore.

Veniamo ai problemi alimentari.

Questi problemi sono legati alla anomala sequenza dei pasti e all’interferenza sui pasti operata dal sonno:

  • i turnisti (anche se si alimentano normalmente) per effetto del turno spostano la sincronizzazione socio-ambientale dei pasti;
  • il turno mattutino di solito interferisce con l’orario del pranzo e induce uno spostamento del pasto di due o tre ore;
  • allo stesso modo il turno pomeridiano ha un effetto sulla cena;
  • durante il turno di notte, anche se gli orari dei pasti si mantengono, si modifica la qualità dei cibi consumati (prevalentemente freddi e preconfezionati) e aumenta l’incremento di bevande stimolanti (caffè e tè) e di tabacco.

E dunque nei turnisti può registrarsi un incremento delle malattie dell’apparato digerente (gastroduodenite, ulcera peptica, colonpatie funzionali).

La relazione ricorda poi che un altro problema rilevante nel lavoro a turni è l’incidenza dei disturbi psichici (disturbi comportamentali, sindromi ansiose e depressive) e neurologici (fatica cronica, insonnia). I lavoratori a turni, pertanto, spesso assumono psicofarmaci e ricorrono al ricovero in luoghi di cura con maggior frequenza della restante popolazione attiva.

Vengono poi brevemente presentati alcuni risultati di studi sulla salute dei turnisti.

Ad esempio con riferimento a:

  • aumento del rischio per le malattie cardiovascolari (indagini effettuate nei paesi scandinavi): i problemi cardiaci (angina, infarto) sono da due a tre volte più frequenti nei lavoratori con turni solo di mattina; tale rischio è indipendente dall’età e dal consumo di tabacco;
  • aumento del colesterolo e dei trigliceridi: a prescindere dall’uso o dall’abuso di tabacco e dall’anzianità anagrafica si è riscontrato un maggiore incremento del LDL e una riduzione del HDL durante il lavoro notturno; le alterazioni dell’assetto lipidico appaiono indipendenti dall’obesità e dalle abitudini alimentari;
  • irregolarità mestruali, un minor numero di gravidanze, un incremento d’incidenza di minacce d’aborto e di aborti spontanei sono state osservate nelle lavoratrici a turno rispetto alle donne che lavorano soltanto la mattina.

Riprendiamo infine le conclusioni del sul lavoro notturno.

Occorre infatti valutare sotto una nuova ottica le implicazioni che il lavoro a turni determina sulla vita e sulla salute dei lavoratori.

I lavoratori turnisti, se non già soggetti a controllo periodico obbligatorio da parte di un Medico Competente, dovrebbero esser periodicamente sottoposti a visita sanitaria allo scopo di evidenziare il più precocemente possibile i segni ed i sintomi di alterazione.

E sarebbe poi importante non solo avere specifiche indagini epidemiologiche sull’incidenza di tale rischio in ambito sanitario, ma anche avviare un’indagine che approfondisca le implicazioni di tale organizzazione del lavoro sui diversi aspetti della vita relazionale e lavorativa dei turnisti e sulle ricadute che si determinano sulla loro salute.

Il documento “Principali rischi in ambiente ospedaliero”, spazio online a cura del Servizio di Prevenzione e Protezione dell’Azienda Sanitaria Locale Alba-Bra è scaricabile all’indirizzo:

http://www.aslcn2.it/azienda-asl-cn2/servizio-di-prevenzione-e-protezione/principali-rischi-in-ambiente-ospedaliero

 

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.239 DEL 13/01/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

Medicina Democratica Onlus – MILANO SABATO 16 GENNAIO 2016 – CONVEGNO PUBBLICO-TAVOLA ROTONDA: DIRITTO ALLA SALUTE E SANITA’ INTEGRATIVA

front8367992Siamo convinti che in questi ultimi anni si stia mettendo progressivamente in crisi il diritto alla salute. Negli ultimi mesi abbiamo visto prendere misure di tagli (con o senza spending review) al finanziamento del servizio sanitario nazionale e altre misure volte al controllo delle prescrizioni mediche. Non solo ma vengono stabilite limitazioni al diritto di ricevere prestazioni e servizi per le categorie più deboli (anziani cronici, disabili gravi, malati mentali, tossicodipendenti).
Mentre il Servizio Sanitario Nazionale si ritira, vengono proposte polizze assicurative, servizi privati sanitari low cost, più in generale si sta spingendo i cittadini verso la sanità integrativa, anche tramite accordi sindacali. Tutto ciò tradisce lo spirito e la lettera della Costituzione e ribalta i principi della legge istitutiva del Servizi Sanitario Nazionale del 1978.
Vogliamo discutere per capire, ma anche per opporci, quindi per affermare la necessità di mantenere e sostenere un servizio sanitario pubblico efficace, basato sulla prevenzione, con le fondamentali caratteristiche, dell’universalità, la gratuità e la partecipazione.

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.238 DEL 29/12/15

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.238 DEL 29/12/15

 

INDICE

  • Lavoro notturno e gestione della salute e della sicurezza
  • Attenzione alle visite e ai giudizi del medico competente
  • L’amianto presente nell’80% delle ristrutturazioni e demolizioni
  • Il nuovo Codice prevenzione incendi: il sistema di esodo
  • Differenze di genere: rischi psicosociali, stress e suicidi
  • Ponteggi metallici: le norme ci sono, ma bisogna applicarle

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LAVORO NOTTURNO E GESTIONE DELLA SALUTE E DELLA SICUREZZA

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.70

 

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti del lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

 

 

QUESITO

 

Buongiorno Marco,

la mia azienda intende introdurre in alcuni reparti il lavoro notturno (dalle 9 di sera alle 5 di mattina).

In realtà questo non sarebbe per tutto il periodo dell’anno, ma solo in presenza di picchi di richieste e quindi necessità di aumentare la produzione.

L’ufficio del personale e la produzione parlano di un periodo complessivo non superiore ai 30 giorni nell’arco dell’anno.

Ti volevo chiedere se abbiamo diritto a misure di sicurezza particolari visto che faremo questo lavoro notturno, quando in fabbrica mancheranno molti dei servizi che ci sono a giornata (responsabile sicurezza, addetti primo soccorso e antincendio).

Ti ringrazio.

 

 

RISPOSTA

 

Prima di addentrarmi sull’argomento che mi poni è bene verificare se nel vostro caso si possa parlare di lavoro notturno, come definito dalla normativa vigente.

A tale proposito ho riportato in fondo il Punto 18 della Circolare del Ministero del Welfare n.8 del 3 marzo 2005, che trovi integralmente ad esempio al link:

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Speciali/2006/documenti_lunedi/09gennaio2006/FERIE/CIR_3_3_2005_8.pdf?cmd%3Dart

Tale Circolare, interpretativa del Decreto Legislativo n.66 del 8 aprile 2003 e successive modifiche e integrazioni , che trovi ad esempio al link:

http://www.dplmodena.it/leggi/66-03_Collegato%20Lavoro.pdf

definisce in maniera molto chiara cosa deve intendersi per “lavoratore notturno”.

 

Secondo tali fonti normative, il caso da te citato, in cui il lavoratore esegue un turno di 8 ore di cui almeno 7 nel periodo notturno come sopra definito, ma per meno di 80 giorni all’anno non rientra nella definizione di “lavoratore notturno”.

In ogni caso, anche se i lavoratori coinvolti non possano essere identificati come “lavoratori notturni” secondo il D.Lgs.66/03, ciò nondimeno parte della attività della tua azienda avviene nel “periodo notturno” come definito dal medesimo Decreto.

 

Pertanto (ma questa è mia interpretazione) gli obblighi di cui all’articolo 14 del D.Lgs.66/03, si devono applicare alla tua azienda nel periodo di lavoro notturno, cioè dalle 24 alle 5, indipendentemente se i lavoratori possano essere classificati come “lavoratori notturni” secondo le definizioni e i chiarimenti di cui sopra.

 

In particolare devono essere adottati gli obblighi di cui all’articolo 14, comma 2:

Durante il lavoro notturno il datore di lavoro garantisce, previa informativa alle rappresentanze sindacali di cui all’articolo 12 [rappresentanze sindacali in azienda], un livello di servizi o di mezzi di prevenzione o di protezione adeguato ed equivalente a quello previsto per il turno diurno”.

Quanto sopra deve essere garantito sia per l’aspetto routinario delle attività lavorative, sia, in particolare, per la gestione delle situazioni di emergenza che dovessero manifestarsi.

 

Comunque, al di là della mia interpretazione di quanto disposto dal D.Lgs.66/03, a seguito delle modifiche organizzative comportate dal passaggio a lavoro notturno, anche se parziale, il datore di lavoro della tua azienda ha l’obbligo di aggiornare il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) di cui agli articoli 17, comma 1, lettera a), 28 e 29 del Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 (D.Lgs.81/08).

 

Infatti l’articolo 29, comma 3, del D.Lgs.81/08 impone (a seguito delle ultime modifiche operate dalla Legge 161 del 2014:

La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori […]. A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate. Nelle ipotesi di cui ai periodi che precedono il documento di valutazione dei rischi deve essere rielaborato, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, nel termine di trenta giorni dalle rispettive causali. Anche in caso di rielaborazione della valutazione dei rischi, il datore di lavoro deve comunque dare immediata evidenza, attraverso idonea documentazione, dell’aggiornamento delle misure di prevenzione e immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.

 

Pertanto il datore di lavoro (e la responsabilità è esclusivamente sua, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08) deve, prima dell’inizio dei lavori con orario notturno, definire formalmente misure di prevenzione e protezione specifiche conseguenti al mutato scenario di rischio e darne comunicazione al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS).

 

Entro trenta giorni poi dall’inizio del lavoro notturno, il DVR deve essere rielaborato, comprendendo anche le misure di prevenzione e protezione sopra specificate.

Ovviamente il RLS deve essere consultato preventivamente in merito alla modifica del DVR e ha la facoltà di consultare il DVR stesso, ai sensi dell’articolo 50, comma 1 lettere b) ed e) del D.Lgs.81/08 rispettivamente.

 

La modifica del DVR (così come la sua redazione) deve essere eseguita dal datore di lavoro, con la collaborazione del medico competente e del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (articolo 29, comma 1 del D.Lgs.81/08).

 

In particolare il medico competente dovrà verificare se le mutate variazioni organizzative non richiedano una modifica al protocollo di sorveglianza sanitaria, di cui agli articoli 25, comma 1, lettera b) e 41 del D.Lgs.81/08.

Quindi (ma anche questa è una mia interpretazione), anche se, ai sensi del D.Lgs.66/03 non è obbligatoria la sorveglianza sanitaria specifica di verifica e di controllo della idoneità sanitaria alla mansione dei lavoratori notturni, il medico competente dovrà comunque esprimere un suo giudizio sulla idoneità sanitaria alla mansione dei lavoratori, a fronte del mutamento organizzativo.

E sempre seconde me, il medico competente dovrebbe esprimere in maniera formale la necessità o meno di variazione del protocollo di sorveglianza sanitaria.

 

In merito alle altre misure di prevenzione e protezione, il datore di lavoro deve verificare che il mutamento organizzativo non comporti un aumento o un’aggiunta di rischio e definire di conseguenza specifiche misure di prevenzione e protezione.

 

Per quanto riguarda l’aspetto routinario della attività lavorativa, il datore di lavoro dovrà valutare l’influenza dei seguenti aspetti sul profilo di rischio:

  • illuminazione artificiale dei luoghi di lavoro (punto 1.10 dell’allegato IV del D.Lgs.81/08);
  • parametri microclimatici (punto 1.9 dell’allegato IV del D.Lgs.81/08);
  • stress lavoro correlato (articolo 28, comma 1, del D.Lgs.81/08);
  • manutenzione e controllo delle attrezzature utilizzate (in assenza di una squadra di manutenzione) (articolo 71, comma 4 del D.Lgs.81/08).

 

Per quanto riguarda invece le situazioni di emergenza, il datore di lavoro dovrà valutare l’influenza dei seguenti aspetti sul profilo di rischio:

  • presenza degli addetti al designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza (articoli 18, comma 1, lettera b) e 43, comma 2 del D.Lgs.81/08);
  • possibilità di contattare i servizi pubblici competenti in materia di primo soccorso, salvataggio, lotta antincendio e gestione dell’emergenza (articolo 43, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08);
  • possibilità che i lavoratori, in caso di pericolo grave e immediato che non può essere evitato, possano cessare la loro attività, o mettersi al sicuro, abbandonando immediatamente il luogo di lavoro (articolo 43, comma 1, lettera d) del D.Lgs.81/08);
  • possibilità per i lavoratori, in caso di pericolo grave e immediato per la propria sicurezza o per quella di altre persone e nell’impossibilità di contattare il competente superiore gerarchico, possano prendere le misure adeguate per evitare le conseguenze di tale pericolo, tenendo conto delle sue conoscenze e dei mezzi tecnici disponibili (articolo 43, comma 1, lettera e) del D.Lgs.81/08).

 

* * * *

 

CIRCOLARE DEL MINISTERO DEL WELFARE N.8 DEL 3 MARZO 2005

 

18 “LAVORO NOTTURNO”

Gli articoli dall’11 al 15, in materia di lavoro notturno, riprendono in larga misura il contenuto del decreto legislativo n. 532 del 1999 con il quale era stata data attuazione alla delega conferita al Governo dall’art. 17, comma 2 della legge n. 25 del 1999, nonché alla direttiva 93/104.

La normativa di cui ai citati articoli non si allontana, sostanzialmente, da quella del 1999, ma viene riordinata e razionalizzata.

 

DEFINIZIONE DI LAVORO E DI LAVORATORE NOTTURNO

Il lavoro notturno è quello prestato in un periodo di almeno sette ore consecutive comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino.

Quindi il lavoro notturno è quello svolto tra le 24 e le 7, ovvero tra le 23 e le 6, ovvero tra le 22 e le 5, indipendentemente dalla eventuale maggiorazione retributiva prevista dalla contrattazione collettiva.

Il lavoratore notturno è il lavoratore che svolge, durante il periodo notturno, almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale; è, inoltre, lavoratore notturno anche colui che svolge durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo le norme definite dai contratti collettivi di lavoro. Qualora la disciplina collettiva nulla stabilisca sul punto è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga, durante il periodo notturno almeno una parte del suo tempo di lavoro giornaliero, per un minimo di 80 giorni lavorativi all’anno.

Quest’ultimo criterio di definizione del lavoratore notturno non va a sovrapporsi con il primo in quanto prende in considerazione lo svolgimento di una prestazione lavorativa in parte esercitata durante il periodo notturno, a prescindere che l’attività in oggetto rientri nell’orario normale di lavoro. Quindi, deve considerarsi lavoratore notturno anche colui che non sia impiegato in modo normale durante il periodo notturno ma che, nell’arco di un anno, svolga almeno 80 giorni di lavoro notturno. Ad esempio se al lavoratore è richiesto lo svolgimento, per esigenze contingenti, di prestazioni durante il periodo notturno, tale prestatore è considerato lavoratore notturno ai fini della disciplina in oggetto se detto periodo, anche frazionato, abbia durata di almeno 80 giorni lavorativi nell’arco temporale di un anno solare.

Ove il limite degli 80 giorni venga superato in ragione del sopravvenire di eventi eccezionali e straordinari (gravi incidenti agli impianti o nell’esercizio di particolari servizi, calamità naturali), non potrà configurarsi la fattispecie in esame.

Il suddetto limite minimo è riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale.

Il lavoratore, per poter svolgere prestazioni di lavoro notturno, deve esserne ritenuto idoneo mediante accertamento ad opera delle strutture sanitarie pubbliche competenti o per il tramite del medico competente.

I lavoratori notturni, la cui idoneità sia già stata verificata ai sensi della legge previgente, non devono essere sottoposti ad un nuovo accertamento.

Oltre a questa iniziale valutazione che deve precedere l’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno, lo stato di salute dei lavoratori notturni deve essere periodicamente verificato. La periodicità di tali controlli è individuata dal legislatore in almeno due anni. I controlli potranno essere più frequenti sia nel caso in cui il medico competente abbia prescritto una periodicità inferiore sia nel caso in cui siano mutati i rischi relativi alle lavorazioni cui il lavoratore è addetto.

Tali controlli devono essere effettuati dalle competenti strutture sanitarie pubbliche, o dal medico competente di cui all’articolo 17 del decreto legislativo n. 626 del 1994. In ogni caso tali controlli devono avvenire a cura e spese del datore di lavoro.

 

LIMITAZIONI AL LAVORO NOTTURNO

L’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno è obbligatoria per i lavoratori idonei fatto salvi i casi di divieto o di esclusione dall’obbligo di eseguire la prestazione.

È vietato adibire al lavoro dalle 24 alle 6 le donne in gestazione dall’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino o, comunque, dal momento in cui il datore di lavoro ha avuto conoscenza della fattispecie generatrice del divieto.

Alcuni lavoratori hanno facoltà di non prestare lavoro notturno dandone comunicazione, in forma scritta, al datore di lavoro entro 24 ore precedenti al previsto inizio della prestazione. Il datore ha facoltà di accettare la comunicazione del rifiuto avvenuta in un termine inferiore rispetto a quello previsto.

L’individuazione dei requisiti dei lavoratori che determinano l’insorgere della facoltà sono stabiliti dai contratti collettivi. Il decreto prevede, inoltre, che abbiano facoltà di rifiutarsi di prestare lavoro notturno:

  • la lavoratrice subordinata, madre di un figlio di età inferiore di tre anni o, qualora la stessa non abbia esercitato la facoltà di rifiutare l’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno;
  • il lavoratore padre convivente che sia anch’esso lavoratore subordinato;
  • l’unico genitore affidatario e convivente di un minore di età inferiore a 12 anni;
  • coloro che abbiano a loro carico un soggetto disabile ai sensi della legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.

 

OBBLIGHI DI COMUNICAZIONE

Il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicare per iscritto, annualmente, l’esecuzione di lavoro notturno continuativo oppure compreso in turni periodici regolari.

La comunicazione deve essere effettuata ai servizi ispettivi della DPL competente e alle organizzazioni sindacali titolari del diritto ad essere consultate al fine dell’introduzione del lavoro notturno.

Se il contratto collettivo applicato in azienda disciplina in modo specifico l’esecuzione di lavoro notturno continuativo oppure compreso in turni periodici regolari, non sorge l’obbligo di comunicazione.

 

DURATA DELLA PRESTAZIONE

Ai sensi dell’articolo 13 del D.Lgs. n. 66/2003, per tutti i lavoratori notturni, l’orario non può superare le 8 ore, in media, nell’arco di 24 ore calcolate dal momento di inizio dell’esecuzione della prestazione lavorativa.

Tale limite costituisce, data la sua formulazione, un media fra ore lavorate e non lavorate pari ad 1/3 (8/24) che, in mancanza di una esplicita previsione normativa, può essere applicato su di un periodo di riferimento pari alla settimana lavorativa – salva l’individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo più ampio sul quale calcolare detto limite – considerato che il Legislatore ha in più occasioni adoperato l’arco settimanale quale parametro per la quantificazione della durata della prestazione (vedi ad esempio gli articoli 3 e 4 del D.Lgs. n. 66/2003 in materia di orario normale di lavoro e orario medio).

Per il settore della panificazione industriale la media su cui calcolare il limite di durata della prestazione lavorativa è riferito, comunque, alla settimana lavorativa e, pertanto, la norma si configura quale limite alla contrattazione collettiva di estendere ulteriormente il periodo di riferimento sul quale calcolare l’orario di lavoro.

Inoltre, conformemente alla direttiva 93/104/CE, per alcune lavorazioni che comportano rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali, il limite orario è di otto ore nel corso di ogni periodo di 24 ore. In questo caso il limite è fisso e non va considerato come media.

L’individuazione di tali lavorazioni è rimessa ad un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali – di concerto col Ministro per la funzione pubblica per quanto riguarda, in modo non esclusivo, i pubblici dipendenti – previa consultazione delle organizzazioni sindacali nazionali dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Per le materie di esclusivo interesse dei pubblici dipendenti il decreto è adottato dal ministro della funzione pubblica di concerto col Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

La durata massima della settimana lavorativa non potrà, quindi, superare le 48 ore comprensive delle ore di straordinario, tenendo presente che queste ultime non potranno essere superiori, in assenza di determinazioni collettive, di 250 ore annue.

Nel computo della media su cui calcolare il limite delle 8 ore non si deve tener conto del periodo di riposo minimo settimanale quando questo ricade nel periodo di riferimento stabilito dai contratti collettivi.

 

TRASFERIMENTO AL LAVORO DIURNO

Qualora sopraggiungano condizioni di salute che comportino l’inidoneità alla prestazione di lavoro notturno il lavoratore può essere trasferito al lavoro diurno.

La sopraggiunta inidoneità deve essere accertata dalle competenti strutture sanitarie pubbliche o dal medico competente.

Il decreto dispone che il trasferimento al lavoro notturno è subordinato alla esistenza e alla disponibilità di un posto di lavoro la cui esecuzione sia relativa a mansioni equivalenti a quelle svolte. In mancanza di tali condizioni il datore di lavoro ha facoltà di risolvere il rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo.

Alla contrattazione collettiva è attribuita la facoltà di definire le modalità di applicazione delle disposizioni illustrate in materia di trasferimento al lavoro diurno e di individuare le soluzioni per le ipotesi in cui manchino le condizioni per l’assegnazione al lavoro diurno del prestatore di lavoro notturno.

Quindi, mentre il decreto legislativo n. 532 del 1999 stabiliva che il trasferimento al lavoro diurno o ad altra mansione era automatico, con la nuova disciplina tale trasferimento è vincolato alla disponibilità in azienda, secondo le modalità stabilite dalla contrattazione collettiva che potrà ricercare anche soluzioni alternative in caso di inesistenza di altro posto di lavoro disponibile.

 

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ATTENZIONE ALLE VISITE E AI GIUDIZI DEL MEDICO COMPETENTE

 

Da FILCAMS CGIL Lombardia

http://www.rlsfilcams-lombardia.org

 

Si rivolgono sempre più spesso a noi, lavoratori, che a seguito di visita dal Medico competente, ci segnalano di aver ricevuto dallo stesso l’invito a continuare la malattia in quanto a parere del Medico competente sono inidonei a riprendere la propria attiva lavorativa.

Questo avviene nella gran parte dei casi a voce e in altri per iscritto con diciture tutt’altro che inattaccabili. Spesso i lavoratori accettano quanto loro viene detto o scritto senza valutarne a pieno le conseguenze.

 

Per questo pensiamo utile ricordare a tutti quali le norme e la procedura da seguire:

  • il lavoratore non si può rifiutare di sostenere le visite mediche disposte dal Datore di Lavoro (articolo 20, comma 2, lettera i) del D.Lgs.81/08);
  • i costi sono a totale carico del datore di lavoro (articolo 15, comma 2 del Decreto).
  • le visite siano esse preventive all’applicazione, periodiche legate al programma di sorveglianza sanitaria, richieste dal lavoratore o conseguenti ad assenze superiori a 60 giorni non devono essere fatte quando il lavoratore è in malattia;
  • dopo la visita il Medico competente deve redigere il proprio giudizio che può essere d’idoneità, idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni e limitazioni, inidoneità temporanea, inidoneità permanente (articolo 41, comma 5 del Decreto).
  • in caso d’inidoneità temporanea vanno indicati i limiti temporali. (articolo 41, comma 7 del Decreto);
  • qualora il giudizio del Medico competente preveda un’inidoneità alla mansione specifica, il Datore di Lavoro deve adibire il lavoratore (se possibile) a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza (articolo 42 del Decreto).

 

Chiaro è che l’invito verbale a mettersi in malattia non rientra nelle norme citate.

Il Medico competente può ritenere che un dipendente sano (se è stato in malattia o in infortunio ed è stato giudicato idoneo a riprendere il lavoro dal medico di base) sia inidoneo a svolgere questa o quella mansione in funzione dei rischi a cui è sottoposto.

Ma nel caso il Medico competente giudichi un dipendente che svolge un’attività specifica questo non significa che sia inidoneo a svolgere tutte le mansioni.

 

Proprio perché il Medico Competente, ha partecipato alla valutazione del rischio e ha visitato gli ambienti di lavoro, potrebbe tranquillamente indicare eventuali mansioni cui il dipendente può essere adibito nell’ambito della propria azienda.

 

Un paio di esempi.

 

Un lavoratore della Grande Distribuzione Organizzata addetto al rifornimento, a causa di problemi ai piedi, non può per un certo periodo utilizzare le calzature antinfortunistiche previste per la propria mansione. Questo non significa automaticamente che non possa essere trovata una collocazione lavorativa all’interno dell’azienda ove le calzature antinfortunistiche non sono obbligatorie ove applicarlo, ad esempio alla cassa.

 

Una commessa della moda per problemi al rachide non può stare in piedi continuativamente per otto ore, non significa automaticamente che possa essere giudicata inidonea alla mansione. E’ possibile, infatti, definire pause di riposo o di altra attività non in posizione eretta.

 

Chi accetta supinamente indicazioni verbali a rimettersi in malattia, o un responso scritto d’inidoneità lavorativa di dubbia validità senza presentare ricorso avverso entro trenta giorni dal ricevimento all’ASL di competenza (articolo 41, comma 9 del Decreto) rischia nel peggiore dei casi di ritrovarsi (come già capitato) una lettera di licenziamento per superamento dei periodi di comporto.

 

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L’AMIANTO PRESENTE NELL’80% DELLE RISTRUTTURAZIONI E DEMOLIZIONI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

15 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

L’Italia è un paese pieno di amianto, con bonifiche insufficienti e un’insufficiente attenzione e tutela della popolazione e dei lavoratori. Cosa si dovrebbe fare? Ne parliamo con Stefano Farina di AIFOS (Associazione Italiana Formatori e Operatori della Sicurezza) e Paolo Varesi della Commissione Consultiva.

 

Che la presenza nel nostro paese di fibre d’amianto e la necessità di idonee bonifiche siano ormai da considerare una emergenza nazionale, è emerso anche dalla recente “Assemblea Nazionale sull’Amianto” che si è tenuta il 30 novembre al Senato e che ha parlato anche concretamente della possibilità di un futuro Testo Unico. Un Testo Unico in grado di dare organicità alla materia, raccordando le oltre 400 norme regionali e nazionali sull’amianto, e offrire tutela e aiuto ai familiari delle vittime, come richiesto anche da Camilla Fabbri, presidente della Commissione di Inchiesta sugli infortuni sul lavoro del Senato.

 

E tutto questo in un paese, come il nostro, in cui l’amianto è stato massicciamente utilizzato. Un paese, come ha ricordato all’Assemblea il presidente dell’INPS Tito Boeri, in cui si procede troppo lentamente con le bonifiche. Infatti riguardo alla quantità di amianto, “sul territorio italiano sono ancora presenti 32 milioni di tonnellate. A questo ritmo di bonifica, occorrerebbero ancora 85 anni, un’infinità…”.

Del rinnovato impegno a liberare l’Italia dall’amianto e ad aumentare l’attenzione verso questo pericolosissimo materiale, vogliamo parlare anche noi di PuntoSicuro pubblicando una recente intervista sul tema amianto che abbiamo realizzato durante la manifestazione Ambiente Lavoro che si è tenuta a Bologna nel mese di ottobre.

Con i nostri microfoni abbiamo raccolto le esperienze e le indicazioni di Stefano Farina (coordinatore della sicurezza e responsabile del settore costruzioni di AIFOS) e Paolo Varesi (componente della Commissione Consultiva, ex articolo 6 del D.Lgs.81/08) a margine del convegno, organizzato dall’associazione ANMIL (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro), dal titolo “Rischio amianto: il quadro informativo aggiornato e gli strumenti pratici per la migliore assistenza e tutela” (Bologna, 14 ottobre 2015). I due intervistati erano relatori del convegno sul tema specifico della “Valutazione della presenza di amianto nei cantieri di ristrutturazione e in agricoltura”.

A 23 anni dalla Legge n. 257 del 27 marzo 1992, contenente le “Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”, chiediamo innanzitutto ai due relatori quale sia la dimensione del problema amianto in edilizia e agricoltura. Accade spesso in questi comparti che ci si trovi ad avere a che fare con materiale in amianto?

Rimandando per le risposte alla trascrizione dell’intervista, che ci ricorda come nei cantieri di ristrutturazione o demolizione di edifici “circa nell’80% dei casi si riscontra la presenza di amianto” e dell’abitudine a utilizzare l’amianto nel mondo agricolo, nei palazzi pubblici e nelle tubazioni, chiediamo ai due relatori anche informazioni più dettagliate sulla tutela dei lavoratori.

In edilizia quando si progetta una ristrutturazione si pensa all’amianto?

E il manutentore cosa deve fare se si trova di fronte a materiali contenenti amianto?

Quali sono invece le procedure da seguire laddove si sa che è presente amianto?

Non possiamo poi non soffermarci a quanto fatto in questi anni dalla Commissione Consultiva e sulle necessità odierne a livello procedurale e normativo.

In Commissione Consultiva si sta lavorando per migliorare la prevenzione del fenomeno amianto?

In questi anni è cambiato qualcosa dal punto di vista normativo e procedurale riguardo alla sicurezza per esposti all’amianto?

Quali sono le problematiche che dovrebbe affrontare oggi il legislatore?

Chi sono i lavoratori più esposti al rischio amianto?

L’intervista si conclude elencando le iniziative più urgenti.

Ad esempio, ricorda Paolo Varesi, è necessario “instaurare anche un po’ di paura”. Stiamo parlando di una malattia, quella correlata alla presenza di amianto, “che ha una latenza lunghissima, addirittura di 30/40 anni, e che non lascia scampo. Si muore, non c’è speranza di vita. E questa malattia colpisce spesso persone che hanno avuto una attività professionale che le ha messe in contatto con l’amianto, ma anche persone che, nel 20% dei casi, non riescono a spiegare come sia avvenuto il contatto con la fibra…”.

Ci vorrebbe dunque “una giornata nazionale da dedicare al’amianto, un momento di riflessione collettiva che non coinvolga soltanto gli addetti ai lavori”. E, ricorda infine anche Stefano Farina, necessita anche una “diffusione capillare della formazione”.

Come sempre diamo ai nostri lettori la possibilità di ascoltare integralmente l’intervista, al link:

https://www.youtube.com/watch?v=Bp9SRWxO2JI

e/o di leggerne una parziale trascrizione.

ARTICOLO E INTERVISTA A CURA DI TIZIANO MENDUTO

Cominciamo a cercare di comprendere la dimensione del problema della presenza di amianto in edilizia e agricoltura. Accade spesso in questi comparti che ci si trovi ad avere a che fare con materiale in amianto?

Stefano Farina

Secondo quella che è la mia esperienza, nei cantieri di ristrutturazione o demolizione di edifici circa nell’80% dei casi abbiamo riscontrato la presenza di amianto. Una quantità molto elevata che non sempre è visibile. Tante volte ci si sofferma alle verifica delle coperture, mentre in realtà all’interno di strutture o finiture troviamo la presenza di queste fibre, chiamate anche “fibre killer”.

Anche in agricoltura specialmente in fase di smontaggio di capannoni o annessi agricoli si rileva la presenza di amianto. E molte volte questo amianto, soprattutto se in lastre, viene riutilizzato perché non c’è la conoscenza della sua pericolosità. La presenza di amianto si riscontra anche nel sottosuolo, in tubazioni di tipo irriguo o di acquedotti e fognature…

Nella Commissione Consultiva questa dimensione del problema è avvertita? Si sta lavorando per migliorare la prevenzione del fenomeno amianto?

Paolo Varesi

C’è una grande attenzione istituzionale. La Commissione già nel precedente mandato aveva istituito un apposito Comitato Tecnico che aveva approfondito vari aspetti in collaborazione con il Ministero della Salute e con l’INAIL. La nuova Commissione ha già previsto la permanenza di questo comitato.

Io integrerei quanto già detto da Farina, ricordando che il nostro paese è stato il più grande utilizzatore di fibra d’amianto. Ne sono presenti sul territorio milioni di tonnellate, in modo molto diffuso, perché l’utilizzo di questa fibra veniva raccomandata. Ci sono pubblicità in cui si raccomandava l’uso di questo materiale per le sue caratteristiche a livello industriale per l’isolamento termico.

Stefano Farina

E per la protezione dei lavoratori…

Paolo Varesi

Per cui non a caso in alcuni ambiti, come in agricoltura ed edilizia, oggi è difficile censire completamente la presenza di questo materiale.

La mia generazione è nata con l’Eternit che veniva utilizzato anche per realizzare la cuccia del cane. Veniva utilizzato con molta facilità, soprattutto in campagna. E viene ancora utilizzato. Ci sono regioni in cui l’Eternit è usato dalle famiglie per proteggere particolari formaggi che vengono realizzati in fossa, oppure per proteggere gli animali da cortile.

Questo è un tema che non può restare di interesse istituzionale o da addetti ai lavori ma deve permeare la popolazione attraverso tutti gli strumenti di comunicazione. Ad esempio attraverso le scuole che spesso vengono investite da questo problema e che spesso sono oggetto di attenzione perché moltissimi edifici pubblici, è stato ricordato anche recentemente dall’ex Ministro Balduzzi, sono caratterizzati dalla presenza di fibre d’amianto.

Proprio per la caratteristica del nostro paese e per l’uso che questo paese ha fatto dell’amianto noi abbiamo il problema di individuare bene tutti i siti, di fare una buona informazione, perché le persone si difendano, e soprattutto di instaurare anche un po’ di paura. E lo dico senza creare allarmismo. Il problema è che noi tema siamo abituati a vivere sulla cronaca, a prevenire l’infortunio, mentre qui stiamo parlando di una malattia che ha una latenza lunghissima, addirittura di 30/40 anni, e che non lascia scampo. Si muore, non c’è speranza di vita. E questa malattia colpisce spesso persone che hanno avuto una attività professionale che le ha messe in contatto con l’amianto, ma anche persone che, nel 20% dei casi, non riescono a spiegare come sia avvenuto il contatto con la fibra.

In edilizia quando, ad esempio, si pianifica, si progetta una ristrutturazione si pensa all’amianto?

Stefano Farina

Sicuramente si dovrebbe pensare all’amianto facendo campionamenti, sopralluoghi e vedendo, locale per locale, se c’è presenza di amianto.

Molte volte invece questo controllo viene fatto solo a livello visivo, per cui si guardano le superfici in cui è quasi assodato ci sia la presenza di amianto mentre non si vanno ad approfondire altri aspetti.

E sappiamo che l’amianto può trovarsi in realtà anche nelle contropareti, all’interno degli sfiati e anche dietro a stufe. C’erano infatti i cartonati di amianto che venivano utilizzati dietro stufe e termosifoni per isolare la parete.

Un altro problema è relativo alle caldaie. Sappiamo che molte guarnizioni e rivestimenti delle caldaie contengono amianto…

Per cui parliamo anche di rischi nelle manutenzioni…

Stefano Farina

Parliamo di manutenzioni e anche soprattutto di situazioni dove magari una caldaia è stata dismessa, ma è stata lasciata in ambiente e la fibra d’amianto rimane. E quando si fa la manutenzione successiva, il manutentore è esposto all’amianto.

Parliamo anche di rivestimenti di tubazioni (idriche, riscaldamento, ecc.). Anche in questo caso mi è capitato di vedere isolazioni completamente danneggiate, con perdita di fibra, anche in ambienti pubblici. E il manutentore è totalmente esposto e non sempre è a conoscenza di questi aspetti.

E’ cambiato qualcosa in questi anni dal punto di vista normativo e procedurale riguardo alla sicurezza per esposti all’amianto? Quali sono le problematiche che dovrebbe affrontare oggi il legislatore alla luce di quanto ci avete detto? Quali sono oggi i lavoratori più a rischio riguardo all’amianto?

Paolo Varesi

A volte ci dimentichiamo che i manutentori spesso sono lavoratori stranieri che arrivano da paesi in cui non c’è questa sensibilità, dove spesso non c’è neanche una normativa che tuteli i lavoratori dall’esposizione all’amianto, e che si trovano a fare lavori (cosiddetti in economia) con un datore di lavoro che chiede la risoluzione veloce del problema manutentivo.

Per questo io dico che si devono fare grandi campagne molto aggressive per sensibilizzare le persone e anche per sensibilizzare i datori di lavoro che spesso non sono grandi imprese, dove comunque il sistema tiene, ci sono RSPP qualificati, dove c’è un sistema di collaborazione che consente questa tipologia di interventi.

Noi dobbiamo parlare della quotidianità, dell’acquirente di un appartamento di un negozio, di un appartamento, di uno stabile da ristrutturare, che spesso si rivolge a lavoratori autonomi, a piccole ditte di cittadini stranieri che fanno un lavoro in economia. Stiamo parlando di un lavoro che si fa senza orario, velocemente, senza guardare la tutela dei lavoratori. Questi sono i futuri esposti all’amianto, non sono i lavoratori che hanno la fortuna di lavorare in una grande azienda o in un grande progetto.

Per concludere cosa servirebbe dunque oggi in Italia a livello normativo o a livello di campagne di prevenzione?

Paolo Varesi

Ci vorrebbe un’attenzione politica e mediatica innanzitutto. Ci vorrebbe una giornata nazionale da dedicare all’amianto, un momento di riflessione collettiva che non coinvolga soltanto gli addetti ai lavori, ma anche tutte le associazioni, le comunità, le parrocchie, tutti quegli strumenti che possono aiutare a fare decollare questa formazione culturale.

Stefano Farina

E’ anche necessario operare per una diffusione capillare della formazione. In questi anni tanta formazione è stata fatta, ma probabilmente a livello di amianto e di conoscenza della presenza di amianto non si è sviluppato, ad esempio in edilizia e agricoltura, un sistema di passaggio di informazioni. Molte volte capita di venire consultati da colleghi e imprese dopo che l’amianto è stato trovato all’interno di un edificio con perdita di fibre.

Dobbiamo far capire prima come comportarsi e non arrivare dopo, perché dopo è tardi.

 

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IL NUOVO CODICE PREVENZIONE INCENDI: IL SISTEMA DI ESODO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

15 dicembre 2015

 

Il nuovo codice di prevenzione incendi riporta precise indicazioni relative al sistema di esodo. Procedure ammesse, vie di esodo, luoghi sicuri, scale, illuminazione di sicurezza, segnaletica d’esodo ed orientamento.

 

Le finalità del sistema di esodo sono quelle di “assicurare che gli occupanti dell’attività possano raggiungere o permanere in un luogo sicuro, a prescindere dall’intervento dei Vigili del Fuoco”.

Inizia con queste parole il capitolo dedicato al “sistema d’esodo” e contenuto nel cosiddetto “Codice di prevenzione Incendi” relativo al Decreto del Ministero dell’Interno del 3 agosto 2015 recante “Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del Decreto Legislativo 8 marzo 2006, n. 139”, Codice di prevenzione che è entrato in vigore il 18 novembre 2015.

 

Riguardo a questo aspetto così importante per l’efficacia delle strategie di prevenzione antincendio nei luoghi di lavoro, ricordiamo innanzitutto che secondo il Codice le procedure ammesse per l’esodo sono tra le seguenti:

  • esodo simultaneo: modalità di esodo che prevede lo spostamento contemporaneo degli occupanti fino a luogo sicuro (l’attivazione della procedura di esodo segue immediatamente la rivelazione dell’incendio oppure è differita dopo verifica da parte degli occupanti dell’effettivo innesco dell’incendio);
  • esodo per fasi: modalità di esodo di una struttura organizzata con più compartimenti, in cui l’evacuazione degli occupanti fino a luogo sicuro avviene in successione dopo l’evacuazione del compartimento di primo innesco; si attua con l’ausilio di misure antincendio di protezione attiva, passiva e gestionali (ad esempio l’esodo per fasi si attua in edifici di grande altezza, ospedali, multisale, centri commerciali, grandi uffici, ecc.);
  • esodo orizzontale progressivo: modalità di esodo che prevede lo spostamento degli occupanti dal compartimento di primo innesco in un compartimento adiacente capace di contenerli e proteggerli fino a quando l’incendio non sia estinto o fino a che non si proceda a una successiva evacuazione verso luogo sicuro (l’esodo orizzontale progressivo si attua ad esempio nelle strutture ospedaliere);
  • protezione sul posto: modalità di esodo che prevede la protezione degli occupanti nel compartimento in cui si trovano.

Il documento “Norme tecniche di prevenzione incendi”, allegato al Decreto del 3 agosto 2015, riporta nel capitolo sull’esodo varie indicazioni relative ai livelli di prestazione, ai criteri di attribuzione dei livelli di prestazione e alle possibili soluzioni progettuali.

 

Noi ci soffermiamo invece su alcune delle caratteristiche generali del sistema d’esodo.

Ad esempio riguardo al “luogo sicuro” (luogo esterno alle costruzioni nel quale non esiste pericolo per gli occupanti che vi stazionano o vi transitano in caso di incendio) si indica che ogni luogo sicuro deve essere idoneo a contenere gli occupanti che lo impiegano durante l’esodo. La superficie lorda del luogo sicuro è calcolabile tenendo in considerazione le superfici minime per occupante riportate in una tabella contenuta nel codice.

Inoltre si considerano luogo sicuro per l’attività almeno le seguenti soluzioni:

  • la pubblica via,
  • ogni altro spazio scoperto esterno alla costruzione sicuramente collegato alla pubblica via in ogni condizione d’incendio, che non sia investito dai prodotti della combustione, in cui il massimo irraggiamento dovuto all’incendio sugli occupanti sia limitato a 2,5 kW/m2, in cui non vi sia pericolo di crolli (nel Codice è presente una metodologia per calcolare anche la distanza di separazione che limita l’irraggiamento sugli occupanti e a meno di valutazioni più approfondite da parte del progettista, la distanza minima per evitare il pericolo di crollo dell’opera da costruzione è pari alla sua massima altezza).

Infine il luogo sicuro deve essere contrassegnato con cartello UNI EN ISO 7010:2015 o equivalente.

Veniamo invece al “luogo sicuro temporaneo” (luogo interno o esterno alle costruzioni nel quale non esiste pericolo imminente per gli occupanti che vi stazionario o vi transitano in caso di incendio: da ogni luogo sicuro temporaneo gli occupanti devono poter raggiungere un luogo sicuro). In particolare si considera luogo sicuro temporaneo per un’attività almeno un compartimento adiacente a quelli da cui avviene l’esodo o uno spazio scoperto.

Veniamo alle vie d’esodo.

Riportiamo alcune indicazioni:

  • l’altezza minima delle vie di esodo è pari a 2 m; sono ammesse altezze inferiori per brevi tratti segnalati lungo le vie d’esodo da locali ove vi sia esclusiva presenza occasionale e di breve durata di personale addetto (ad esempio locali impianti);
  • non devono essere considerati ai fini del calcolo delle vie d’esodo i seguenti percorsi: scale portatili e alla marinara; ascensori; rampe con pendenza superiore all’8%; scale e marciapiedi mobili non progettati secondo le indicazioni presenti nel paragrafo 5.4.5.4 del Codice;
  • è ammesso l’uso di scale alla marinara a servizio di locali ove vi sia esclusiva presenza occasionale e di breve durata di personale addetto (ad esempio locali impianti);
  • per quanto possibile, il sistema d’esodo deve essere concepito tenendo conto che, in caso di emergenza, gli occupanti che non hanno familiarità con l’attività tendono solitamente a uscire percorrendo in senso inverso la via che hanno impiegato per entrare;
  • tutte le superfici di calpestio delle vie d’esodo devono essere non sdrucciolevoli;
  • il fumo ed il calore dell’incendio smaltiti o evacuati dall’attività non devono interferire con il sistema delle vie d’esodo.

Il Codice si sofferma poi su vari altri aspetti che riguardano il sistema d’esodo: via d’esodo protetta, via d’esodo a prova di fumo, via d’esodo esterna, via d’esodo aperta, rampe d’esodo, porte lungo le vie di esodo, uscite finali, posti a sedere fissi e mobili, affollamento, scale, segnaletica, illuminazione.

Ci soffermiamo sulle “scale d’esodo”:

  • nelle attività con massima quota dei piani superiore a 54 m almeno una scala d’esodo deve addurre anche al piano di copertura dell’edificio, qualora praticabile;
  • quando un pavimento inclinato immette in una scala d’esodo, la pendenza deve interrompersi almeno ad una distanza dalla scala pari alla larghezza della stessa;
  • le scale d’esodo devono essere dotate di corrimano laterale;
  • le scale d’esodo di larghezza maggiore di 2.400 mm dovrebbero essere dotate di corrimano centrale;
  • le scale d’esodo devono consentire l’esodo senza inciampo degli occupanti, a tal fine i gradini devono avere alzata e pedata costanti e le scale devono essere interrotte da pianerottoli di sosta;
  • dovrebbero essere evitate scale d’esodo composte da un solo gradino in quanto fonte d’inciampo; se il gradino singolo non è eliminabile, deve essere opportunamente segnalato.

Nel documento sono anche riportate le condizioni per considerare scale e marciapiedi mobili ai fini del calcolo delle vie di esodo.

Riportiamo inoltre alcune indicazioni generali relative alla segnaletica d’esodo ed orientamento.

Il sistema d’esodo (ad esempio le vie d’esodo, i luoghi sicuri, gli spazi calmi, ecc.) deve essere facilmente riconosciuto e impiegato dagli occupanti grazie ad apposita segnaletica di sicurezza. Ciò può essere conseguito anche con ulteriori indicatori ambientali quali: accesso visivo e tattile alle informazioni; grado di differenziazione architettonica; uso di segnaletica per la corretta identificazione direzionale, tipo UNI EN ISO 7010:2015 o equivalente; ordinata configurazione geometrica dell’edificio, anche in relazione ad allestimenti mobili o temporanei.

Inoltre la segnaletica d’esodo deve essere adeguata alla complessità dell’attività e consentire l’orientamento degli occupanti (wayfinding).

E a tal fine:

  • devono essere installate in ogni piano dell’attività apposite planimetrie semplificate, correttamente orientate, in cui sia indicata la posizione del lettore (ad esempio “Voi siete qui”) e il layout del sistema d’esodo (ad esempio vie d’esodo, spazi calmi, luoghi sicuri, ecc.); a tal proposito possono essere applicate le indicazioni contenute nella norma ISO 23601 “Safety identification – Escape and evacuation plan sign”;
  • possono essere applicate le indicazioni supplementari contenute nella norma ISO 16069 “Graphical symbols – Safety signs – Safety way guidance systems”.

E riguardo all’illuminazione di sicurezza deve essere installato un impianto di illuminazione di sicurezza lungo tutto il sistema delle vie d’esodo fino a luogo sicuro qualora l’illuminazione possa risultare anche occasionalmente insufficiente a garantire l’esodo degli occupanti.

Tale impianto deve assicurare un livello di illuminamento sufficiente a garantire l’esodo degli occupanti, conformemente alle indicazioni della norma UNI EN 1838:2013 o equivalente.

Il documento “Norme tecniche di prevenzione incendi”, allegato al Decreto del 3 agosto 2015, riporta infine anche precise indicazioni relative al calcolo delle vie d’esodo, alle misure antincendio minime per l’esodo e alla progettazione dell’esodo, anche con riferimento alla presenza di occupanti con disabilità.

Concludiamo questa breve presentazione del capitolo relativo all’Esodo (S.4), contenuto nel nuovo Codice di prevenzione Incendi, riportandone l’indice:

  • premessa;
  • livelli di prestazione;
  • criteri di attribuzione dei livelli di prestazione;
  • soluzioni progettuali;
  • caratteristiche generali del sistema d’esodo;
  • dati di ingresso per la progettazione del sistema d’esodo;
  • misure antincendio minime per l’esodo;
  • progettazione dell’esodo;
  • esodo in presenza di occupanti con disabilità;
  • misure antincendio aggiuntive;

Il Decreto del Ministero dell’Interno 3 agosto 2015 “Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del Decreto Legislativo 8 marzo 2006, n. 139” è consultabile all’indirizzo:

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/08/20/15A06189/sg

 

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DIFFERENZE DI GENERE: RISCHI PSICOSOCIALI, STRESS E SUICIDI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

21 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Informazioni sulle differenze di genere nel mondo del lavoro con particolare riferimento ai rischi psicosociali e allo stress lavoro correlato. I fattori di rischio, le mansioni femminili e le differenze sull’incidenza di suicidio tra donne e uomini.

 

Diversi articoli di PuntoSicuro in questi ultimi anni hanno sottolineato come le differenze di genere si associno spesso nel mondo del lavoro a una distribuzione diversa, per tipologia e incidenza, delle patologie di origine professionale.

E questa differente distribuzione è attribuibile sia ad una ineguale esposizione ai rischi per la salute che ad alcune specificità dei due sessi, ad esempio a peculiarità di tossico-cinetica e tossico-dinamica, differenti suscettibilità di organi bersaglio e specificità legate al sistema riproduttivo e ormonale che possono predisporre a effetti biologici diversi, anche a parità di esposizione.

 

Ad affermarlo è il documento INAIL “Salute e sicurezza sul lavoro, una questione anche di genere. Rischi lavorativi. Un approccio multidisciplinare” che segue la pubblicazione di altri tre volumi INAIL sul tema delle differenze correlate all’appartenenza al genere maschile o femminile.

E se in passati articoli di presentazione del documento, PuntoSicuro ha evidenziato diverse differenze di genere correlate, ad esempio, ai rischi chimici e biologici e ai rischi ergonomici e organizzativi, si possono notare sensibili differenze anche riguardo ai rischi psicosociali?

Ricordiamo che i rischi psicosociali sono (come indica il documento INAIL e come da definizione di Cox e Griffiths del 1995, ripresa nel 2000 dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro) “gli aspetti di progettazione, organizzazione e gestione del lavoro e i loro contesti ambientali e sociali che, potenzialmente, possono dar luogo a danni di natura psicologica, sociale o fisica”. E in particolare “lo stress lavoro correlato è un insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste in ambito lavorativo non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore” (NIOSH, 1999).

Per capire se ci siano specificità e differenze di genere riguardo ai rischi psicosociali, bisogna innanzitutto elencare i principali fattori di rischio in ambito lavorativo suddivisi per contenuto e contesto di lavoro, per i quali esiste un’ampia evidenza scientifica che rappresentino un potenziale di stress e di danno per la salute: l’elevato carico di lavoro, una scarsa autonomia, un basso supporto sociale da colleghi e superiori, instabilità e insicurezza del lavoro, alcune caratteristiche dell’orario di lavoro e una bassa remunerazione.

Se fino a oggi gli studi “non hanno evidenziato differenze tra uomini e donne nelle cause dello stress lavoro correlato” (Miller e altri, 2000), è importante sottolineare che molti di questi fattori di rischio indicati sono presenti nelle mansioni svolte generalmente da donne: mancanza di controllo sul proprio lavoro, posizione nella gerarchia organizzativa, gap salariale, compiti ripetitivi, instabilità e insicurezza sul lavoro, esigenze contrastanti tra lavoro e vita privata, discriminazione, molestie sessuali.

Ad esempio la difficoltà nel conciliare lavoro e vita familiare è “considerato un fattore in grado di aumentare nelle donne il rischio di disturbi psicologici da stress quali stanchezza cronica, nervosismo, ansia, disturbi della sfera sessuale e depressione” (Wedderburn, 2000).

Inoltre “i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità così come quelli derivanti da statistiche condotte in Italia, dimostrano come la depressione e i disturbi d’ansia siano più diffusi tra le donne rispetto agli uomini e che questa maggiore prevalenza femminile può essere dovuta a fattori ormonali (basti pensare alla depressioni post-partum), biologici e sociali, o potrebbe essere l’epifenomeno di una maggior propensione delle donne a richiedere un trattamento terapeutico” (Dell’Osso, 2012).

E all’inverso “il minor ricorso a trattamenti terapeutici, ovviato spesso da condotte di abuso di alcol e droghe, potrebbe portare alla sottostima di queste patologie nel sesso maschile” (Haslam, 2003).

E se le differenze di genere sono particolarmente evidenti con riferimento ai casi di segregazione occupazionale, cioè all’ineguale distribuzione per genere degli individui tra le diverse occupazioni, si evidenzia come in alcuni settori a elevata occupazione femminile (sanità e istruzione in primo luogo) si richiede alle lavoratrici di svolgere mansioni molto impegnative sia sul piano fisico, che su quello mentale, con un forte uso delle risorse relazionali ed emotive che possono comportare stati di stress e di stanchezza notevoli.

Senza dimenticare che, come ricordato a proposito dei rischi da fattori inerenti l’organizzazione di lavoro, in una lavoratrice un lavoro faticoso e stressante può alterare il ciclo mestruale provocando, amenorrea, dismenorrea, cicli anovulatori e riduzione della fertilità.

Inoltre secondo alcuni studi le donne “tendono a sviluppare 2-3 volte più degli uomini il disturbo post traumatico da stress dopo un trauma e ad avere sintomi più persistenti” (American Medical Association Councilon Scientific Affairs).

E sembra che il rischio di disturbi dell’ansia e dell’umore sia in genere associato per le donne a eventi stressanti della vita legati alla riproduzione, educazione e cura dei figli e alla gestione della famiglia, mentre per gli uomini tale rischio “viene a essere associato maggiormente a problematiche lavorative e finanziarie” (Afifi, 2007).

Concludiamo l’articolo proprio parlando delle reazioni alle problematiche economiche e alle differenze riscontrate sull’incidenza di suicidio tra donne e uomini.

Infatti si è riscontrato, in uno studio condotto alla fine degli anni ‘80, che l’incidenza di suicidio è “superiore nell’uomo rispetto alla donna con un rapporto 3,5:1 nella popolazione generale” (Conroy, 1989). Altri studi hanno evidenziato come tale divario aumenti notevolmente se si considerano solo i suicidi per i quali fosse possibile riconoscere una motivazione legata al mondo del lavoro.

Veniamo ad alcuni dati che riguardano l’Italia, come riportati nel documento dell’INAIL:

  • i suicidi di imprenditori e lavoratori, motivati da difficoltà economiche, sono saliti del 52% dai 123 del 2005 ai 187 del 2010 (dati ISTAT);
  • secondo i dati EURES nel corso del 2009 in Italia i suicidi commessi sono stati 2.986 (il 5,6% in più rispetto all’anno precedente), con incremento sia della componente femminile (643 casi, +1,6% rispetto al 2008) che, ancor più, della componente maschile (2.197 casi, + 5,6%);
  • i suicidi per ragioni economiche (per quanto sia possibile attribuire una motivazione univoca al gesto e al netto dei suicidi “non spiegati”) risultano essere stati 198 nel 2009 (+32% rispetto al 2008, +67,8% rispetto al 2007), rappresentando il 10,3% dei casi totali contro il 2,9% rilevato nel 2000, evidenziando così la forte influenza determinata dalla crisi economica che il Paese sta attraversando.

 

In ogni caso il suicidio per ragioni economiche sembra rappresentare nel nostro paese un fenomeno quasi esclusivamente maschile e si può ipotizzare, infine, che questo dipenda dal particolare contesto socio culturale del nostro paese: la centralità del lavoro e la responsabilità del mantenimento della famiglia sono, infatti, ancora oggi prerogativa e responsabilità prettamente maschili.

IL documento dell’INAIL “Salute e sicurezza sul lavoro, una questione anche di genere. Rischi lavorativi. Un approccio multidisciplinare” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/internet/documents/document/ucm_107230.pdf

 

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PONTEGGI METALLICI: LE NORME CI SONO, MA BISOGNA APPLICARLE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

22 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Per evitare incidenti nei cantieri le norme relative ai ponteggi metallici fissi le l’abbiamo, ma bisogna applicarle. Ne parliamo con Michele Candreva del Ministero del Lavoro.

 

La cronaca di molti incidenti professionali che avvengono quotidianamente nei cantieri (ad esempio il caso del crollo di un’impalcatura con la morte di due operai che è avvenuta a fine ottobre a Piedimonte Matese, in provincia di Caserta) ci ricordano come sia importante la nostra opera di informazione sul tema delle cadute dall’alto in edilizia o, più semplicemente, della tenuta delle opere provvisionali.

 

Per affrontare il tema della sicurezza delle opere provvisionali, del rischio di caduta dall’alto, per cercare di capire perché sono ancora così tanti gli incidenti di lavoro gravi e mortali, abbiamo intervistato l’ingegner Michele Candreva della Direzione Generale della tutela delle condizioni di lavoro e delle relazioni industriali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Lo abbiamo intervistato a margine della manifestazione Ambiente Lavoro, che si è tenuta a Bologna nel mese di ottobre, dove l’ingegner Candreva è intervenuto come relatore al convegno INAIL “I ponteggi metallici fissi: comportamento strutturale ed utilizzi specifici”.

E’ un’intervista diversa dalle altre interviste che realizziamo ai vari attori istituzionali della sicurezza. Il rappresentante del Ministero portava con sé una capiente e pesante borsa nella quale conservava alcuni importanti elementi dei ponteggi, quegli elementi che spesso sono alla radice di molti problemi delle opere provvisionali. E ha voluto mostrarceli, farli vedere alla nostra telecamera, parlarne praticamente per mostrare come a volte servano anche conoscenze pratiche per una reale prevenzione. Per dimostrare che “le norme in questo settore, le disposizioni giuridiche, ce l’abbiamo già”. E che “lo sforzo che dobbiamo fare è applicare quelle norme”.

Veniamo brevemente alle domande rivolte dal nostro giornale.

Non si può non partire da un breve excursus storico che è anche il tema della sua relazione.

Partendo dagli anni cinquanta cosa è cambiato a livello normativo, tecnico e legislativo, sul tema delle disposizioni legislative sulla fabbricazione, commercializzazione dei ponteggi metallici fissi e sulle norme per la prevenzione?

Passare poi nell’intervista dalle norme teoriche agli aspetti pratici e tecnici, è un attimo…

Lei dice che non mancano le norme per la prevenzione e che ci sono tuttavia alcuni aspetti pratici che, spiegati in concreto, potrebbero migliorare la prevenzione. Può fare qualche esempio?

In questa parte dell’intervista, che si sviluppa quasi come una breve sessione di addestramento, l’ingegner Candreva si sofferma in particolare su:

  • elementi contro lo sganciamento accidentale delle tavole metalliche;
  • spine a verme per tenere collegati il montante inferiore con il montante superiore;
  • pipette di un corrente o di un diagonale.

E viene più volte citato l’articolo 137 del D.Lgs.81/08 sulla manutenzione e revisione. Articolo in cui si indica che “il preposto, ad intervalli periodici o dopo violente perturbazioni atmosferiche o prolungata interruzione di lavoro deve assicurarsi della verticalità dei montanti, del giusto serraggio dei giunti, della efficienza degli ancoraggi e dei controventi, curando l’eventuale sostituzione o il rinforzo di elementi inefficienti”. E che i vari elementi metallici “devono essere difesi dagli agenti nocivi esterni con idonei sistemi di protezione”.

Le domande cercano poi di capire le cause e le eventuali “soluzioni” per migliorare la prevenzione.

Perché queste normative sono poco applicate? Mancanza di consapevolezza nelle aziende o nei lavoratori? Mancanza di formazione o addestramento?

A questo proposito l’ingegner Candreva ricorda quanto possa essere importante l’addestramento per “far capire agli operatori l’importanza del montaggio di quel determinato attrezzo, di quel determinato dispositivo di protezione, di quel determinato dispositivo di sicurezza”.

E infine cosa può fare il legislatore per aumentare la prevenzione?

Viene citata la Circolare del Ministero del lavoro 9 febbraio 1995 sull’utilizzo di elementi di impalcato metallico prefabbricato di tipo autorizzato in luogo di elementi di impalcato in legname. E la Circolare 27 agosto 2010, n. 29 in relazione all’impiego di ponteggi come protezione collettiva per i lavoratori che svolgono la loro attività sulle coperture.

Come sempre diamo ai nostri lettori la possibilità di ascoltare integralmente l’intervista al link:

https://www.youtube.com/watch?v=__sROjuY1GQ

e/o di leggerne una parziale trascrizione.

ARTICOLO E INTERVISTA A CURA DI TIZIANO MENDUTO

Partendo dagli anni cinquanta cosa è cambiato a livello normativo, tecnico e legislativo, sul tema delle disposizioni legislative sulla fabbricazione, commercializzazione dei ponteggi metallici fissi e sulle norme per la prevenzione?

Michele Candreva

Purtroppo gli infortuni degli ultimi sessanta anni, relativi alle cadute dall’alto e alle opere provvisionali e dei ponteggi, sono in buona sostanza sempre gli stessi.

A mio parere la norma c’è. Il legislatore italiano è intervenuto in questo settore già dal 1955/1956 con idee molto chiare. La differenza con i tempi odierni è che all’epoca era il legislatore ad avere già fatto la valutazione dei rischi e aver dato le indicazioni precise ed esatte di quello che si doveva fare. Ora grazie all’Europa (e l’Europa da questo punto ci ha dato tantissimo) a seguito dell’analisi, dello studio, della valutazione dei rischi, si esamina il problema e si arriva a definire quali sono le migliori misure preventive e protettive per il caso specifico.

Nel mio intervento ho detto che, a mio parere, le norme in questo settore, le disposizioni giuridiche, ce l’abbiamo già. Lo sforzo che dobbiamo fare è applicare quelle norme. Dopo di che ho dato anche altre informazioni. Ad esempio ho detto che le Direttive europee di prodotto sulle opere provvisionale non esistono. Inutile che diciamo che c’è quel prodotto marcato CE, perché non può essere marcato CE, perché non esiste una Direttiva di prodotto sull’argomento.

Viceversa il legislatore italiano ha seguito costantemente questi temi fino ai giorni nostri, l’ultima circolare sui dispositivi di ancoraggio è infatti la Circolare n. 3 del 13 febbraio 2015. E’ vero che non esiste una Direttiva di prodotto su questo argomento, ma esiste una Direttiva di uso che è la Direttiva 2001/45/CE del giugno del 2001. E poi esistono una serie di norme a livello europee pubblicate dal Comitato europeo di normazione. Ne esistono tantissime: sui ponteggi, sui trabattelli, sui pontelli, sulle reti di sicurezza, sui parapetti provvisori, ecc..

Di normativa ne abbiamo tantissima, dobbiamo soltanto applicare quelle norme. Per applicare quelle norme avremo necessità di fare, a mio avviso, più che della formazione, dell’addestramento. Bisogna far vedere quelle cose che sono di natura pratica agli operatori del settore e far capire per quale motivo è utile, opportuno, necessario, inserire un certo dispositivo o meno.

Lei dice che non mancano le norme per la prevenzione e che ci sono tuttavia alcuni aspetti pratici che, spiegati in concreto, potrebbero migliorare la prevenzione. Può fare qualche esempio?

Michele Candreva

All’operatore bisogna dire che nel momento in cui questi elementi contro lo sganciamento accidentali sono utilizzati, ci sono diversi benefici.

Montiamo il ponteggio, magari montiamo naturalmente anche l’impalcato sull’ultimo piano del ponteggio a quota quindici metri, venti metri, trenta metri (a seconda di come sia l’edificio). E magari lo montiamo in una zona molto ventosa. Voi capite bene che quando vediamo sul giornale che le tavole metalliche di un ponteggio sono stata sbilanciate a trenta, quaranta metri di distanza evidentemente questi elementi contro lo sganciamento accidentale della tavola metallica non erano stati montati. E nel momento in cui vengono effettuate le prove di controventatura in pianta sulle tavole metalliche che questi elementi contro lo sganciamento siano montati o meno incide almeno per il 30-40% sulla prova.

Mi viene poi in mente un articolo che è tra quelli più disattesi, l’articolo 137 del Testo Unico, quello sulla manutenzione.

Spesso e volentieri quando noi acquistiamo qualcosa, anche per casa nostra, non pensiamo alla manutenzione. Ma la manutenzione è molto importante. L’articolo dice che a intervalli periodici o dopo violente perturbazioni atmosferiche o prolungata interruzione di lavoro bisogna fare dei controlli periodici.

Ma questi controlli possono anche essere semplici. E, a mio modesto parere, si può andare a prendere l’allegato XIX del Testo Unico, fare la fotocopia, aggiungere due colonne alla fine con un si e un no, dare queste sette/otto pagine ad un responsabile del cantiere, a un preposto che, magari, ogni lunedì mattina vada a verificare il ponteggio.

Perché queste normative sono poco applicate? Mancanza di consapevolezza nelle aziende? Mancanza di formazione o addestramento?

Michele Candreva

L’impresa in realtà conosce abbastanza bene le problematiche e penso che cerchi di tenere le attrezzature in ordine. Molte volte è la fretta del cantiere che non consente di affrontare correttamente le problematiche.

Cosa si potrebbe fare? A mio avviso si dovrebbe operare il più possibile con l’addestramento: far capire agli operatori l’importanza del montaggio di quel determinato attrezzo, di quel determinato dispositivo di protezione, di quel determinato dispositivo di sicurezza. Quando si comprende che se, ad esempio non viene inserita la spina a verme o l’elemento contro lo sganciamento delle tavole metalliche viene a decurtarsi il coefficiente di sicurezza dell’intero ponteggio e ne va della sicurezza degli operatori, forse abbiamo più coscienza dei rischi.

 

 

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.238 DEL 29/12/15 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

Dopo Vicoforte: riflessioni, spunti, proposte

Pubblichiamo la sintesi delle riflessioni e delle proposte emerse dall’incontro di Vicoforte dell’ottobre scorso.
L’incontro aveva come scopo quello di tentare una prima definizione degli obiettivi di una formazione slow in quattro ambiti che consideriamo fondamentali.
  • scienza, conoscenza e pratica : l’acquisizione e l’applicazione della conoscenza scientifica e nel contesto delle cure
  • medicina narrativa e humanities nella formazione dei professionisti della cura;
  • comunicazione e relazione nella pratica della cura: quali competenze sono necessarie, quali metodi formativi possono migliorarle
  • organizzazione slow :guida alla lettura ed alla trasformazione dei sistemi organizzati.
Queste prime riflessioni saranno presentate e discusse nel corso dell’incontro Il cammino delle chiocciole, che si svolgerà a Torino presso la sede dell’ordine dei Medici ( Corso Francia 8) il pomeriggio del 30 gennaio 2016, dopo la riunione dell’Assemblea dei Soci. Ci auguriamo che ne nascano nuove proposte e nuovi progetti con il coinvolgimento di tutti i soci.