SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.245 DEL 24/02/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.245 DEL 24/02/16

 

INDICE

  • Requisiti di sicurezza delle macchine e norme tecniche di riferimento
  • Tranquilli, il lavoro uccide come al solito!
  • Se fate il turno di notte, la vostra salute è a rischio
  • Cassazione: no al licenziamento per sopravvenuta incapacità totale di svolgere le precedenti mansioni
  • Come e quando avvengono i controlli nelle aziende?
  • Guida alla collaborazione col medico competente
  • Le novità relative alla valutazione del rischio chimico

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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REQUISITI DI SICUREZZA DELLE MACCHINE E NORME TECNICHE DI RIFERIMENTO

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.71

 

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti dei lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

 

 

QUESITO

 

Ciao Marco,

come sempre grazie per le informazioni che ricevo puntuali e che danno spunti di riflessione sull’andamento della sicurezza e salute.

Ti scrivo per porti un paio di quesiti che non trovano risposta, se non nei manuali tecnici difficilmente raggiungibili almeno per me: spero tu possa darmi una mano.

Ci legge in copia sempre il mio RSU di riferimento il quale mi segnala tempestivamente ogni situazione anomala.

Il quesito primo riguarda il piano di carico di un veicolo per la raccolta dei rifiuti del tipo a vaschetta la cui apertura laterale supera i 152 cm da terra. Vorrei sapere se questa misura corrisponde alla normativa UNI EN 1501-2, sempre per la questione della movimentazione Manuale dei carichi.

Leggendo alcuni tuoi articoli si menzionava una altezza di cm 140, ma questo con vani carico posteriore: non so se questa misura si applica anche a quelli laterali.

Un secondo quesito è sul tubo dei gas di scarico dei mezzi per la raccolta dei rifiuti compattatori, con uso delle pedane posteriori, il quale risulta a livello quasi stradale e non come prevede la normativa UNI EN 1501-1, la quale indica che i gas devo essere convogliati verso l’alto.

In questo sorgono anche a me dei dubbi sulla norma UNI, cioè se sia cogente o meno al fine di una eventuale segnalazione all’organo competente.

Ringraziandoti come sempre della tua disponibilità ti saluto cordialmente.

 

 

RISPOSTA

 

Ciao,

occorre premettere che le norme da te citate e in generale quelle relative ai veicoli per la raccolta dei rifiuti (VRR), cioè

  • UNI EN 1501-1:2015 “Veicoli raccolta rifiuti – Requisiti generali e di sicurezza – Parte 1: Veicoli raccolta rifiuti a caricamento posteriore”;
  • UNI EN 1501-2:2010 “Veicoli raccolta rifiuti e relativi dispositivi di sollevamento – Requisiti generali e di sicurezza – Parte 2: Veicoli raccolta rifiuti a caricamento laterale”;
  • UNI EN 1501-3:2008 “Veicoli raccolta rifiuti e relativi dispositivi di sollevamento – Requisiti generali e di sicurezza – Parte 3: Veicoli raccolta rifiuti a caricamento frontale”;
  • UNI EN 1501-4:2008 “Veicoli raccolta rifiuti e relativi dispositivi di sollevamento – Requisiti generali e di sicurezza – Parte 4: Codice di prova dell’emissione acustica per veicoli raccolta rifiuti”;
  • UNI EN 1501-5:2011 “Veicoli raccolta rifiuti – Requisiti generali e di sicurezza – Parte 5: Dispositivi di sollevamento per veicoli raccolta rifiuti”;

sono norme armonizzate, così come definite dall’articolo 2, comma 1, lettera n) del D.Lgs.17/10 (recepimento italiano della Direttiva Macchine Europea 2006/42/CE):

specifica tecnica adottata da un organismo di normalizzazione, ovvero il Comitato europeo di normalizzazione (CEN), il Comitato europeo di normalizzazione elettrotecnica (CENELEC) o l’Istituto europeo per le norme di telecomunicazione (ETSI), nel quadro di un mandato rilasciato dalla Commissione europea conformemente alle procedure istituite dalla direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 giugno 1998, che prevede un procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, e non avente carattere vincolante”.

 

Tali norme, come specificato nella definizione non sono vincolanti per il costruttore di macchine, ma, come si suol dire danno la “presunzione di conformità” ai requisiti di sicurezza dell’Allegato I della Direttiva Macchine che invece sono obbligatori.

 

Infatti, secondo l’articolo 4, comma 2 del D.Lgs.17/10:

Le macchine costruite in conformità di una norma armonizzata, il cui riferimento è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, si presumono conformi ai requisiti essenziali di sicurezza e di tutela della salute coperti da tale norma armonizzata”.

Ciò significa che se il costruttore segue integralmente una norma armonizzata (anche se non è obbligato a farlo) ha la sicurezza legislativa che la macchina costruita sia conforme anche ai requisiti obbligatori di salute e sicurezza contenuti nell’Allegato I della Direttiva Macchine e quindi possa essere immessa sul mercato, secondo gli adempimenti stabiliti dalla Direttiva stessa.

Se il costruttore invece non rispetta uno o più punti della norma armonizzata dovrà dimostrare formalmente all’organismo di certificazione (privato) del VRR o all’organismo di vigilanza (pubblico, cioè l’ASL) che ha adottato soluzioni tecniche equivalenti o migliori rispetto a quelle contenute nella norma armonizzata e che consentano comunque il rispetto dei requisiti obbligatori stabiliti dall’Allegato I della Direttiva Macchine.

 

Per quanto riguarda il primo aspetto che citi, sia la norma 1501-1 (per i VRR a caricamento posteriore) sia la 1501-2 (per i VRR a caricamento laterale) pongono dei limiti all’altezza della soglia di carico della tramoggia di raccolta dei rifiuti.

Le due norme dividono tale requisiti tra sistemi di “tipo aperto” per i quali il movimento del meccanismo di compattazione dei rifiuti interno alla tramoggia di carico può avvenire solo manualmente con comandi ad azione di mantenimento (cioè che devono essere mantenuti azionati per permettere il movimento) e sistemi di “tipo chiuso” per il quali il movimento di compattazione può avvenire anche in maniera automatica o semiautomatica, quindi con pulsanti ad azione diretta e non mantenuta.

 

In particolare la 1501-1 impone un’altezza minima di 1.000 mm per l’altezza della soglia di carico per sistemi di tipo aperto e di 1.400 mm per sistemi di tipo chiuso.

Se l’altezza è variabile a causa di una spondina incernierata che permette l’apertura parziale della tramoggia di carico, a sponda abbassata (sistema di tipo aperto) l’altezza deve essere maggiore di 1.000 mm e la compattazione automatica o semiautomatica deve essere impedita da un sensore di sicurezza che legga la posizione della spondina, mentre a sponda alzata (sistema di tipo chiuso) l’altezza deve essere maggiore di 1.400 mm e può essere permessa la compattazione automatica o semiautomatica.

Analogo discorso vale per i VRR a caricamento laterale, dove ancora l’altezza minima della soglia di carico per i sistemi di tipo aperto deve essere di 1.000 mm e quella per i sistemi di tipo chiuso deve essere di 1.400 mm.

Ovviamente se il VRR (posteriore o laterale) non ha meccanismo di compattazione rifiuti interno alla tramoggia, non ci sono vincoli per l’altezza minima della soglia di carico.

 

Le altezze minime sopra citate non sono state però pensate, dai comitati tecnici che hanno definito le norme armonizzate di cui sopra, in termini di ergonomia del carico manuale dei rifiuti, ma solo in termini di protezione dell’operatore dai rischi di cesoiamento o schiacciamento degli arti superiori da parte del meccanismo di compattazione.

Di conseguenza i costruttori non hanno vincoli sull’altezza massima della soglia di carico, indipendentemente da considerazioni di carattere ergonomico o di movimentazione manuale dei carichi.

 

Spetta al datore di lavoro della azienda di raccolta rifiuti eseguire una specifica valutazione del rischio da movimentazione manuale dei carichi (ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera a) e dell’articolo 169 del D.Lgs. 81/08), tenendo conto non solo dei vincoli tecnici imposti dalle norme 1501 e di conseguenza dell’altezza di conferimento dei rifiuti, ma anche di altri fattori quali la durata del compito, la frequenza di sollevamento, il peso dei carichi da movimentare.

A seguito di tale valutazione il datore di lavoro dovrà individuare misure di prevenzione e protezione tecniche o organizzative per ridurre il fattore di rischio (ad esempio equipaggio composto da due persone che alternativamente guidano il veicolo e caricano i rifiuti).

Su tale aspetto quindi la segnalazione all’autorità competente non può essere fatta nei confronti del costruttore del VRR, ma semmai deve essere fatta nei confronti del datore di lavoro dell’azienda utilizzatrice.

 

Per quanto riguarda il secondo aspetto le norme 1501 pongono dei vincoli ben precisi alla configurazione della tubazione di scarico.

Per quanto riguarda i VRR a caricamento posteriore, il punto 5.16.1 “Tubo di scarico” della norma 1501-1 specifica chiaramente che:

Il flusso dello scarico del motore deve essere diretto lontano dagli spazi di lavoro e dalle pedane se presenti. E’ preferibile un sistema di scarico verticale. Il sistema di scarico deve essere opportunamente montato e/o protetto per prevenire ogni ustione alla pelle”.

Per quanto riguarda i VRR a caricamento laterale il punto 6.13.1 “Tubo di scarico” della norma 1501-2 specifica chiaramente che:

Il flusso di scarico del motore deve essere allontanato dalle postazioni di lavoro. Il tubo di scarico deve essere montato o protetto in modo da evitare il rischio di ustioni secondo la norma EN ISO 13732-1:2006”.

Tali requisiti sono definiti dalle norme per evitare ustioni alla pelle degli operatori, come chiaramente specificato.

Essi garantiscono il rispetto del requisito di sicurezza definito dall’Allegato I della Direttiva Macchine, che al punto 1.5.5 “Temperature estreme” impone che:

Devono essere prese opportune disposizioni per evitare qualsiasi rischio di lesioni causate dal contatto o dalla vicinanza con parti della macchina o materiali a temperatura elevata o molto bassa”.

 

Come ho detto prima i requisiti di cui sopra specificati nella norma armonizzate non sono obbligatori, purché il costruttore del VRR dimostri formalmente (nel documento “analisi dei rischi” che è parte integrante del Fascicolo Tecnico di costruzione della macchina e che deve essere custodito dal fabbricante e reso disponibile all’autorità competente) che ha adottato misure alternative di prevenzione o protezione dei rischi, analoghe o migliori di quelle richieste dalle norme armonizzate e che comunque permettano il rispetto del punto sopra citato del D.Lgs.17/10 (Direttiva Macchine) che è invece un requisito obbligatorio e non derogabile.

 

Tieni conto che i costruttori di VRR non realizzano l’autotelaio sul quale montano il cassone di raccolta rifiuti e quindi non hanno la possibilità di progettare la tubazione di scarico secondo quanto richiesto dalle norme 1501. In ogni caso essi devono introdurre delle misure progettuali (ad esempio protezioni isolanti dal calore) per eliminare i rischi (da ustione in questo caso) derivanti dalla non conformità alle norme armonizzate.

Dalle tue informazioni risulta che questo non è stato assolutamente fatto, pertanto, in questo caso potete rivolgervi all’autorità di vigilanza per segnalare la mancata osservanza (da parte del costruttore in questo caso) della norma tecnica e della mancata applicazione di soluzioni progettuali alternative a quelle indicate dalla norma, ma che abbiano la stessa efficacia in termini di protezione dalle ustioni e che rispettino comunque il requisito citato della Direttiva Macchine.

 

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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TRANQUILLI, IL LAVORO UCCIDE COME AL SOLITO!

 

Da La Città Futura

http://www.lacittafutura.it

19 febbraio 2016

di Carmine Tomeo

 

Scusate la provocazione. Però, capirete che fa rabbia leggere allarmi sulle morti nei luoghi di lavoro solo quando ci sono incidenti mortali eclatanti che coinvolgono più lavoratori nello stesso cantiere o quando, come in questi giorni, qualcuno fa notare un aumento dei casi nell’arco di un anno rispetto a quello precedente. Nel 2015, in rapporto alle ore lavorate, sono morti tanti lavoratori quanti nel 2014. E ogni anno sono molti di più dei militari morti nelle “missioni di pace”. A non fare notizia è la condizione dei lavoratori: precari, sotto ricatto, sfruttati, che svolgono lavori poco sicuri.

 

L’Osservatorio Vega Engineering di Mestre, con un lavoro molto apprezzabile, da anni diffonde mensilmente i dati sulle morti che avvengono nei luoghi di lavoro; l’Osservatorio indipendente di Bologna fa un lavoro encomiabile con il monitoraggio degli incidenti mortali sul lavoro, in tempo reale. Sono due esempi di rilevazione sulla strage quotidiana nei luoghi di lavoro, che dovrebbero far sobbalzare dalla sedia ogni volta che se ne leggono i dati. E invece, troppo spesso, si attende la fine dell’anno per stracciarsi le vesti perché c’è stato un X% di morti in più sul lavoro. Come se nel 2014 l’Italia potesse considerarsi un Paese che conosce la civiltà del lavoro perché ci sono stati “solo” 1.107 lavoratori morti e non 1.172, come nel 2015.

 

Sia chiaro: ogni volta che si registrano morti in più siamo di fronte a una tragedia che si aggrava. Ma c’è da chiedersi: oltre 1.000 lavoratori ammazzati dal lavoro a causa di incidenti, sono accettabili? No, certo. E allora, di grazia, perché non ci si è allarmati per i 1.107 morti del 2014, per i 1.215 del 2013, per i 1.347 del 2012, per i 1.387 del 2011? Perché negli ultimi anni i morti sul lavoro erano in calo e ora sono tornati ad aumentare, si dirà. Ma ne siamo sicuri? A leggere i dati, non sembra ci fosse una tendenza alla riduzione di infortuni e morti sul lavoro così sostanziosa da far pensare che si fosse sulla strada giusta.

 

Ha senso considerare i numeri assoluti? Ovviamente, no. Dire che un chilo di pasta è una quantità eccessiva da mangiare, non ha senso senza dire in quanti pasti viene consumato o da quante persone. Lo stesso vale nel caso di infortuni e morti sul lavoro. Il rapporto minimo da considerare è quello tra numero di infortuni e incidenti mortali rispetto al numero dei lavoratori. Se consideriamo i dati INAIL, allora occorre rapportarli con il numero degli assicurati all’ente, che sono circa il 70% degli occupati rilevati dall’ISTAT. Un rapporto del genere mostra davvero un calo di infortuni in generale e di quelli mortali: dal 2011 al 2015, si è registrato un infortunio in meno ogni 100 lavoratori e un morto in meno ogni 100.000 lavoratori. Positivo, certo, ma tanto da restare praticamente indifferenti in questi anni di fronte a quei numeri! E questi dati ancora non raccontano la realtà in maniera esaustiva. Un dato più corretto è quello che mette in rapporto gli infortuni con le ore lavorate. Perché è chiaro che, a parità di pericolo al quale è soggetto, un lavoratore avrà tanta più probabilità di infortunarsi o ammalarsi quanto più tempo è esposto al rischio, cioè quante più ore di lavoro svolge.

 

L’ISTAT fa sapere che, mediamente, le ore settimanali effettivamente lavorate pro-capite sono state 37 nel 2011, e 36 dal 2012 al 2014. Con questi dati possiamo calcolare che ogni 10.000 ore lavorate si verificavano 14 infortuni nel 2011 e 12 nel 2014; allo stesso modo, ogni 10 milioni di ore lavorate, sono morti: 23 lavoratori nel 2011, 24 nel 2012, 22 nel 2013 e 20 nel 2014. Quest’ultimo dato è uguale a quello del 2015 (ipotizzando 36 ore lavorate pro-capite). Perché i 20 lavoratori morti nel 2015 allarmano più dei 20 del 2014? Dovrebbe destare allarme il fatto che sistematicamente la maggioranza delle denunce di infortunio mortale riguarda i lavoratori più anziani (la metà sia nel 2014 che nel 2015); e invece sistematicamente si alza l’età pensionabile. Dovrebbero impressionare le oltre 60.000 denunce di infortunio l’anno che riguardano lavoratori meno che quattordicenni, che qualche volta, poco più che bambini, muoiono sul lavoro (5 casi solo nel 2014), e invece il ministro Poletti parla di ridurre le vacanze, così che i “nostri giovani fanno un’esperienza formativa nel mondo del lavoro”.

 

E perché non ci si allarma per altre morti provocate dal lavoro, quali sono quelle che avvengono per malattia professionale? Eppure nel 2014 sono decedute quasi 1.000 persone per aver contratto una malattia a causa del lavoro. Ogni milione di ore lavorate, dal 2011 al 2014 l’INAIL ha riconosciuto la malattia professionale a 30 lavoratori, e di questi, due hanno contratto una malattia che li ha lentamente uccisi.

 

Eppure questi numeri, che nascondono la tragedia di vite spezzate da un lavoro insicuro, dovrebbero fare notizia, sempre. Perché raccontano di un modo di lavorare, spesso così rischioso da essere mortale. Sicuramente più rischioso di una “missione di pace”, visto che negli stessi anni (2011-2014) sono morti in quelle missioni 21 militari a fronte di oltre 5.000 lavoratori nelle fabbriche, nei cantieri, nelle strade. Tutti quei morti parlano di lavoratori esposti a rischi per la propria salute, la propria integrità fisica e la propria vita. Ed esposti a un ricatto sempre maggiore, sempre più ossessivo, che impone sempre maggiori sacrifici che, ci dicono, sono necessari per far ripartire la crescita. Quella crescita misurata con PIL da zero-virgola, di cui Renzi ed il suo governo si rallegrano ma che è prodotto, evidentemente, molto spesso con lavoro di bassa qualità, scarsa specializzazione, che compete solo sul costo del lavoro che viene ridotto anche sottraendo le spese per garantire condizioni di lavoro sicuro.

 

La riforma Fornero del lavoro, quella sulle pensioni, il Jobs Act, la destrutturazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, gli accordi che sacrificano diritti sull’altare della produttività, sono presupposti esattamente opposti a ciò che sarebbe necessario per contrastare la strage quotidiana sui luoghi di lavoro. Gli appelli per ridurre infortuni e morti sul lavoro, come le chiacchiere, stanno a zero. Alla loro riduzione servono controlli e processi più rapidi; ma soprattutto, il lavoro che uccide va contrastato con la riduzione delle forme di precarietà, ricatto, sfruttamento dei lavoratori e con un’estensione dei diritti e della democrazia nei luoghi di lavoro.

 

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SE FATE IL TURNO DI NOTTE, LA VOSTRA SALUTE E’ A RISCHIO

 

da La Stampa

http://www.lastampa.it

14/01/2015

di Nicla Panciera

 

SE FATE IL TURNO DI NOTTE, LA VOSTRA SALUTE E’ A RISCHIO

UNO STUDIO AMERICANO MISURA LE CONSEGUENZE NEGATIVE SULL’ALTERAZIONE DEL RITMO SONNO-VEGLIA: AUMENTANO RISCHI CARDIOVASCOLARI E ONCOLOGICI

LE REGOLE PER MINIMIZZARE I DANNI

 

Lavorare nelle ore notturne non fa bene alla salute. Le alterazioni del ciclo sonno-veglia hanno degli effetti negativi di lungo periodo sull’organismo dei lavoratori, come un maggior rischio di malattie cardiovascolari e oncologiche, che aumenta in modo proporzionale al numero di anni spesi adottando ritmi sfasati.

Lo dice uno studio condotto da un team internazionale, il più grande finora mai realizzato quanto a numero di soggetti analizzati (ben 75.000 infermiere) e al periodo di tempo considerato (22 anni).

 

I risultati, appena pubblicati sull’American Journal of Preventive Medicine, dicono che un’alterazione dei regolari ritmi del sonno, anche se per un periodo limitato di cinque anni, accresce il rischio di cancro al polmone e di malattie cardiovascolari con un aumento complessivo della mortalità del 11%. Nel dettaglio, i ricercatori hanno visto che le donne che avevano lavorato con turni per un periodo dai 6 ai 14 anni, avevano un rischio di morte per malattie cardiovascolari maggiore del 19%, che arrivava al 23% per periodi lavorativi più lunghi di 15 anni.

 

Parte di un più ampio progetto partito nel 1976, l’indagine ha analizzato per un ventennio la salute di un gruppo di 75.000 infermiere americane.

Secondo gli autori, ciò non costituirebbe un limite ma, al contrario, il riferirsi a una sola professione, permettendo così di escludere le variabili legate alla diversità di occupazione, rafforzerebbe i risultati ottenuti, comunque considerati estendibili alla popolazione generale.

Oggi, infatti, oltre agli operatori sanitari, sono molti i lavoratori costretti a lavorare con turni, dai call center a chi deve fare i conti con i fusi orari nello svolgimento delle proprie mansioni.

 

IL LEGAME TRA RITMI CIRCADIANI E MALATTIE

Per spiegare i meccanismi alla base della maggior vulnerabilità alle malattie oncologiche e cardiovascolari dei turnisti bisogna fare riferimento alla melatonina, ormone dalla funzione protettiva per l’organismo e coinvolto nella regolazione del ciclo sonno veglia. “Alterare il ritmo circadiano riduce i livelli di melatonina secreti dall’organismo, la cui funzione oncoprotettrice è confermata da decenni di studi sull’uomo e sull’animale; la melatonina è un antiossidante che contrasta quei fenomeni di danneggiamento del DNA che possono portare allo sviluppo dei tumori”, spiega il dottor Giovanni de Vito, ricercatore di medicina del lavoro all’Università di Milano Bicocca.

Per quanto riguarda l’aumento della mortalità cardiovascolare emersa dallo studio, “la melatonina avrebbe un effetto stabilizzante sulla membrana dei vasi; ciò determina una riduzione della reazione infiammatoria alla base della produzione delle cosiddette placche endovasali, tra cui quelle coronariche che portano alle patologie ischemiche cardiache”.

 

LAVORO NOTTURNO E MALATTIE NEOPLASTICHE

Il rischio di sviluppare certe malattie in seguito a turni di lavoro notturni è un sorvegliato speciale da tempo, tanto che già dal 2007 l’International Agency for Research on Cancer (lo IARC) di Lione ha inserito il “lavoro su turni che comporta un’alterazione dei ritmi circadiani” fra i possibili fattori che agevolano la carcinogenesi. Nel suo rapporto (Monografia IARC sulla valutazione del rischio cancerogeno per l’essere umano n. 9) del 2010 ha classificato il rischio di tumore legato al turno notturno come “possibile 2A” (probabile cancerogeno per l’uomo).

 

CANCRO AL POLMONE

“I dati sul cancro al polmone dello studio sulle infermiere sono piuttosto nuovi, esistendo una sola altra ricerca relativa agli effetti del lavoro sul rischio di sviluppare la neoplasia”, commenta il dottor De Vito, non coinvolto nello studio. “Sembra che la mortalità per tumore del polmone sia elevata sia nei fumatori che nei non fumatori, questi ultimi con incidenza inferiore. Vale la pena ricordare che i turnisti mangiano di più e fumano di più”.

 

CANCRO ALLA MAMMELLA

Quanto al tumore alla mammella, “questo studio indica un aumento non significativo, per il numero limitato di casi osservati (meno di 100)”. “Tuttavia”, continua De Vito, “precedenti studi confermano il rapporto tra alterazione del ritmo circadiano e tumore della mammella dopo circa 20-30 anni di turni. In questo caso, il meccanismo è basato sul fatto che alcuni tumori della mammella sono estrogeni-dipendenti, in altre parole il loro sviluppo e la loro crescita sono promossi da alti livelli di estrogeni. La melatonina contrasta l’estradiolo, uno degli estrogeni più importanti. Così si spiega il danno creato da una sua diminuzione”.

 

L’IMPATTO SULLE FACOLTA’ COGNITIVE

Anche il nostro cervello risente del lavoro notturno, in particolare con un peggioramento nelle prestazioni delle principali facoltà cognitive, come memoria, attenzione, velocità di reazione.

Lo ha dimostrato uno studio franco-britannico che ha seguito per dieci anni 3.000 lavoratori nel sud della Francia fra i 32 e i 62 anni, impiegati nei più diversi settori, ma con almeno 50 giorni all’anno con orari notturni. I risultati sono chiari: dieci o più anni da turnisti portano a un’accelerazione del declino cognitivo. L’impatto negativo, inoltre, pur reversibile, persiste per almeno cinque anni dopo la fine del lavoro a turni.

 

LE REGOLE D’ORO PER MINIMIZZARE I DANNI

Quando cambiare lavoro non è una strada perseguibile, si devono adottare delle strategie che riguardano l’organizzazione del lavoro volte a minimizzare il danno. Il dottor De Vito, che dirige la Struttura Complessa di Medicina del Lavoro dell’Azienda Ospedaliera della Provincia di Lecco, ne suggerisce alcune basandosi sulla letteratura scientifica esistente.

 

Pianificare correttamente il sistema di rotazione del turno notturno in accordo con criteri ergonomici:

  • preferire rotazioni in senso orario piuttosto che antiorario (mattina, pomeriggio, notte piuttosto che mattina, notte, pomeriggio);
  • evitare che i turni della mattina inizino eccessivamente presto;
  • evitare turni molto lunghi (di 9-12 ore), se non adeguatamente strutturati, con pause e interruzioni per evitare l’accumulo eccessivo di fatica o l’esposizione a sostanze tossiche;
  • programmare turni il più possibile regolari, lasciando libero il fine settimana;
  • lavorare di notte in modo permanente è accettabile solo in situazione lavorative particolari e comunque l’inversione del ciclo sonno-veglia va mantenuta anche nelle giornate non lavorative e l’esposizione alla luce del sole va evitata quando si stacca e nel viaggio verso casa (indossare occhiali da sole mentre si rientra a casa);
  • lasciare tra un turno e l’altro un tempo sufficiente al recupero delle ore di sonno e dalla fatica, evitando due turni nelle 24 ore e inserendo il giorno di pausa dopo un turno di notte;
  • lasciare ai lavoratori una certa flessibilità di orario per permettere loro di gestire al meglio impegni personali, famigliari e sociali.

 

Ridurre i fattori di rischio che favoriscono lo sviluppo della patologia:

  • per il tumore al polmone: dire basta al fumo e no all’esposizione a cancerogeni polmonari certi (amianto, idrocarburi policiclici aromatici, cromo esavalente, nickel, arsenico, berillio, cadmio, silice, radon);
  • per le malattie cardiovascolari: dire basta al fumo, obesità, ipertensione e adottare abitudini di vita salutari (attività fisica, dieta).

 

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CASSAZIONE: NO AL LICENZIAMENTO PER SOPRAVVENUTA INCAPACITA’ TOTALE DI SVOLGERE LE PRECEDENTI MANSIONI

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

22 febbraio 2016

di Annalisa Sassaro

 

CASSAZIONE: NO AL LICENZIAMENTO PER SOPRAVVENUTA INCAPACITA’ TOTALE DI SVOLGERE LE PRECEDENTI MANSIONI

IN CAPO AL DATORE DI LAVORO GRAVA L’ONERE DI RICOLLOCAZIONE DEL LAVORATORE

 

Con la sentenza n. 12489 del 17/06/15, la Suprema Corte afferma come la sopravvenuta inabilità totale del prestatore di lavoro alle mansioni precedentemente svolte non sia causa sufficiente, autonomamente considerata, per ricorrere al licenziamento.

 

Il fatto che ha dato luogo alla pronuncia è stato il caso di un’ausiliaria socio-sanitaria licenziata dalla Casa di Cura datrice di lavoro per sopravvenuta totale inabilità alle mansioni alle quali era adibita. Nel 2005 il Tribunale di Roma ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato dalla Casa di Cura ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro, così come stabilito dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nonché la condanna al risarcimento dei danni.

 

Per contro, la società ha impugnato la sentenza dinanzi alla Corte d’Appello di Roma, la quale ha rigettato il gravame interposto contro la pronuncia emessa in prima istanza.

 

La Casa di Cura è ricorsa alla Suprema Corte per la cassazione della sentenza di secondo grado.

 

La società ricorrente ritiene che il licenziamento è stato correttamente intimato sulla base di un giudizio reso da un organismo pubblico, ovvero dalla Commissione medica ospedaliera, che al tempo aveva giudicato la donna totalmente e permanentemente inabile alle prestazioni lavorative alle quali era adibita precedentemente. La Casa di Cura sostiene quindi come la sopravvenuta incapacità totale della dipendente fosse causa ostativa alla positiva prosecuzione del rapporto lavorativo, giustificando il recesso senza la necessità di provvedere ad accertamenti circa la possibilità di assegnare alla dipendente altre mansioni equivalenti, o in via residuale, inferiori.

 

La Suprema Corte considera infondato il motivo addotto dalla parte ricorrente.

 

In primis, la Corte afferma come il giudizio d’inidoneità della Commissione ospedaliera, formulato sulla base di quanto disposto all’articolo 5 dello Statuto dei Lavoratori, non sia vincolante né per il datore né per il Giudice, il quale può provvedere discrezionalmente a un ulteriore controllo avvalendosi, se ritenuto necessario, dell’ausilio di un consulente tecnico.

Di conseguenza, in caso di contrasto tra l’accertamento sanitario e la consulenza prevista durante il processo, il Giudice del merito è tenuto a confrontare le diverse risultanze allo scopo di stabilire quale sia maggiormente attendibile e convincente.

 

In subordine, il giudizio di totale inabilità alle mansioni precedentemente svolte non integra né un caso di impossibilità sopravvenuta tale da risolvere il contratto, né tanto meno risulta essere condizione sufficiente per il licenziamento in quanto in capo al datore di lavoro grava l’onere di dimostrare l’inesistenza di altre mansioni (equivalenti o, in extremis, deteriori) compatibili con la situazione di salute del lavoratore a condizione che quest’ultimo non abbia già manifestato, “ab origine”, il rifiuto di qualsiasi diversa assegnazione (nel caso esaminato, questa ipotesi non sussiste) e che l’attribuzione non comporti un’alterazione dell’organizzazione produttiva.

Si profila dunque l’onere di ricollocazione del lavoratore, individuando nel licenziamento una “extrema ratio”.

 

Alla luce di quanto detto, la Corte ha respinto il ricorso presentato dalla Casa di Cura.

 

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COME E QUANDO AVVENGONO I CONTROLLI NELLE AZIENDE?

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

di Tiziano Menduto

 

Indicazioni per aumentare la trasparenza delle attività ispettive in un documento dell’ULSS 9 di Treviso.

Come e quando avvengono in controlli? Come sono scelte le aziende e i cantieri? Come si svolge il controllo? Quali sono i possibili esiti?

 

Parlare di vigilanza e dell’attività ispettiva in materia di salute e sicurezza sul lavoro (vigilanza esercitata specialmente, ma non solo, dalle Aziende Sanitarie Locali competenti per territorio e, secondo le competenze riportate nel Testo Unico, dal personale ispettivo del Ministero del Lavoro) non è mai semplice.

E’ un tema delicato, destinato spesso a suscitare opinioni e riflessioni divergenti sulla quantità, sull’efficacia, sui risultati delle ispezioni realizzate. E su quelle che si sarebbero potute realizzare se fossero maggiori le risorse disponibili, se aumentasse il coordinamento e uniformità di strategie e metodi, se si superasse l’attuale frammentazione dell’attività ispettiva.

 

Proprio per la delicatezza del tema e la necessità di far conoscere, con semplicità e chiarezza, le caratteristiche dell’attività di vigilanza, è da sostenere il tentativo di alcune Aziende Sanitarie di aumentare la trasparenza in questo ambito attraverso la pubblicazione in rete di utili documenti.

E’ il caso ad esempio dell’Azienda ULSS 9 di Treviso che ha creato uno spazio web destinato a chi vuole:

  • conoscere le modalità con cui il Servizio Prevenzione Igiene e Sicurezza in Ambienti di Lavoro (SPISAL) effettua i controlli durante la vigilanza negli ambienti di lavoro;
  • conoscere le norme che devono essere rispettate da parte dei datori di lavoro;
  • autovalutare il grado di conformità alla normativa.

Un documento reso disponibile riguarda, ad esempio, le “Modalità di effettuazione dei controlli durante l’attività Ispettiva dello SPISAL negli ambienti di lavoro”.

La nota informativa è utile per comunicare alle aziende le modalità con cui vengono effettuati i controlli miranti a verificare l’ottemperanza alla normativa sulla sicurezza sul lavoro e agevolarle nel compito di attuare le misure di prevenzione conoscendo le modalità con cui sarà effettuato l’accesso ispettivo.

COME AVVENGONO I CONTROLLI?

Si ricorda in particolare che l’attività di controllo e vigilanza prevede l’effettuazione di sopralluoghi ispettivi al fine di individuare e accertare la presenza di fattori di rischio per la salute dei lavoratori, di verificare l’adozione delle cautele necessarie e di promuovere, in caso di carenze in tema di igiene e sicurezza del lavoro, l’attuazione di misure di prevenzione e protezione in modo da eliminare o ridurre il rischio di infortuni e malattie professionali. E se vengono evidenziate violazioni alla normativa sulla sicurezza il personale ha l’obbligo, stabilito da norme penali, di sanzionare le violazioni e prescrivere il ripristino delle condizioni di sicurezza e salubrità.

QUANTI CONTROLLI VENGONO OPERATI?

Il documento indica che il volume di attività di controllo è stabilito a livello nazionale e modulato a livello regionale (chiaramente per l’ULSS9 si fa riferimento alla Regione Veneto) dalla Direzione Regionale Prevenzione e dal Comitato Regionale di Coordinamento di cui all’articolo 7 del D.Lgs. 81/08. E il numero di aziende da ispezionare è calcolato nella misura del 5% delle posizioni assicurative INAIL che abbiano almeno un dipendente o equiparato; per la ULSS 9 l’obiettivo si traduce in circa 1.000 aziende all’anno da ispezionare (compresi cantieri e lavoratori autonomi). La selezione delle aziende avviene, conformemente alle indicazioni di priorità del Comitato per l’Indirizzo di cui all’articolo 5 del D.Lgs. 81/08, sulla base del rischio evidenziato con criteri oggettivi e delle direttive regionali che individuano i comparti produttivi a maggior rischio. E l’edilizia e l’agricoltura rappresentano i due settori in cui sono più concentrati gli infortuni gravi e mortali e per questo motivo sono oggetto di piani nazionali di prevenzione; la regione fissa un numero minimo di cantieri e di aziende agricole da ispezionare nel territorio di ciascuna ULSS.

COME SONO SCELTE LE AZIENDE E I CANTIERI DA CONTROLLARE?

Lo SPISAL indica che la selezione dei cantieri per i controlli avviene:

  • sulla base di indicatori di possibile rischio rilevati dalla notifica preliminare effettuata dal committente ai sensi dell’articolo 99 del D.Lgs 81/08;
  • a vista, in quanto già dall’esterno sono visibili palesi violazioni alla normativa sulla sicurezza;
  • a campione, in base alla distribuzione delle attività nel territorio;
  • per esposto da parte di cittadini, lavoratori o altri soggetti interessati.

Mentre la selezione delle aziende per i controlli avviene (oltre che per esposto/denuncia da parte di cittadini, lavoratori, Autorità Giudiziaria e altri Enti con funzioni di vigilanza) per iniziativa del Servizio (in base anche ai criteri già indicati nel documento):

  • per la particolare incidenza di infortuni, anche se non gravi;
  • per la presenza di infortuni con modalità particolarmente pericolose (eventi sentinella);
  • per infortuni ripetitivi con le stesse modalità;
  • per comparto produttivo (ad esempio agricoltura);
  • per progetti mirati a prevenire alcuni rischi di danno grave o mortale (verifica impianti elettrici e attrezzature, sorveglianza sanitaria assenza tossicodipendenza, attrezzature pericolose, muletti ecc.);
  • a campione, anche su attività non particolarmente rischiose, in funzione della distribuzione nel territorio e del numero di addetti.

Senza dimenticare che lo SPISAL, per accertare eventuali violazioni alla normativa sulla sicurezza e quindi eventuali responsabilità, effettua anche interventi di polizia giudiziaria in azienda a seguito di:

  • infortunio sul lavoro con lesioni personali gravi o gravissime o morte;
  • malattia professionale con lesioni personali gravi o gravissime o morte.

E inoltre possono essere eseguiti interventi di promozione dell’adozione di sistemi di gestione della sicurezza e di modelli organizzativi di cui all’articolo 30 del D.Lgs. 81/08, con o senza concomitante attività ispettiva.

QUALI SONO LE MODALITA’ DI INTERVENTO?

Si segnala che se l’ispezione viene effettuata dal personale SPISAL, che può avere diversi profili e competenze professionali (dirigenti medici del lavoro, laureati dirigenti non medici, tecnici della prevenzione, infermieri, assistenti sanitari, ecc.), all’accesso partecipa sempre almeno un Ufficiale di Polizia Giudiziaria (UPG) che, ai sensi del D.P.R. 520/55, ha potere di accesso nei luoghi di lavoro.

Si sottolinea che per nessun motivo le aziende possono essere preavvertite dell’accesso ispettivo; soltanto se necessario per verificare lavorazioni discontinue, possono essere presi accordi per sopralluoghi successivi al primo accesso.

Il personale inoltre richiede la presenza del Datore di Lavoro o di un suo delegato, del Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione e, se necessario per la tipologia di intervento, del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza. Il Datore di Lavoro ha facoltà di far presenziare i propri consulenti, fermo restando che si procede anche in attesa del loro arrivo. Tuttavia, anche in assenza dei soggetti sopra menzionati, il controllo procede, fatta salva la facoltà per l’azienda di fornire successivamente documentazione o quanto altro ritenga opportuno per documentare la propria attività in tema di prevenzione.

Il documento citato si sofferma anche nel dettaglio sulla documentazione richiesta (fermo restando che, per esigenze specifiche o per quanto emerso nel corso dell’ispezione, possono essere visionati o richiesti anche tutti gli altri documenti che l’azienda è tenuta ad esibire), sul processo di ispezione (che si conclude con la compilazione del verbale di accesso) e sull’esito dell’attività ispettiva.

Riguardo a quest’ultimo aspetto sono riportati i possibili esiti dell’ispezione:

  • se non sono state rilevate violazioni penali o amministrative e non sono necessarie disposizioni per il miglioramento della salute e sicurezza, il controllo si chiude; il personale relazionerà al direttore del servizio che archivierà il procedimento;
  • se, in assenza di violazioni, emerge la necessità di migliorare le condizioni di salute e sicurezza su argomenti che presentano margini di discrezionalità, possono essere impartite delle disposizioni; in questo caso è possibile che pervenga all’azienda il successivo verbale di disposizioni che specifica le cautele da adottare; il verbale indica i tempi entro cui ottemperare e le modalità per effettuare eventuale ricorso in via amministrativa se l’azienda intende opporsi alla disposizione; una forma particolare di disposizione è quella prevista dall’articolo 302-bis del D.Lgs. 81/08 in caso di adozione volontaria di norme tecniche e di buone prassi;
  • se vengono riscontrate violazioni di natura amministrativa, l’azienda riceverà il verbale di accertamento dell’illecito amministrativo che riporterà i tempi e i modi per la regolarizzazione, gli adempimenti conseguenti, e l’indicazione sulle modalità per effettuare eventuale ricorso in via amministrativa se l’azienda intende opporsi; se l’azienda ottempera, dopo nuovo sopralluogo di verifica, potrà essere ammessa al pagamento in misura minima della sanzione amministrativa, estinguendo così l’illecito;
  • se vengono riscontrate violazioni di natura penale, l’azienda riceverà il verbale di contravvenzione e prescrizione ai sensi del D.Lgs. 758/94 (salvo il caso dei reati istantanei) ai fini della depenalizzazione; la norma prevede che sia data Notizia di Reato alla Procura della Repubblica, ma il procedimento penale resta sospeso in attesa della conclusione dell’iter di cui al D.Lgs. 758/94; il verbale di prescrizione contiene le indicazioni sullo svolgimento della procedura, tempi e modi di regolarizzazione; l’azienda ha la possibilità di richiedere proroghe motivate dei tempi concessi per la regolarizzazione (che devono comunque essere congrue dal punto di vista tecnico e non dovute a negligenza del contravventore); trascorso il termine, verrà effettuato il sopralluogo di verifica e, in caso di ottemperanza, il contravventore sarà ammesso al pagamento di una sanzione amministrativa in misura ridotta e a pagamento avvenuto, lo SPISAL comunica alla Procura che il contravventore ha ottemperato nei tempi e nei modi previsti e ha pagato la sanzione amministrativa entro i termini, determinando così l’estinzione del reato; in caso contrario, cioè se non ha ottemperato nei modi e nei tempi indicati e non ha pagato entro i termini, il procedimento penale riprende il suo corso.

Lo SPISAL ricorda infine che altre disposizioni in materia penale sono contenute nel titolo XII del D.Lgs. 81/08.

Il documento della ULSS 9 Treviso “Modalità di effettuazione dei controlli durante l’attività Ispettiva dello SPISAL negli ambienti di lavoro” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/160125_modalita_controlli_spisal.pdf

 

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GUIDA ALLA COLLABORAZIONE COL MEDICO COMPETENTE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

18 febbraio 2016

 

Un piano di prevenzione dell’ATS Brianza si sofferma sul contributo del sistema prevenzionistico aziendale all’attività del medico competente. La guida per le imprese, la definizione e i compiti del medico competente.

 

I Piani Mirati di Prevenzione (PMP) elaborati dal Comitato Provinciale (ex articolo 7 del D.Lgs. 81/08) dell’Azienda sanitaria locale della provincia di Monza e Brianza (dal primo gennaio 2016 ATS Brianza) hanno sempre avuto il merito in questi anni di centrare alcune delle problematiche, degli aspetti centrali e, a volte, delle carenze nelle strategie di prevenzione aziendali.

E’ stato così per il PMP sulla formazione dei lavoratori ed è così anche per il nuovo PMP che affronta il ruolo del medico competente nelle aziende.

Sappiamo che il medico competente dovrebbe rivestire all’interno del sistema prevenzionistico aziendale un ruolo molto importante. Un ruolo che non si ferma alla sorveglianza sanitaria e ai giudizi di idoneità, ma che dovrebbe riguardare anche (come ricordato nella presentazione ufficiale del nuovo PMP) a una collaborazione a tutto campo per la valutazione dei rischi, la predisposizione e attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psicofisica dei lavoratori, la loro formazione e informazione, l’organizzazione del primo soccorso e la valorizzazione di programmi di promozione della salute.

 

Ma tutto questo avviene effettivamente nelle aziende? E il datore di lavoro e gli altri attori della sicurezza (ad esempio i componenti del servizio di prevenzione e protezione e il rappresentante dei lavoratori) forniscono un adeguato supporto e stimolo all’attività del medico competente per garantirgli una partecipazione attiva ed efficace al sistema di prevenzione aziendale?

 

Per rimarcare l’importanza e le funzioni del medico competente il citato Comitato Provinciale ha dunque attivato il PMP dal titolo “Contributo del sistema prevenzionistico aziendale all’attività del medico competente”.

Un piano che si è concretizzato anche in una lettera alle aziende del territorio, in una scheda di autovalutazione, in un incontro pubblico che si è tenuto il 15 dicembre 2015 e nell’elaborazione della guida “Contributo del sistema prevenzionistico aziendale all’attività del medico competente. Guida per le imprese”.

Ci soffermiamo oggi su questa guida che rappresenta la sintesi condivisa del lavoro svolto dal gruppo “Contributo del sistema prevenzionistico aziendale all’attività del medico competente” costituito nell’ambito del Comitato di Coordinamento Provinciale di Monza e Brianza.

Analizziamo oggi due domande di base.

CHI E’ IL MEDICO COMPETENTE?

La guida, con riferimento a quanto contenuto nel D.Lgs. 81/08 all’articolo 2, comma 1, lettera h), indica che il medico competente è un medico in possesso di uno dei titoli e dei requisiti formativi e professionali di cui all’articolo 38, che collabora, secondo quanto previsto all’articolo 29, comma 1, con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi ed è nominato dallo stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria e per tutti gli altri compiti di cui al D.Lgs. 81/08.

Riportiamo per chiarezza l’articolo 38:

“Per svolgere le funzioni di medico competente è necessario possedere uno dei seguenti titoli o requisiti:

  • specializzazione in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica;
  • docenza in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia e igiene del lavoro o in clinica del lavoro;
  • autorizzazione di cui all’articolo 55 del Decreto Legislativo n,277 del 15 agosto 1991;
  • specializzazione in igiene e medicina preventiva o in medicina legale;
  • con esclusivo riferimento al ruolo dei sanitari delle Forze Armate, compresa l’Arma dei carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza, svolgimento di attività di medico nel settore del lavoro per almeno quattro anni.

I medici in possesso dei titoli di cui al comma 1, lettera d), sono tenuti a frequentare appositi percorsi formativi universitari da definire con apposito decreto del Ministero dell’Università e della ricerca di concerto con il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali. I soggetti di cui al precedente periodo i quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, svolgano le attività di medico competente o dimostrino di avere svolto tali attività per almeno un anno nell’arco dei tre anni anteriori all’entrata in vigore del presente decreto legislativo, sono abilitati a svolgere le medesime funzioni. A tal fine sono tenuti a produrre alla Regione attestazione del datore di lavoro comprovante l’espletamento di tale attività.

Per lo svolgimento delle funzioni di medico competente è altresì necessario partecipare al programma di educazione continua in medicina ai sensi del Decreto Legislativo n.228 del 19 giugno 1999 e successive modificazioni e integrazioni, a partire dal programma triennale successivo all’entrata in vigore del presente decreto legislativo. I crediti previsti dal programma triennale dovranno essere conseguiti nella misura non inferiore al 70 per cento del totale nella disciplina medicina del lavoro e sicurezza degli ambienti di lavoro.

I medici in possesso dei titoli e dei requisiti di cui al presente articolo sono iscritti nell’elenco dei medici competenti istituito presso il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali”.

La guida ricorda inoltre che:

  • ai sensi dell’articolo 39, comma 1 del D.Lgs. 81/08, l’attività di medico competente è svolta secondo i principi della medicina del lavoro e del codice etico della Commissione internazionale di salute occupazionale (ICOH);
  • ai sensi dell’articolo 39, comma 3 del D.Lgs. 81/08,il dipendente di una struttura pubblica, che svolge attività di vigilanza, non può prestare, ad alcun titolo e in alcuna parte del territorio nazionale, attività di medico competente;
  • ai sensi dell’articolo 39, comma 4 del D.Lgs. 81/08, il datore di lavoro assicura al medico competente le condizioni necessarie per lo svolgimento di tutti i suoi compiti garantendone l’autonomia.

La seconda domanda a cui è necessario preventivamente rispondere riguarda invece la funzione del medico competente.

QUALI SONO GLI OBBLIGHI DEL MEDICO COMPETENTE?

 

La guida, sempre con riferimento al contenuto del Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (articolo 25), riporta gli obblighi del medico competente.

 

Innanzitutto il medico competente collabora con il datore di lavoro e il servizio di prevenzione e protezione alla:

  • valutazione dei rischi, anche ai fini della programmazione, ove necessario, della sorveglianza sanitaria;
  • alla predisposizione dell’attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psico-fisica dei lavoratori;
  • all’ attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di competenza;
  • all’organizzazione del servizio di primo soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione ed esposizione e le peculiari modalità organizzative;
  • all’attuazione e valorizzazione di programmi volontari di ‘promozione della salute’, secondo i principi della responsabilità sociale.

 

Inoltre il medico competente:

  • programma ed effettua la sorveglianza sanitaria attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici;
  • istituisce, aggiorna e custodisce, sotto la propria responsabilità, una cartella sanitaria e di rischio, per ogni lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria;
  • consegna al datore di lavoro, alla cessazione dell’incarico, la documentazione sanitaria in suo possesso, nel rispetto delle disposizioni di cui al D.Lgs 196/03 (Codice in materia di protezione dei dati personali) e con salvaguardia del segreto professionale;
  • consegna al lavoratore, alla cessazione del rapporto di lavoro, copia della cartella sanitaria e di rischio, e gli fornisce le informazioni necessarie relative alla conservazione della medesima;
  • fornisce informazioni ai lavoratori sul significato della sorveglianza sanitaria cui sono sottoposti e, nel caso di esposizione ad agenti con effetti a lungo termine, sulla necessità di sottoporsi ad accertamenti sanitari anche dopo la cessazione della attività che comporta l’esposizione a tali agenti;
  • informa ogni lavoratore interessato dei risultati della sorveglianza sanitaria e, a richiesta dello stesso, gli rilascia copia della documentazione sanitaria;
  • comunica per iscritto, in occasione delle riunioni annuali, al datore di lavoro, al RSPP, ai RLS, i risultati anonimi collettivi della sorveglianza sanitaria effettuata e fornisce indicazioni sul significato di detti risultati ai fini dell’attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psico-fisica dei lavoratori;
  • visita gli ambienti di lavoro almeno una volta all’anno o a cadenza diversa che stabilisce in base alla valutazione dei rischi (l’indicazione di una periodicità diversa dall’annuale deve essere comunicata al datore di lavoro ai fini della sua annotazione nel documento di valutazione dei rischi);
  • partecipa alla programmazione del controllo dell’esposizione dei lavoratori i cui risultati gli sono forniti con tempestività ai fini della valutazione del rischio e della sorveglianza sanitaria.
  • comunica, mediante autocertificazione, il possesso dei propri titoli e requisiti al Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali.

Concludiamo questa prima presentazione generale della figura e del ruolo del medico competente ricordando che la sorveglianza sanitaria è un’attività clinica complessa e articolata effettuata dal medico competente, specialista in medicina del lavoro (o in discipline equipollenti), finalizzata alla tutela della salute dei lavoratori. Essa consiste nella valutazione dell’idoneità del lavoratore alla mansione lavorativa specifica attraverso visita medica e accertamenti ematochimici e strumentali, identificati sulla base dei rischi lavorativi. Inoltre la sorveglianza sanitaria è effettuata dal medico competente nei casi previsti dalla normativa vigente, dalle indicazioni fornite dalla Commissione Consultiva Permanente.

Ricordiamo poi che l’obbligo di sorveglianza sanitaria non dipende dal numero di lavoratori occupati, ma dai fattori di rischio presenti nell’attività svolta.

Segnaliamo infine che la sorveglianza sanitaria può essere effettuata anche qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi.

Il documento della Azienda sanitaria locale della provincia di Monza e Brianza “Contributo del sistema prevenzionistico aziendale all’attività del medico competente. Guida per le imprese” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/160208_ASL_guida_MC.pdf

 

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LE NOVITA’ RELATIVE ALLA VALUTAZIONE DEL RISCHIO CHIMICO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

19 febbraio 2016

di Tiziano Menduto

 

La norma tecnica UNI EN 689:1997 è in via di aggiornamento. Qual è la funzione di questa norma? Come cambierà? E quali saranno le conseguenze per le aziende?

Ne parliamo con Maria Ilaria Barra della CONTARP dell’INAIL.

 

Se pensiamo all’importanza per la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori della valutazione del rischio chimico nelle aziende, alla complessità della misurazione degli agenti chimici e al nostro tessuto produttivo, in gran parte costituito da piccole e medie aziende, si comprende la necessità di informare costantemente sugli obblighi e sulle buone prassi in materia chimica. E la necessità anche, quando possibile, di informare su quelli che sono gli sviluppi della normativa tecnica e gli scenari futuri possibili relativi alla valutazione del rischio.

E’ per questo motivo che abbiamo deciso di raccogliere informazioni sulle novità della norma tecnica UNI EN 689:1997 “Atmosfera nell’ambiente di lavoro. Guida alla valutazione dell’esposizione per inalazione a composti chimici ai fini del confronto con i valori limite e strategia di misurazione”. Norma in vigore, ma in via di aggiornamento, che fornisce indicazioni per la valutazione della esposizione ad agenti chimici nelle atmosfere dei posti di lavoro. E che descrive una strategia per confrontare l’esposizione per inalazione degli addetti con i rispettivi valori limite per agenti chimici nel posto di lavoro e la strategia di misurazione.

Ricordiamo che la norma UNI EN 689 deve la sua importanza anche al fatto che è una delle metodiche standardizzate citate espressamente nell’Allegato XLI (Metodiche standardizzate di misurazione degli agenti) del Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/08).

 

Per avere informazioni sulle possibili novità future di questa norma abbiamo intervistato Maria Ilaria Barra (CONTARP dell’INAIL) che fa parte del gruppo di lavoro incaricato della revisione della Norma.

Qual è la funzione di questa norma? Come cambierà? E quali saranno le conseguenze dell’aggiornamento della norma per le aziende che hanno valutato e/o devono valutare il rischio chimico?

PUNTO SICURO

Riguardo al rischio chimico da mesi si sta lavorando all’aggiornamento di un importante norma, la UNI EN 689. Cominciamo raccontando qual è la funzione e l’importanza di questa norma e come può e deve essere utilizzata nelle aziende.

MARIA ILARIA BARRA

Il D.lgs. 81/08 impone al datore di lavoro di determinare preliminarmente l’eventuale presenza di agenti chimici pericolosi sul luogo di lavoro e valutare anche i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori derivanti dalla presenza di tali agenti. Inoltre l’articolo 225 prevede che nel caso il datore di lavoro non possa dimostrare con altri mezzi il conseguimento di un adeguato livello di prevenzione e di protezione, periodicamente e ogni qualvolta sono modificate le condizioni che possono influire sull’esposizione, provvede a effettuare la misurazione degli agenti che possono presentare un rischio per la salute, con metodiche standardizzate di cui è riportato un elenco meramente indicativo nell’Allegato XLI o in loro assenza, con metodiche appropriate e con particolare riferimento ai valori limite di esposizione professionale e per periodi rappresentativi dell’esposizione in termini spazio temporali.

Dalle misurazioni il datore di lavoro deve essere in grado di valutare il superamento o meno del valore limite di esposizione professionale in modo tale da identificare e rimuovere le cause che hanno portato a tale superamento, adottando immediatamente le misure appropriate di prevenzione e protezione.

Tra le metodiche standardizzate riportate nell’Allegato XLI vi è la UNI EN 689:1997 “Atmosfera nell’ambiente di lavoro. Guida alla valutazione dell’esposizione per inalazione a composti chimici ai fini del confronto con i valori limite e strategia di misurazione”.

Dall’inquadramento di tale norma all’interno del panorama legislativo italiano, emerge l’importanza della stessa per i datori di lavoro e per tutti coloro che si occupano di salute e sicurezza sul lavoro.

PS

Lei sta partecipando ai lavori di aggiornamento della norma. Quali sono i punti qualificanti e le criticità su cui si sta lavorando in questi mesi? Quali sono i motivi che hanno spinto a rivedere la norma? Quali gli aspetti importanti che rimarranno nella versione finale della norma che, ricordiamo, è ancora in fase di aggiornamento?

MIB

All’interno dell’Ente di standardizzazione europeo (CEN), opera la Commissione Tecnica TC 137 che si occupa di “Assessment of workplace exposure to chemical and biological agents” dove un gruppo di esperti provenienti dai diversi Paesi europei, si incontrano e sviluppano progetti che possono diventare degli standard futuri.

L’esigenza dei diversi Paesi di modificare la Norma EN 689, risalente ormai al 1997, ha portato nel 2013 alla creazione all’interno del CEN/TC 137 di un gruppo dedicato alla valutazione della fattibilità di tale revisione: il gruppo AHG2 (Ad Hoc Group 2). La creazione di questo primo gruppo di lavoro si è resa necessaria poiché molti stati membri richiamano la Norma all’interno del proprio sistema legislativo nazionale adattandola alle esigenze caratteristiche della realtà produttiva del paese stesso; da ciò ne deriva che le strategie di campionamento e valutazione del rispetto di un limite di esposizione professionale non sono sempre omogenee in tutti gli stati.

L’AHG2 ha individuato una possibile condivisione di vedute e si è pertanto proceduto, nel 2015, alla formalizzazione del gruppo di lavoro incaricato alla revisione della Norma: il WG1.

L’interesse per la nuova norma ha portato inoltre, anche sul fronte Nazionale, alla creazione di un gruppo di lavoro all’interno dell’UNI con il fine di dare la possibilità ai diversi interessati di partecipare in maniera fattiva e costruttiva ai lavori.

La Norma ha subito numerosi cambiamenti rispetto alla versione precedente. In essa viene definito uno schema di flusso relativo alla strategia di campionamento e misurazione che prevede una serie di step dalla caratterizzazione di base, alla costituzione dei gruppi omogenei di esposizione, alla effettuazione dei campionamenti, alle misure periodiche. La strategia di misurazione prevede una procedura semplificata di screening che consente di effettuare un numero limitato di misure qualora i risultati delle stesse siano cautelativamente inferiori al limite di esposizione professionale, in caso contrario il numero di campionamenti aumenta in funzione della deviazione standard delle misure e del loro scostamento dal limite di esposizione stesso.

Inoltre la Norma è molto più corposa della precedente avendo elaborato una serie di allegati tecnici che hanno lo scopo di costituire un utile riferimento per affrontare diverse problematiche, quali la classificazione degli ambienti di lavoro con esposizione costante o variabile, l’individuazione del tempo di campionamento in funzione della variabilità dell’esposizione nell’arco di un turno di lavoro, l’esposizione multipla, la valutazione della distribuzione log-normale dei dati all’interno di un gruppo omogeneo di distribuzione, ecc.

PS

A che punto sono i lavori della norma? Potrebbe cambiare molto rispetto alla versione a cui avete lavorato?

MIB

Il gruppo di lavoro ha attualmente completato la stesura del documento, entro qualche mese i Paesi membri hanno la possibilità di inviare delle osservazioni o proposte di modifica al gruppo di lavoro, quest’ultimo si riunirà per valutarle e rispondere puntualmente ad ognuna di esse. Il documento così modificato sarà sottoposto a votazione per la sua approvazione o meno come norma.

PS

E dunque per quando è prevista?

MIB

Orientativamente l’iter dovrebbe essere ultimato entro la fine di quest’anno.

 

PS

I cambiamenti in materia di regolamenti Reach e CLP hanno in qualche modo influito sull’aggiornamento della norma?

MIB

I cambiamenti conseguenti il recepimento dei suddetti regolamenti hanno sicuramente influenzato la valutazione del rischio chimico nei luoghi di lavoro.

Questi regolamenti non hanno un impatto diretto con la norma EN 689 che riguarda più in particolare le strategie di misurazione degli agenti chimici per il confronto con un limite di esposizione professionale, anche se uno degli step della norma prevede l’individuazione e la caratterizzazione degli agenti chimici presenti nel luogo di lavoro ed è pertanto imprescindibile dall’applicazione del REACH e del CLP.

PS

Concludiamo parlando delle conseguenze di queste novità. Quando l’aggiornamento della norma sarà pubblicato, costringerà le aziende a rifare le valutazioni dei rischi?

MIB

La Norma ha sempre carattere volontario, tuttavia ritengo che qualora la nuova norma venga approvata, le aziende che da quel momento dovranno effettuare le misurazioni degli agenti chimici per la valutazione del superamento del limite di esposizione professionale faranno riferimento ad essa.

PS

E come è, a suo parere, la situazione della consapevolezza e tutela dei rischi chimici nelle aziende italiane in rapporto alle aziende degli altri paesi europei?

MIB

La Normativa italiana sulla salute e sicurezza sul lavoro è sicuramente in linea, e in alcuni casi anche più stringente, rispetto agli altri Paesi europei, tuttavia la peculiarità del nostro sistema produttivo caratterizzato principalmente da piccole e medie imprese, non rende sempre facile per l’imprenditore assolvere a tutti gli obblighi legislativi e comprendere l’importanza di una attenta politica prevenzionale.

 

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.245 DEL 24/02/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

Telethon: lettera alla Ministra della Salute, On. Beatrice Lorenzin

On. Lorenzin, Molti operatori della sanità, dai ricercatori ai volontari, si chiedono come sia accettabile che un’azienda a larga partecipazione statale quale è la RAI possa avallare la convinzione che senza Telethon non ci sia ricerca per le malattie rare. Ci si meraviglia che fino ad ora Lei non abbia preso le difese dei ricercatori che si suppone non si occupino solo di ricerche che tornano utili alle ditte farmaceutiche, ma si dedichino, usando fondi pubblici, anche a ricerche degne di rilievo scientifico, pur se utili solo a pochi individui. La RAI dovrebbe fornire agli italiani informazioni più equilibrate.

Non è possibile che si calendarizzi solo il fascino della bontà, sotto forma di donazione, e non ci s’impegni maggiormente nell’attivare l’attenzione verso l’educazione al bene comune, verso l’impegno che il Suo Ministero deve porre nei confronti di tutti i malati affetti da qualunque tipo di malattia. Il nostro disagio è certamente anche il Suo. Tutti devono avere il diritto di donare ciò che ritengono opportuno a chicchessia; altro è sostituirsi al compito precipuo dello Stato. Le chiediamo pertanto che con la Sua autorevole voce rivaluti il ruolo della ricerca con fondi pubblici, che opera in modo scevro da interessi privati perché ciascun malato abbia pari dignità e pari diritto a trattamenti che agevolino la vita. Grazie per l’attenzione. 17 Gennaio 2016 I NoGrazie

Public Health Literacy

Michele Grandolfo, un NoGrazie, ha recentemente pubblicato su Evidence un articolo sulla Public Health Literacy (PHL). L’articolo, che può essere scaricato gratuitamente da questo indirizzo web http://www.evidence.it/articoli/pdf/e1000121.pdf, parla della PHL, intesa come “il livello di competenza delle persone e delle comunità nell’ottenere, gestire, comprendere, valutare le informazioni e trarne conseguenze per l’azione necessaria ad assicurare beneficio alla comunità con decisioni di sanità pubblica”.

La PHL “richiede al sistema sanitario di saper ridurre gli effetti sulla salute delle disuguaglianze sociali, tanto che indicatori di salute differenti per strato sociale indicano un malfunzionamento del sistema (anche per i più abbienti, non solo per i meno abbienti). Perché la salute, in quanto bene comune, è indivisibile: la salute degli uni dipende da quella di tutti gli altri”. L’articolo propone, per aumentare la PHL, un cambiamento di paradigma in salute: dal paternalismo direttivo alla partecipazione e all’empowerment. Michele invita i NoGrazie a leggere e a diffondere l’articolo e sarebbe felice di discuterne i contenuti con chi ne ha voglia.

Multa milionaria negli USA: il caso pioglitazone

 

Il pioglitazone è un farmaco antidiabetico commercializzato dal 2000 con il marchio Actos dalle ditte Takeda ed Eli Lilly. Nella fase di sviluppo del farmaco, studi su animali avevano mostrato un’aumentata incidenza di tumori della vescica in ratti esposti al pioglitazone, ma solo nel giugno 2011 la FDA e l’EMA conclusero che vi era un leggero aumento del rischio di cancro alla vescica associato con l’uso di pioglitazone nell’uomo e hanno raccomandato l’applicazione di misure di sicurezza come la restrizione dell’uso del farmaco e il monitoraggio dei pazienti.

Dopo questi avvertimenti, numerosi utenti del pioglitazone hanno dichiarato che il farmaco aveva causato loro lo sviluppo di un cancro della vescica, e le due ditte sono state coinvolte in diverse cause legali negli Stati Uniti.

 

Un articolo pubblicato da poco mostra come le ditte abbiano usato numerose strategie per nascondere i fatti o per lo meno ritardarne la pubblicazione.(1) Consultando la documentazione resa pubblica dopo il processo che ha portato alla condanna delle ditte, i ricercatori mostrano come le ditte:

  • Avessero occultato e distorto parte dei dati sugli studi animali nella documentazione spedita alla FDA.
  • Avessero occultato i risultati di uno studio interno del tipo caso/controllo, annidato in uno studio di coorte imposto alle ditte dalla FDA come strumento di sorveglianza post-marketing. Lo studio caso/controllo risultava in prove molto più solide, rispetto allo studio di coorte, sull’associazione tra uso del farmaco e cancro della vescica.
  • Avessero inviato alla FDA i risultati di uno studio interno sull’eccesso di cancro della vescica in pazienti trattati con pioglitazone rispetto a quelli trattati con altri antidiabetici, dichiarando che non c’era un aumento del rischio, mentre i risultati tenuti nascosti mostravano un aumento del 190%.
  • Avessero ritardato al massimo di condurre una meta-analisi dei dati di tutti i trial condotti dalle ditte stesse, per evitare che questa mostrasse più chiaramente l’aumento del rischio.
  • Avessero usato ghostwriters per diffondere articoli rassicuranti sulla sicurezza del farmaco.

 

Nel settembre del 2014, la Corte Distrettuale del Western District della Louisiana negli USA ha condannato Takeda ed Eli Lilly per condotta arbitraria e spericolata e per mancanza di messa in guardia circa il potenziale rischio di cancro della vescica associato all’uso di pioglitazone, pur se questo era ben conosciuto dalle ditte stesse. La condanna iniziale è stata di più di US$ 9 miliardi. Nell’aprile del 2015, Takeda ha accettato di pagare US$ 2,37 miliardi per risarcire le migliaia di pazienti che avevano intentato le cause legali, oltre a US$ 36,8 milioni di multa. Il che rende questo uno dei più grandi pagamenti effettuati da una ditta farmaceutica nella storia, dopo i US$ 4,85 miliardi pagati dalla Merck nel 2007 per lo scandalo del Vioxx.

 

Traduzione e riassunto di Adriano Cattaneo

 

1. Faillie JL, Hillaire-Buys D. Examples of how the pharmaceutical industries distort the evidence of drug safety: the case of pioglitazone and the bladder cancer issue. Pharmacoepidemiology and drug safety 2015; DOI: 10.1002/pds.3925

Meta-analisi sugli antidepressivi influenzate dalle aziende farmaceutiche

Dopo molte dispute legali e un pronunciamento nel 2012 del Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti d’America, nel mese di settembre 2015 una recensione indipendente pubblicata sul Journal of Clinical Epidemiology ha dimostrato che la paroxetina, farmaco usato nella terapia della depressione, non è sicura per gli adolescenti.(1) Questo risultato contraddice le conclusioni degli studi effettuati nel 2001, finanziati da GlaxoSmithKline – azienda produttrice del farmaco – i quali invece avevano attestato che l’impiego della paroxetina negli adolescenti era da considerarsi sicuro.

 

Lo studio originale, noto come Studio 329, venne condotto da Martin Keller, a quel tempo professore di psichiatria e comportamento umano alla Brown University di Rhode Island, USA, il quale aveva riportato tutti i dati con precisione, ma aveva minimizzato in modo fuorviante il rischio suicidio degli adolescenti ed amplificato gli effetti benefici della paroxetina nelle conclusioni. Lo Studio 329 rappresenta un esempio della forte influenza che l’industria farmaceutica riesce a esercitare sulla ricerca scientifica, compresi quegli studi clinici che la FDA (Food and Drug Administration) richiede di finanziare alle aziende farmaceutiche al fine di validare i loro prodotti.

 

Consapevoli della possibile mancanza di imparzialità dei singoli trials clinici, gli studiosi che analizzano i dati della letteratura scientifica sono più portati a fare affidamento sulle meta-analisi, considerate recensioni approfondite che riassumono le prove ricavate da diversi studi. Il recente articolo, pubblicato sul Journal of Clinical Epidemiology, tuttavia mette in dubbio tale convincimento, poiché si è scoperto che la stragrande maggioranza delle meta-analisi sugli antidepressivi è in qualche modo legata all’industria farmaceutica e ciò ha comportato, in alcuni casi, un occultamento deliberato dei risultati negativi.

 

I ricercatori, coordinati da John Ioannidis, epidemiologo presso la Stanford University, hanno preso in esame 185 meta-analisi ed hanno rilevato che un terzo di esse era stato scritto da dipendenti dell’industria farmaceutica. “Sapevamo che l’industria finanzia studi per promuovere i propri prodotti, ma finanziare meta-analisi è molto diverso” poiché esse “sono state tradizionalmente considerate un baluardo della medicina basata sulle evidenze”, ha dichiarato John Ioannidis. “É’davvero incredibile che ci sia un influsso così massiccio di condizionamenti in questo settore.”

 

Quasi l’80% delle meta-analisi sottoposte a revisione aveva una sorta di legame con l’industria, sia sotto forma di sponsorizzazione, che gli autori definiscono come finanziamento diretto dello studio da parte dell’azienda farmaceutica, sia sotto forma di conflitto di interesse, definito come qualsiasi situazione in cui uno o più autori erano dipendenti dell’azienda o ricercatori indipendenti che ricevono qualsiasi tipo di supporto dall’industria (compresi i rimborsi per relazioni a convegni o gli assegni di ricerca). Un dato particolarmente preoccupante emerso dallo studio è che circa il 7% dei ricercatori aveva conflitti d’interesse non dichiarati.

 

Ioannidis ed i suoi collaboratori hanno preso in considerazione tutte le meta-analisi pubblicate tra gennaio 2007 e marzo 2014, relative a studi randomizzati e controllati su tutti gli antidepressivi approvati, compresi gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, gli inibitori della ricaptazione di serotonina e norepinefrina, gli antidepressivi atipici, gli inibitori delle monoamino-ossidasi e altri antidepressivi. Nei casi in cui gli autori delle meta-analisi non avessero segnalato conflitti di interessi, come è in genere necessario, i ricercatori sono andati ad esaminare campioni casuali di articoli pubblicati da quel determinato autore nello stesso anno, per valutare l’esistenza di importanti dichiarazioni di conflitti. Due investigatori, non consapevoli dei nomi degli autori né di potenziali conflitti, hanno valutato se la meta-analisi includeva nel “riassunto” o nelle “conclusioni” dichiarazioni negative o avvertimenti sul farmaco.

 

Un terzo degli articoli è stato scritto da dipendenti dell’industria farmaceutica; il 60% degli autori erano ricercatori universitari indipendenti, ma con conflitti di interesse. Per le 53 meta-analisi in cui l’autore non era un dipendente dell’industria e non aveva segnalato alcun conflitto di interessi, il 25% aveva conflitti di interesse non dichiarati, che gli epidemiologi hanno identificato con la loro ricerca e incluso nella loro valutazione.

 

“Le meta-analisi che hanno legami con l’industria sono molto diverse rispetto a quelle che non hanno legami con l’industria” ha sottolineato Ioannidis. Quelle con legami all’industria hanno avuto una diffusione molto più massiccia e minori avvertimenti riguardo ai rischi o agli effetti collaterali. “Al contrario, quando non erano coinvolti dipendenti dell’industria, quasi il 50% delle meta-analisi conteneva avvertimenti” ha precisato Ioannidis. Le meta-analisi effettuate da dipendenti dell’industria farmaceutica avevano 22 volte meno probabilità di riportare dichiarazioni negative su di un farmaco rispetto a quelle condotte da ricercatori non affiliati.

 

Il tasso di distorsione dei risultati è simile a quello di uno studio del 2006 relativo all’influenza dell’industria sulle sperimentazioni cliniche di farmaci psichiatrici, che aveva rilevato che i trials clinici sponsorizzati dall’industria hanno riportato risultati favorevoli nel 78% dei casi, rispetto al 48% di risultati favorevoli nei trials finanziati in maniera indipendente. Ioannidis ritiene che si debba limitare o impedire alle aziende farmaceutiche di finanziare le meta-analisi per salvaguardarne l’obiettività. Il noto epidemiologo si è spinto a dire che si potrebbero anche accettare finanziamenti dell’industria per altri tipi di ricerca, “ma non quando si tratta della valutazione finale ovvero quando si tratta di stabilire se i pazienti debbano assumere quel farmaco o no”.

 

Tutte le principali case farmaceutiche sono state interessate dallo studio: oltre a GlaxoSmithKline produttrice di paroxetina (venduta con il nome commerciale Seroxat in Italia e Paxil in USA), anche Eli Lilly and Co., produttrice del popolare antidepressivo Prozac (fluoxetina) e Pfizer, produttrice di Zoloft (sertralina).

 

Per definizione, una meta-analisi dovrebbe essere “una revisione la più completa possibile”, ha affermato Andrea Cipriani, professore di psichiatria presso l’Università di Oxford. “I medici sono bombardati da una grande quantità di informazioni” e si rivolgono alle meta-analisi “perché non hanno il tempo di fare da soli una valutazione critica completa”. La parola meta-analisi implica di per sé “collegamento a numerose prove”. Cipriani ritiene importante sottolineare la manipolazione delle meta-analisi da parte dell’industria farmaceutica. “É necessario segnalare che queste meta-analisi sono più uno strumento di marketing che una scienza”. Cipriani ha sostenuto la necessità di garantire la trasparenza dei dati ed ha affermato che il problema principale è la mancata divulgazione delle informazioni. Secondo Cipriani, le riviste accademiche, custodi dell’evidenza scientifica, sono quelle che dovrebbero essere responsabili sia di individuare i conflitti di interesse, sia di eliminare quegli studi le cui conclusioni non corrispondono ai dati forniti. Ma le riviste scientifiche spesso hanno i loro conflitti di interesse, ammette Cipriani.

 

Ioannidis e coll. hanno cercato inizialmente di pubblicare il loro ultimo studio su riviste di psichiatria ritenendo che sarebbe stato più pertinente, ma l’accoglienza è stata fredda. “Alcune persone si sono sentite piuttosto irritate dallo studio e molti dei loro editori hanno forti legami con l’industria”, ha dichiarato Ioannidis. Gli antidepressivi sono uno dei più grandi mercati farmaceutici, con un fatturato di 9,4 miliardi di dollari negli Stati Uniti nel 2013. Cipriani e Ioannidis ritengono che il problema interessi anche altri farmaci ad alto valore di mercato, come i farmaci cardiologici e oncologici. “L’intero settore ha bisogno di una sorta di esame di coscienza”, ha concluso Ioannidis.

 

Traduzione e adattamento da: Many Antidepressant Studies Found Tainted by Pharma Company Influence, By Roni Jacobson, October 21, 2015 http://www.scientificamerican.com/article/many-antidepressant-studies-found-tainted-by-pharma-company-influence/, a cura di Ermanno Pisani

 

1. Ebrahim S, Bance S, Athale A et al. Meta-analyses with industry involvement are massively published and report no caveats for antidepressants. J Clin Epidemiol 2015 Sep 21 doi: 10.1016/j.jclinepi.2015.08.021

Pedicini (M5s),Lorenzin ritiri antidepressivi con Paroxetina

(ANSA) – BRUXELLES, 13 NOV – Il ministro Lorenzin ritiri dal mercato i farmaci a base di Paroxetina. Lo chiede il coordinatore del gruppo Efdd- M5s nella Commissione ambiente e sanità del Parlamento europeo, Piernicola Pedicini. “Gli antidepressivi per bambini e adolescenti a base di Paroxetina – osserva l’eurodeputato – sono pericolosi, stimolano tendenze suicide e non sono efficaci. Lo sostiene una ricerca scientifica pubblicata il 16 settembre scorso sulla British Medical Journal, tra le più autorevoli riviste mediche al mondo”. Per chiedere che gli organi competenti italiani ed europei intervengano immediatamente con misure urgenti atte a vietare il commercio del farmaco, Pedicini ha inviato una lettera al ministro della Salute italiano Beatrice Lorenzin e ha presentato un’interrogazione alla Commissione europea, con cui si chiede di “attivare una procedura di deferimento all’Agenzia europea per una nuova valutazione dei prodotti medicinali a base di Paroxetina (Direttiva 2001/83/Ce) e di aprire un’indagine finalizzata ad accertare se la multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline (GSK), che commercializzava l’antidepressivo, non abbia violato le norme antitrust dell’Ue accordando un vantaggio sleale al proprio prodotto”.

http://www.ansa.it/europa/notizie/rubriche/voceeurodeputati/2015/11/13/pedicini-m5slorenzin-ritiri-antidepressivi-con-paroxetina_927c194e-b74f-410a-b531-8e1662949394.html

Alzheimer: maneggiare con cura

Riproduciamo qui sotto, con il permesso dell’autore, un commento di Giuseppe Abate apparso il 15 gennaio 2015 su Aging Blog (https://agingblog.wordpress.com/).

 

L’informazione scientifica sui media ha molti meriti. Essa rende edotti i cittadini sui fattori di rischio per diverse patologie, sui sintomi delle stesse, sulle nuove metodiche che consentono diagnosi precoci ed affidabili, e sulle terapie al momento disponibili. Tutto ciò contribuisce significativamente alla prevenzione ed alla cura, ed ha un positivo impatto sulla salute pubblica. Ciò premesso, è necessario tuttavia sottolineare che esistono storture nella informazione medica, fonte di danni talvolta rilevanti. Infatti, a lato della acculturazione del cittadino, esistono meno nobili finalità, tra cui quella (neanche tanto nascosta) di promuovere interessi economici, delle industrie produttrici, delle istituzioni sanitarie, ed assai spesso anche dei singoli professionisti. Per tal motivo, l’informazione ne risulta enfatizzata e distorta, alimentando false speranze, specie presso le persone più semplici e meno dotate di senso critico.

 

L’occasione per queste considerazioni deriva da un articolo, comparso l’8 dicembre 2015 sul supplemento Salute di Repubblica, il cui titolo così recita “La corsa all’oro – Il farmaco contro l’Alzheimer”. Nell’occhiello si legge “DEMENZA. Una medicina che funziona. Dopo anni di ricerche. Ma bisogna somministrarla precocemente. Così nasce un superbusiness. Diagnosi e cura prima che la patologia si manifesti. Per milioni di persone”. Ci sono molti equivoci in queste titolazioni. Da un lato viene subito sparata la notizia che c’è un farmaco “che funziona”; dall’altro si fa capire che vi è la prospettiva di un colossale business da parte dell’industria del farmaco; ed infine c’è una sollecitazione ad effettuare una diagnosi precoce. Tra queste tre cose ce n’è una falsa. La prima.

 

Procediamo per gradi. In primo luogo, di che si tratta? L’azienda farmaceutica Biogen ha presentato ad un Congresso Internazionale i risultati preliminari di una sperimentazione, che dimostra che un anticorpo monoclonale (aducanumab) risulta efficace nel diminuire la quantità di beta-amiloide presente nel cervello dei malati di Alzheimer e nel migliorare contestualmente le capacità cognitive dei pazienti, misurate con specifiche scale. Tutto ciò sarebbe dimostrato da uno studio preliminare su 166 casi (pochini), per cui la Ditta, visti i promettenti risultati, vuole estendere la ricerca ad un campione più vasto di ammalati.

 

A questo punto cercherò di spiegarmi meglio a beneficio di chi non è medico, ma che, giunto fin qui, evidentemente conosce l’Alzheimer, e ne ha magari una fottuta paura. A che cosa è dovuta questa terribile malattia? Di preciso non si sa, ma è certo che essa si associa alla eccessiva produzione di alcune proteine anomale, la beta-amiloide e la proteina “tau”. Tali proteine si depositano nelle cellule nervose e ne determinano la morte. Il processo si verifica molto lentamente, per cui la patologia cerebrale può precedere di molti anni (anche venti) la comparsa dei sintomi, tra i quali il più precoce è una grave perdita di memoria. I moderni mezzi neuro-radiologici (Risonanza Magnetica Nucleare, Tomografia ad emissione di positroni e SPECT- Single-Photon Emission Computerized Tomography), così come il dosaggio delle proteine anomale nel liquido cefalo-rachidiano, consentono di individuare in fase precoce il danno cerebrale.

 

Basandosi sulla convinzione che la responsabilità sia della beta-amiloide, da tempo vengono eseguite delle ricerche per individuare farmaci capaci di impedirne la formazione e/o deposizione, oppure di facilitarne la rimozione. Ne sono stati provati diversi, ma per un verso o per l’altro (scarsa efficacia, tossicità, ecc.) sono stati scartati. Adesso questo aducanumab sembrerebbe (dico sembrerebbe) meglio degli altri.

 

Tutto ciò premesso, a noi vecchi del mestiere questi progressi della scienza non entusiasmano più di tanto. Sono più di 40 (forse 50) anni che veniamo bombardati dalle aziende farmaceutiche che, a fronte del dilagare della demenza senile (fenomeno strettamente connesso all’invecchiamento della popolazione), hanno immesso sul mercato una valanga di farmaci fantastici, rivelatisi in breve tempo delle bufale colossali. Si cominciò con una vagonata di molecole che agivano (si disse) sui neurotrasmettitori, cioè su quelle sostanze che fanno comunicare i neuroni gli uni con gli altri. Poiché alcuni di essi sono carenti nella malattia di Alzheimer – si disse – un loro aumento poteva risolvere la situazione. Si portava ad esempio la dopamina che è carente nel morbo di Parkinson, ed il cui aumento consente sorprendenti miglioramenti. Verissimo, ma non per l’Alzheimer. É pur vero che i topi diventavano più intelligenti ed imparavano più in fretta la via del labirinto che li avrebbe portati alla ciotola del cibo, o scoprivano prima il sistema per non prendere la scossa. Per gli umani le cose erano un po’ diverse. In apparenza, essi presentavano un miglioramento nei punteggi di una serie di scale e scalette per misurare memoria, intelligenza, capacità logiche e quant’altro, somministrate dai ricercatori con molta benevolenza. All’atto pratico, in qualche caso i pazienti riuscivano più facilmente a ricordare il nome del gatto, salvo poi, un minuto dopo, a riporre le pantofole dentro il frigorifero. Noi geriatri contribuimmo a somministrare e propagandare queste molecole, un po’ perché a questi disgraziati ed ai loro familiari che invocavano aiuto una pillola della speranza non si poteva negare, un po’ perché sollecitati da qualche congresso vacanza con relativo trattamento principesco.

 

Poi venne il vaccino anti-beta-amiloide. Venivano prodotti in laboratorio anticorpi contro questa sostanza, che la neutralizzavano e ne favorivano la eliminazione. Eureka!! Visti i risultati nei topi, sembrò di essere ad un passo dalla vittoria. Peccato che nell’uomo quel passo non si è ancora fatto, a causa della comparsa di sgradevoli effetti collaterali. La ricerca è andata comunque avanti ed oggi eccoci a trastullarci con gli anticorpi monoclonali. Come dicevo, ne sono stati sperimentati diversi, ma questo aducanumab della Biogen sembra più promettente di altri. Vedremo. Certo i fallimenti del passato non alimentano rosee speranze. Ma comunque “mai dire mai”. Certo che nella più ottimistica delle ipotesi di anni ne dovranno passare molti, ed è ugualmente certo che gli anziani di oggi non potranno avvantaggiarsene.

 

Ammesso (e non concesso) che così possa essere, viene tuttavia da chiedersi che gusto ci si provi a sottoporsi ad una serie di indagini di un certo rilievo per scoprire che tra 10 o 20 anni si verrà colpiti dall’Alzheimer, senza avere alcuna certezza che un farmaco in via di sperimentazione potrà non guarirti ma solo ritardare di qualche mesetto l’arrivo del terribile morbo. Una prospettiva, a mio avviso, folle. Senza metter nel conto che quella della beta-amiloide è solo una bella teoria, ma che le cause della demenza sono ben più complesse, coinvolgendo altri meccanismi, quali l’altra proteina denominata “tau” (anche in questo caso vaccini in arrivo), il danno vascolare (molto probabile), e non ultimo lo stesso ineluttabile fenomeno dell’invecchiamento. Ricordo a tal proposito che diventar centenario (somma aspirazione di molti) comporta statisticamente una probabilità del 50% di beccarsi la demenza. Non poco. A mio sommesso parere, del resto, la demenza è una patologia diversa da tutte le altre, assumendo un significato escatologico, ponendo cioè la domanda filosofica su quale sia il destino ultimo della vita umana: di finire, certamente, ma anche di finire con il progressivo esaurirsi della fiamma dell’intelligenza, che è quanto più ci distingue da tutti gli esseri viventi. Ed allora, tornando ai media, ed all’articolo che ha dato spunto a questo discorso, ci vorrebbe molta più cautela nel dar le notizie, ingannando i cittadini che ovviamente, leggendo, sperano che sia a portata di mano la terapia miracolosa. Quindi, cari giornalisti, andiamoci piano.

 

Nel rapporto sulla demenza, pubblicato nel 2012 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, era scritto chiaramente, senza giri di parole: “No treatments are currently available to cure or even alter the progressive course of dementia…”. (Nessun trattamento è al momento disponibile per curare o anche alterare il decorso progressivo della demenza). Eppure è stata mantenuta la rimborsabilità degli inibitori dell’acetilcolinesterasi e della memantina. Si fa l’interesse dei pazienti o delle aziende produttrici?

Ciao a tutti,

Ermanno Pisani

(http://www.globalaging.org/agingwatch/Articles/Dementia%20a%20public%20health%20priority.pdf)

AMA contro la pubblicità diretta dei farmaci

L’Associazione dei medici americani (AMA) chiede che si sospenda la pubblicità diretta ai consumatori per i farmaci e per i dispositivi medici che richiedono la prescrizione. La richiesta nasce dalla constatazione che la mole crescente di messaggi pubblicitari spinge i pazienti a esigere terapie sempre più costose, pur in presenza di alternative clinicamente efficaci e più economiche.

Non è un caso che negli unici due paesi al mondo dove è permessa la pubblicità diretta dei farmaci (USA e Nuova Zelanda) siano stati spesi in pubblicità diretta 4,5 miliardi di dollari negli ultimi due anni, con un incremento del 30% rispetto agli anni precedenti. L’ulteriore preoccupazione dell’AMA è che i pazienti vengano spinti a richiedere cure non appropriate, anche se a volte non se le possono permettere per il loro alto costo, perché convinti dalla pubblicità che i nuovi farmaci facciano al caso loro. Va notato che nel solo 2015 vi è stato un aumento del 4,7% del costo dei farmaci, sia griffati che generici.

 

Ovviamente PhRMA, l’equivalente statunitense di Federfarma, non condivide la proposta di AMA, sostenendo che “lo scopo della pubblicità diretta è quello di fornire informazioni scientifiche accurate perché i pazienti possano conoscere meglio le opzioni terapeutiche esistenti”. La FDA, che approvò molti anni fa la pubblicità diretta ai consumatori, può revocare il mandato in qualsiasi momento.

 

Tra i commenti comparsi nei siti dove è stata pubblicata la proposta dell’AMA, si legge: “AMA, dove eravate quando fu concessa la pubblicità diretta? Il primo farmaco pubblicizzato fu il Seldane, un antistaminico che non provocava sonnolenza, ma poteva causare danni valvolari cardiaci anche mortali”; e ancora “quando uscì il Tagamet e venne pubblicizzato in TV, un anziano specialista si rifiutò di prescriverlo, continuando a consigliare il vecchio bismuto che viene ancora oggi utilizzato, mentre il Tagamet è sparito dalla scena”.

 

Per fortuna nella maggior parte dei paesi, Europa compresa, la pubblicità diretta non è stata autorizzata, nonostante le ripetute richieste dell’industria farmaceutica. Speriamo che l’auspicata revoca della pubblicità negli USA non venga paradossalmente seguita dal suo permesso in Europa, in base a logiche liberiste e commerciali che contrastano con il compito primario di tutelare la salute dei cittadini a costi sostenibili.

 

Notizia tradotta e riassunta da Fabio Suzzi

Da commensali a consulenti: la diseducazione continua…

 

 

Uno dei cambiamenti più rilevanti – ma anche più silenziosi – degli ultimi anni nella sanità non soltanto italiana riguarda le attività del marketing farmaceutico. L’uso sempre più attento dei dati raccolti nel monitoraggio del cosiddetto “ritorno degli investimenti” ha dimostrato ai manager industriali che i soldi spesi per la promozione più tradizionale servono a poco. In poche parole, acquistare pagine pubblicitarie sulle riviste scientifiche o regalare libri utili non cambiano le prescrizioni dei medici: probabilmente perché la lettura non è più un’abitudine dei professionisti (non solo dei medici) o lo è in misura inferiore di un tempo.

 

Negli ultimi quindici anni, poi, una straordinaria opportunità è stata offerta alle aziende: l’educazione continua del medico (ECM). Una cosa estremamente redditizia per le industrie, soprattutto quella residenziale. È un sistema, quello della ECM, molto ben pensato a vantaggio di tutti i protagonisti. Il medico ottiene crediti il più delle volte con il minimo impegno e assolve il proprio debito formativo. Le istituzioni non solo sono sollevate dal proprio onere educativo ma ricevono importanti finanziamenti dalle aziende che, come in Italia nei riguardi di AGENAS, sono obbligate a versare una quota per ogni credito maturato nei corsi da loro sponsorizzati. Le industrie, infine, hanno l’opportunità di mantenere il contatto diretto con i clinici prescrittori, facendo apparire dei messaggi commerciali come contenuti utili all’aggiornamento.(1)

 

Queste dinamiche sono note da molti anni ma sono state oggetto di un’analisi recente che ha confermato come il problema sia purtroppo molto attuale, nonostante un teorico consenso sui rischi che esse comportano.(2) La ECM, negli Stati Uniti, è oggi il modo più utilizzato per aggirare le nuove norme per la trasparenza dei finanziamenti ai medici da parte delle aziende. Quest’ultime, infatti, si servono di agenzie incaricate sia di remunerare i relatori (e talvolta anche i partecipanti), sia di organizzare gli eventi, sia di garantire che i contenuti dei progetti “formativi” rispondano alle necessità del marketing dello sponsor. In questo modo il denaro ricevuto dai medici non deve essere dichiarato pubblicamente come previsto dal Sunshine Act statunitense.(3) “Un tempo le aziende lo chiamavano «invitarci a pranzo» e oggi è diventato «farci fare da consulenti»”.(4)

 

The Milwaukee Journal Sentinel ha pubblicato una analisi (dai risultati purtroppo scontati) sulle attività educazionali centrate sulla “terapia” a base di testosterone: dei 75 corsi valutati, 65 prevedevano la docenza di relatori gravati da conflitti di interesse. È un mercato, quello del testosterone, in costante crescita a conferma dell’efficacia – più che del prodotto – della strategia pubblicitaria. Nel 2000, le prescrizioni di testosterone erano sostanzialmente limitate a non molto frequenti casi di ipogonadismo: meno di un milione di ricette l’anno. Nel 2014 sono salite a 6,5 milioni. Con una parallela crescita di rischio da farmaco: dal 2010 sono state segnalate 3.900 reazioni avverse negli Stati Uniti, che hanno portato a 2.000 ricoveri e a 150 decessi. Senza considerare, perché più difficilmente quantificabile, l’aumento del rischio di cancro della prostata legato all’assunzione di testosterone.

 

Le evidenze a sfavore di questi prodotti sono schiaccianti, al punto che Steve Nissen – clinico della Cleveland Clinic e tra i più apprezzati trialisti americani – è giunto a dichiarare che qualsiasi nuovo studio sul testosterone relegherebbe i cittadini statunitensi al rango di porcellini d’India: cavie, per l’interesse delle industrie farmaceutiche.

 

“Come può un medico far credere che le aziende farmaceutiche possano essere interessate alla formazione?”, si chiedeva Marcia Angell nel libro prima citato. Eh sì, perché il problema di fondo è nell’accettazione di una realtà imbarazzante da parte delle categorie professionali coinvolte in queste dinamiche. L’industria, sosteneva l’ex direttore del New England Journal of Medicine, fa il proprio mestiere ed è, in certa misura, giustificabile. Difficile pensare lo stesso per medici o farmacisti, ma anche per le istituzioni: il beneficio economico di un sistema così congegnato è probabilmente molto inferiore ai costi generati dall’aumento delle prescrizioni diagnostiche e terapeutiche.

 

  1. Angell M. The truth about the drug companies. New York: Random house, 2004. Vedi il capitolo Marketing masquerading as education (pp.135-55).
  2. Fauber J, Jones C, Fiore K. Testosterone courses downplay risks, lead to overuse in older men. The Milwaukee Journal Sentinel; 17 ottobre 2015. Ultimo accesso: 6 novembre 2015.
  3. Physician Payments Sunshine Act. Wikipedia.
  4. Kowalczyk L. Drug firms and doctors: The offers pour in. Boston Globe, 15 dicembre 2002.

A cura de Il Pensiero Scientifico Editore

Finanziamenti USA della Coca Cola

Ricordate la serie di articoli del BMJ che denunciavano i legami tra Big Sugar e istituzioni accademiche inglesi, con i relativi conflitti d’interesse tra ricercatori e industria? Ne abbiamo scritto nella Lettera n. 33 del mese di maggio 2015. Tra quei Big Sugar non poteva mancare la Coca Cola. E poteva questa non agire allo stesso modo anche in patria, cioè negli USA? Ovviamente no.

Un’inchiesta del New York Times rivela che la ditta ha investito oltre 120 milioni di dollari negli ultimi 5 anni per finanziare centri di ricerca e singoli ricercatori e medici, ma anche una fondazione per il National Institute of Health, perché con le loro ricerche e pubblicazioni spostassero le accuse verso le cause dell’obesità dalle bevande zuccherate alla mancanza di attività fisica.(1) Il messaggio per il pubblico doveva essere: se volete mantenere il peso forma, fate molta attività fisica, e non preoccupatevi molto di ciò che bevete. Allo scopo, la ditta ha finanziato anche la creazione di un’associazione no profit, chiamata Global Energy Balance Network. Questo tentativo di deviare l’attenzione dall’assunzione di bevande zuccherate aveva anche due secondi fini: a) sgonfiare le proposte, negli USA e in molti altri paesi, di una sovrattassa per diminuirne il consumo, e b) tentare di far risalire le vendite, diminuite del 25% negli ultimi anni negli USA.

 

Barry Popkin, professore di nutrizione globale presso l’Università del North Carolina a Chapel Hill, ha commentato l’inchiesta del New York Times dicendo che il sostegno di Coca-Cola a importanti ricercatori gli ricordava le tattiche usate dall’industria del tabacco, che arruolava esperti perchè diventassero “mercanti di dubbio” per i rischi del fumo per la salute. Marion Nestle, autrice del libro “Le politiche delle bevande gassate” e professore di nutrizione, studi alimentari e salute pubblica alla New York University, è stata particolarmente brusca: “Il Global Energy Balance Network non è altro che un gruppo di facciata per la Coca-Cola, il cui programma è molto chiaro: fare in modo che questi ricercatori confondano la scienza e distolgano l’attenzione dall’alimentazione”. Kelly Brownell, decano della facoltà di Public Policy presso la Duke University, ha detto che Coca-Cola “come suo business, si focalizzata sul premere perché entrino un sacco di calorie, ma come filantropo si focalizza sulle calorie che escono fuori con l’esercizio”.

 

L’inchiesta era molto ben documentata, le prove inoppugnabili. Tant’è vero che il CEO della ditta, Muhtar Kent, non ha potuto far altro che ammettere che era vero e promettere trasparenza. Pochi giorni dopo Coca Cola ha pubblicato la lista di tutte le persone e istituzioni che avevano ricevuto soldi per partecipare al programma di “ricerca”: si tratta di centinaia di piccoli e grandi finanziamenti. L’American Academy of Pediatrics, per esempio, aveva ricevuto 3 milioni di dollari. Alcuni dei beneficiari hanno semplicemente ammesso (che altro potevano fare?); altri hanno tentato di giustificarsi; pochi hanno deciso di restituire i soldi (l’Università del Colorado ha restituito un milione, per esempio). Il capo del dipartimento di ricerca della Coca Cola, che aveva orchstrato il programma, si è dimesso, o è stato costretto a dimettersi. Il Global Energy Balance Network è stato smantellato. Tutto è bene quello che finisce bene? In parte sì. Ma quanti danni sono stati fatti in quei 5 anni e quanto tempo (e denaro) ci vorrà per rimediarvi? E siamo sicuri che gli strateghi delle pubbliche relazioni della Coca Cola non se ne inventino di nuove, e magari di più sofisticate, per raggiungere gli stessi obiettivi? E, la butto lì, cosa succede negli altri paesi, l’Italia per esempio, dove non c’è un New York Times?

 

Adriano Cattaneo

 

1. O’Connor A. Coca-Cola Funds Scientists Who Shift Blame for Obesity Away From Bad Diets. New York Times, 9 August 2015 http://well.blogs.nytimes.com/2015/08/09/coca-cola-funds-scientists-who-shift-blame-for-obesity-away-from-bad-diets/?_r=0

La statistica ingannevole delle statine

Le statine sono una classe di farmaci ampiamente usata efficaci nel ridurre i livelli plasmatici di colesterolo. Ma quanto sono efficaci e sicure nel ridurre il rischio cardiovascolare? Sicuramente meno di quanto si creda. Un articolo recentemente pubblicato ci mostra come la ricerca sulle statine è caratterizzata da una strategia di presentazione dei dati in cui le statistiche di rischio relativo e rischio assoluto sono state volutamente utilizzate da un lato per amplificare l’apparenza del beneficio, dall’altro per minimizzare i seri eventi avversi.(1) Analizzando i dati degli studi in modo trasparente è chiaro come per un beneficio molto limitato, si vada incontro a frequenti effetti collaterali. Vista la diffusione di questa categoria di farmaci, il risultato sarà che milioni di persone sane diventeranno pazienti e sperimenteranno effetti avversi senza beneficio.

 

Premessa

 

Le statine sono farmaci che riducono i livelli di colesterolo tramite l’inibizione dell’enzima HMG-CoA reduttasi. Oggi milioni di persone assumono statine, e il numero degli utilizzatori di questi farmaci è destinato a crescere con l’introduzione di nuove linee guida che ne espandono ulteriormente l’uso.

 

Ma il colesterolo è un fattore causale delle malattie cardiovascolari? La risposta a questa domanda sembra scontata, ma non è così, tanto che per decenni vi è stata un’accesa disputa tra i sostenitori del nesso causale tra il colesterolo e la malattia coronarica e gli scettici che considerano il colesterolo come un componente vitale del metabolismo cellulare. Gli argomenti dei primi si basano sulla presenza di colesterolo nel tessuto aterosclerotico e su studi che dimostrano un’associazione tra elevati livelli di colesterolo e malattia coronarica. Gli scettici, al contrario, enfatizzano come manchi un legame di causa-effetto tra elevati livelli di colesterolo e malattia coronarica. In effetti, una ricerca estesa ha documentato che la malattia coronarica può presentarsi indipendentemente dai livelli di colesterolo, e che anziani con bassi livelli di colesterolo risultano avere un’aterosclerosi sovrapponibile a quelli con livelli di colesterolo elevati.

 

Tornando alla domanda iniziale: il colesterolo è un fattore causale delle malattie cardiovascolari? Di sicuro i sostenitori del nesso di causalità hanno avuto la meglio, promuovendo la visione che “non c’è nessun dubbio circa il beneficio e la sicurezza del ridurre i livelli di colesterolo”, e definendo le statine come “farmaci miracolosi” e “l’invenzione più potente per prevenire eventi cardiovascolari”. Anche gli scettici riconoscono che il trattamento con le statine sembra ridurre gli eventi coronarici, ma un’ispezione attenta mostra come il beneficio sia molto più limitato rispetto a quanto è stato raccontato ai medici e al pubblico, e che l’effetto potrebbe derivare da altri meccanismi piuttosto che dalla riduzione dei livelli plasmatici di colesterolo.

 

Come la statistica ha fatto apparire le statine sicure ed efficaci

 

Negli esempi successivi si mostrerà come l’apparenza dell’efficacia dipenda dal fatto che i risultati sono stati descritti sfruttando il “rischio relativo” e disegnando e interpretando gli studi in modo da minimizzare gli effetti collaterali. Ma prima di analizzare i dati degli studi, è necessario comprendere la terminologia usata nella ricerca che riguarda tre termini statistici: riduzione del rischio relativo (Relative Risk Reduction), riduzione del rischio assoluto (Absolute Risk Reduction) e numero di persone da trattare (Number Needed To Treat). Per chiarire questi termini, consideriamo uno studio durato 5 anni e che ha coinvolto 2000 individui sani di mezza età. L’obbiettivo di questo studio era verificare se le statine possono prevenire una malattia coronarica. A metà dei partecipanti è stato somministrato un placebo (sostanza priva di principi attivi) e all’altra metà una statina. Durante i 5 anni di studio circa il 2% degli individui che assumono il placebo hanno un infarto miocardico non fatale contro l’1% degli individui che assumono la statina. La statina è stata quindi di beneficio all’1% degli individui e 1% è la riduzione del rischio assoluto. Messa in un altro modo, la probabilità di non avere un infarto miocardico non fatale è del 98%, mentre assumendo una statina questa probabilità si riduce ulteriormente dell’1% e arriva al 99%. Il numero di persone da trattare per ottenere un beneficio, uguale a “100/riduzione del rischio assoluto” in questo caso è 100, cioè è necessario trattare 100 persone per 5 anni perché 1 ne abbia un beneficio.

 

Quando si tratta di presentare i risultati della ricerca ai medici o al pubblico, i responsabili della ricerca sanno che le persone non saranno impressionate dall’aumento di un 1% e invece di usare la riduzione del rischio assoluto, presentano il beneficio in termini di riduzione del rischio relativo (RRR). La riduzione del rischio relativo deriva dalla riduzione del rischio assoluto ed esprime la differenza nella presenza di malattia tra i due gruppi con una frazione. Quindi, usando la riduzione del rischio relativo, i responsabili della ricerca possono dire che la statina, anziché ridurre l’incidenza di infarto miocardico non fatale da 2% a 1%, riduce l’incidenza di infarto miocardico del 50%, dato che 1 è il 50% di 2.

 

Un esempio di come l’effetto delle statine è stato ingigantito

 

Per illustrare come nei media e nella letteratura medica un effetto trascurabile del trattamento con le statine sia stato ingigantito usando la riduzione del rischio relativo, qui di seguito viene proposta un’analisi dello studio JUPITER che ha promosso l’uso della rosuvastatina. Leggendo l’articolo originale che trovate in bibliografia, trovate esempi simili tratti da altri studi che hanno promosso l’uso dell’atorvastatina (Anglo-Scandinavian Cardiac Outcomes Trial-Lipid Lowering Arm – ASCOTLLA) e della simvastatina (The British Heart Protection Study).

 

JUPITER: in questa ricerca la rosuvastatina o un placebo sono stati somministrati a 17.802 persone sane con un’elevata PCR, ma senza storia di malattia cardiovascolare o elevati livelli di colesterolo. L’obbiettivo della ricerca era verificare nei due gruppi l’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori, definiti come infarto miocardico non fatale, ictus non fatale, ospedalizzazione per angina instabile, necessità di rivascolarizzazione arteriosa, o morte secondaria ad eventi cardiovascolari. Lo studio è stato interrotto dopo un follow-up medio di 1,9 anni. Il numero di soggetti che hanno avuto eventi cardiovascolari maggiori è 251 (2.8%) nel gruppo di controllo che assumeva il placebo e 142 (1.6%) nel gruppo che assumeva la rosuvastatina. La riduzione del rischio assoluto è del 1.2% e il numero di persone da trattare (100/1.2%) è quindi 83. Nella ricerca, il beneficio per quanto riguarda il numero di infarti miocardici fatali o non fatali è anche meno: ci sono stati 68 (0.67%) eventi nel gruppo del placebo contro 13 (0.35%) nel gruppo della statina, corrispondenti a una riduzione del rischio assoluto di 0.41% e un NNT di 244, che equivale a dire che 244 persone devono essere trattate per 1,9 anni per prevenire un singolo infarto miocardico fatale o non fatale. Questo significa che per quanto riguarda gli infarti miocardici fatali e non fatali, meno dell’1% della popolazione trattata (lo 0,41%) ha beneficiato del trattamento con la rosuvastatina. Nonostante questo effetto striminzito, sui media il beneficio del farmaco è stato riportato con frasi del tipo “oltre il 50% evita un infarto miocardico”, dato che 0.41 è il 54% di 0.76. Quindi i medici e il pubblico sono stati informati di una riduzione del 54% degli infarti quando in realtà la riduzione effettiva nella popolazione trattata è di meno di 1 punto percentuale. Inoltre, la riduzione del rischio assoluto di 0.41% deriva dall’insieme di infarti miocardici fatali e non fatali. É stata prestata poca attenzione al fatto che sono morte più persone di un infarto nel gruppo che assumeva il farmaco e anche ricercatori esperti possono non aver considerato questo dato poiché non veniva esplicitato nella pubblicazione. I numeri sono nascosti in una tabella dell’articolo pubblicato: sottraendo il numero di infarti non fatali dal numero di tutti gli infarti risulta infatti che nel gruppo che assumeva la statina si sono verificati 11 infarti fatali, mentre nel gruppo di controllo solo 6.

 

Nonostante il minuscolo effetto della rosuvastatina, nei media i risultati di JUPITER sono stati gonfiati. Su Forbes Magazine, John Kastelein, uno dei coautori dello studio ha proclamato: “É spettacolare, finalmente abbiamo dei dati robusti che una statina previene un primo infarto miocardico”. Questa e altre dichiarazioni trionfanti hanno convinto l’agenzia regolatoria del farmaco americana (FDA) a raccomandare il trattamento con rosuvastatina anche a persone con normali livelli di colesterolo ed elevata PCR. Nella pubblicazione dei risultati di JUPITER, non sembra esserci differenza negli effetti avversi dei due gruppi. Comunque, nel gruppo trattato con il farmaco c’erano 260 nuovi casi di diabete contro i 216 del gruppo di controllo (3% vs 2.4%; p<0.01). Al contrario degli effetti benefici del farmaco amplificati usando il rischio relativo, l’effetto significativo dell’aumento dei nuovi casi di diabete nei pazienti che assumevano la rosuvastatina è stato espresso solo in forma di aumento del rischio assoluto. Una valutazione oggettiva di JUPITER avrebbe dovuto essere comunicata in questo modo: “La probabilità di evitare un infarto miocardico non fatale nei prossimi 2 anni è di circa il 97% senza trattamento, ma si può aumentare a circa il 98% assumendo rosuvastatina ogni giorno. Comunque, la vita non sarà prolungata ed è aumentato il rischio di diabete, senza menzionare altri effetti avversi” (che descriveremo in parte nella sezione successiva).

 

Esempi di come gli effetti collaterali delle statine sono stati minimizzati

 

Un secondo problema degli studi che riguardano le statine sono le distorsioni sistematiche per minimizzare gli effetti avversi. Come abbiamo potuto apprezzare, l’effetto benefico delle statine riguarda una riduzione dell’1-2% di eventi coronarici. Questo dato, a livello di popolazione, renderebbe le statine degli ottimi farmaci, se questi non avessero eventi avversi. Ma gli effetti collaterali sono sostanziali e includono un’aumentata incidenza di cancro, cataratta, diabete, alterazioni cognitive e malattie muscolo-scheletriche. Mentre il beneficio delle statine è sempre riportato con la forma del rischio relativo, gli effetti collaterali sono sempre espressi con il rischio assoluto. Nel seguente esempio analizzeremo uno dei seri eventi correlati all’assunzione delle statine che sono stati minimizzati: il cancro. Consiglio ancora la lettura dell’articolo originale che trovate in bibliografia, in cui potrete apprezzare come è stata sistematicamente sminuita l’importanza di altri due effetti collaterali: la miopatia e soprattutto le alterazioni cognitive.

 

Cancro: vari studi sulle statine hanno riportato un aumento dell’incidenza di cancro. In 4 di questi studi l’incremento di incidenza era statisticamente significativo. Nello studio CARE, che includeva 4159 pazienti (576 donne e 3583 uomini) con infarto e livelli di colesterolo elevati, a metà dei pazienti è stata somministrata prasuvastatina e all’altra metà un placebo. Dopo 5 anni di trattamento, 24 pazienti sono morti per patologia cardiovascolare nel gruppo che assumeva il farmaco (1.15%) contro 38 (1.83%) tra i controlli che assumevano un placebo. La riduzione del rischio assoluto è dello 0.68%. L’effetto collaterale più serio è stato il tumore alla mammella, riscontrato in 12 donne (4.2%) nel gruppo che assumeva la prasuvastatina e in 1 donna (0.34%) nel gruppo che assumeva il placebo. Anche se la differenza di incidenza tra i due gruppi è statisticamente rilevante (p = 0.0002), gli autori hanno minimizzato l’aumento del rischio scrivendo nell’articolo: “Non c’è nessuna conosciuta potenziale base biologica… la totalità dell’evidenza suggerisce che questo riscontro nello studio CARE potrebbe essere un anomalia meglio interpretata nel contesto della bassa frequenza di eventi avversi dello studio e nel valutazione statistica di vari eventi avversi”. Ma una base biologica che correla le statine all’aumento del rischio di cancro esiste, dato che un’estesa ricerca indica che le lipoproteine partecipano attivamente al funzionamento del sistema immunitario e una riduzione dei livelli di colesterolo è associata a un’aumentata incidenza di cancro. Inoltre, studi di pazienti ammalati di cancro e controlli sani hanno mostrato che i pazienti ammalati di cancro usavano statine in modo significativamente maggiore rispetto ai soggetti di controllo.

 

Un altro studio in cui è stato riscontrato un aumento dell’incidenza di cancro è PROSPER. Si tratta di una ricerca che ha coinvolto 5084 tra uomini e donne con una storia di vasculopatia o un fattore di rischio per vasculopatie. A metà dei soggetti è stata somministrata prasuvastatina, all’altra metà un placebo. Dopo un follow-up di 3,2 anni, nell’abstract dell’articolo si leggeva che la mortalità da malattia cardiaca veniva ridotta del 24% dalle statine, ma analizzando meglio una delle tabelle, il 3,3% dei pazienti era morto nel gruppo delle statine contro il 4,2% nel gruppo di controllo, per una riduzione del rischio assoluto dello 0,9%. Il piccolo beneficio sulla mortalità cardiovascolare veniva però annullato da un sostanziale numero di pazienti che morivano per un cancro: nel gruppo della prasuvastatina c’erano 28 morti in meno per patologia cardiovascolare, ma 24 morti in più per cancro. Se includiamo nel calcolo casi di cancro che non avevano (ancora) portato alla morte i pazienti, il totale era di 245 pazienti nel gruppo che assumeva il farmaco e 199 nel gruppo che assumeva il placebo, una differenza statisticamente significativa (p = 0.02). Inoltre la differenza tra i due gruppi nei casi di tumore aumentava di anno in anno. Nonostante una differenza statisticamente significativa, la conclusione degli autori era che “la più probabile spiegazione nello sbilanciamento nell’incidenza di cancro nello studio PROSPER è la casualità, che potrebbe in parte derivare dal reclutamento di individui con una malattia occulta”. Per minimizzare ulteriormente questo riscontro gli autori hanno contato il numero di nuovi tumori in tutti i precedenti studi con la prasuvastatina e trovato che presi insieme non c’era un aumento significativo. Ma nel loro calcolo gli autori hanno omesso due fattori importanti: non hanno calcolato il numero di individui con tumori della pelle e non hanno detto che negli studi precedenti i partecipanti erano di 20-25 anni più giovani. PROSPER è uno studio particolarmente importante e unico dato che le statine sono usate nelle popolazione anziana. Il cancro è un riscontro frequente negli studi autoptici delle persone anziane la cui morte è attribuita a un’altra causa, questo perché il cancro è spesso latente e cresce così lentamente che spesso non diventa un problema nel corso della vita, a meno che la crescita non sia accelerata da fattori esterni. Se il trattamento con le statine o la riduzione del colesterolo può essere un fattore che causa il cancro, come mostrato in modelli animali, è probabile che il cancro dia prima i suoi segni nella popolazione anziana. Ci sono grandi differenze tra i periodi di incubazione di tipi differenti di cancro e quelli più facili da diagnosticare sono quelli che compaiono prima. Escludere i tumori della pelle introduce una distorsione importante. Nei primi due studi che riguardavano la simvastatina, 4S e Heart Protection Study, a più pazienti tra quelli trattati erano stati diagnosticati tumori della pelle. Questi dati sono inclusi nelle tabelle degli articoli e non compaiono nel testo, forse perché la differenza non era statisticamente significativa, ma se si combinano i dati dei due studi, l’associazione tra cancro e statine diventa significativa (256/12454 vs 208/12459; p < 0.028).

 

Un’altra ricerca sulle statine in cui il cancro compare più spesso nel gruppo dei pazienti che assumono il farmaco è SEAS. In questo studio sono stati inclusi 1873 pazienti con vari gradi di stenosi aortica e con un valore medio di colesterolo di 222 mg%. La metà sono stati trattati con simvastatina e ezetimide, l’altra metà con un placebo. Eccetto che per una riduzione degli eventi ischemici, non è stato identificato nessun beneficio nei 4,3 anni di trattamento. Comunque, il cancro si è verificato in 105 (11.1%) pazienti che assumevano il farmaco ma solo in 70 (7.5%) pazienti nel gruppo di controllo, un effetto statisticamente significativo (p<0.01). Gli autori hanno notato l’aumentata incidenza di cancro nei pazienti trattati, ma hanno scritto che “dato che la terapia a lungo termine con le statine non è stata associata ad un aumento del rischio di cancro, la differenza di incidenza di cancro osservata nello studio può essere il risultato del caso”.

 

La maggior parte degli studi sulle statine terminano dopo 2-5 anni, un periodo di tempo troppo corto per valutare lo sviluppo della maggior parte dei tumori. In questo contesto è da notare che uno studio caso-controllo a lungo termine su varie migliaia di donne ha mostrato che il numero di neoplasie mammarie raddoppiava tra chi assumeva statine per più di 10 anni (OR 2.00; 1.26-3.17). Se le statine siano carcinogene o meno è una questione aperta. In ogni caso è forte l’evidenza che la riduzione del colesterolo e l’uso di statine sono entrambi associati ad un aumento del rischio di cancro.

 

Conclusione

 

La ricerca sulle statine è caratterizzata da una strategia di presentazione dei dati in cui le statistiche di rischio relativo e rischio assoluto sono state volutamente utilizzate da un lato per amplificare l’apparenza del beneficio, dall’altro per minimizzare i seri eventi avversi, che sono stati ignorati o spiegati in modo che sembrassero verificarsi per caso. Anche se solo il 10% dei pazienti che assumono statine dovesse presentare un evento avverso, il risultato sarà che milioni di persone sane diventeranno pazienti e sperimenteranno effetti avversi senza beneficio.

 

I punti da ricordate

 

  • Presentare i dati in termini di rischio relativo ha intenzionalmente fuorviato il pubblico così da esagerare il minuscolo beneficio delle statine.
  • Gli studi sulla riduzione del colesterolo in prevenzione primaria non hanno dimostrato di ridurre la mortalità e allungare la vita.
  • La riduzione della mortalità cardiovascolare negli studi di prevenzione secondaria è abbastanza bassa e raramente eccede il 2%.
  • I seri effetti collaterali del trattamento con le statine sono estremamente sottostimati. Gli effetti avversi del trattamento con statine sono molti e riguardano: diabete, alterazioni cognitive, cataratta, cancro, alterazioni muscolo scheletriche.
  • Il piccolo beneficio visto negli studi di riduzione del colesterolo è indipendente dal grado di riduzione del colesterolo.
  • Gli approcci per ridurre la mortalità cardiovascolare dovrebbero enfatizzare altri interventi: la cessazione del fumo, evitare l’obesità, il consumo di cibi poco zuccherati e di grassi parzialmente idrogenati.

 

A cura di Luca Iaboli

 

1. Diamond DM, Ravnskov U. How statistical deception created the appearance that statins are safe and effective in primary and secondary prevention of cardiovascular disease. Expert Rev Clin Pharmacol 2015;8(2):201–10 http://www.drperlmutter.com/wp-content/uploads/2015/02/Statin-data-corruption.pdf