Acqua bene comune o proprietà di pochi?

La Sezione ISDE di Arezzo organizza l’Incontro/Conferenza “Acqua Bene Comune o proprietà di pochi?” per Venerdì 8 Aprile 2016 (ore 15.00- 18.30) presso il Palazzo della Fraternita dei Laici (Piazza Grande, Arezzo).
Saranno affrontati dai relatori i seguenti argomenti:


La memoria dell’acqua. Un approccio etico
La risorsa idrica in Valdichiana: ubicazione, apporti e vulnerabilità
Dal consumo alla rigenerazione: il percorso di un’agricoltura responsabile
Qualità delle acque destinate al consumo umano
Inquinamento delle acque ad uso potabile: il caso di studio del Lago di Vico
Gestione comune dell’acqua

Guarda il programma dell’evento.

2016 04 08 Volantino Acqua Fronte2016 04 08 Volantino Acqua Retro

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7 APRILE – GIORNATA MONDIALE DELLA SALUTE – PALAZZO ISIMBARDI, VIA VIVAIO,1 – MILANO ORE 17.30

27156180-7-aprile-testo-giornata-mondiale-della-salute-medico-simbolo-caduceo-sfondo-illustrazione-Archivio-FotograficoRETE PER IL DIRITTO ALLA SALUTE DI MILANO E LOMBARDIA
MEDICINA DEMOCRATICA ONLUS – ASSOCIAZIONE ITALIANA ESPOSTI AMIANTO – COMITATO PER LA DIFESA DELLA SALUTE NEI LUOGHI DI LAVORO E NEL TERRITORIO

7 APRILE 1916/ 7 APRILE 2016
GIORNATA MONDIALE DI MOBILITAZIONE PER IL DIRITTO ALLA SALUTE

Come ogni anno, il 7 aprile si celebra la giornata mondiale di mobilitazione per il diritto alla salute.

In Europa, i paesi con sistemi sanitari pubblici, in particolare, Inghilterra, Francia, Spagna, Italia hanno subito o stanno subendo pesanti attacchi che hanno messo o stanno mettendo in crisi il diritto universale
alla salute. Il neo liberismo diffuso impone forme sempre più spinte di privatizzazione a partire dai tentativi di diffusione delle assicurazioni sanitarie integrative – e non solo – che vengono sistematicamente introdotte nei rinnovi dei contratti collettivi nazionali di lavoro.
La sanità viene considerata una merce qualsiasi, oggetto dell’iniziativa del mercato e fonte di profitto.

In solidarietà e in unione con tutti i movimenti, le associazioni e i sindacati che si oppongono alle misure che vanno in quella direzione, compresi in particolare i paventati accordi internazionali TTIP e TISA, le associazioni unite nella Rete per il diritto alla Salute di Milano e Lombardia di cui fanno parte Medicina Democratica, il Forum Civico Metropolitano, l’associazione Senza Limiti onlus (per la difesa degli anziani
cronici non autosufficienti e disabili gravi), l’AIEA (ass. italiana esposti amianto-onlus) hanno deciso di celebrare questa giornata a Milano anche per riflettere sulla recente legge approvata dalla regione Lombardia (n. 23 dell’11 agosto 2015) di evoluzione del sistema sanitario lombardo.

La salute è un bene comune cui non si può rinunciare e che va perseguito. Il sistema sanitario nazionale va difeso, implementato, sostenuto. Si tratta di un diritto costituzionale che richiede, per essere attuato, un’organizzazione sanitaria universale, gratuita e partecipata, basata sulla prevenzione.

Parteciperanno ed interverranno:

Hakim Baya, membro della Commissione internazionale di Solidaires SUD Sante Sociaux (France)

Piergiorgio Duca, presidente di Medicina Democratica (docente di biometria e statistica medica dell’Università di Milano),

Alberto Donzelli esperto di sanità pubblica – fondazione Allineare Sanità e Salute

Giuseppe Natale, portavoce Forum Civico Metropolitano

Andrea Micheli, epidemiologo – esperto europeo di economia sanitaria

Vittorio Agnoletto, medico del lavoro – docente di “globalizzazione e politiche della salute“ –

Università Statale di Milano

Margherita Napoletano – Coordinamento Rappresentanti Lavoratori per la Sicurezza – Sanità

Carlo Parascandolo – Rete per il diritto alla salute di Milano e Lombardia

L’incontro si svolgerà

giovedì 7 aprile dalle ore 17,30 alle ore 20,30

presso la Sala degli Affreschi di palazzo Isimbardi, già sede della Provincia, in via Vivaio, 1 – Milano.


Visualizza mappa ingrandita

Per raggiungere Palazzo Isimbardi:

Ingresso da via Vivaio 1 e da corso Monforte 35 – 20122 Milano

MM1: S. Babila – Palestro
TRAM: 9-23-30-29
BUS: 54-61-94

Dall’Aereoporto di Linate:
BUS 73 S. Babila

Dalla Stazione Centrale:
– MM3 Duomo e cambio MM1 S. Babila – Palestro
– TRAM: 9 (Piazza Tricolore)

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.249 DEL 29/03/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.249 DEL 29/03/16

 

INDICE

  • Le “Frequently Asked Questions” di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights! – N.11
  • Sorveglianza sanitaria e valutazione dei rischi in edilizia
  • Responsabilità e posizione di garanzia del direttore di stabilimento
  • Linee guida: valore giuridico e vincolatività

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO – KNOW YOUR RIGHTS! – N.11

 

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.

In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.

Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.

Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

 

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Ciao Marco,

scusa se ti disturbo nuovamente.

Ho fatto la visita dal medico del lavoro aziendale e stavolta mi hanno dato un mansionario dove c’è scritto “Si raccomanda l’uso dei DPI specifici durante le diverse attività lavorative come da procedure aziendali”.

So cosa vuol dire, ma documentandomi ho riscontrato che per la mia mansione ci sono scarpe e giubbotti adeguati.

Ho fatto presente all’azienda che io le scarpe le ho comprate da solo perchè quelle che mi hanno dato loro non proteggono le caviglie e il giubbotto o le bretelline non le ho.

La risposta è stata che non esiste nessuna legge che stabilisce tutto ciò e loro hanno deciso che le scarpe antinfortunistiche sono adeguate anche per il trasporto con movimentazione carichi e, che per il giubbotto, posso adoperare il gilet posto nel furgone.

Non so se sono cambiate le regole o le leggi, ma io sapevo che per le scarpe ci vuole una protezione adeguata per le caviglie.

Ti ringrazio fin da adesso anche per la tua pazienza.

Cosa mi consigli?

A presto.

 

Ciao,

la definizione delle caratteristiche dei DPI è un obbligo a carico del datore di lavoro che li deve scegliere in funzione dei rischi che non possono essere eliminati in altro modo.

A tale proposito vale quanto disposto dall’articolo 77, commi 1 e 2 del D.Lgs.81/08:

Il datore di lavoro ai fini della scelta dei DPI:

  1. a) effettua l’analisi e la valutazione dei rischi che non possono essere evitati con altri mezzi;
  2. b) individua le caratteristiche dei DPI necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi di cui alla lettera a), tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi DPI;
  3. c) valuta, sulla base delle informazioni e delle norme d’uso fornite dal fabbricante a corredo dei DPI, le caratteristiche dei DPI disponibili sul mercato e le raffronta con quelle individuate alla lettera b);
  4. d) aggiorna la scelta ogni qualvolta intervenga una variazione significativa negli elementi di valutazione.
  5. Il datore di lavoro, anche sulla base delle norme d’uso fornite dal fabbricante, individua le condizioni in cui un DPI deve essere usato, specie per quanto riguarda la durata dell’uso, in funzione di:
  6. a) entità del rischio;
  7. b) frequenza dell’esposizione al rischio;
  8. c) caratteristiche del posto di lavoro di ciascun lavoratore;
  9. d) prestazioni del DPI”.

L’analisi dei rischi e la scelta dei DPI (basata su precisi criteri tecnici) deve essere formalizzata dal datore di lavoro all’interno del Documento di Valutazione dei Rischi e quindi può essere consultata dai RLS.

Per quanto riguarda le scarpe, se nella tua mansione è presente un rischio di urto per le caviglie e non solo per la punta dei piedi, la conseguente valutazione porta a concludere che le scarpe devono essere completamente chiuse anche posteriormente.

Se così non è vuol dire che l’analisi e la valutazione non è stata fatta correttamente e ciò comporta un reato penale a carico del datore di lavoro che è il solo responsabile della valutazione dei rischi e della definizione delle misure di prevenzione e protezione (articolo 17, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08).

Tieni conto poi che le scarpe devono essere certificate CE ai sensi della Direttiva 89/686/CEE (recepita in Italia dal D.Lgs.475/92) ed essere conformi alla norma tecnica UNI EN ISO 20345:2012 “Dispositivi di protezione individuale – Calzature di sicurezza” (questo deve essere specificato nell’etichetta).

Per quanto riguarda il giubbotto, se la sua funzione è solo quella di garantire una migliore visibilità in area con traffico di carrelli o transpallet, esso può essere sostituito dal gilet o dalle bretelle ad alta visibilità.

Si tratta sempre di DPI e devono essere quindi marcati CE secondo quanto detto sopra.

La norma di riferimento è la UNI EN ISO 20471:2013 “Indumenti ad alta visibilità – Metodi di prova e requisiti” che prevede ampiezza delle zone colorate e delle bande rifrangenti in funzione del fattore di rischio legato alla circolazione di mezzi meccanici e di persone.

Quindi anche in questo caso la definizione delle caratteristiche del DPI (relativamente all’ampiezza delle zone colorate e rifrangenti) deve essere fatta dal datore di lavoro in funzione dei rischi effettivamente presenti e deve essere formalizzata nel Documento di Valutazione dei Rischi consultabile dal RLS.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Un caro saluto.

Marco

 

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Buonasera Marco,

vorrei un consiglio per quanto riguarda alcune mansioni svolte nella azienda metalmeccanica dove lavoro.

In particolare, ci sono alcune figure come i magazzinieri e gli addetti al controllo qualità che per motivi di lavoro devono recarsi durante il turno all’esterno dell’azienda (i magazzinieri per acquistare dei ricambi, il controllo qualità per fare delle verifiche dai fornitori esterni).

L’ufficio del personale ha detto loro che devono timbrare l’uscita e il rientro, loro hanno solo un foglio generico che firmano quando escono, che rimane in azienda e dovrebbe essere archiviato da qualche responsabile.

Mi viene chiesto: se durante l’uscita succede un incidente sia per colpa mia oppure subìto da me, e il foglio fatto in azienda non si “trova”, io non ho niente per dimostrare che ero uscito per lavoro, dato che ho timbrato l’uscita e non ho nessuna ricevuta che mi rimane.

Secondo me non devono timbrare l’uscita, perché comunque sono in servizio, farsi la fotocopia del foglio firmato e tenersene una copia.

Grazie.

Saluti.

 

Ciao,

da un punto di vista normativo, non mi risulta che la gestione delle uscite e degli ingressi dal luogo di lavoro per trasferte sia regolamentata in qualche modo (almeno sicuramente non li sono regolamentati nel Testo Unico sulla sicurezza D.Lgs. 81/08, né nella normativa sull’orario di lavoro D.Lgs. 66/03, né nello Statuto dei Lavoratori L. 300/70).

Pertanto la “tracciabilità” del lavoratore è demandata a decisioni dell’azienda che devono tenere conto anche della tutela della salute e della sicurezza del lavoratore e che dovrebbero essere concordate con le Rappresentanze Sindacali e con i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza.

Vale comunque il principio che il lavoratore deve essere tutelato dal proprio datore di lavoro sia che lavori all’interno della sede aziendale, sia che lavori all’esterno.

Per tale motivo devono essere adottate delle procedure all’interno del Documento di Valutazione dei Rischi, sotto la piena responsabilità del datore di lavoro (articoli 17, comma 1, lettera a) e 28 del D.Lgs. 81/08) per garantire tale tutela.

Il criterio di fare timbrare in uscita e in ingresso in occasioni di trasferte al di fuori dell’azienda può essere necessario proprio per garantire la sicurezza ed è applicato da molte aziende.

Tale procedura discende dalla necessità di sapere, in qualunque momento dell’orario lavorativo, chi è all’interno dell’azienda e chi invece è fuori. Ciò è fondamentale in caso di emergenza in cui sia necessario evacuare la sede di lavoro dell’azienda (ad esempio per un incendio) per essere sicuri che tutte le persone presenti in azienda al momento dell’emergenza abbiano evacuato e siano presenti al punto di raccolta.

Quindi eliminare tale procedura potrebbe essere contrario alla sicurezza stessa.

Trovo più pratico predisporre il modulo di uscita per motivi di lavoro in duplice copia o fotocopiarlo (una copia per l’azienda, una per il lavoratore) e farlo timbrare e firmare da persona di responsabilità (l’addetto alla reception, un preposto, un dirigente).

Visto lo sviluppo tecnologico ritengo sia poi fattibile eseguire la timbratura tramite badge magnetico predisponendo sul lettore l’opzione tra uscita dall’azienda per fine lavoro oppure per motivi di servizio.

L’importante è che l’azienda sappia in qualunque momento (e il lavoratore possa dimostrarlo) chi è presente in azienda, chi è assente perché ha terminato il lavoro, chi è assente per trasferta di lavoro.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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Buonasera Marco.

Domanda veloce

Quanto tempo deve passare tra la fine di un turno e l’inizio del prossimo per un lavoratore, ovvero di quante ore di riposo questi ha diritto?

Grazie come sempre della disponibilità

 

Buonasera a te.

Risposta veloce.

L’articolo 7 del D.Lgs. 66/03 che trovi al link:

http://www.parlamento.it/parlam/leggi/deleghe/03066dl.htm

prevede: “Ferma restando la durata normale dell’orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore. Il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità”.

Quindi le ore tra fine turno e inizio turno successivo devono essere almeno 11, salvo i casi di lavoro frazionato o di reperibilità.

 

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Ciao Marco.

Avrei bisogno di una lettera da mandare al responsabile sicurezza della mia azienda per il mancato coinvolgimento degli RLS per un incidente.

Ti spiego il fatto: si è staccato un tubo primario dell’aria su una linea di montaggio, dal tubo è partito un pezzo che fortunatamente è rimbalzato su una rulliera e poi ha colpito un lavoratore alla schiena. Poteva scapparci il morto…

Al solito non c’è stato nessun coinvolgimento degli RLS.

Oltre all’incidente in sé, mi preme mettere in evidenza la necessità di controlli e di messa in sicurezza su tutte le linee che hanno il solito sistema.

 

Ciao.

A seguire la lettera da mandare al datore di lavoro della tua azienda (in quanto primo responsabile della sicurezza) e per conoscenza al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (come “consulente” del datore di lavoro) e al Dipartimento Salute e Sicurezza della ASL (come organo di vigilanza per la salute e la sicurezza dei lavoratori).

 

A seguito del grave incidente, avvenuto presso la linea di produzione XXX, in cui un tubo dell’aria compressa si è staccato e ha colpito un lavoratore, che solo per caso non ha avuto conseguenza ben più serie, si comunica quanto segue.

Risulta del tutto incomprensibile l’accaduto, in relazione agli obblighi di tutela della sicurezza dei lavoratori che l’azienda dovrebbe ottemperare.

E’ infatti noto che nell’utilizzo delle attrezzature di lavoro (tra cui anche gli impianti ausiliari alla produzione come la rete di aria compressa), si debbano adottare tutte le misure di salute e sicurezza di cui all’articolo 71 del D.Lgs.81/08 (Decreto), tra cui la corretta progettazione e installazione della rete (secondo norme di buona tecnica) e la sua corretta manutenzione programmata al fine di permettere il mantenimento nel tempo dei requisiti di salute e sicurezza.

Si chiede pertanto all’azienda la revisione del Documento di Valutazione del Rischio, ex articoli 17, comma 1, lettera a), 28 e 29 del Decreto, relativamente alla sicurezza delle attrezzature di lavoro, comprese gli impianti ausiliari alla produzione, con la definizione di adeguate misure di prevenzione e protezione, al fine di tutelare i lavoratori dallo stato delle attrezzature stesse.

In particolare si richiede quali misure di prevenzione e protezione l’azienda intende attuare al fine di evitare nel futuro il ripetersi di incidenti quali quello di cui sopra.

Ai sensi dell’articolo 29, comma 2 del Decreto si richiede che tale revisione della valutazione del rischio, con la definizione di adeguate misure di prevenzione e protezione per le attrezzature, venga realizzata previa consultazione dei RLS.

Si rimane in attesa di riscontro alla presente.

I RLS

 

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Ciao Marco,

nella mia azienda (multinazionale chimica) da qualche tempo hanno introdotto una procedura di stampo americano di gestione degli infortuni definita come RWC (Restricted Work Case).

Si tratta di una procedura per una gestione “particolare” dell’infortunio sul lavoro con limitazione della mansione, che non causa perdita di giorni lavorati, ma che comunque causa impossibilità per l’infortunato di continuare nella sua normale mansione lavorativa per tutto o per parte della sua giornata lavorativa.

In sostanza tale procedura tende ad esercitare una certa “spintaneità” sul lavoratore a svolgere mansioni più leggere anche con l’ausilio del medico competente che, dopo visita medica e colloquio con il lavoratore, ne certifica la idoneità alla mansione ridotta e consente il rientro al lavoro.

Una procedura alquanto perversa tesa a nascondere infortuni o quanto meno a esercitare sui lavoratori a rinunciare all’infortunio.

Una pratica contraria all’articolo 5 dello Statuto dei Lavoratori e al D.P.R. 1124/65.

E mi risulta che ci siano state delle sentenze in merito all’evitare la denuncia di un infortunio.

Cosa ne pensi?

 

Ciao,

ad oggi rimane del tutto applicabile in tutte le realtà lavorative quando disposto dal D.P.R. 1124/65 all’articolo 53:

Il datore di lavoro è tenuto a denunciare all’Istituto assicuratore gli infortuni da cui siano colpiti i dipendenti prestatori d’opera, e che siano prognosticati non guaribili entro tre giorni, indipendentemente da ogni valutazione circa la ricorrenza degli estremi di legge per l’indennizzabilità. La denuncia dell’infortunio deve essere fatta con le modalità di cui all’art. 13 entro due giorni da quello in cui il datore di lavoro ne ha avuto notizia e deve essere corredata da certificato medico.

[…]

La denuncia dell’infortunio ed il certificato medico debbono indicare, oltre alle generalità dell’operaio, il giorno e l’ora in cui è avvenuto l’infortunio, le cause e le circostanze di esso, anche in riferimento ad eventuali deficienze di misure di igiene e di prevenzione, la natura e la precisa sede anatomica della lesione, il rapporto con le cause denunciate, le eventuali alterazioni preesistenti.

[…]

I contravventori alle precedenti disposizioni sono puniti con l’ammenda da lire seimila a lire dodicimila”.

L’articolo 53 non lascia evidentemente alcuna discrezionalità al datore di lavoro sull’obbligo di denuncia di infortunio, tanto che, in caso di omessa denuncia, il datore di lavoro è sanzionato secondo l’ultimo capoverso dell’articolo 53.

L’articolo 53 fa riferimento a infortuni non guaribili entro tre giorni, senza porre alcun discrimine relativamente agli effetti causati dall’infortunio o relativamente alla possibilità di continuare l’attività lavorativa.

Pertanto, anche se l’infortunio permette al lavoratore di continuare la sua attività lavorativa, magari con prescrizioni da parte del medico competente, ex articolo 41 comma 6 del D.Lgs. 81/08, la denuncia va fatta comunque, anche perché lo scopo della stessa, oltre a quella di permettere l’eventuale astensione dal lavoro per l’infortunato, è anche quella di permettere all’INAIL di monitorare il fenomeno infortunistico, anche in relazione a “le cause e le circostanze di esso, anche in riferimento ad eventuali deficienze di misure di igiene e di prevenzione”.

Nulla vieta invece all’azienda, per tramite del medico competente, di verificare la possibilità per il lavoratore di non assentarsi dal lavoro a seguito dell’infortunio e di proseguire l’attività lavorativa, dopo avere comunque adempiuto all’obbligo di cui all’articolo 18, comma 1, lettera c), cioè quello di:

nell’affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza”.

In merito a quanto sopra non ho trovato sentenze che facciano giurisprudenza.

A tale riguardo ha pieno valore però quanto indicato dalla Commissione degli Interpelli con l’Interpello n.20 del 2007 che trovi al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2007.20.pdf

che specifica che:

Al riguardo si rileva che l’articolo 53, comma 5 [del D.P.R. 1124/65] non contempla alcuna ipotesi di esclusione dall’obbligo della denuncia o dall’obbligo del rispetto del relativo termine di inoltro; può pertanto affermarsi che i suddetti adempimenti costituiscono obblighi di carattere generale, aventi sempre natura cogente quali che siano le conseguenze scaturenti dalla tecnopatia contratta dal lavoratore, compresa anche l’eventuale inabilità permanente al lavoro dell’assicurato”.

Ricordo che relativamente ai pareri della Commissione degli Interpelli l’articolo 12, comma 3 del D.Lgs. 81/08 stabilisce che:

Le indicazioni fornite nelle risposte ai quesiti di cui al comma 1 [quelli posti alla Commissione degli Interpelli] costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza”.

Pertanto quanto attuato dalla tua azienda è contrario a quanto disposto dal D.P.R.1124/65, sia a seguito di attenta lettura di tale testo normativo, sia a seguito di parere della Commissione degli Interpelli.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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Ciao Marco,

ti volevamo chiedere un’informazione riguardo la certificazione OHSAS 18001.

La settimana prossima saranno nella nostra azienda i certificatori.

Spero che prenderanno in considerazione anche le nostre segnalazioni che abbiamo fatto nella relazione della riunione annuale.

Per quanto riguarda il metodo OCRA e NIOSH che al momento è la nostra priorità, l’azienda ha presentato un documento che è relativo alla situazione delle linee produttive del 2010, ma che non è stato aggiornato a seguito delle radicali modifiche al ciclo produttivo e alle linee di produzione fatte nel 2014.

Tutto questo, visto la tua esperienza in materia, ti sembra normale?

 

Ciao,

i metodi OCRA e NIOSH (o meglio le norme tecniche della serie ISO 11228) sono i criteri con cui valutare il rischio da movimentazione manuale dei carichi (MMC) rispettivamente per la movimentazione di carichi leggeri ad alta frequenza e per le attività di sollevamento e trasporto di carichi pesanti.

Essi si applicano nella valutazione del rischio da MMC che è un obbligo sanzionabile a carico del datore di lavoro.

Infatti, nell’ambito dell’obbligo generale di valutazione dei rischi di cui agli articoli 17, comma 1, lettera a), 28 e 29 del D.Lgs. 81/08, devono essere valutati anche i fattori di rischio per la salute derivanti da MMC.

Tale valutazione deve essere finalizzata a evitare la necessità di MMC (ad esempio mediante attrezzature di sollevamento o movimentazione) e dove ciò non sia tecnicamente possibile a ridurre i fattori di rischio per la salute secondo le norme tecniche di riferimento (appunto quelle della famiglia ISO 11228).

A carico del datore di lavoro vige infatti inizialmente l’obbligo di cui all’articolo 168, comma 1 del Decreto:

Il datore di lavoro adotta le misure organizzative necessarie e ricorre ai mezzi appropriati, in particolare attrezzature meccaniche, per evitare la necessità di una movimentazione manuale dei carichi da parte dei lavoratori”.

Il mancato adempimento a tale obbligo è sanzionato penalmente dall’articolo 170, comma 1, lettera a) del Decreto con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.500 a 6.400 euro.

Dove tali misure non siano possibili, il datore di lavoro deve adempiere all’obbligo di cui al comma 2 dell’articolo 168:

Qualora non sia possibile evitare la movimentazione manuale dei carichi ad opera dei lavoratori, il datore di lavoro adotta le misure organizzative necessarie, ricorre ai mezzi appropriati e fornisce ai lavoratori stessi i mezzi adeguati, allo scopo di ridurre il rischio che comporta la movimentazione manuale di detti carichi, tenendo conto dell’allegato XXXIII, ed in particolare:

  1. a) organizza i posti di lavoro in modo che detta movimentazione assicuri condizioni di sicurezza e salute;
  2. b) valuta, se possibile anche in fase di progettazione, le condizioni di sicurezza e di salute connesse al lavoro in questione tenendo conto dell’allegato XXXIII;
  3. c) evita o riduce i rischi, particolarmente di patologie dorso-lombari, adottando le misure adeguate, tenendo conto in particolare dei fattori individuali di rischio, delle caratteristiche dell’ambiente di lavoro e delle esigenze che tale attività comporta, in base all’allegato XXXIII;
  4. d) sottopone i lavoratori alla sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41, sulla base della valutazione del rischio e dei fattori individuali di rischio di cui all’allegato XXXIII”.

Anche il mancato adempimento a tale comma è sanzionato penalmente dall’articolo 170, comma 1, lettera a) del Decreto con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.500 a 6.400 euro.

Il datore di lavoro deve quindi eseguire una specifica valutazione del rischio per individuare il livello di rischio da MMC e a seguito di tale valutazione individuare e applicare le misure di prevenzione per ridurre tale livello.

Come enunciato dall’articolo 168, comma 3:

Le norme tecniche costituiscono criteri di riferimento per le finalità del presente articolo e dell’allegato XXXIII, ove applicabili. Negli altri casi si può fare riferimento alle buone prassi e alle linee guida”.

A tale proposito l’allegato XXXIII specifica poi che

Le norme tecniche della serie ISO 11228 (parti 1-2-3) relative alle attività di movimentazione manuale (sollevamento, trasporto, traino, spinta, movimentazione di carichi leggeri ad alta frequenza) sono da considerarsi tra quelle previste all’articolo 168, comma 3”.

Tali norme tecniche sono rispettivamente:

  • ISO 11228-1:2003 “Ergonomics – Manual handling – Part 1: Lifting and carrying”, per le attività di sollevamento e trasporto, che utilizza come criterio di valutazione il metodo NIOSH;
  • ISO 11228-2:2007 “Ergonomics – Manual handling – Part 2: Pushing and pulling” per le attività di traino e spinta, che utilizza come criterio di valutazione il metodo Snook&Ciriello;
  • ISO 11228-3:2007 “Ergonomics – Manual handling – Part 3: Handling of low loads at high frequency”, movimentazione di carichi leggeri ad alta frequenza, che utilizza come criterio di valutazione il metodo OCRA.

Da quello che mi scrivi risulta che la tua azienda abbia effettivamente eseguito tali valutazioni (sarebbe comunque da verificare se i criteri adottati sono coerenti con quelli descritti nelle norme della serie 11228), ma che tali valutazioni siano ormai datate a seguito di modifiche tecniche e organizzative apportate alle attività lavorative.

La tua azienda non risulta in questo caso inadempiente agli obblighi di cui all’articolo 168 del Decreto sopra enunciati, ma è comunque inadempiente relativamente all’obbligo di cui all’articolo 29, comma 3, che impone che:

La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate. Nelle ipotesi di cui ai periodi che precedono il documento di valutazione dei rischi deve essere rielaborato, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, nel termine di trenta giorni dalle rispettive causali. Anche in caso di rielaborazione della valutazione dei rischi, il datore di lavoro deve comunque dare immediata evidenza, attraverso idonea documentazione, dell’aggiornamento delle misure di prevenzione e immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.

Quindi non soltanto la tua azienda avrebbe dovuto aggiornare formalmente la valutazione dei rischi da MMC entro 30 giorni dal momento delle modifiche alle linee di produzione, ma avrebbe dovuto da subito aggiornare le misure di prevenzione e protezione.

Il mancato adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 29, comma 3 del Decreto è sanzionato penalmente dall’articolo 55, comma 3 con l’ammenda 2.000 a 4.000 euro.

Pertanto la mancata applicazione dei metodi OCRA e NIOSH o il mancato aggiornamento della valutazione a seguito di modifiche significative delle linee di produzione, non solo è fonte di non conformità per la certificazione secondo OHSAS 18001, ma si configura come mancato adempimento (e quindi reato penale) della normativa vigente di tutela della salute e della sicurezza.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Un caro saluto.

Marco

 

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NOTA

Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:

ASL = Azienda Sanitaria Locale

CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro

DPI = Dispositivi di Protezione Individuali

DVR = Documento di Valutazione dei Rischi

DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto

RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione

RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza

D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)

 

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SORVEGLIANZA SANITARIA E VALUTAZIONE DEI RISCHI IN EDILIZIA

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

16 marzo 2016

 

Indicazioni sulla sorveglianza sanitaria e sulla collaborazione del medico competente alla valutazione dei rischi e alla prevenzione in edilizia.

La sorveglianza sanitaria deve essere inserita a pieno titolo nel processo di valutazione dei rischi.

 

Con riferimento al sensibile aumento degli anni delle malattie professionali denunciate dai lavoratori edili, il Piano Nazionale Edilizia 2015-2018 prevede che la vigilanza si occupi nello specifico anche della valutazione della sorveglianza sanitaria messa in atto dal Medico Competente. Ed anche della congruenza di tale sorveglianza con la valutazione dei rischi.

 

Per parlare di queste tematiche si è tenuto il 6 novembre 2015 a Capannori (LU) il seminario “Valutazione dei rischi e sorveglianza sanitaria in edilizia” organizzato a cura dell’unità funzionale Prevenzione, Igiene e Sicurezza nei Luoghi di Lavoro dell’Azienda USL 2 di Lucca.

 

Uno degli interventi che si è soffermato sulla sorveglianza sanitaria e sulla valutazione dei rischi, con riferimento al ruolo del medico competente, si intitola “La collaborazione del medico competente alla valutazione dei rischi e alla prevenzione in edilizia” ed è a cura del dottor Carlo Grassi.

 

La relazione, che presenta nel dettaglio il ruolo e i compiti del medico competente, ricorda che la sorveglianza sanitaria corrisponde all’insieme degli atti medici, finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa.

La sorveglianza sanitaria è effettuata, come indicato dal D.Lgs. 81/08, dal medico competente:

  • nei casi previsti dalla normativa vigente, dalle indicazioni fornite dalla commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro;
  • qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi.

Il medico competente programma ed effettua la sorveglianza sanitaria attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati.

 

Questi gli obiettivi, lo scopo della sorveglianza sanitaria:

  • valutare l’idoneità specifica al lavoro;
  • scoprire in tempo utile per un efficace intervento anomalie cliniche o precliniche (diagnosi precoce);
  • prevenire peggioramenti della salute del lavoratore (prevenzione secondaria);
  • valutare l’efficacia delle misure preventive nel luogo di lavoro;
  • rafforzare misure e comportamenti lavorativi tutelanti per sicurezza e salute.

 

La sorveglianza sanitaria, essendo l’unico strumento di rilevazione degli effetti sanitari precoci, deve essere necessariamente inserita a pieno titolo nel processo di valutazione dei rischi.

In questo senso il Medico Competente individua i gruppi di lavoratori da inserire nel programma di sorveglianza sanitaria e ne definisce il protocollo indicando per ogni mansione i fattori di rischio (oggetto della valutazione) per i quali è istituita la sorveglianza sanitaria, la periodicità della visita medica, gli accertamenti strumentali e/o di laboratorio e loro periodicità.

Tale protocollo di sorveglianza sanitaria costituisce parte integrante del Documento di Valutazione dei Rischi redatto ai sensi degli articoli 17, comma 1, lettera a) , 28 e 29 del D.Lgs. 81/08.

Il relatore ricorda, tra l’altro, che lo stesso articolo 29 indica che la valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata anche quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. E a seguito di tale rielaborazione le misure di prevenzione debbono essere aggiornate.

 

Si indica inoltre che sarebbe auspicabile che il protocollo di sorveglianza fosse esposto in forma di tabella, nella quale per ogni fattore di rischio fossero indicati:

  • effetti avversi/organi bersaglio;
  • accertamenti mirati di primo livello;
  • altri eventuali accertamenti di secondo livello;
  • eventuali riferimenti normativi o tecnici (leggi, linee guida);
  • periodicità suggerite (in rapporto alle fasce di intensità di esposizione).

 

Viene riportato un esempio relativo alla movimentazione manuale dei carichi (MMC)

In particolare vengono inclusi in questo rischio i lavoratori che svolgono queste attività in modo non occasionale, sia nel corso del turno di lavoro, che nel complesso dell’attività lavorativa.

Ad esempio un’attività di MMC svolta alcune volte nell’arco del turno di lavoro o qualche volta alla settimana per 1-2 ore è da considerarsi occasionale.

 

In questo caso la tabella relativa alla sorveglianza sanitaria dovrebbe riportare:

  • effetti avversi/organi bersaglio: apparato locomotore, specie rachide lombo sacrale; apparato cardiocircolatorio e respiratorio, se la MMC è accompagnata da sforzo fisico intenso e/o prolungato);
  • accertamenti mirati di primo livello: visita medica con anamnesi mirata e con eventuale utilizzo di questionario specifico; elettrocardiogramma se la MMC è accompagnata da sforzo fisico intenso e/o prolungato;
  • altri eventuali accertamenti di secondo livello (esempi non esaustivi): diagnostica per immagini (radiografia, TAC, risonanza magnetica); visita fisiatrica o di altro specialista; visita cardiologia ed eventuale elettrocardiogramma da sforzo;
  • eventuali riferimenti (leggi, linee guida): D.Lgs. 81/08; Linee Guida Coordinamento Tecnico delle Regioni; Linee guida SIMLII;
  • periodicità suggerite in rapporto alle fasce di intensità di esposizione: se indice di rischio NIOSH maggiore di 1 biennale, se maggiore di 0,75 almeno quadriennale.

 

La relazione si sofferma poi sulle varie visite mediche di cui si compone la sorveglianza sanitaria, sulla cartella sanitaria, sul riscorso all’organo di vigilanza e sul registro per i lavoratori esposti a rischi cancerogeni.

 

Viene riportata anche l’analisi di alcuni dati risultanti dalla vigilanza nelle aziende.

Da questa vigilanza risulta, ad esempio:

  • la presenza del protocollo sanitario (ma non sempre riferito al profilo di rischio);
  • l’assenza di tracce degli incontri, riunioni, contatti con il datore di lavoro, i tecnici consulenti, il RSPP, i RLS, i lavoratori;
  • l’assenza di riferimenti al contributo del medico competente nel corpo del documento di valutazione dei rischi.

Si fa poi riferimento anche alle assenze o carenze relative al verbale di sopralluogo negli ambienti di lavoro, alle attività di promozione della salute, ecc.

 

Sono riportate anche possibili situazioni positive riguardo alla collaborazione del medico competente alla valutazione dei rischi.

Ad esempio:

  • il medico competente ha effettuato il sopralluogo;
  • la sorveglianza sanitaria è stata attivata previa acquisizione del documento di valutazione dei rischi da parte del medico competente e dopo l’effettuazione del sopralluogo;
  • il documento di valutazione dei rischi risulta adeguato, è sottoscritto dal medico competente con/senza ulteriori osservazioni oppure il documento di valutazione dei rischi risulta inadeguato, ma il medico competente, pur avendolo firmato, ha prodotto le sue osservazioni;
  • se il documento di valutazione dei rischi è adeguato i profili di rischio e i protocolli sanitari sono coerenti con il documento e le mansioni specifiche e le eventuali limitazioni/prescrizioni riportate nelle cartelle e nei giudizi di idoneità sono coerenti con il documento di valutazione dei rischi.

 

Ricordando che la gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro è in capo al datore di lavoro, l’intervento si conclude riportando gli obblighi del datore di lavoro nei riguardi del medico competente (con riferimento al D.Lgs. 81/08).

A tale riguardo, il datore di lavoro deve:

  • nominare il medico competente, previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nei casi in cui vige l’obbligo della sorveglianza sanitaria;
  • assicurare al medico competente le condizioni necessarie per lo svolgimento dei compiti garantendone l’autonomia;
  • fornire al medico competente informazioni su: natura dei rischi, risultati della valutazione dell’esposizione dei lavoratori, organizzazione del lavoro, programmazione e attuazione delle misure preventive e protettive, impianti e processi produttivi, infortuni e malattie professionali, provvedimenti adottati dagli organi di vigilanza;
  • richiedere al medico competente l’osservanza degli obblighi a lui demandati;
  • inviare a visita medica i lavoratori entro le scadenze previste dal programma di sorveglianza sanitaria;
  • vigilare affinché i lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria non siano adibiti alla mansione lavorativa specifica senza il prescritto giudizio di idoneità;
  • attuare le misure indicate dal medico competente e, nel caso di inidoneità alla mansione specifica, adibire il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute;
  • comunicare tempestivamente la cessazione del rapporto di lavoro dei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria;
  • in caso di effetti sanitari imputabili all’esposizione segnalati dal medico competente rivedere il documento di valutazione dei rischi e le misure di prevenzione;
  • garantire a propria cura e spese l’esecuzione delle visite mediche, degli esami clinici e biologici e degli accertamenti diagnostici mirati al rischio, ritenuti necessari dal medico competente.

 

Il documento “La collaborazione del medico competente alla valutazione dei rischi e alla prevenzione in edilizia”, a cura del dottor Carlo Grassi, intervento al seminario “Valutazione dei rischi e sorveglianza sanitaria in edilizia” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/160208_USL2_collaborazione_MC_edilizia.ppt

 

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RESPONSABILITA’ E POSIZIONE DI GARANZIA DEL DIRETTORE DI STABILIMENTO

 

Da: PuntoSicuro

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Di Gerardo Porreca

 

Il direttore di stabilimento è destinatario “iure proprio” al pari del datore di lavoro dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega, in quanto assume nella materia specifica una posizione di garanzia.

 

Fornisce la Corte di Cassazione in questa sentenza un chiarimento sulla posizione di garanzia assunto dal direttore di uno stabilimento in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti.

Il direttore di stabilimento infatti, ha sostenuto la Corte Suprema, è destinatario “iure proprio”, al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega di funzioni, in quanto in virtù della posizione apicale ricoperta in azienda assume una posizione di garanzia in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Lo stesso risponde pertanto della mancata adozione delle misure organizzative e integrative di controllo e di vigilanza demandate a colui che nello stabilimento riveste un ruolo apicale e quindi del tutto differenti da quelle di ordine esecutivo rientranti invece nelle mansioni del capo squadra o del preposto e finalizzate ad evitare il pericolo del verificarsi di infortuni.

Beninteso però, ha aggiunto la Corte di Cassazione, al direttore di stabilimento non possono farsi carico, in ragione della qualifica funzionale rivestita, scelte gestionali generali che sono rimesse invece al datore di lavoro.

 

Il direttore di uno stabilimento e responsabile della sicurezza di una società di gestione dello stesso è stato tratto a giudizio unitamente al preposto, nei cui confronti la sentenza di primo grado è passata in giudicato non essendo stata proposta impugnazione, per rispondere del reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione di norme antinfortunistiche in danno di un lavoratore dipendente.

La Corte d’Appello, successivamente, in parziale riforma della sentenza del Tribunale appellata dall’imputato, concessa all’imputato l’attenuante di cui all’articolo 62 numero 6 del Codice Penale, ritenuta unitamente alle già concesse attenuanti generiche prevalente sulla contestata aggravante, rideterminava la pena in giorni 40 di reclusione, sostituita con la sanzione pecuniaria di € 1.520 di multa, revocando in accoglimento di una specifica istanza difensiva il concesso beneficio della sospensione condizionale della pena.

Avverso tale decisione l’imputato ha ricorso in Cassazione a mezzo del difensore di fiducia lamentando la violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera b) del Codice di Procedura Penale con riferimento all’articolo 40 del Codice Penale nonché agli articoli 18 e 19 del D.Lgs. 81/08, la violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera e) del Codice di Procedura Penale per contraddittorietà e manifesta illogicità intrinseca della motivazione in punto di riconducibilità a lui del ruolo di preposto e per travisamento della prova e omessa motivazione sul punto, rispetto agli atti del processo ed alla sentenza emessa dal Tribunale, sempre in relazione al ruolo del preposto, la violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera c) del Codice di Procedura Penale in relazione agli articoli 516, 521 e 522 del Codice di Procedura Penale e 24 e 111 della Costituzione, essendo il fatto addebitato in sentenza diverso da quello descritto al capo di imputazione e la violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera e) del Codice di Procedura Penale per omessa motivazione in relazione al motivo di appello relativo alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per mancato espletamento dell’esame dell’imputato.

 

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dall’imputato. La stessa ha ricordato che il lavoratore si è infortunato mentre azionava un trapano a colonna privo dello schermo di protezione e che all’imputato, quale direttore dello stabilimento nel quale si era verificato l’infortunio, era stato contestato di aver messo a disposizione dei lavoratori attrezzature non idonee ai fini della salute e della sicurezza nonché adeguate al lavoro da svolgere.

Non è in contestazione, ha aggiunto la stessa Corte, la circostanza che l’infortunio occorso al lavoratore era stato determinato da una manovra dallo stesso operata che era stata resa possibile solo e in quanto il trapano a colonna sul quale operava era sprovvisto di adeguata protezione che consentisse all’operaio stesso di non venire in contatto con le parti in movimento della macchina. Il ricorrente ha sostenuto altresì che la sentenza impugnata sarebbe pervenuta alla sua condanna per un fatto diverso da quello in contestazione (l’aver messo a disposizione dei lavoratori attrezzature non idonee).

La Suprema Corte ha precisato a riguardo che, a prescindere dalla circostanza che non è stato chiarito con sufficiente certezza se i dispositivi di sicurezza, pure in ipotesi acquistati dalla società, fossero stati debitamente e correttamente installati, la gravata sentenza ha chiarito che la violazione della disposizione che prevede l’apposizione di una protezione atta a evitare il contatto delle mani del lavoratore con gli organi della macchina in movimento, è ravvisabile sia nell’ipotesi in cui lo schermo o altro meccanismo di protezione non sia mai stato apposto, come in quella in cui sia stata successivamente rimossa.

Deve peraltro ritenersi legittimamente consentito al giudice, ha così proseguito la Sezione IV, individuare, oltre agli elementi di fatto contestati, altri profili del comportamento colposo dell’imputato emergenti dagli atti processuali in relazione ai quali questi sia stato posto in grado di difendersi.

 

Quanto alla posizione di garanzia del ricorrente va precisato che nel capo di imputazione è stato precisato che lo stesso rivestiva la qualifica di “direttore di stabilimento”, ruolo peraltro pacificamente ammesso dallo stesso imputato. Sul punto quindi la Suprema Corte ha precisato che “in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il direttore dello stabilimento di una società per azioni è destinatario iure proprio, al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega di funzioni, in quanto, in virtù della posizione apicale ricoperta, assume una posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti”.

Se ovviamente all’imputato, ha così proseguito la Sezione IV, “in ragione della qualifica funzionale rivestita, non potevano farsi carico scelte gestionali generali rimesse al datore di lavoro, era peraltro del tutto pacifico che allo stesso, attesa la posizione apicale ricoperta nell’organigramma dello stabilimento, faceva capo una ben precisa e netta posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavori dipendenti in servizio nello stabilimento dallo stesso prevenuto diretto”.

“Appare pertanto corretta”, secondo la Sezione IV, “l’indicazione della Corte di merito alle regole cui si sarebbe dovuto attenere l’imputato nel ruolo di dirigente con funzioni di direttore dello stabilimento, sul rilievo specifico della mancata adozione di misure organizzative e integrative di controllo e di vigilanza (demandate a colui che rivestiva un ruolo apicale nello stabilimento e quindi del tutto differenti da quelle di ordine esecutivo rientranti invece nelle mansioni del capo squadra o del semplice preposto) finalizzate a evitare il pericolo del verificarsi di infortuni quale quello di cui è causa”.

 

La Suprema Corte, in conclusione, ha ritenuto anche privo di fondamento il tentativo dell’imputato di addossare ogni responsabilità al preposto condannato in primo grado essendo peraltro pacifico che in tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l’omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile a ognuno dei titolari di tale posizione.

 

La Sentenza n. 45233 del 12 novembre 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14294:2015-11-16-11-31-43&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

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LINEE GUIDA: VALORE GIURIDICO E VINCOLATIVITA’

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

24 marzo 2016 – Cat: Linee guida e buone prassi

Di Anna Guardavilla

Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro

 

Le Linee Guida in materia di salute e sicurezza tra Decreto 81 e norme generali, il valore giuridico del “sapere scientifico”, la giurisprudenza e il valore delle linee guida nei processi penali.

 

Il Decreto Legislativo 81/08 ha introdotto, all’articolo 2, le definizioni di tre fonti di grande rilevanza in ambito prevenzionistico per gli RSPP, i Medici Competenti, gli RLS, i datori di lavoro e in generale tutti gli operatori della salute e sicurezza sul lavoro, ovvero le “linee guida”, le “norme tecniche” e le “buone prassi”.

 

Con particolare riferimento alle linee guida, queste sono definite dal Testo Unico quali “atti di indirizzo e coordinamento per l’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza predisposti dai Ministeri, dalle Regioni, dall’ISPESL e dall’INAIL e approvati in sede di Conferenza Stato-Regioni” (articolo 2, comma 1 lettera z) del D.Lgs. 81/08).

 

Dunque questa definizione pone alcuni punti fermi, prevedendo che le linee guida:

  • consistano in atti di indirizzo e coordinamento per l’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza;
  • per essere definite e considerate tali, debbano essere predisposte dai Ministeri, dalle Regioni e dall’INAIL (ai sensi della Legge 30 luglio 2010 n. 122 che ha trasferito le competenze dell’ISPESL all’INAIL);
  • debbano essere approvate in sede di Conferenza Stato-Regioni.

 

Una prima conseguenza che possiamo trarre da questa definizione è che non tutti gli atti di indirizzo e coordinamento per l’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza possono essere definiti “linee guida”, ma solo quelli che vengono emanati dai soggetti su indicati e con i requisiti visti.

Per garantire la certezza del diritto, infatti, il legislatore nel 2008 ha previsto che potessero intendersi quali “linee guida” solo gli atti di indirizzo emanati da una rosa di organismi appartenenti al sistema pubblico cui la legge ha riconosciuto l’autorevolezza e la legittimazione istituzionale necessaria ad emanare indirizzi unitari e quindi ad uniformare gli orientamenti applicativi per tutti gli operatori del settore.

 

Le linee guida sono spesso richiamate direttamente dal D.Lgs. 81/08 e più in generale dalla normativa prevenzionistica.

A mero titolo di esempio (perché guardando al Testo Unico e norme correlate gli esempi potrebbero essere molti), in materia di attrezzature di lavoro, la Relazione di accompagnamento al Decreto correttivo 106/09 specificava a suo tempo che “all’articolo 71 [del D.Lgs. 81/08] sono operate una serie di modifiche che evidenziano la rilevanza della informazione, della formazione, dell’addestramento, delle linee guida e delle buone prassi ove si verta in materia di utilizzo di attrezzature di lavoro” e che tale articolo 71, come risulta anche dalla versione attuale, è stato “cambiato imponendo al datore di lavoro di considerare, nell’adempimento dell’obbligo in parola, i documenti indicati o le indicazioni derivanti da norme tecniche, buone prassi o linee guida assicurando un migliore livello di tutela.” (il riferimento è all’attuale comma 8 dell’articolo 71 del D.Lgs. 81/08, cui si rinvia).

 

In questo caso, così come in tutti i casi analoghi, è il legislatore stesso a richiamare espressamente e ad imporre in maniera vincolante al datore di lavoro l’applicazione delle linee guida.

 

Non va però dimenticato che le linee guida assumono un valore giuridico anche quando queste non sono richiamate direttamente dalla normativa prevenzionistica (ad esempio dal D.Lgs.81/08), ai sensi dell’articolo 2087 del Codice Civile che pone il principio della cosiddetta “massima sicurezza tecnologicamente fattibile”, alla luce del quale, come ci ricorda la giurisprudenza, “in materia di sicurezza del lavoro il datore di lavoro è tenuto ad uniformarsi alla migliore scienza ed esperienza del momento storico in quello specifico settore; e, nel caso in cui per i suoi limiti individuali non sia in grado di conoscere la miglior scienza ed esperienza, consapevole di tali limiti, deve avere l’accortezza di far risolvere da altri i problemi tecnici che non è in grado di affrontare personalmente” (vedi Sentenza n. 6944 del 16 giugno 1995 della Cassazione Penale Sezione IV).

 

Oltre a esprimere il principio su ricordato, l’ articolo 2087 del Codice Civile svolge anche un’altra importante funzione che può correlarsi anche alle linee guida, fungendo infatti da “norma di chiusura del sistema antinfortunistico”, nel senso che la giurisprudenza ritiene che il datore di lavoro non abbia assolto i suoi obblighi in materia di salute e sicurezza sul lavoro quando, pur avendo osservato tutte le prescrizioni specifiche in materia, non abbia adottato tutte le misure rese necessarie da particolarità del lavoro, esperienza e tecnica.

Secondo la Cassazione, infatti, “l’eventuale silenzio della legge sulle misure antinfortunistiche da prendere non esime il datore di lavoro da responsabilità se, di volta in volta, la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono in grado di suggerirgli e, quindi, di imporgli idonee misure di sicurezza” (vedi Sentenza n. 2054 del 3 marzo 1993 della Cassazione Penale Sezione IV).

 

Una interessante pronuncia della Cassazione emanata quest’anno (Sentenza n. 34 del 5 gennaio 2016 della Cassazione Civile Sezione Lavoro) sottolinea a tal proposito che con riferimento alle misure cosiddette “innominate” imposte dall’articolo 2087 del Codice Civile, grava sul “datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati oppure trovino riferimento in altre fonti analoghe (si vedano per tutte le Sentenze n. 15082 del 2 luglio 2014 e n. 12445 del 25 maggio 2006 della Cassazione Penale)”.

 

Un riferimento implicito all’ articolo 2087 del Codice Civile e ai principi su illustrati è contenuto peraltro anche nella normativa specifica, laddove il Decreto 81/08 definisce la “prevenzione” come “il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno” (articolo 2, comma 1, lettera n) del D.Lgs.81/08).

 

A questo punto, approfondiamo un po’ più in dettaglio in cosa consistano il valore giuridico e la vincolatività delle linee guida.

 

La giurisprudenza lo illustra in maniera chiara.

Una interessante pronuncia (Tribunale di Asti, 22 ottobre 2010) in tema di malattie professionali ci ricorda, infatti, che “nelle linee guida è normalmente contenuta la più compiuta e particolareggiata indicazione del sapere scientifico di un determinato settore. Da ciò consegue che nei processi per reati colposi (soprattutto quelli in campo medico) le linee guida vengono spesso in rilievo, poiché da esse possono essere tratti sia elementi indispensabili per l’individuazione del comportamento corretto da seguire e sia il “modello di agente”.

Secondo tale sentenza, le linee guida “costituiscono, al contempo, fonte dell’obbligo di adeguamento e metro della diligenza richiesta a chi opera in un determinato settore.”

 

Nel caso di specie oggetto di questa sentenza, in cui si giudicavano le responsabilità connesse all’insorgere (prima del 2008) di varie malattie professionali collegate alla sindrome da sovraccarico biomeccanico, il Tribunale trae (dalla premessa su riportata relativa alla funzione delle linee guida) la conclusione che nella fattispecie “i medici competenti, i datori di lavoro e i consulenti di questi ultimi erano senz’altro tenuti alla conoscenza delle linee guida relative al metodo OCRA per organizzare al meglio il lavoro in strutture imprenditoriali aventi a oggetto lavorazioni a rischio, in quanto estrinsecantesi in movimenti degli arti superiori a elevata ripetitività. Si deve dunque ritenere provato il nesso di causalità tra le omissioni del medico competente e l’insorgenza delle malattie: è ragionevole ritenere che se il medico competente avesse correttamente posto in essere il comportamento doveroso a lui spettante in forza delle norme nonché in forza alle regole di esperienza e se avesse dunque agito con perizia, diligenze e prudenza nello svolgimento del proprio lavoro, le malattie muscolo scheletriche non sarebbero insorte.”

 

Con particolare riferimento al Medico Competente, va anche ricordato che ai sensi del Testo Unico questi è tenuto a programmare ed effettuare la sorveglianza sanitaria “tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati” (articolo 25, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 81/08).

 

Riguardo alla figura del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, inoltre, la giurisprudenza valorizza con sempre maggiore attenzione l’importanza che questi svolga “in autonomia, nel rispetto del sapere scientifico e tecnologico, il compito di informare il datore di lavoro e di dissuaderlo da scelte magari economicamente seducenti ma esiziali per la sicurezza” (Sentenza n. 38343 del 18 settembre 2014, caso Thyssenkrupp, della Cassazione Penale, Sezioni Unite).

 

Al di fuori dell’ambito specifico della salute e sicurezza sul lavoro, poi, ma restando in campo medico in generale, può essere utile fare un brevissimo cenno alla norma contenuta nell’articolo 3 della Legge 8 novembre 2012 n. 189 che disciplina la “responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie” e che prevede che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve […]”.

 

Ma torniamo, per concludere il ragionamento, alle linee guida in materia di salute e sicurezza e alle indicazioni giurisprudenziali.

Se la giurisprudenza, come abbiamo visto, rintraccia l’utilità delle linee guida nei processi per reati colposi per infortuni o malattie professionali nel fatto che in esse possono essere tratti sia elementi indispensabili per l’individuazione del comportamento corretto da seguire e sia il “modello di agente”“, allora dobbiamo domandarci a questo punto cosa sia questo modello di agente, di colui che agisce, e quale funzione svolga ai fini delle responsabilità.

 

Ciò ci viene chiarito, tra le altre, da una importante Sentenza (Sentenza n. 16761 del 3 maggio 2010 della Cassazione Penale Sezione IV), che sottolinea che “la giurisprudenza e la dottrina dominanti si rifanno a criteri che rifiutano i livelli di diligenza ecc. esigibili dal concreto soggetto agente (perché in tal modo verrebbe premiata l’ignoranza di chi non si pone in grado di svolgere adeguatamente un’attività pericolosa) o dall’uomo più esperto (che condurrebbe a convalidare ipotesi di responsabilità oggettiva) o dall’uomo normale (verrebbero privilegiate prassi scorrette) e si rifanno invece a quello del cosiddetto agente modello (homo ejusdem professionis et condicionis), un agente ideale in grado di svolgere al meglio, anche in base all’esperienza collettiva, il compito assunto evitando i rischi prevedibili e le conseguenze evitabili. Ciò sul presupposto che se un soggetto intraprende un’attività, tanto più se pericolosa, ha l’obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla […]. Si parla dunque di misura oggettiva della colpa diversa dal concetto di misura soggettiva della colpa.”

 

Dunque, conclude la Cassazione, “il parametro di riferimento non è quindi ciò che forma oggetto di una ristretta cerchia di specialisti o di ricerche eseguite in laboratori d’avanguardia ma, per converso, neppure ciò che usualmente viene fatto, bensì ciò che dovrebbe essere fatto.

Non può infatti da un lato richiedersi ciò che solo pochi settori di eccellenza possono conoscere e attuare ma, d’altro canto, non possono neppure essere convalidati usi scorretti e pericolosi; questi principi sono ormai patrimonio comune di dottrina e giurisprudenza pressoché unanimi nel sottolineare l’esigenza di non consentire livelli non adeguati di sicurezza sia che siano ricollegabili a trascuratezza sia che il movente economico si ponga alla base delle scelte”.

 

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4° Giornata Molisana Salute e Ambiente

A Campobasso il prossimo 16 Aprile si svolgerà la 4° Giornata Molisana “Ambiente e Salute”.


Quest’anno il corso toccherà i seguenti temi: pesticidi, cancerogenesi, radiazioni ionizzanti, campi elettromagnetici e antibiotico resistenza.
Scarica la locandina.

2016.04.16 Campobasso - IV Giornata Molisana Ambiente e Salute - Manifesto

L’articolo 4° Giornata Molisana Salute e Ambiente sembra essere il primo su ISDE.

PFOA e PFAS: worst nightmare

SaluteGlobale_316x180_2Il 22 Marzo 2016 è stato indetto un Consiglio Regionale Straordinario Veneto per discutere di PFAS.

Alcuni consiglieri regionali hanno sollecitato invio di osservazioni e consigli da parte di cittadini e associazioni.

Leggi la comunicazione inviata a firma congiunta di ISDE Italia e ISDE Veneto.

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Choosing Wisely, l’altra faccia delle linee guida

Quotidiano Sanità , 21 marzo 20

Una precisazione di Slow Medicine sul significato culturale  del progetto Fare di più non significa fare meglio: non siamo lineaguidari  né proceduralisti

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Come stanno le comunità? Quali sono le criticità?

SaluteGlobale_316x180_11Venerdì 29 Aprile presso l’Ordine dei Medici di Chieti si terrà un workshop “Ambiente e Salute” intitolato “Come stanno le comunità? Quali sono le criticità? La valutazione dello stato di salute a livello comunale per la prevenzione, la VIS e la programmazione territoriale”. L’evento è promosso dall’Ordine dei Medici provinciale e dalla sezione ISDE di Chieti.
Sono previsti gli interventi di Bartolomeo Terzano, Referente ISDE Molise e membro della Giunta Esecutiva, e Felice Vitullo, Presidente ISDE Chieti.
Scarica il programma.

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Referendum trivelle: ISDE Italia per un Sì consapevole Impatti ambientali e sanitari delle trivellazioni per mare e per terra

Il 17 Aprile prossimo, con il Referendum sulle trivelle, i cittadini italiani sono chiamati ad esprimersi sul quesito abrogativo che riguarda l’articolo 6, comma 17 del codice dell’ambiente: “Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?”.

ISDE Italia auspica la più ampia partecipazione al Referendum ed invita a votare SI per la salute di oggi e domani.

Deve essere questa l’occasione per una profonda riflessione circa l’inderogabile necessità ed urgenza di cambiare il modello di sviluppo ancor oggi basato sulla combustione dei fossili. Tale modello, oltre agli alti costi sanitari imposti all’uomo e a tutta la biosfera per via dell’inquinamenti delle varie matrici ambientali, appare sempre più fragile e insostenibile sul piano economico. Negli ultimi 18 mesi il prezzo del greggio è calato circa del 70%: andare a cercare con accanimento e con tecniche sempre più costose e impattanti una risorsa che perde sempre più valore, può contribuire, oltre al danno alla salute e all’ambiente, a minare ulteriormente la tenuta economica del Paese.

Poche gocce di petrolio di scarsa qualità, mettono in pericolo le nostre bellissime coste, culla della nostra storia e della nostra cultura e possibile fonte economica malamente sfruttata oltre che la fauna e la pesca sostenibile.

La perforazione di un pozzo può avvenire sulla terra ferma (“onshore”) o in mare (“offshore”); gli impatti ambientali e sanitari, conseguentemente, saranno di diversa natura e graveranno in maniera differente in questi differenti contesti ma è importante dire SI oggi per avviare un processo di cambiamento che ci proietti verso fonti di energia alternative rinnovabili che ci permettano di rispettare l’ambiente e di tutelare la nostra salute.

Quando parliamo di trivelle offshore, nessuno può escludere un incidente. E in un mare chiuso come il Mediterraneo, un disastro petrolifero causerebbe danni gravissimi e irreversibili.

Comunque, anche in assenza di incidenti rilevanti, le estrazioni petrolifere comportano indiscutibilmente pesanti impatti ambientali – e quindi sulla salute umana, essendo l’ambiente un determinante fondamentale della salute – come dettagliatamente riportato nel testo di due studiosi italiani: “L’Impatto Ambientale del Petrolio, in Mare e in Terra” (Galaad Edizioni). Anche un recente rapporto di Greenpeace, relativo alle attività estrattive in Adriatico esaminate dal 2012 al 2014 ha evidenziato che tra i composti che superano con maggiore frequenza i valori definiti dagli Standard di Qualità Ambientale, rilevati nei sedimenti prossimi alle piattaforme, si trovano metalli pesanti, quali cromo, nichel, piombo (e talvolta anche mercurio, cadmio e arsenico). Inoltre, sono risultati rilevabili anche idrocarburi policiclici aromatici (IPA), come fluorantene, benzo[b]fluorantene, benzo[k]fluorantene, benzo[a]pirene e altri, variamente associati.
Tutte queste sostanze sono tossiche, spesso persistenti e bioaccumulabili ed alcune sono state già riconosciute cancerogene per l’uomo; esse possono risalire la catena alimentare attraverso la bio-magnificazione, raggiungendo così l’uomo in concentrazioni elevate e tali da causare seri danni all’organismo. In particolare per metalli pesanti quali piombo e soprattutto mercurio l’esposizione umana avviene attraverso pesce contaminato, specie se di grossa taglia, tanto che alle donne in gravidanza ne viene sconsigliato il consumo. Queste sostanze non solo si accumulano nei nostri corpi, ma passano anche dalla madre al feto durante la gravidanza ed interferiscono in particolare con lo sviluppo cerebrale del nascituro fino a comportare ritardo mentale e deficit del Quoziente intellettivo. I metalli pesanti oltre a effetti di tipo cancerogeno e neurologico comportano anche effetti a livello cardiovascolare, renale ed osseo con maggior rischio di osteoporosi. Parimenti pericolose sono poi le miscele di IPA per le quali è stato dimostrato – per fenomeni di azione sinergica – un aumento di rischio di insorgenza di cancro, soprattutto in presenza di benzo(a)pirene
Non va infine dimenticato che come per alcuni IPA, anche per metalli quali l’arsenico, il cadmio, il nickel, classificati da decenni come cancerogeni per l’uomo, non esiste una soglia identificabile al di sotto della quale queste sostanze non comportino un rischio per la salute umana”

Sono disponibili ulteriori materiali e citazioni bibliografiche.

Per richieste: Associazione Medici per l’Ambiente – ISDE Italia
Via della Fioraia, 17/19 – 52100 Arezzo – Tel: 0575 22256 – Fax: 0575 28676 – isde@ats.it – www.isde.it

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Per conservare la salute servono tante medicine?


3 marzo 2016 – Torino

Intervento audio di Silvana Quadrino per Slow Medicine durante il seminario FNP CISL Piemonte del 3 marzo 2016 “Per conservare la salute servono tante medicine?”


 

  Primo intervento


 

  Secondo intervento

     Filo diretto N°51


 

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.248 DEL 18/03/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.248 DEL 18/03/16

 

INDICE

–         Jobs Act: il (magro) bilancio di un anno di interventi renziani, e i loro veri obiettivi

  • Ricerca sul fenomeno infortunistico e le malattie professionali degli agenti di polizia municipale
  • Sicurezza delle macchine: i dispositivi di comando
  • L’obbligo di vigilanza del datore di lavoro o a mezzo del preposto
  • Cosa rischiano le aziende se la formazione erogata non è idonea?

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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JOBS ACT: IL (MAGRO) BILANCIO DI UN ANNO DI INTERVENTI RENZIANI, E I LORO VERI OBIETTIVI

 

Riporto a seguire un interessante, dettagliato e documentato articolo dei compagni Clash City Workers sui mancati effetti positivi del Jobs Act.

Nell’articolo si dimostra che i motivi reali per cui è stato varato il pacchetto “Jobs Act” non è stato certo un aumento dell’occupazione, la crescita del PIL, il miglioramento dell’economia italiana.

Il Jobs Act è servito piuttosto per mantenere o aumentare il profitto per i padroni, per scaricare in parte sulla collettività il costo del lavoro, per cancellare la conflittualità, per estendere la flessibilità del lavoro fino a legalizzare vere e proprie forme di lavoro nero.

Ma cosa c’entra tutto questo con la sicurezza sul lavoro?

Un primo effetto deleterio (diretto) del Jobs Act è stato l’ulteriore riduzione delle tutele previste dalla normativa su salute e sicurezza (D.Lgs. 81/08) a causa delle modifiche peggiorative ad essa apportate, come evidenziato in un mio articolo specifico.

Il secondo (indiretto, ma, secondo me, ben più grave) peggioramento apportato dal Jobs Act è il cancellamento o la riduzione della conflittualità, rendendo così i lavoratori ancora più ricattabili e quindi meno propensi ad avviare vertenze anche sul rispetto del diritto a un lavoro salubre e sicuro.

In conclusione, come ha già avuto modo più volte di scrivere, la crisi la stiamo pagando (e continueremo a pagarla visto l’andamento involutivo dell’economia mondiale) sulla nostra pelle, nel senso letterale del termine.

L’aumento degli indici infortunistici e delle malattie professionali ne è una prima conferma.

Marco Spezia

 

da Clash City Workers

http://clashcityworkers.org

6 marzo 2016

 

PREMESSA

Quello che state per leggere è il nostro quarto o quinto contributo sul Jobs Act. Se la nostra è un’ossessione, lo è in misura speculare a quella del Governo e dei suoi megafoni ambulanti che, nel corso dell’ultimo anno, ci hanno quasi quotidianamente edotto sui prodigiosi effetti delle politiche governative sul lavoro.

Arriviamo buoni ultimi a rivelarvi che, in realtà, di prodigi se ne sono visti pochi: ma l’ansia da prestazione dell’apparato di Governo su questi temi è di per sé rivelatrice del fatto che l’attacco al mondo del lavoro non può essere oggetto di alcuna critica. Il complesso di interventi volti a rendere più incerta la continuità lavorativa, minore e più precario il salario non consentivano critiche di alcun tipo: la realtà, però, è più forte di ogni rappresentazione, anche di quella di chi controlla le leve del potere politico e influenza paurosamente il potere mediatico.

 

NOTA DI METODO

Ascriveremo alla categoria Jobs Act molte cose diverse: gli esoneri contributivi stabiliti dalla legge di stabilità 2015; i decreti che costituiscono il Jobs Act vero e proprio (decreti Poletti del 2014, contratto a tutele crescenti, demansionamento e controllo a distanza); l’estensione della possibilità di utilizzo dei voucher. Faremo questa mescolanza perché, al di là delle differenze tecniche tra i provvedimenti, ci interessa cogliere il nesso politico dietro tutta l’azione governativa sul lavoro, in un contesto, quello italiano, che non sembra proprio intenzionato a voler uscire dalla crisi (ammesso che qualcun altro ci sia effettivamente riuscito).

 

AGGIORNAMENTO 6 MARZO 2016: NOTA SULLE FONTI

I dati che sono stati utilizzati per questo documento sono presi, essenzialmente, dall’Osservatorio sul Precariato dell’INPS e dal database dell’ISTAT. In particolare, quelli relativi all’incremento occupazionale 2015 e alla sua composizione sono tratti dal comunicato stampa ISTAT del 2 Febbraio 2016, reperibile al link:

http://www.istat.it/it/files/2016/02/Occupati-e-disoccupati_dicembre_2015.pdf?title=Occupati+e+disoccupati+%28mensili%29+-+02/feb/2016+-+Testo+integrale+e+nota+metodologica.pdf

L’ISTAT ha, successivamente, aggiornato tutte le serie storiche relative all’occupazione, in seguito ad un’innovazione metodologica relativa alla destagionalizzazione dei dati. I cambiamenti non sono pochi, né di scarso peso: per fare solo un esempio, il dato relativo all’incremento occupazionale 2015, che ammontava a +109.000 unità secondo il vecchio metodo, è “improvvisamente” diventato +163.606. Non avendo la possibilità di verificare di nuovo, e in breve tempo, tutti I dati, ci attestiamo su quelli che l’ISTAT forniva fino al mese scorso. Non possiamo fare a meno di notare, però, che la procedura seguita dal nostro istituto di statistica è poco rigorosa e piuttosto “bizzarra”, quantomeno dal punto di vista comunicativo. Del resto questo improvviso aumento di circa un terzo dei posti di lavoro in più per il 2015 (che ai malpensanti potrebbe far nascere più di un sospetto) è in scia con quanto è accaduto, ad esempio, in Grecia, Spagna e Portogallo negli anni scorsi; o con quanto è accaduto con i dati sulle migrazioni forniti da Frontex; dati che cambiano all’improvviso e che dimostrano, anche presupponendo la buona fede di chi li fornisce, il carattere profondamente politico, e quindi ideologicamente orientato, della raccolta ed elaborazione statistica di dati, sulla quale poi si fanno, o si giustificano, le scelte dei governi.

 

1. SPAZZIAMO IL CAMPO DALLA FALSA PROPAGANDA: IL JOBS ACT È STATO UN FLOP (A CARO PREZZO)

Vi chiediamo un momento di pazienza prima di iniziare. Vi sembrerà di essere sommersi da un mare di numeri contraddittori e incomprensibili, e di perdervi, ma state tranquilli: ne usciremo vivi.

Le fonti utilizzate sono, come abbiamo detto, il bollettino mensile dell’Osservatorio sul Precariato dell’INPS e le rilevazioni statistiche dell’ISTAT.

Qual è la differenza tra le due fonti?

L’INPS analizza i flussi, cioè l’andamento mensile delle attivazioni e delle cessazioni di contratti; l’ISTAT lo stock, cioè il saldo finale degli occupati, il suo incremento o decremento.

Non è la stessa cosa, un nuovo contratto o un nuovo posto di lavoro?

No. Una stessa persona può essere intestataria di più contratti, contemporaneamente (due part-time, per esempio) o successivamente: ad un solo posto di lavoro possono corrispondere più contratti. Un altro esempio (è successo nel 2015) è che un lavoratore, formalmente “autonomo”, diventa dipendente: quel lavoratore già era presente nel mercato del lavoro, quindi al nuovo contratto non corrisponde automaticamente un nuovo posto.

Che cosa ha fatto la propaganda governativa, a partire dall’inizio del 2015? Ha usato sistematicamente i dati INPS, cioè quelli sui contratti, e li ha spacciati per posti di lavoro (con la supina, pigra e colpevole complicità della quasi totalità della stampa nazionale); non solo, per cantare le lodi del Jobs Act il Governo è arrivato addirittura a presentare come “crescita dell’occupazione” il dato lordo sui nuovi contratti attivati, senza calcolare le contemporanee cessazioni. Hanno imbrogliato spudoratamente e goffamente, per un anno intero.

La realtà, ovviamente, è diversa.

Il numero di nuovi contratti a tempo indeterminato attivati, al netto delle cessazioni, nell’anno 2015 è 186.048. Il numero dei nuovi occupati, invece, è 109.000 (secondo ISTAT): questo è il prodotto di un incremento del lavoro dipendente (+247.000) e un forte decremento del lavoro autonomo (-138.000); all’interno del lavoro dipendente prevale, seppur di poco, il tempo indeterminato sul determinato (135.000 contro 113.000) ma sono i posti a tempo determinato che hanno la percentuale di crescita più alta (+4,9% rispetto al +0.9% degli indeterminati), confermandosi la tipologia di lavoro più dinamica e finendo per rappresentare il 14,2% del totale dell’occupazione, cifra record mai registrata (nel 2014 erano il 13,6%).

Ciò che l’ISTAT, purtroppo, non ci dice è la composizione di quei 109.000 nuovi occupati: quanti di loro sono a termine, quanti indeterminati, quanti autonomi.

Non potendo stimarli in alcun modo, postuliamo un assunto palesemente impossibile e falso, cioè che tutti i 109.000 nuovi posti di lavoro siano a tempo indeterminato: in questo modo creiamo lo scenario (ripetiamo, impossibile) più favorevole alla propaganda governativa.

Quindi in sostanza l’occupazione aumenta di molto poco, anche perchè crolla il lavoro autonomo. All’interno del lavoro dipendente il miracolo del Jobs Act consisterebbe invece in quei 135.000 contratti a tempo indeterminato. Come veniamo subito a dimostrare però il costo potenziale, per la collettività, di ogni posto di lavoro è stato altissimo e ingiustificabile.

E’ ormai assodato (lo dice da tempo Marta Fana, lo ha detto finanche Bankitalia) che il “merito” della relativa, modestissima crescita dei contratti a tempo indeterminato è essenzialmente da attribuirsi agli esoneri contributivi. Basta vedere, l’andamento mensile delle accensioni dei nuovi contratti a tempo indeterminate: a Dicembre hanno registrato un enorme incremento, proprio quando era l’ultima occasione per le imprese di accaparrarsi i sopraccitati sgravi. Secondo Bankitalia, inoltre, “la combinazione del contratto a tutele crescenti e degli incentivi spiega solo il 5% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato”.

Vediamo, dunque, di che cifre potenzialmente parliamo, quanto ci potrebbe costare questa manovra. I nuovi contratti che hanno usufruito degli sgravi sono stati 1,44 milioni; l’ammontare massimo degli sgravi previsto dalla legge di stabilità è 8.060 euro annui per tre anni. Il calcolo, dunque, è: (8.060×3)x1.440.000 = 34.819.200.000 euro.

Il costo potenziale di ogni nuovo posto di lavoro (postulando che tutti i contratti godano del massimo degli sgravi per tutti e tre gli anni) è dunque di 319.442 euro: nella realtà è sicuramente maggiore, ma non sappiamo di quanto. Altissimo e ingiustificato, non ci sarebbe neanche bisogno di scriverlo.

A questo punto qualche cantore governativo potrebbe dirci che abbiamo imbrogliato, che il Jobs Act non può essere valutato solo sulla base dei nuovi posti di lavoro e che comunque il calo della disoccupazione e l’aumento degli occupati sono dati positivi, anche se irrisori.

Certo! Peccato che il Jobs Act non c’entri nulla!

La disoccupazione è diminuita dell’1% scendendo dal 12,4% all’11,4%, ma i dati sono sostanzialmente in linea con quelli europei: nell’Eurozona la disoccupazione è al 10,5%, in Francia al 10,1%, in Spagna al 21,4%, in Germania al 4,5%. La curva di crescita è in linea con l’UE, dove da gennaio a novembre la disoccupazione è scesa dello 0,7%.

In sintesi: il Jobs Act è stato ininfluente rispetto alla dinamica del mercato del lavoro, l’andamento è stato in linea con quello del resto dell’UE; quel pochissimo in più ci è costato carissimo!

2. EFFETTI POLITICI DELL’OPERAZIONE

Insomma, il Jobs Act ha prodotto poco in termini lavorativi nonostante le roboanti promesse di Renzi; che cosa ha prodotto, invece, in termini politici?

  1. Contratto a tutele crescenti

Il tempo indeterminato non esiste più, dal momento che è stato di fatto cancellato il reintegro e la sanzione amministrativa in caso di ingiustificato motivo è modesta. Ci sono stati, infatti, già casi di licenziamenti di lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti.

  1. Contratti a tempo determinato.

Abolito ogni obbligo di indicazione delle ragioni tecniche, produttive, organizzative, sostitutive nei primi 36 mesi di ricorso al contratto a termine, fino a un massimo di 5 rinnovi. Considerato che basta cambiare il titolo della mansione per ricominciare daccapo con lo stesso lavoratore, si può dire che non c’è alcun limite di utilizzo ai contratti a termine. L’unica sanzione prevista, per un utilizzo oltre il limite del 20% del totale del personale, è minima: il 20% della retribuzione del 21esimo contratto. Non a caso, nonostante i consistenti sgravi contributivi per i contratti a tutele crescenti e nonostante la libertà di licenziare, i contratti a termine sono la forma di contrattazione più utilizzata nel lavoro subordinato.

  1. Voucher

Non sono contratti, ma sono la forma di organizzazione del lavoro maggiormente cresciuta nel 2015. Ne sono stati venduti 114.921.574 del valore nominale di 10 euro, per un ammontare complessivo dunque di oltre un miliardo di euro. Danno diritto alla maturazione della pensione e all’assicurazione INAIL, ma non a disoccupazione, maternità, malattia, ecc., perché non si certifica, col voucher, la continuità del rapporto di lavoro. Il limite economico di utilizzo annuo è 9.333 euro lordi a lavoratore, più basso nel caso di prestazioni per imprenditori commerciali e liberi professionisti. Ciò significa che, nel corso del 2015, almeno 123.134 lavoratori sono stati pagati con voucher. Molti di più, se si considera che per alcuni settori (pub, ristoranti, ecc.) il limite è più basso, è che molti vengono retribuiti in parte in nero, in parte in voucher. Possiamo stimare senza timore di esagerare che sono stati circa 200.000 i lavoratori pagati in voucher, pari alla totalità dell’incremento del numero degli occupati (nel cui computo comunque non confluiscono).

  1. Controllo a distanza

Senza alcun collegamento con eventuali effetti benefici sul mercato del lavoro, nel Jobs Act è stata inserita la possibilità, per i datori di lavoro, di controllare i lavoratori attraverso telecamere a circuito chiuso, controllo telematico sull’uso dei PC, chip nelle scarpe per il controllo dei movimenti: in pratica è diventato legale il modello organizzativo di Amazon.

  1. Demansionamento

Come dice questo articolo (http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-sanatoria-nascosta-nel-jobs-act/) una pratica, quella del mancato riconoscimento della professionalità, che è anticostituzionale e riconosciuta dalla medicina del lavoro come lesiva dell’integrità psico-fisica dei lavoratori, è stata riconosciuta innocua e consentita sempre e comunque.

 

3. MA INSOMMA, L’ECONOMIA E’ RIPARTITA?

Il 14 Marzo 2015 Renzi era in visita al cantiere dell’Expo. Mancavano 50 giorni all’apertura e il cantiere era pronto al 90%, ma ciò bastava e avanzava, per Renzi e Squinzi, per lanciarsi in ottimistiche previsioni sulla ripresa in Italia. Dall’articolo de laRepubblica on-line di quel giorno leggiamo che Squinzi dichiarava: “Possiamo invertire la rotta e cambiare la condizione del Paese. Expo è il motore che permetterà al Paese di accelerare i consumi interni ed è il trampolino per la crescita del nostro PIL”. Renzi, dal canto suo, non si sottraeva: “Dopo questo non finisce tutto perché finalmente l’economia italiana sta ripartendo e potremo reinvestire nel settore delle infrastrutture anche alla luce delle nuove tecnologie”. Di dichiarazioni come queste, il Governo, i giornalisti al suo seguito, gli esperti che non ne indovinano una da anni ne hanno rilasciate con frequenza più che quotidiana. E’ andata davvero così?

Insomma: il PIL cresce, ma pochissimo (+0,7% al secondo trimestre 2015, gli ultimi dati accessibili); la produzione industriale crolla (-1% a dicembre 2015, era al +0,2% un anno prima; i prezzi al consumo ristagnano allo 0,1%; la disoccupazione segue la tendenza europea e resta comunque alta, mentre sale la quota di inattivi; l’OCSE, infine, ha tagliato le stime di crescita per i prossimi due anni, per praticamente tutto il mondo. E’ evidente che, in un contesto di crisi generalizzata e globale, solo un imbecille o qualcuno in malafede può ritenere che misure come gli esoneri contributivi e il Jobs Act possano rilanciare l’occupazione…

Bene: proveremo a dimostrarvi che tutto ciò che il Governo ha fatto sul lavoro è esattamente il prodotto di imbecilli in malafede!

 

4. QUAL E’ STATO L’OBIETTIVO REALE? DI FATTO, QUALI SONO STATI GLI EFFETTI PIÙ CONSISTENTI DEL JOBS ACT?

Il costo del lavoro per le imprese è stato ridotto, scaricandolo sulla collettività, quindi, in ultima analisi, sul salario.

La conflittualità è stata annichilita dalla cancellazione dell’articolo 18, dal controllo a distanza e dal demansionamento.

La possibilità di ricorrere al lavoro precario, o di “legalizzare” il nero, è aumentata enormemente, col boom dei voucher e la predominanza dei contratti a tempo determinato.

Il Governo, insomma, ha fatto regali immensi ai padroni: ma i padroni, che stanno facendo per il famoso “sistema Paese”? Vediamolo.

 

  1. L’ECONOMIA ITALIANA, OVVERO: IL MORTO INTERROGATO NON RISPOSE

Uno dei cavalli di battaglia del Governo è stato che gli interventi sul lavoro avrebbero rilanciato la produttività; non a caso nell’ultima legge di stabilità lo Stato si fa praticamente carico degli investimenti privati introducendo il cosiddetto “superammortamento”, cioè una valutazione maggiorata del 40% delle spese sostenute per l’acquisto di nuovi macchinari e i canoni di locazione, in maniera tale da avere consistenti sconti su IRES e IRPEF: in parole semplici i padroni pagano meno tasse se investono.

A quanto pare, però, a questo fatto di spendere i soldi i padroni italiani sono piuttosto refrattari: tra il 1995 e il 2014, infatti, la quota di investimenti sul PIL è diminuita del 2,51%! Nonostante ciò, nello stesso arco di tempo la produttività, cioè la quantità di prodotto per unità lavorativa, è costantemente aumentata, tranne che nel 2009 e nel 2012: in totale, nel 2014 era il 47% in più rispetto al 1995!

Chi ha fatto questo vero e proprio miracolo italiano? I lavoratori! Solo aumentando l’intensità di sfruttamento, intesa anche, brutalmente, come pagare di meno per più lavoro, è possibile crescere in produttività riducendo gli investimenti…insomma, avremmo tutto il diritto di decidere noi sulle scelte economiche, visto che sono i numeri stessi a dirci che mandiamo avanti la baracca, ma invece dobbiamo sorbirci le lezioncine di chi ci accusa della mancata crescita perché…guadagniamo troppo!

In un recente documento del proprio Centro Studi, infatti, Confindustria grida allo scandalo, sostenendo esplicitamente che, in uno scenario in cui il valore aggiunto non cresce a sufficienza, la massa salariale assume, rispetto al PIL, proporzioni intollerabili.

E hanno ragione (dal loro punto di vista…)! La curva dei salari, infatti, dall’inizio della crisi del 2008, da quando cioè il PIL è in contrazione, diventa leggermente anticiclica. Dal momento che non esiste ancora (per fortuna) una scala mobile al contrario (anche se c’è da dire che con gli ultimi rinnovi dei CCNL sono quasi riusciti ad imporla), non è stato possibile per i padroni tagliare i salari proporzionalmente al crollo del PIL, quindi questi ultimi sono, in percentuale, aumentati: di pochissimo, +1,20 % la differenza tra il 2014 e il 1995, ma abbastanza per allarmare Confindustria. Non è un caso, infatti, che nei più importanti rinnovi contrattuali del 2015 i padroni abbiano chiesto un ridimensionamento salariale, o in alternativa la corresponsione degli aumenti concordati in forma di premio di risultato.

Ma che cos’è che davvero preoccupa Confindustria? La produttività cresce senza che loro investano più di tanto, e se lo fanno hanno lauti sconti sulle tasse; i salari sono aumentati in proporzione al PIL, sì, ma dello 0,06% medio all’anno; non pagano i contributi per i neoassunti, possono licenziarli quando vogliono, possono usare i voucher in qualunque settore…che cosa ti preoccupa, Squinzi?

Noi lo sappiamo, perché loro non hanno vergogna a dirlo: li preoccupa il cosiddetto MOL, Margine Operativo Lordo, che noi più chiaramente chiamiamo profitto. Rispetto al 1995, nel 2014 la percentuale del MOL sul PIL era diminuita dell’1,40%, e di anno in anno la variazione oscilla tra un + e un – zero virgola…insomma, si può dire che sia leggerissimamente in calo, e che l’unico sforzo dei padroni in questi vent’anni sia stato quello di mantenerlo più o meno costante, non farlo diminuire troppo.

 

6. MA CHE COLPA ABBIAMO NOI?

Ricapitoliamo un po’ il comportamento di questi geni dell’economia e della finanza: scoppia la crisi, e la prima cosa che fanno in Italia è minare alla base le possibilità di una ripresa, diminuendo la percentuale di capitale investito, solo per continuare a mettersi in tasca più o meno gli stessi soldi a fine anno; dopo che hanno fatto questo decidono che è il momento di attaccare frontalmente i salari: il Jobs Act e i rinnovi contrattuali arrivano esattamente a questo punto, e si portano dietro anche una prevedibile riduzione delle imposte sul lavoro, dal momento che ci sarà sempre meno welfare da finanziare.

Il risultato è che siamo di fronte al più grave attacco al salario degli ultimi 30 anni almeno, che: non farà aumentare il PIL; non avrà risultati sulla produttività; servirà a mantenere invariata, almeno per qualche anno, la quantità di soldi che i padroni rubano, fino a trovarci (si parla già del 2017) precipitati in un’altra crisi, peggiore della precedente (l’andamento delle Borse degli ultimi mesi è un indicatore affidabile).

Se ciò non bastasse, per non farsi cogliere di sorpresa il capitale italiano sta tentando disperatamente di svendere al miglior offerente i settori produttivi strategici.

Parliamo di Finmeccanica, che sta svendendo tutto ciò che non è legato alla produzione militare, come l’aeronautica (e lo sanno bene i lavoratori Alenia, Fincantieri. Dema…).

Parliamo dell’ILVA, il più grande impianto siderurgico a ciclo integrale d’Europa finché non è stato regalato dallo Stato ai Riva, che hanno smesso di investirci fino a quando, con l’esplodere dello scandalo ambientale, l’unica prospettiva realistica, per quanto lontana, è diventata una riconversione dello stabilimento in un impianto di lavorazione di semilavorati, non più competitivo, a spese dello Stato.

 

7. CONCLUSIONI

Usiamo l’abusata metafora del Governo, o della società, come una nave, precisamente, per restare ancora di più nel cliché, come il Titanic.

Qualcuno l’ha costruito male, risparmiando su tutto, dai pezzi alla manodopera. Ci ha caricato sopra una quantità di gente, tutta in qualche modo costretta a lavorarci o viverci. Alle prime falle, questo qualcuno ha pensato bene di ripararle prendendo dei pezzi da altre parti della chiglia. Ogni volta che riparava, aumentava la fragilità complessiva, ma al tizio non interessava, l’importante era continuare a navigare, speculando e arricchendosi su tutti, dai marinai ai passeggeri. A un certo punto il Titanic inizia a collassare, il tizio e altri stronzi come lui non solo si buttano sulle scialuppe scacciando gli altri, accusano passeggeri e lavoratori che è colpa loro, sono troppi, è pure un po’ giusto che muoiano e, ciliegina sulla torta, prima di salire sulle scialuppe si affannano anche a sfasciare ulteriori pezzi di chiglia, contando di vendere un po’ di ferraglia a qualcuno, dopo la bufera.

Sperano, gli stronzi, di sopravvivere sempre, di restare sempre a galla rispettando la loro natura; sperano quindi, dopo l’ennesimo naufragio, di trovare ancora qualcuno a cui vendere la loro paccottiglia. Ma un dopo, e un qualcuno, per loro potrebbero non esserci; prima che il naufragio si compia la gente sulla nave potrebbe decidere di buttarli a mare, oppure potrebbero sbarcare in un posto dove sanno benissimo com’è andata e fanno loro pagare tutto, fino all’ultimo centesimo.

Insomma, in questa storia, e nella Storia, come sempre, il futuro non è scritto!

 

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RICERCA SUL FENOMENO INFORTUNISTICO E LE MALATTIE PROFESSIONALI DEGLI AGENTI DI POLIZIA MUNICIPALE

 

DaArticolo 19 (Città Metropolitana)

http://www.cittametropolitana.bo.it

di Beatrice Cocchi, Marcello Crovara, Leopoldo Magelli

 

Tra gli strumenti di cui i RLS dovrebbero poter disporre per svolgere al meglio la loro attività, sia in termini di conoscenza e valutazione dei rischi che in termini di messa a punto di idonee ed efficaci misure preventive e protettive da proporre ai datori di lavoro, la conoscenza corretta e puntuale dell’andamento degli infortuni e delle loro caratteristiche e determinanti, nonché dei casi di malattia professionale costituisce un elemento basilare.

 

Proprio per confermare la validità di questa affermazione, vi proponiamo qui una breve sintesi dei risultati di una recente ricerca (luglio 2014 – luglio 2015) svolta nella nostra regione (coinvolgendo anche altre due regioni limitrofe).

Infatti l’indagine sul fenomeno infortunistico e sulle malattie professionali degli agenti di Polizia Municipale ha riguardato il personale di tre regioni (Emilia Romagna, Liguria, Toscana) e un periodo di osservazione di 5 anni (dal 2009 al 2013). I dati studiati sono quelli rilevabili (come casi definiti per gli infortuni, come casi denunciati per le malattie professionali) dalle statistiche e dai flussi informativi INAIL.

La ricerca è stata promossa dalla Scuola Interregionale di Polizia Locale (di Emilia Romagna, Liguria e Toscana) e si è potuta realizzare grazie alla preziosa collaborazione dell’INAIL: ringraziamo anche SIPL e INAIL per aver acconsentito alla presentazione su Articolo 19 di questo contributo.

La ricerca è stata condotta da Beatrice Cocchi, Marcello Crovara (INAIL) e Leopoldo Magelli, con la collaborazione anche di Michele Cicalini (SIPL).

 

Il primo elemento da evidenziare è che il fenomeno infortunistico appare in calo, sia in termini di numero assoluto di infortuni che in termini di indice di incidenza; in ogni modo, il numero di infortuni è significativo (il che ha permesso un’attenta analisi del fenomeno): si tratta di 4.090 infortuni riconosciuti e definiti nei 5 anni, con un valore assoluto che scende dagli 864 casi del 2009 ai 787 del 2013, e un indice di incidenza, che, nei vari anni e nelle diverse regioni, scende dal 2009 al 2013 da 8,7 a 8,3 per l’Emilia-Romagna, da 8,4 a 7,2 per la Liguria, da 8,7 a 8,0 per la Toscana.

Gli infortuni delle lavoratrici assommano ad un terzo esatto del totale (del resto, le lavoratrici sono circa un terzo del totale degli agenti di Polizia locale nelle tre Regioni).

 

Il trend dell’Indice di Incidenza è perfettamente corrispondente a quello dei numeri assoluti: un calo dal 2009 al 2013, con un notevole calo dell’indice nel 2012, un recupero nel 2013, ma sempre a valori inferiori rispetto all’anno iniziale del periodo di osservazione, il 2009.

 

E’ da notare che il tasso grezzo unificato di infortuni per il personale delle polizie locali delle tre regioni, nell’arco del quinquennio, presenta un valore medio sempre superiore (ad esempio nel 2012 del 28,6%) al valore medio di tutti i lavoratori italiani assicurati all’INAIL (sempre nel 2012, del 18,6%). In altri anni, lo scarto è ancora maggiore (massimo nel 2011: 33,6% versus 20,5%!). Questo dato dimostra che, pur in calo, il fenomeno infortunistico nella polizia locale è un elemento di significativa importanza.

 

Per quel che riguarda la dinamica degli infortuni, il campo è dominato da tre elementi:

  • l’infortunistica stradale, intesa come incidenti stradali (si includendo che escludendo gli infortuni in itinere): 1.048 casi;
  • l’infortunistica legata a cadute e simili durante le attività di spostamento appiedato: 1.052 casi;
  • l’infortunistica legata ad atti di violenza, aggressione, ecc., subiti durante e attività di vigilanza e controllo: 950 casi.

 

Le parti anatomiche più interessate sono:

  • l’arto inferiore dal bacino alla caviglia esclusa (728 casi, il 18,39%);
  • la colonna vertebrale nei segmenti toracico, lombare e sacrale (717 casi, il 18,11%);
  • l’arto inferiore nella sua parte più distale, ovvero caviglia e piede (519 casi, il 13,11%);
  • l’arto superiore inteso come braccio, gomito, avambraccio polso, mano esclusa (480 casi, il 12,12%);
  • la, mano e le dita (445 casi, l’11,24%).

 

Le tipologie di lesione più rappresentate sono le contusioni (42,4%) e le lussazioni/distorsioni (40,0%): assieme totalizzano più dei 4/5 degli eventi.

Per quel che riguarda la durata degli infortuni e le conseguenze in termini di inabilità, si rileva che (a parte i casi mortali che sono stati, in totale, 2) il 21% ha avuto una durata superiore ai 40 giorni (all’interno di questi va ricompreso quel 3,5% del totale infortuni la cui durata ha superato i 120 giorni).

Quanto agli esiti (sempre tenendo presenti i 2 casi mortali) l’83,1% non ha presentato postumi permanenti a fronte di un 16,9% che invece li ha presentati (16,4% sotto il 15% di inabilità permanente, 0,5% oltre tale limite).

Invece, per quel che riguarda le malattie professionali, il numero denunciato è talmente esiguo (37 in totale) da non permettere valutazioni puntuali, anche per l’ampia distribuzione delle stesse su patologie molto diverse.

Le patologie più rappresentate nelle denunce sono quelle a carico del sistema osteo-articolare, dei muscoli e del tessuto connettivo (16 casi in totale, quasi il 50% di tutti i casi), seguite dai tumori (9 casi in totale, circa il 25% del totale delle malattie denunciate), da quelle a carico del sistema nervoso e organi di senso (5 casi, di cui 3 ipoacusie) e dell’apparato respiratorio (4 casi).

Occorre sottolineare che il numero di casi riconosciuti dall’INAIL è molto basso, solamente 4, per cui il dato globale delle malattie riconosciute diventa davvero irrilevante.

 

Dopo l’analisi degli infortuni, vengono sviluppate alcune possibili ipotesi di interventi di prevenzione che, se attuati coerentemente, potrebbero ridurre il fenomeno.

Si tratta di una serie di misure tra loro strettamente integrate, che possono essere ricondotte a tre filoni principali:

  • misure rivolte agli aspetti tecnici/tecnologici;
  • misure relative al fattore umano;
  • misure relative all’ambiente in cui si opera.

 

E’ dall’applicazione combinata di tali misure che può scaturire la riduzione della probabilità del verificarsi dell’evento infortunistico e la limitazione, a fatti avvenuti, degli effetti dannosi; risulta ragionevole individuare nel fattore umano il punto su cui concentrare le misure di miglioramento, formative per gli aspetti relazionali e addestrative per l’applicazione di particolari tecniche operative.

In particolare, le esperienze e le ricerche degli anni precedenti condotte insieme con SIPL ci hanno confermato che l’aggressività può manifestarsi in tutte le situazioni operative per gli operatori della Polizia Locale, a partire dal ricevimento del pubblico presso le sedi.

 

Per quanto riguarda le misure preventive e protettive applicabili all’ambiente delle sedi a cui accede il pubblico, possono risultare utili accorgimenti come sale d’attesa confortevoli e luoghi di colloqui con i cittadini controllabili dall’esterno, pur garantendo la riservatezza delle conversazioni, fino a barriere di separazione tra l’operatore e l’utente.

Su un piano più organizzativo, accessi e parcheggi facili, appuntamenti comodi, attese brevi, segnaletica, avvisi e istruzioni comprensibili anche per stranieri aiutano a non fomentare l’aggressività.

 

Per quanto riguarda le attività all’esterno, alcune misure organizzative, di solito applicate anche per altri scopi, rivestono un evidente valore preventivo e protettivo e possono essere implementate, come ad esempio:

  • non lavorare da soli, prevedere un numero adeguato di operatori per situazioni particolari, disporre di informazioni adeguate, di mezzi di comunicazione funzionanti e di un supporto attivabile in caso di bisogno;
  • scegliere, per quanto possibile, le condizioni più favorevoli per gli interventi: tempi, luoghi, dislocazione, ecc.;
  • cooperare con altri soggetti coinvolti nelle attività, concordare protocolli degli interventi definendo in anticipo i rispettivi compiti e responsabilità, attivare momenti formativi comuni (per esempio nel caso di TSO, ma anche di controlli o interventi congiunti, come cantieri, eventi, partite di calcio).

 

Per quanto riguarda infine gli interventi formativi e addestrativi rivolte agli operatori, finalizzati a migliorare la capacità di relazione allo scopo di non sollecitare l’aggressività, ma anche all’applicazione di specifiche tecniche operative per contenerla o all’uso di particolari attrezzature di lavoro o presidi difensivi, si rimanda al complesso delle attività formative organizzate da SIPL su:

  • prevenzione dei conflitti e mediazione sociale;
  • tecniche operative.

 

Un’ultima notazione riguarda il tema dello stress da lavoro correlato, molto sentito e “raccontato” dai lavoratori. Al contrario, i dati delle malattie professionali denunciate (1) e riconosciute (0) non ci forniscono segnali allarmanti.

D’altra parte soluzioni di prevenzione collettiva, da attivarsi anche in assenza di tali segnali, non devono essere necessariamente e specificamente indirizzate allo stress e possono riguardare:

  • misure tecniche/ergonomiche (ad esempio potenziamento della dotazione, degli automatismi tecnologici, progettazione ergonomica dell’ambiente e dei processi di lavoro, ecc.)
  • misure organizzative/procedurali sull’attività lavorativa (ad esempio orario sostenibile, alternanza di mansioni nei limiti di legge e contratti, riprogrammazione attività, definizione di procedure di lavoro, informazione, formazione e addestramento, ecc.)
  • misure di revisione della politica aziendale (ad esempio azioni di miglioramento della comunicazione interna, della gestione, delle relazioni, della consultazione, ecc.)

 

Le misure preventive e protettive rivolte agli aspetti tecnici/tecnologici, ambientali e umani, non saranno del tutto efficaci se non integrate da altri interventi che chiameremo “trasversali” o “organizzativi”, non limitati agli argomenti approfonditi in precedenza: infortuni stradali, in itinere o meno; cadute; aggressioni e colluttazioni.

Si tratta, ad esempio, delle seguenti azioni:

  • gestione del programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza;
  • gestione delle misure di emergenza sia all’interno che all’esterno;
  • gestione della sorveglianza sanitaria: definizione dei protocolli da parte del Medico Competente, specifiche tutele per le lavoratrici madri, ecc.;
  • gestione delle attrezzature di lavoro (auto, moto, macchine in generale e altre attrezzature): disponibilità, manutenzione, equipaggiamento, ecc;
  • gestione dei Dispositivi di Protezione Individuali (DPI): criteri di scelta e di utilizzo, acquisto, distribuzione, ripristino in caso di usura, addestramento all’uso, controllo sull’uso effettivo;
  • informazione, formazione e addestramento;
  • gestione delle relazioni con le figure previste dal D.Lgs. 81/08 come il Medico Competente e il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza: pareri, consultazioni e riunione annuale di sicurezza ex articolo 35 del D.Lgs. 81/08;
  • gestione delle segnalazioni di lavoratori e preposti.

 

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SICUREZZA DELLE MACCHINE: I DISPOSITIVI DI COMANDO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

11 marzo 2016

 

Un progetto si sofferma sulla sicurezza delle macchine nell’industria metalmeccanica. Focus sui dispositivi di comando: avviamento, azione mantenuta, comando di arresto, arresto di emergenza e selettore modale di funzionamento.

 

Perché le macchine siano sicure per gli operatori è importante, oltre all’eventuale presenza di ripari, di dispositivi di sicurezza e al rispetto di idonee distanze, che i vari sistemi di comando permettano di evitare l’eventuale insorgere di situazioni pericolose.

 

Ci soffermiamo sui dispositivi di comando con riferimento specifico alle macchine utilizzate nel comparto metalmeccanico e al documento “ImpresaSicura Metalmeccanica” correlato a Impresa Sicura, un progetto multimediale (elaborato da Enti Bilaterali Marche, Enti Bilaterali Emilia Romagna, Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e INAIL) che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come buona prassi nella seduta del 27 novembre 2013.

 

Nel documento si ricorda che i dispositivi di comando costituiscono l’elemento attraverso il quale l’operatore attiva o disattiva le funzioni della macchina.

E questi dispositivi sono normalmente costituiti da un organo meccanico che a volte interviene direttamente su organi di trasmissione del moto della macchina (ad esempio leva di innesto rotazione mandrino del tornio) e a volte agisce invece sulla circuitazione elettrica/elettronica, pneumatica o idraulica (ad esempio comando a due mani di pressa idraulica).

 

Il documento riporta le caratteristiche generali dei dispositivi di comando che devono essere:

  • chiaramente visibili e con la chiara indicazione (ad esempio tramite marcatura, descrizione completa, pittogramma) del tipo di azione che si va a comandare;
  • situati fuori dalle zone pericolose;
  • protetti contro il rischio di azionamento accidentale se ciò comporta un rischio (ad esempio pulsante con guardia, pedale con protezione superiore e/o azionamento complesso, leva con movimento articolato);
  • disposti in modo tale che l’operatore addetto al comando sia in grado di verificare l’assenza di persone dalle zone di rischio.

 

Sono riportate poi altre caratteristiche dei dispositivi di comando:

  • disposti in modo da garantire una manovra sicura, univoca e rapida;
  • installati in modo tale che il movimento del dispositivo di comando sia coerente con l’azione del comando;
  • posizionati in modo che la loro manovra non causi rischi supplementari;
  • dotati di grado di protezione IP, contro la penetrazione di polvere o acqua, idoneo e compatibile con le condizioni ambientali;
  • sufficientemente robusti; particolare attenzione deve essere dedicata ai dispositivi di arresto di emergenza che possono essere soggetti a grossi sforzi.

Il documento, con riferimento alla norma CEI EN 60204, si sofferma su vari aspetti e comandi.

 

Riguardo all’avviamento, ossia all’inizio di un ciclo o di una funzione di lavoro, si indica che deve essere possibile soltanto se tutte le funzioni di sicurezza e le misure di protezione sono presenti e funzionanti. Per avviamento si intende anche la rimessa in marcia dopo un qualunque arresto. L’avviamento di una macchina deve essere possibile soltanto agendo volontariamente su un dispositivo di comando appositamente predisposto.

 

E gli organi di comando (pulsanti, pedali, leve, ecc.) dei dispositivi di avviamento devono essere protetti contro il rischio di azionamento accidentale o involontario (ad esempio pulsante con guardia, pedale con protezione superiore e/o azionamento complesso, leva con movimento articolato). Tale requisito non è necessario quando l’avviamento non presenta alcun rischio per le persone. Se la presenza di più dispositivi di comando dell’avviamento può comportare un rischio reciproco per gli operatori addetti, si deve garantire che uno solo di questi sia attivato mediante ad esempio dispositivi di convalida, selettori, ecc. Gli organi di comando dei dispositivi di avviamento devono essere individuabili anche attraverso apposita colorazione (codifica cromatica).

 

Sempre riguardo all’avviamento e con particolare riferimento all’avviamento di macchine complesse, si segnala che dal posto di comando l’operatore deve essere in grado di accertare l’assenza di persone dalle zone di rischio. Se ciò non fosse possibile ogni messa in marcia deve essere preceduta da un segnale di avvertimento sonoro e/o visivo e le persone esposte devono avere il tempo di sottrarsi al pericolo o avere a portata di mano i mezzi, come un arresto di emergenza, per impedire rapidamente l’avviamento della macchina.

 

Il documento si sofferma anche sull’azione mantenuta.

Infatti i dispositivi di comando ad azione mantenuta avviano e mantengono una determinata funzione della macchina solo se azionati continuativamente dall’operatore. Al loro rilascio la funzione comandata si arresta automaticamente.

In particolare per le macchine (per esempio macchine mobili o portatili) sulle quali non è possibile ottenere una completa protezione delle parti pericolose, il comando manuale di azionamento deve avvenire mediante dispositivi ad azione mantenuta. I dispositivi di comando ad azione mantenuta trovano applicazione anche sulle macchine ove per operazioni di messa a punto, manutenzione, cambio lavorazione, ecc, è necessario rimuovere o disabilitare un riparo o un dispositivo di sicurezza. In tal caso la sicurezza dell’operatore deve essere ottenuta adottando oltre al comando ad azione mantenuta, altre misure di sicurezza.

Nel documento di ImpresaSicura sono riportate anche le indicazioni su cosa sia necessario garantire quando il comando ad azione mantenuta è attivato in seguito alla rimozione o disattivazione di funzioni di sicurezza o misure di protezione.

 

Veniamo al comando di arresto, il comando attraverso il quale si ottiene il fermo di una macchina o di una parte di essa.

La pubblicazione segnala che ogni macchina deve essere munita di almeno un dispositivo di comando che consenta l’arresto generale in condizioni di sicurezza. E in presenza di più postazioni di lavoro ognuna di queste deve essere munita di un dispositivo di comando che, in relazione ai rischi presenti sulla macchina, consenta di arrestare l’intera macchina o una parte di essa, mantenendo le condizioni di sicurezza. Inoltre i dispositivi di arresto devono essere collocati accanto a ogni dispositivo di avviamento. L’ordine di arresto della macchina deve essere prioritario rispetto agli ordini di avviamento.

 

Dopo aver elencato tre categorie per le funzioni di arresto e l’arresto per le postazioni di comando mobili senza fili, il documento si sofferma sull’arresto di emergenza.

L’arresto di emergenza è un dispositivo di sicurezza che assicura, una volta azionato, il fermo nel minor tempo possibile degli elementi pericolosi di una macchina. La funzione di arresto d’emergenza è destinata a evitare o ridurre, al loro sorgere, i pericoli per le persone (normale funzionamento, disfunzioni, guasti, errori umani, ecc.), i danni alle macchine o alle lavorazioni in corso.

Ogni macchina deve essere munita di uno o più dispositivi di arresto di emergenza. E ogni dispositivo deve essere attivabile mediante una singola azione umana e deve avere le seguenti caratteristiche:

  • il dispositivo di arresto d’emergenza deve essere chiaramente individuabile, ben visibile e rapidamente accessibile;
  • una volta azionato, l’arresto di emergenza deve restare inserito;
  • deve essere possibile disinserirlo solo mediante una manovra adeguata (riarmo);
  • il riarmo dell’arresto di emergenza non deve avviare nuovamente la macchina, ma solo consentirne il riavvio mediante l’apposito comando;
  • l’azionamento del comando provoca l’arresto del processo pericoloso nel tempo più breve possibile, senza creare rischi ulteriori.

 

Riguardo al suo utilizzo si sottolinea poi che il dispositivo di arresto d’emergenza non può essere utilizzato in alternativa a una protezione (riparo o dispositivo di sicurezza), ma può essere utilizzato solo come misura supplementare. Quando un dispositivo di comando d’arresto d’emergenza può essere facilmente disconnesso (ad esempio pulsantiera portatile collegata mediante presa a spina) o quando una parte di macchina può essere isolata dalle restanti, occorre prendere provvedimenti per evitare la possibilità di confondere i dispositivi di comando d’arresto d’emergenza attivi da quelli inattivi.

Si ricorda che il comando di arresto d’emergenza deve essere mantenuto efficiente e perfettamente funzionante tramite apposita e programmata manutenzione. E la verifica del corretto funzionamento deve essere effettuata all’inizio di ogni turno di lavoro e sempre dopo interventi di manutenzione, regolazione, pulizia, ecc., che coinvolgono la macchina, prima di riprendere il normale ciclo di produzione.

 

Riguardo alla funzione di arresto d’emergenza riprendiamo brevemente le caratteristiche generali del dispositivo:

  • il dispositivo di arresto d’emergenza deve essere in grado di sopportare forti sollecitazioni causate dal suo azionamento in caso di emergenza;
  • deve essere disponibile e operante in qualsiasi momento indipendentemente dal modo operativo (ciclo manuale, ciclo automatico, comando diretto, ecc);
  • deve avere la priorità sugli altri comandi;
  • non deve generare pericoli aggiuntivi;
  • può eventualmente avviare, o permettere di avviare, alcuni movimenti di salvaguardia;
  • l’inversione o la limitazione del moto, la deviazione, la schermatura, la frenatura, il sezionamento, ecc. possono far parte della funzione di arresto d’emergenza (movimenti di salvaguardia);
  • non deve compromettere l’efficacia dei dispositivi di sicurezza o di dispositivi con funzioni condizionanti la sicurezza (dispositivi di frenatura, dispositivi magnetici di trattenuta, ecc.);
  • il dispositivo di comando e il relativo attuatore devono operare secondo il principio dell’azione meccanica positiva;
  • dopo il suo azionamento, il dispositivo di arresto d’emergenza deve operare in modo tale che il pericolo sia evitato o ridotto all’origine automaticamente nel miglior modo possibile (scelta del grado di decelerazione, scelta della categoria di arresto ecc.);
  • l’azione sull’attuatore che provoca l’intervento del comando di arresto d’emergenza deve determinare anche il bloccaggio dell’attuatore stesso in modo che, quando termina l’azione sull’attuatore, il comando di arresto d’emergenza rimanga trattenuto finché non sia intenzionalmente ripristinato (sbloccaggio dell’attuatore);
  • non deve essere possibile avviare il moto pericoloso fino a che tutti gli attuatori di comando azionati non sono stati ripristinati manualmente, singolarmente ed intenzionalmente.

 

Ricordando che il documento si sofferma anche sul posizionamento, forma e colore degli attuatori (pulsanti, pedali, barre, funi, …) e sulle caratteristiche di funzionamento dei dispositivi di arresto d’emergenza, concludiamo questa presentazione dei dispositivi di comando soffermandoci sul selettore modale di funzionamento.

 

Infatti ogni macchina può avere uno o più modi di funzionamento (manuale, automatico, azionamento con pedale, azionamento con comando a due mani, ecc.) determinati dalle caratteristiche della macchina stessa o semplicemente dalle sue applicazioni. Quando la selezione del modo di funzionamento modifica le condizioni di sicurezza della macchina, tale selezione deve avvenire mediante un selettore modale.

 

In particolare il selettore modale può essere azionato mediante una chiave oppure tramite un codice d’accesso. Tuttavia si ricorda che la chiave o il codice di accesso per l’attivazione del selettore modale devono essere disponibili solo per il personale addestrato e autorizzato a modificare i modi di funzionamento della macchina. E durante il normale uso produttivo le chiavi non devono restare inserite nel selettore, bensì conservate dai preposti individuati.

 

L’accesso via internet al sito “Impresa Sicura” è gratuito e avviene tramite una registrazione all’indirizzo:

http://impresasicura.org/ita/pages/home.php

 

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L’OBBLIGO DI VIGILANZA DEL DATORE DI LAVORO O A MEZZO DEL PREPOSTO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

14 marzo 2016

di Gerardo Porreca

 

Secondo una recente Sentenza della Corte di Cassazione, al di là di una eventuale e imprevedibile negligenza o imprudenza dei lavoratori nello svolgimento della loro mansione, il datore di lavoro deve controllare personalmente o a mezzo dei preposti che le lavorazioni avvengano in sicurezza.

 

Una Sentenza questa nella quale la Suprema Corte richiama gli obblighi di vigilanza e di controllo da parte del datore di lavoro e del preposto sul comportamento che il lavoratore tiene nello svolgimento della propria attività nonché l’obbligo da parte dello stesso datore di lavoro di disporre e pretendere che i lavoratori rispettino le disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro.

Nella stessa Sentenza viene ribadito, altresì, il principio ormai consolidato della giurisprudenza in materia di salute e sicurezza sul lavoro in base al quale il sistema prevenzionistico mira a tutelare il lavoratore anche in ordine a incidenti che possono derivare da una sua negligenza, imprudenza e imperizia per cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore stesso sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e quindi al di fuori di ogni prevedibilità o quando il suo comportamento, pur rientrando nelle mansioni che gli sono proprie, sia consistito in qualcosa di radicalmente e ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e quindi prevedibili imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del suo lavoro.

 

La Corte d’Appello ha confermato la Sentenza con la quale il Tribunale ha condannato l’amministratore unico e responsabile tecnico di una ditta esercente l’attività di installazione, ampliamento, trasformazione e manutenzione di impianti di produzione, trasporto, distribuzione ed utilizzazione dell’energia elettrica, alla pena ritenuta di giustizia per il reato di cui all’articolo 590, commi 1 e 3 del Codice Penale per aver, in qualità di datore di lavoro, cagionato a un lavoratore dipendente della ditta stessa lesioni personali gravi consistenti nell’ematoma epidurale traumatico, dalle quali è derivata una malattia della durata di sessantaquattro giorni, per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. In particolare per avere omesso, in relazione all’attività di stesura dei cavi elettrici all’interno di una canalina metallica eseguita presso un cantiere e in violazione dell’articolo 35, comma 4, del D.Lgs. 626/94 e dell’articolo 52, comma 7, del D.P.R. 164/56, di prendere le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro fossero utilizzate correttamente.

La colpa addebitatagli è consistita, nello specifico, nel non avere disposto e preteso che nessun operatore stazionasse sul piano in quota del trabattello, di fatto impiegato per portarsi in quota durante le operazioni di stesura di cavi elettrici suddette, durante gli spostamenti di tale attrezzatura da una postazione a un’altra, stante il rischio di ribaltamento connesso a tale operazione.

Il giorno dell’infortunio, in particolare, era successo che mentre il lavoratore infortunato era rimasto posizionato sul piano in quota del ponteggio su ruote un suo collega aveva spostata l’attrezzatura stessa verso una nuova posizione di lavoro, spingendola manualmente, allorquando improvvisamente, a causa di uno spacco nel pavimento, il trabattello si è ribaltato determinando la caduta a terra del lavoratore su di esso posizionato che ha riportate così le sopradescritte conseguenze lesive.

 

Avverso la predetta decisione della Corte di Appello l’imputato ha ricorso per Cassazione personalmente deducendo una inosservanza e una erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione. Il ricorrente ha messo in evidenza da una parte che il lavoratore era stato preventivamente e perfettamente formato e istruito e dall’altra che il suo comportamento imprudente sarebbe stato tale da interrompere il nesso di causalità.

 

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione. Con riferimento alla motivazione legata alla formazione del lavoratore la Corte suprema ha fatto rilevare che l’omissione formativa non era oggetto di contestazione, essendo stato invece addebitato al datore di lavoro di aver autorizzato l’esecuzione di operazioni lavorative in altezza, senza premurarsi di controllare personalmente o a mezzo del preposto che le stesse avvenissero in sicurezza.

Quanto al comportamento imprudente del lavoratore che, secondo l’imputato, avrebbe dovuto scendere dal trabattello e spostarlo per poi risalirvi in tutta sicurezza, la Sezione IV ha messo in evidenza che la Corte Territoriale aveva ritenuto che l’imputato, in quanto titolare dell’obbligo di protezione dell’incolumità e della vita dei propri dipendenti, avrebbe dovuto comunque inibire quel comportamento e ha ritenuto che la condotta del lavoratore non potesse essere considerata estranea alle mansioni alle quali era stato adibito.

 

La Corte Suprema ha messo in evidenza quindi che la Sentenza impugnata ha fatto buon governo del principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di Legittimità in base al quale “il sistema prevenzionistico mira a tutelare il lavoratore anche in ordine a incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza e imperizia, per cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento imprudente del lavoratore sia stato posto in essere da quest’ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli (e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro) o rientri nelle mansioni che gli sono proprie, ma sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro”.

La Sezione IV ha rimarcato, altresì, come non fosse emersa alcuna estraneità del comportamento del lavoratore rispetto alle mansioni che di fatto gli erano state affidate. Di qui il rigetto del ricorso e la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali.

 

La Sentenza n. 47742 del 2 dicembre 2015 della Corte di Cassazione Penale è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14382:2015-12-03-16-01-54&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

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COSA RISCHIANO LE AZIENDE SE LA FORMAZIONE EROGATA NON E’ IDONEA?

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

15 marzo 2016

di Tiziano Menduto

 

Nelle aule di tribunale si valuta la presenza, la qualità e l’efficacia della formazione alla sicurezza erogata? Cosa rischiano le aziende che si affidano a percorsi formativi inidonei o non conformi alla legge? Ne parliamo con l’avvocato Rolando Dubini.

 

Continua l’inchiesta che PuntoSicuro sta conducendo da qualche mese sulla formazione alla sicurezza in Italia approfondendo con diversi articoli, interviste e contributi, criticità e carenze. Una formazione che è piena di chiaroscuri, di buoni strumenti formativi, ma anche di percorsi inefficaci e, a volte, non conformi alla legge.

 

Una situazione in cui la Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP), come ha sottolineato in un documento presentato a dicembre, rileva “ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla formazione con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non qualificati e la vendita di corsi in formazione a distanza privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti pertinenti”.

 

A tale riguardo abbiamo intervistato uno degli avvocati che in questi anni si sono più occupati di diritto penale del lavoro e dei temi relativi alla responsabilità amministrativa (D.Lgs. 231/01), Rolando Dubini. Un avvocato che i nostri lettori conoscono molto bene non solo per le sue pubblicazioni, ma anche per i suoi numerosi articoli su PuntoSicuro.

 

PUNTO SICURO

Nei processi conseguenti ad eventi infortunistici nei luoghi di lavoro si affronta in aula il tema della formazione? Ad esempio ci si chiede sempre se un comportamento insicuro da parte di un lavoratore non dipenda in realtà da una carenza della formazione?

ROLANDO DUBINI

Si, è una domanda fondamentale che viene posta in sede di indagine preliminare dagli ufficiali di polizia giudiziaria della ASL competente; e che nel dibattimento penale è oggetto di ampia trattazione da parte dell’accusa quando carente, da parte della difesa quando adeguata e sufficiente ai sensi dell’articolo 37, comma 1 del D.Lgs. 81/08.

Quel che pesa davvero è la formazione specifica correlata alla mansione e soprattutto alla lavorazione oggetto dell’infortunio.

In particolare gli elementi rilevanti sono la qualificazione professionale e l’esperienza lavorativa dell’infortunato, la chiarezza e leggibilità delle procedure (a questo proposito consiglio di munirle di fotografie che indicano le modalità corrette e le modalità scorrette vietate), il fatto che siano oggetto di formazione specifica (con verifica dell’apprendimento) e che venga fatta vigilanza sul loro rispetto, e vengano adottate misure disciplinari nei confronti di chi contravviene alle norme aziendali di sicurezza.

Va inoltre documentata la presenza dell’interessato ai corsi di formazione. Attenzione: se manca la firma sul registro la formazione non esiste, ed è meglio adottare modalità di identificazione del partecipante. Ad esempio attraverso l’acquisizione di copia del documento d’identità.

 

P.S.

Possiamo dunque dire che nelle aule di tribunale si valuta non solo la presenza/assenza di un percorso formativo, ma anche la qualità o l’efficacia della formazione erogata?

R.D.

La qualità ed efficacia della formazione sono decisive, la difesa cerca di dimostrare che la formazione era idonea a evitare l’infortunio, ma per far ciò è necessario che l’azienda abbia effettivamente provveduto in tal senso.

L’ideale è quando lo stesso infortunato e/o i suoi colleghi testimoni dichiarino di aver ricevuto la formazione e di conoscere le modalità corrette di lavorazione, che indicano nella loro deposizione.

 

P.S.

Quali sono a suo parere le Sentenze più esemplari in materia di formazione?

R.D.

Fondamentale resta quella che afferma che la verifica dell’apprendimento è obbligatoria anche per i lavoratori, e non solo per dirigenti e preposti: la Sentenza della Cassazione Penale Sezione III, n. 4063 del 28 gennaio 2008, consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&task=view&id=916&Itemid=7

La fattispecie riguardava un datore di lavoro rinviato a giudizio e condannato dal Giudice del Tribunale di Brescia per i reati di cui all’articolo 4, comma 2, del D.Lgs. 626/94 [ora articolo 28 del D.Lgs. 81/08] per avere omesso, quale titolare di un laboratorio di confezioni, di effettuare una idonea valutazione dei rischi reali e specifici presenti nell’ambiente di lavoro e legati alle particolari situazioni lavorative, per aver omesso di adottare una collaborazione fattiva con il medico competente e il Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza per la redazione del documento di valutazione dei rischi, per la mancanza di misure di prevenzione da adottare e di un programma per realizzare le stesse, e, testualmente, per aver violato l’obbligo di cui all’articolo 22, comma 1, dello stesso D.Lgs. 626/94 [ora articolo 37 del D.Lgs. 81/08] per non avere progettato e attuato una adeguata attività formativa per tutti i lavoratori, contenente gli obiettivi specifici, la definizione di moduli didattici e gli strumenti per la verifica di apprendimento.

Richiamando la propria giurisprudenza, la Suprema Corte ha costantemente affermato che “In tema di prevenzione di infortuni, il datore di lavoro deve controllare che siano osservate le disposizioni di legge e quelle (procedure e istruzioni operative, oggetto di formazione adeguata e sufficiente), eventualmente in aggiunta, impartite [al lavoratore]; ne consegue che, nell’esercizio dell’attività lavorativa, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di lesione colposa aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche. È infatti il datore di lavoro che, quale responsabile della sicurezza del lavoro, deve operare un controllo continuo e pressante per imporre che i lavoratori rispettino la normativa e sfuggano alla tentazione, sempre presente, di sottrarvisi anche instaurando prassi di lavoro non corrette”.

Secondo la Cassazione, “tali conclusioni si evincono non solo dallo stesso, richiamato dal ricorrente, articolo 4 del D.Lgs. 626/94 [ora articolo 18 del D.Lgs. 81/08], che non pone a carico del datore di lavoro il solo obbligo di allestire le misure di sicurezza, ma anche una serie di controlli diretti o per interposta persona, atti a garantirne l’applicazione, ma soprattutto dalla norma generale di cui all’articolo 2087 Codice Civile, la quale dispone che l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” [Corte di Cassazione Sezione IV, Sentenza n. 39888 del 23 ottobre 2008,]. Si tratta dell’obbligo della massima sicurezza tecnica, organizzativa e procedurale concretamente attuabile.

In base alla mia esperienza, le aziende che hanno adottato sistemi certificati di gestione della sicurezza sul lavoro (ad esempio le British Standard 18001/2007) sono spesso quelle meglio attrezzate a erogare, anche attraverso enti esterni, e ove consentito con modalità on-line efficaci, formazione adeguata e sufficiente e a controllare affinché detta educazione alla sicurezza non resti inapplicata.

 

P.S.

E più in generale qual è oggi l’orientamento giurisprudenziale riguardo al valore causale della formazione in un evento incidentale?

R.D.

Ad esempio la Sentenza del 2008 che ho in precedenza richiamato chiarisce che l’errata e o insufficiente e incompleta valutazione dei rischi produce una errata percezione del rischio, e in caso di formazione trasferisce informazioni errate e non educa adeguatamente alla sicurezza l’operatore.

E in ogni caso si ribadisce che occorre la verifica dell’apprendimento, la cui miglior dimostrazione è data in dibattimento quando i testimoni, e/o l’interessato, come abbiamo già detto, dichiarano di conoscere le modalità corrette di lavoro, oppure hanno sottoscritto per accettazione l’istruzione operativa pertinente.

 

P.S.

Veniamo ad alcuni aspetti pratici. Quali sono gli elementi che la polizia giudiziaria valuta per comprendere la qualità della formazione erogata in azienda? Sono valutati solo gli aspetti documentali?

R.D.

In realtà viene valutato tutto. Ad esempio si valuta:

  • la qualificazione professionale dell’infortunato;
  • l’esperienza lavorativa;
  • l’avvenuta formazione dell’infortunato, e dei colleghi che svolgono la stessa mansione;
  • la qualità della formazione, il contenuto;
  • i registri di presenza;
  • la verifica dell’apprendimento e in particolare i controlli post formazione sull’applicazione delle regole prevenzionistiche trasmesse.

Chiaramente la documentazione deve essere a posto, e di qualità, per consentire prima la prevenzione e poi la difesa.

 

P.S.

Concludiamo questa breve intervista indicando quali sono oggi, a suo parere, le principali deviazioni dell’offerta formativa in Italia.

R.D.

Esistono significative zone oscure, venditori di certificati, venditori di formazione di bassa qualità, proposte di formazione on-line anche in casi non consentiti dalla legge, fino a vere e proprie truffe formative.

Il datore di lavoro dovrebbe richiedere una dichiarazione scritta dall’ente formatore dove questo dichiari la conformità alle norme vigenti della formazione erogata, e l’assunzione di responsabilità in caso di difformità.

Ed è bene controllare anche le referenze…

 

P.S.

E quali potrebbero essere delle soluzioni per evitare queste deviazioni?

R.D.

Ad esempio una maggior chiarezza degli Accordi Stato-Regioni in materia, con definizione dei modelli di modulistica consentita dalla legge, e l’eliminazione di ogni forma di ambiguità e incertezza in materia: una cosa fattibile… Il non volerla realizzare, come accaduto fino ad oggi, dimostra il disinteresse di chi governa per questa delicata materia che attiene l’integrità psicofisica di tutti coloro che frequentano i luoghi di lavoro.

Includerei, ora come ora, anche l’obbligo di inviare alla ASL competente copia dell’offerta formativa elaborata dagli enti, per conoscenza. Cosa che forse scoraggerebbe le situazioni più truffaldine.

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