SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.243 DEL 12/02/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.243 DEL 12/02/16

 

INDICE

–         “Smart working”: sfruttamento illimitato della costrizione al lavoro

  • Morti bianche in Italia: bilancio simile ad un sanguinoso conflitto

–         Cassazione: se la sicurezza non è garantita, il dipendente può rifiutarsi di lavorare e deve essere pagato

  • Quali sono i diritti e gli obblighi dei lavoratori?
  • La gestione della sicurezza antincendio secondo il nuovo Codice
  • Abrogazione del registro infortuni: ragioniamoci

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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“SMART WORKING”: SFRUTTAMENTO ILLIMITATO DELLA COSTRIZIONE AL LAVORO

 

Da Cortocircuito

http://www.inventati.org/cortocircuito

08 febbraio 2016

di Carla Filosa

 

“In realtà, il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore […] cioè i mezzi di produzione […] e i mezzi d sussistenza […], benché tale rapporto si realizzi soltanto nel processo di produzione reale, che è essenzialmente processo di produzione di plusvalore; processo di autovalorizzazione del capitale anticipato”.

Karl Marx “Il Capitale” Libro I, Capitolo VI

 

Mediaticamente coinvolti in questi ultimi tempi solo dai cosiddetti diritti civili, forse non ricordiamo nemmeno più quella proposta effettuata nel dicembre scorso dal Ministro Poletti, sull’abolizione “tecnologica” della misurazione temporale della giornata lavorativa.

Dopo l’impegno, in settembre, ad abbassare le pensioni a chi ne avesse anticipato la fruizione, l’ineffabile Ministro del Lavoro si è messo all’opera per rosicchiare, non solo il salario differito sui binari della riforma Fornero, ma anche quello diretto, angustamente percepito solo come busta paga, ma in realtà di natura sociale.

I diritti fondamentali, quelli conquistati entro il rapporto lavorativo vessatorio e fraudolento, sono così scivolati nell’inavvertita prassi governativa abile nell’elargire una progressiva dimenticanza da spargere su tutto il piano del reale. Sublimati su battaglie giuridiche, i conflitti sono stati spostati su piani ideologico-religiosi con altri soggetti di diritto, dal piano economico a quello sociale, più permeabile a compromessi. Il capitale rimane pertanto nel cono d’ombra, libero di far erodere anche il salario indiretto con il taglio delle spese sociali e i favori fiscali alle imprese.

 

Quando poi le “innovazioni” politiche non si vogliono far capire bene agli interessati, ormai si usa la lingua dominante sul mercato mondiale. Il titolo apparso (“Smart Working”) sul Sole 24ore (01/12/15) a proposito della geniale proposta del Ministro Poletti di abolire il criterio temporale applicato al lavoro (altrui, si sarebbe completato in altri tempi), non fa eccezione. Nell’articolo citato, rispondono poi i metalmeccanici CISL, senza avvedersi della portata del problema.

L’inimitabile trovata, non del suddetto Ministro, che non ci sarebbe mai arrivato da solo, ma del suo “think tank” (cordata di pensatoi), merita quindi di andare a fondo in questa ennesima obsoleta “innovazione”.

 

“L’ora-lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione” – scrive la Repubblica del 28/11/15, in prima pagina – “Dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento la retribuzione oraria”. La citazione del quotidiano continua perché l’espediente si sposta su “un tema culturale su cui lavorare”, da inserire naturalmente nell’apposito scrigno del Jobs Act approntato all’uopo. Il Ministro è andato a spiegare alla Luiss che “Il lavoro oggi è un po’ meno cessione di energia meccanica ad ore e sempre più risultato. Per molti anni i ritmi biologici e di vita si sono piegati agli orari fissi, ma con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà”. Le suadenti e alate motivazioni puntavano poi a rinverdire le vetuste “forme di partecipazione dei lavoratori all’impresa”, di cui in seguito tecnici deputati, cioè “economisti e giuslavoristi”, dovranno “immaginare il futuro su questo tema”. In altri termini, tecnici organici al sistema (a sostituzione dei lavoratori titolari dell’erogazione lavorativa e destinatari della modifica delle condizioni lavorative) manovreranno queste ultime a favore dei datori di lavoro!

 

Dallo stesso quotidiano si apprende ancora che Maurizio Del Conte, docente alla Bocconi di diritto del lavoro, consulente di Palazzo Chigi e coautore del Jobs Act, presidente dell’ANPAL (nuova agenzia di collocamento) ha incentivato poi, a supporto del Ministro, il “lavoro agile” riferendosi all’attuale Legge di Stabilità.

In questa “ci sono norme per la contrattazione di produttività, premiata con l’aliquota secca del 10% fino a un tetto di 2.000 euro per la produttività partecipata che non è la partecipazione agli utili ma organizzativa. I lavoratori decidono con l’azienda come ottenere incrementi di produttività, quando e quanto premiarli. Una novità che vogliamo estendere anche al lavoro agile”…

Il lavoro agile non è un altro tipo di contratto. Ma un modo nuovo di organizzare il vecchio contratto subordinato che però non va archiviato, ma aggiornato e organizzato in modo diverso. Le aziende devono uscire dallo schema classico delle 40 ore. E’ un problema culturale più che sindacale. Cambia il modo di retribuire, perché cambia il modo di lavorare. E se ho lavoratori contenti perché passano più tempo a casa o all’aperto o allungano il weekend, si incentiva la fidelizzazione, dunque la produttività, e i salari crescono. Un cambio di paradigma rispetto alla retribuzione piatta: una quota del lavoro si svolge fuori dallo spazio e dal tempo classici. E i parametri per misurare e retribuire questa quota vengono fissati dall’azienda con i lavoratori. Ma ci arriveremo per gradi.

 

Adesso proviamo a decodificare questo linguaggio fascinoso e mistificante. Innanzitutto tutti i significati di smart vengono racchiusi entro un concetto di “agilità” che non è chiaro se si riferisce ai datori di lavoro (in vista di maggiori profitti!), o ai lavoratori flessibilizzati, si ipotizza, “a loro piacimento”. Non si parla più (pare sia superfluo) dei rapporti di proprietà, ovvero dell’inestinto rapporto di “comando sul lavoro altrui”, ancorché dissimulato ma assolutamente presente nelle forme del ricatto esplicitato o dell’imbonimento occultato nei confronti di un lavoro perennemente dipendente dalle condizioni lavorative, unilateralmente gestite dai datori di lavoro.

L’apparente cogestione remunerativa viene legittimata tecnicamente. Si evitano così i termini storici e sociali di un tuttora dominante comando capitalistico, modificabile da un’indifferente tecnologia avanzata, che però l’uso capitalistico rende sempre funzionale allo sfruttamento aumentato della forza-lavoro. Obiettivo cui tutto il panegirico precedente tende senza parere.

 

Al fattore “risultato” il sistema di capitale ha sempre teso. Già nel Capitale di Marx (1867) viene chiaramente detto che per il capitale il salario a tempo è meno vantaggioso di quello a cottimo, cioè a “risultato”, perché quest’ultimo, “forma mutata del salario a tempo” (Capitolo I) “tende da un lato a sviluppare l’individualità e con ciò il sentimento della libertà, l’autonomia e l’autocontrollo degli operai, dall’altro a sviluppare la concorrenza fra di loro e degli uni contro gli altri. Esso ha perciò la tendenza ad abbassare il livello medio dei salari mediante l’aumento dei salari individuali al di sopra del livello stesso […] il capitale non può estendere la giornata lavorativa altro che aumentando l’intensità del lavoro […]. Variando la produttività del lavoro, una stessa quantità di prodotti rappresenta un tempo di lavoro vario. Quindi varia anche il salario a cottimo, perché esso è l’espressione del prezzo di un determinato tempo di lavoro. Il salario a cottimo viene abbassato nella stessa proporzione in cui cresce il numero degli articoli prodotto durante lo stesso tempo, e quindi diminuisce il tempo di lavoro impiegato per lo stesso articolo. Questo variare del salario a cottimo, in quanto è puramente nominale, provoca costanti lotte tra capitalista e operaio. O perché il capitalista si serve di questo pretesto per abbassare realmente il prezzo del lavoro, o perché l’aumento della forza produttiva del lavoro è accompagnato da un’accresciuta intensità di quest’ultimo. O perché l’operaio prende sul serio l’apparenza del salario a cottimo e crede che gli venga pagato il suo prodotto e non la sua forza-lavoro e quindi si oppone a una riduzione del salario alla quale non corrisponde la riduzione del prezzo di vendita della merce”.

 

“Il salario a cottimo” – continua Marx – “diventa fonte fecondissima di detrazioni sul salario e di truffe capitalistiche. Esso offre al capitalista una misura ben definita dell’intensità del lavoro […]. Se l’operaio non possiede la capacità media di rendimento (in termini di tempo di lavoro socialmente necessario), se quindi non è in grado di fornire un determinato minimo di opera giornaliera, lo si licenzia […]. Questa forma costituisce quindi la base tanto del moderno lavoro domestico, quanto di un sistema di sfruttamento e di oppressione gerarchicamente articolato […]. Da una parte il salario a cottimo facilita l’inserimento di parassiti fra capitalista e operaio salariato, cioè il subaffitto del lavoro. Il guadagno degli intermediari deriva esclusivamente dalla differenza fra il prezzo del lavoro pagato dal capitalista e quella parte di questo prezzo che essi lasciano realmente pervenire all’operaio. Questo sistema si chiama in Inghilterra lo sweating system (sistema del sudore). Dall’altra parte, il salario a cottimo permette al capitalista di concludere con il capo operaio […]. un contratto per tanti e tanti articoli a un prezzo (e qui probabilmente si instaura la partecipazione organizzativa attuale, con suggerimenti premiabili), per il quale il capo operaio stesso si assume l’arruolamento e il pagamento dei suoi operai ausiliari. Lo sfruttamento degli operai da parte del capitale si attua qui mediante lo sfruttamento dell’operaio da parte dell’operaio.”

 

Altre testimonianze agli albori del lavoro a cottimo riferiscono che “il lavoro dei garzoni artigiani sarà regolato a giornata o a pezzo […]. I mastri artigiani sanno all’incirca quanto lavoro gli operai possono compiere in ogni mestiere, e quindi li pagano spesso in proporzione al lavoro che compiono; in tal modo questi garzoni lavorano, nel proprio interesse, quanto più possono, senza alcuna sorveglianza”. (Cantillon ”Essai sur la nature du commerce en général” Amsterdam 1756).

 

“Spesso si assumono operai in previsione di un lavoro incerto, talvolta anche immaginario: siccome sono pagati a cottimo, si dice che non si rischia nulla, giacché tutte le perdite di tempo saranno a carico degli operai che non lavorano” (Grégoir ”Les typographes devant le tribunal correctionnel de Bruxelles” Bruxelles 1865).

Se non si fraintende, il lavoro misurato sul tempo non scompare (nella fraudolenta “innovazione” da immettere nella legge della regolazione lavorativa) ma viene affiancato, fors’anche con parziali modifiche, da una quantità di lavoro “fuori dal tempo e dallo spazio”.

Già qui è necessario chiedere aiuto alla logica (quella del “futuro”, evidentemente) per capire come misurare una quantità senza categorie spazio-temporali. E’ come chiedere un pezzo di stoffa per un vestito senza disporre di metri o altre unità di misura. Se ne può prendere quanta se ne vuole, fino, si spera, allo stop irato del venditore che se la vede sottrarre tutta.

Dunque, quella forma (in quanto “forma”) lavoro salariato (lohnarbeit, non solo arbeit, cioè lavoro) risponde adeguatamente al contenuto del rapporto di capitale. Si fa così giustizia di ogni altro pseudo-criterio, dalla remunerazione del rendimento e dalla partecipazione del lavoratore al risultato dell’impresa, fino alla fruizione di una quota di reddito nazionale, e via armonizzando.

 

A proposito dell’esigenza che è stata prospettata recentemente [“recentemente” (!) lo scriveva già Marx più di un secolo e mezzo fa nei “Lineamenti”] “talvolta con autocompiacimento, di dare ai lavoratori una certa partecipazione al profitto, non può trattarsi che di un premio speciale, che può raggiungere il suo scopo solo in quanto eccezione alla regola; e in effetti nella prassi normale si limita a una incetta di singoli sorveglianti ecc., nell’interesse del padrone contro l’interesse della sua classe; oppure di impiegati ecc., ossia, in breve, non più al semplice salariato, e quindi nemmeno al rapporto generale; oppure si tratta di una particolare maniera di truffare i salariati trattenendo una parte del loro salario sotto la forma precaria di un profitto che dipende dalla situazione dell’azienda. Ma che questa pretesa contraddica il rapporto stesso risulta dalla semplice riflessione che, se il risparmio del salariato non deve rimanere un semplice prodotto della circolazione (denaro risparmiato che può essere realizzato solo convertendolo prima o poi nel contenuto sostanziale della ricchezza, ossia in godimenti) il denaro accumulato stesso dovrebbe diventare capitale, ossia dovrebbe comprare lavoro, riferirsi al lavoro come valore d’uso. Il risparmio del lavoratore presuppone dunque a sua volta lavoro-che-non-è-capitale, e presuppone che il lavoro sia diventato il suo contrario, cioè non-lavoro. Per diventare capitale, esso presuppone già il lavoro-come-non-capitale di fronte al capitale; insomma, il ristabilimento dell’antitesi, che deve essere soppressa in un punto, in un altro punto. Se dunque già nel rapporto originario l’oggetto e il prodotto dello scambio del lavoratore (come prodotto dello scambio semplice esso non può essere altro prodotto che questo) non fossero il valore d’uso, i mezzi di sussistenza, la soddisfazione del bisogno immediato, la sottrazione dalla circolazione dell’equivalente in essa introdotto per distruggerlo mediante il consumo, allora il lavoro si contrapporrebbe al capitale non come lavoro, non come non-capitale, ma come capitale. Ma anche il capitale non può contrapporsi al capitale se al capitale non si contrappone il lavoro, giacché il capitale è capitale solo in quanto non-lavoro; in questa relazione antitetica. Ossia, verrebbe negato il concetto e il rapporto del capitale stesso”.

 

E’ bene perciò chiarire che il lavoro (o, più correttamente, l’uso della forza-lavoro, di questa merce venduta ad altri) è divenuto organicamente dipendente per tutto il tempo stabilito, senza altri limiti o eccezioni, da colui che lo ha acquistato, cioè il padrone (qui il borghese capitalista, l’imprenditore…) e pertanto non ha nulla a che vedere con la supposta “partecipazione azionaria” dei dipendenti, tanto di moda e diffusa nella socialdemocrazia tedesca e sancita definitivamente nel congresso di Bad Godesberg del 1959 con quell’abbandono del marxismo che, dopo il programma di Erfurt del 1891, segnò l’instancabile assillante cammino intrapreso per primo da Eduard Bernstein con il suo revisionismo, sempre perdente a parole nel suo partito, di rincorsa al sistema capitalistico borghese fino a riuscire ad arrivare comunque al tracollo del marxismo nei partiti socialisti europei con la resa di Bad Godesberg. Si capisce, dunque, come si sia giunti all’annichilimento della classe lavoratrice.

Annichilimento realizzatosi, ora è quasi due secoli, mediante mezzi di produzione di proprietà capitalistica a tecnologia costantemente rinnovatasi, che utilizzano maggiormente il lavoratore in modo sempre più invisibilmente raffinato. Il lavoro vivo, ovvero la forza-lavoro in generale dei lavoratori utilizzati, viene risucchiato entro il valore in generale appropriato dal capitale, ed in esso si trasforma senza più apparire come in origine. Così incorporata al capitale che si “autovalorizza”, l’energia vitale dei lavoratori scompare anche nei tempi della sua erogazione essendo divenuta, per il solo arbitrio del “diritto proprietario” del capitale, valore conservato e maggiorato nell’oggettivazione alienata del capitale.

 

Realtà già in atto di fabbriche digitali si trovano presso Vodafone Italia, alla FCA di Pomigliano, alla Sevel (produce il Ducato), alla ZF Padova, ecc. dove si lavora con margini di autonomia, anche a distanza, con flessibilità orarie in entrate e uscite, ecc. Le modifiche funzionali alle innovazioni sono forme di un progresso produttivo sollecitato dal sistema di capitale, tale progresso oggettivo non necessita però, in prospettiva, della direzione capitalistica che ne aliena e distorce l’utilità sociale. Il lavoro è sempre quello socialmente necessario, cioè calcolabile in base ai tempi di una tecnologia generalmente affermatasi come più conveniente per chi l’ha promossa. Il tempo quindi non può essere abolito in nessuna alchimia politica, essendo la misura dell’intensità lavorativa richiesta. Si vuole solo sottintendere, o non mostrare, che il tempo di lavoro tende sempre più a coincidere con il tempo di vita, e che quest’ultima deve essere funzionale solo al bene lavoro nella sua crescente rarefazione.

La specificità della merce forza-lavoro è che anche se venduta, appropriata, trasformata e apparentemente perduta, rimane comunque attaccata al suo portatore, come una malattia incurabile (per il capitale!). Questo portatore è anche portatore di bisogni materiali inestinguibili strutturalmente antitetici a quelli capitalistici, tendenzialmente infiniti rispetto alla concentrazione limitata dei capitali. Di fronte al bisogno estremo della vita di una classe marginalizzata o resa superflua, ma che nell’esproprio si ingrandisce in termini planetari, l’autonomia da questo potere dialetticamente distruttivo sempre localizzato, nazionalizzato, regionalizzato, ecc. potrebbe configurarsi con la necessità di uno tsunami incontenibile e senza appuntamento.

 

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MORTI BIANCHE IN ITALIA: BILANCIO SIMILE AD UN SANGUINOSO CONFLITTO

 

Da Vega Engineering

http://www.vegaengineering.com

15 gennaio 2016

Mauro Rossato

 

1.000 MORTI SUL LAVORO: IL BILANCIO DELLE VITTIME PIU’ SIMILE A QUELLO DI UN SANGUINOSO CONFLITTO CHE ALLA QUOTIDIANITA’ LAVORATIVA DI UN PAESE CIVILE.

 

A FINE NOVEMBRE 2015 PIU’ DI 1.000 MORTI SUL LAVORO. 800 QUELLE AVVENUTE IN OCCASIONE DI LAVORO IN AUMENTO DEL 17 PER CENTO RISPETTO AL 2014 E SONO 280 QUELLE REGISTRATE IN ITINERE (+ 19 PER CENTO ).

 

Sembra il tragico bilancio di un sanguinoso conflitto, mentre è il drammatico resoconto della quotidianità lavorativa nel nostro Paese: più di mille morti in 11 mesi nel 2015 (1.080 per la precisione).

 

E sono 800 le vittime che hanno perso la vita in occasione di lavoro da gennaio a novembre 2015 (+ 17 per cento rispetto al 2014) e 280 quelle decedute a causa di un infortunio in itinere (+ 19 per cento).

 

Un incremento significativo quello evidenziato dall’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering (sulla base di dati INAIL) che non lascia spazio a speranze di risoluzione per un fenomeno che pone l’Italia in cima alla graduatoria europea (fonte Eurostat) degli infortuni mortali nei luoghi di lavoro.

“Una maglia nera tragica per un Paese che evidentemente non è abbastanza civile da intervenire con i giusti mezzi per invertire la tragica tendenza all’aumento delle morti sul lavoro” – sottolinea Mauro Rossato, Presidente dell’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering di Mestre – “Le istituzioni devono essere più visibili e presenti. Servono più controlli, pene certe e processi più veloci per gli evasori della sicurezza sul lavoro. Perché senza tali premesse nessuna inversione di rotta o di tendenza sarà possibile”.

 

E nel frattempo è sempre la Lombardia a far registrare il più elevato numero di vittime in occasione di lavoro (115); seguono: la Campania (78), la Toscana (74), il Lazio (71), il Veneto (64), l’Emilia Romagna (62), il Piemonte (60), la Sicilia (55), la Puglia (52). E poi ancora: le Marche (26), l’Abruzzo (25), l’Umbria (22), il Trentino Alto Adige (18), la Liguria (17), la Calabria (16), il Friuli Venezia Giulia (13), la Sardegna (12), il Molise e la Basilicata (10). Mentre l’indice di rischio più elevato rispetto alla popolazione lavorativa viene registrato in Molise (100,5 contro una media nazionale di 35,7). Seguono Umbria (61,4) e Basilicata (55,5).

 

Il settore più colpito dalle morti sul lavoro è quello delle Costruzioni con 117 vittime pari al 14,6 per cento del totale degli infortuni mortali sul lavoro. Seguito dalle Attività manifatturiere (98 decessi) e dal Trasporto e magazzinaggio (83).

Più della metà delle vittime rilevate in occasione di lavoro aveva un’età compresa tra i 45 e i 64 anni (485 morti).

Le donne che hanno perso la vita nei primi 11 mesi dell’anno in occasione di lavoro sono state 42. Gli stranieri deceduti sul lavoro sono 125 pari al 15,6 per cento del totale.

 

La provincia in cui si conta il maggior numero di infortuni mortali è Roma (44) seguita da Milano (34), Napoli (30), Bari (22), Torino (21), Brescia (20), Perugia (17).

 

Cosa stiamo aspettando?!

 

Le statistiche delle morti sul lavoro dell’Osservatorio Sicurezza Lavoro Vega Engineering aggiornate al 30 novembre 2015 sono scaricabili all’indirizzo:

http://www.vegaengineering.com/dati-osservatorio/allegati/Statistiche-morti-lavoro-Osservatorio-sicurezza-lavoro-Vega-Engineering-30-11-2015.pdf

 

I dati relativi all’incidenza delle morti sul lavoro sulla popolazione occupata delle Province dell’Osservatorio Sicurezza Lavoro Vega Engineering aggiornati al 30 novembre 2015 sono scaricabili all’indirizzo:

http://www.vegaengineering.com/dati-osservatorio/allegati/Incidenze-morti-lavoro-popolazione-occupata-Province-Osservatorio-Vega-Engineering-30-11-15.pdf

 

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CASSAZIONE: SE LA SICUREZZA NON E’ GARANTITA, IL DIPENDENTE PUO’ RIFIUTARSI DI LAVORARE E DEVE ESSERE PAGATO

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

01 febbraio 2016

di Sestilio Staffieri

 

Quando il datore di lavoro è inadempiente agli obblighi di sicurezza sul lavoro, è legittimo il rifiuto della prestazione lavorativa e si conserva il diritto alla retribuzione

 

Il datore di lavoro è obbligato, a mente dell’articolo 2087 del Codice Civile, ad assicurare condizioni di lavoro idonee a garantire la sicurezza delle lavorazioni ed è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

 

Per la giurisprudenza della Suprema Corte (vedi la recentissima Sentenza n. 836/2016 del 19/01/16), la violazione di tale obbligo legittima i lavoratori a non eseguire la prestazione, eccependo l’inadempimento altrui.

La protezione, anche di rilievo costituzionale, dei beni presidiati dall’articolo 2087 del Codice Civile postula meccanismi di tutela delle situazioni soggettive potenzialmente lese in tutte le forme che l’ordinamento conosce.

 

Dunque, per garantire l’effettività della tutela in ambito civile, si può ricorrere non solo alle azioni volte all’adempimento dell’obbligo di sicurezza o alla cessazione del comportamento lesivo ovvero a riparare il danno subito, ma anche al potere di autotutela contrattuale rappresentato dall’eccezione di inadempimento, rifiutando l’esecuzione della prestazione in ambiente nocivo soggetto al dominio dell’imprenditore.

 

E’ stato altresì statuito che in caso di violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza di cui all’articolo 2087 del Codice Civile, non solo è legittimo, a fronte dell’inadempimento altrui, il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, ma costui conserva, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore.

 

La Sentenza n. 836/2016 del 19/01/16 della Corte di Cassazione è scaricabile all’indirizzo:

http://www.ipsoa.it/~/media/Quotidiano/2016/01/20/Assenza-di-misure-di-sicurezza–rifiuto-al-lavoro-lecito-con-conservazione-dello-stipendio/836-16%20pdf.pdf

 

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QUALI SONO I DIRITTI E GLI OBBLIGHI DEI LAVORATORI?

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

28 gennaio 2016
Informazioni sui diritti e obblighi dei lavoratori con particolare riferimento alla sicurezza sul lavoro.

Gli obblighi e i diritti personali, patrimoniali, sindacali e alla sicurezza. Gli obblighi normati dagli articolo 20 e 21 del D.Lgs. 81/08.

 

L’articolo 2 del D.Lgs. 81/08 definisce il “lavoratorecome persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari. E, sempre nell’articolo 2, sono indicate le altre figure (socio lavoratore di cooperativa o di società, soggetti beneficiari delle iniziative di tirocini formativi, ecc.) equiparabili al lavoratore così definito.

 

Al di là della definizione della normativa quali sono tuttavia i diritti e gli obblighi dei lavoratori?

Per rispondere a questa domanda possiamo sfogliare la guida prodotta dall’Ente Bilaterale Nazionale del settore Terziario (EBINTER), dal titolo “Datori di lavoro e lavoratori. Guida pratica agli adempimenti di sicurezza e all’apparato sanzionatorio”, una guida che fa riferimento non solo al Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, ma anche al contenuto di diversi Accordi/Intese (Confindustria, settore artigiano, pubblica amministrazione, commercio, ecc.).

 

Dopo aver riportato la definizione di lavoratore, il documento ricorda i quattro principali gruppi di diritti che spettano al lavoratore.

 

Il primo gruppo affrontato è il diritto alla sicurezza:

Infatti i lavoratori hanno il diritto:

  • di astenersi (salvo casi eccezionali e su motivata richiesta) dal riprendere l’attività lavorativa nelle situazioni in cui persista un pericolo grave ed immediato;
  • di allontanarsi (in caso di pericolo grave ed immediato e che non può essere evitato) dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, senza subire pregiudizi o conseguenze per il loro comportamento;
  • di prendere, in caso di pericolo grave ed immediato nella impossibilità di contattare un superiore gerarchico o un idoneo referente aziendale, misure atte a scongiurarne le conseguenze, senza subire pregiudizi per tale comportamento, salvo che questo sia viziato da gravi negligenze;
  • di essere sottoposti a visite mediche personali qualora la relativa richiesta sia giustificata da una connessione, documentabile, con rischi professionali.

 

Il documento si sofferma poi anche su altri tre gruppi di diritti:

diritti patrimoniali: sono quelli che riguardano gli aspetti economici della retribuzione e del trattamento di fine rapporto; la retribuzione è un diritto inscindibile dall’attività lavorativa prestata, essa deve avvenire secondo predeterminate scadenze ed inderogabilmente e il salario dev’essere proporzionale al lavoro svolto, sufficiente da garantire la sussistenza al lavoratore e alla sua famiglia, e uguale tra uomini e donne;

diritti personali che riguardano l’integrità fisica e la salute: il datore di lavoro deve infatti garantire un ambiente sicuro e periodicamente controllato; spettano al lavoratore periodi di riposo, quotidiano, settimanale e festivo; è essenziale che il lavoratore sia adibito a mansioni per le quali ha sufficienti competenze, in modo tale che non corra rischi per inesperienza; il lvoratore ha inoltre il diritto di conservare il proprio posto di lavoro in caso di malattia, infortunio, servizio militare, gravidanza e puerperio; è garantita al lavoratore l’assoluta liberà d’opinione, la possibilità di adempiere a funzioni pubbliche, attività ricreative ed assistenziali;

diritti sindacali: ogni lavoratore può, se lo ritiene opportuno, esercitare l’attività sindacale e parteciparvi sul luogo di lavoro; può scioperare e affiggere in locali aziendali qualsivoglia manifesto per lo svolgimento dell’attività sindacale; tra questi diritti rientra certamente quello di nominare un rappresentante per la sicurezza (RLS).

 

Il documento si sofferma ampiamente sulla normativa e sulle regole relative alle elezioni dei RLS, sia con riferimento alle aziende, o unità produttive, che occupano sino a 15 lavoratori, sia alle aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori. Vengono poi presentati nel dettaglio i compiti e i diritti dei RLS.

 

Veniamo ora agli obblighi dei lavoratori che, in questo caso, possono essere classificati in cinque distinti gruppi:

  • prestare la propria attività lavorativa: il lavoratore è tenuto ad adempiere unicamente a quanto sia previsto nel suo contratto individuale, mansioni extra non sono accettabili; qualora esse siano svolte lo saranno a discrezione e scelta del lavoratore; qualora esso si rifiuti non sono tollerabili rivalse da parte del datore di lavoro; se esse dovessero verificarsi, il lavoratore dipendente può tranquillamente rivolgersi alle autorità competenti; inoltre va precisato che l’attività lavorativa può essere svolta unicamente dalla persona intestataria del contratto, non è possibile delegare altre persone affinché adempiano ai propri compiti; il contratto di lavoro può avere come unico fine quello di essere suscettibile di valutazione economica, ossia che disponga a seguito dell’attività un giusto corrispettivo in denaro; il lavoro può essere svolto unicamente nel luogo stabilito dal contratto, nel sito ove l’attività per sua natura debba essere esplicata;
  • obbligo di diligenza: consiste in tutte le dovute accortezze che ogni persona corretta deve far proprie; la prestazione lavorativa deve essere per contratto adempiuta con la necessaria attenzione e precisione; maggiori saranno le responsabilità dell’attività richiesta dall’impresa e maggiore sarà il peso della diligenza; si pensi per esempio a un dottore, una mancanza di attenzione compiuta da esso causerebbe gravi danni al paziente; si comprende bene in tal caso quanto sia importante quest’obbligo contrattuale;
  • obbligo d’obbedienza: consiste nel dover compiere quanto dispone il datore di lavoro o chi ne fa le veci; è importante osservare le direttive date ed esplicarne nel modo migliore possibile;
  • obbligo di fedeltà: si tratta di un dovere che si perpetua per un tempo ragionevole anche a seguito della conclusione della dipendenza per l’attività lavorativa; consiste sostanzialmente nel dover tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne gli interessi; si parla in tal caso di divieto di concorrenza ed obbligo di riservatezza;
  • obblighi di sicurezza: ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro; in aggiunta, è prescritto espressamente ai lavoratori di usare correttamente, in conformità alle istruzioni e alla formazione ricevute, i dispositivi di sicurezza, tanto collettivi che individuali, e gli altri mezzi di protezione, di segnalazione e di controllo; tale obbligo si estende anche all’uso di macchinari, apparecchiature, utensili, sostanze e preparati pericolosi al fine di evitare che una loro utilizzazione inappropriata possa arrecare pregiudizi per la salute e la sicurezza degli altri dipendenti e delle persone eventualmente presenti nel luogo di lavoro.

 

Concludiamo riportando il contenuto di una scheda di sintesi del documento relativa agli obblighi del lavoratore con riferimento esclusivo all’articolo 20 e 21 del D.Lgs. 81/08:

  • prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro (articolo 20, comma 1);
  • contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (articolo 20, comma 2, lettera a));
  • osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva e individuale (articolo 20, comma 2, lettera b));
  • utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto, nonché i dispositivi di sicurezza (articolo 20, comma 2, lettera c));
  • utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione (articolo 20, comma 2, lettera d));
  • segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi, nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e incombente, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (articolo 20, comma 2, lettera e));
  • non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo (articolo 20, comma 2, lettera f));
  • non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori (articolo 20, comma 2, lettera g));
  • partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro (articolo 20, comma 2, lettera h));
  • sottoporsi ai controlli sanitari previsti dal D.Lgs. 81/08 o comunque disposti dal medico competente (articolo 20, comma 2, lettera i));
  • esporre (nel caso che svolgano attività in regime di appalto o subappalto) apposita tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l’indicazione del datore di lavoro; tale obbligo grava anche in capo ai lavoratori autonomi che esercitano direttamente la propria attività nel medesimo luogo di lavoro, i quali sono tenuti a provvedervi per proprio conto (articolo 20, comma 3);
  • utilizzare attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di cui al titolo III del D.Lgs. 81/08;
  • per i lavoratori autonomi, munirsi di dispositivi di protezione individuale e utilizzarli conformemente alle disposizioni di cui al titolo III del D.Lgs. 81/08 (articolo 21, comma 1, lettera b)).

 

Il documento dell’Ente Bilaterale Nazionale del settore Terziario “Datori di lavoro e lavoratori. Guida pratica agli adempimenti di sicurezza e all’apparato sanzionatorio” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/131220_guida_sicurezza_Datori_di_lavoro.pdf

 

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LA GESTIONE DELLA SICUREZZA ANTINCENDIO SECONDO IL NUOVO CODICE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

28 gennaio 2016
Il nuovo Codice di prevenzione incendi riporta precise indicazioni sulla gestione della sicurezza antincendio.

La prevenzione degli incendi, il registro dei controlli, il piano per il mantenimento del livello di sicurezza e la preparazione all’emergenza.

 

Alla Gestione della Sicurezza Antincendio (GSA), una misura antincendio organizzativa e gestionale che deve garantire, nel tempo, un adeguato livello di sicurezza dell’attività in caso di incendio, è dedicato un capitolo del documento “Norme tecniche di prevenzione incendi” allegato al nuovo “Codice di prevenzione Incendi”, il Decreto del Ministero dell’Interno del 3 agosto 2015 recante “Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139” (entrato in vigore il 18 novembre 2015).

 

Presentiamo quindi le indicazioni relative alla gestione della sicurezza nell’attività in esercizio.

 

Dopo aver ricordato che una corretta gestione della sicurezza antincendio durante l’esercizio dell’attività contribuisce all’efficacia delle altre misure antincendio adottate, il Codice indica che tale gestione della sicurezza deve prevedere almeno:

  • la riduzione della probabilità di insorgenza di un incendio e la riduzione dei suoi effetti, adottando misure di prevenzione incendi, buona pratica nell’esercizio, manutenzione, e inoltre: informazioni per la salvaguardia degli occupanti; se si tratta di attività lavorativa, formazione ed informazione del personale (secondo quanto riportato nel paragrafo S.5.6.1 dell’allegato);
  • il controllo e manutenzione di impianti e attrezzature antincendio (secondo quanto riportato nei paragrafi S.5.6.2, S.5.6.3 e S.5.6.4 dell’allegato);
  • la preparazione alla gestione dell’emergenza, tramite l’elaborazione della pianificazione d’emergenza, esercitazioni antincendio e prove d’evacuazione periodiche (secondo quanto riportato nel paragrafo S.5.6.5 dell’allegato).

 

Inoltre in relazione alla prevenzione degli incendi, la riduzione della probabilità di incendio deve essere svolta in funzione delle risultanze dell’analisi del rischio incendio condotta durante la fase progettuale.

Si riportano, a titolo esemplificativo, alcune azioni elementari per la prevenzione degli incendi:

  • pulizia dei luoghi e ordine ai fini della riduzione sostanziale della probabilità di innesco di incendi (ad esempio riduzione delle polveri, dei materiali stoccati scorrettamente o al di fuori dei locali deputati, ecc.) e della velocità di crescita dei focolari (ad esempio la stessa quantità di carta correttamente archiviata in armadi metallici riduce la velocità di propagazione dell’incendio);
  • verifica della disponibilità di vie d’esodo sgombre e sicuramente fruibili;
  • verifica della corretta chiusura delle porte tagliafuoco nei varchi tra compartimenti;
  • riduzione degli inneschi (una nota nel documento indica che siano identificate e controllate le potenziali sorgenti di innesco, quali ad esempio uso di fiamme libere non autorizzato, fumo in aree ove sia vietato, apparecchiature elettriche malfunzionanti o impropriamente impiegate, ecc.);
  • riduzione del carico di incendio (una nota ricorda che le conseguenze di un eventuale incendio possono essere ridotte limitando le quantità di materiali combustibili presenti nell’attività al minimo indispensabile per l’esercizio);
  • sostituzione di materiali combustibili con velocità di propagazione dell’incendio rapida, con altri con velocità d’incendio più lenta (una nota segnala che a parità di qualità dei fumi prodotti, ciò consente di allungare il tempo disponibile per l’esodo degli occupanti;
  • controllo e manutenzione regolare dei sistemi, dispositivi, attrezzature e degli impianti rilevanti ai fini antincendi;
  • contrasto degli incendi dolosi, migliorando il controllo degli accessi e la sorveglianza, senza che ciò possa limitare la disponibilità del sistema d’esodo;
  • gestione dei lavori di manutenzione; il rischio d’incendio aumenta notevolmente quando si effettuano lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, in quanto possono essere: condotte operazioni pericolose (ad esempio lavori a caldo), temporaneamente disattivati impianti di sicurezza, temporaneamente sospesa la continuità di compartimentazione, impiegate sostanze o miscele pericolose (ad esempio solventi, colle, ecc.): tali sorgenti di rischio aggiuntive, generalmente non considerate nella progettazione antincendio iniziale, devono essere specificamente affrontate (ad esempio se previsto nel DUVRI di cui al D.Lgs. 81/08);
  • in attività lavorative, formazione e informazione del personale ai rischi specifici dell’attività, secondo la normativa vigente;
  • mantenimento delle vie d’esodo delle attività sgombre e sicuramente fruibili.

 

Veniamo ora a quanto indicato relativamente al registro dei controlli.

Secondo il nuovo Codice ove previsto dalla soluzione progettuale individuata, il responsabile dell’attività deve predisporre, con le modalità previste dalla normativa vigente, un registro dei controlli periodici dove siano annotati:

  • i controlli, le verifiche, gli interventi di manutenzione su sistemi, dispositivi, attrezzature e le altre misure antincendio adottate;
  • le attività di informazione, formazione e addestramento, ai sensi della normativa vigente per le attività lavorative;
  • le prove di evacuazione.

Questo registro deve essere mantenuto costantemente aggiornato e disponibile per i controllo da parte degli organi di vigilanza.

 

Sono fornite anche indicazioni sul piano per il mantenimento del livello di sicurezza antincendio.

Si indica che ove previsto dalla soluzione progettuale individuata, il responsabile dell’attività deve curare la predisposizione di un piano finalizzato al mantenimento delle condizioni di sicurezza, al rispetto dei divieti, delle limitazioni e delle condizioni di esercizio. E sulla base del profilo di rischio dell’attività e delle risultanze della progettazione, il piano deve prevedere:

  • le attività di controllo per prevenire gli incendi secondo le disposizioni vigenti;
  • la programmazione dell’attività di informazione, formazione e addestramento del personale addetto alla struttura, comprese le esercitazioni all’uso dei mezzi antincendio e di evacuazione in caso di emergenza, tenendo conto dello specifico profilo di rischio dell’attività;
  • la specifica informazione agli occupanti;
  • i controlli delle vie di esodo, per garantirne la fruibilità, e della segnaletica di sicurezza;
  • la programmazione della manutenzione, secondo le disposizioni vigenti, dei sistemi e impianti ed attrezzature antincendio;
  • la pianificazione della turnazione degli addetti antincendio in maniera tale da garantire l’attuazione del piano di emergenza in ogni momento.

 

Si ricorda poi che il controllo e la manutenzione degli impianti e delle attrezzature antincendio devono essere effettuati nel rispetto delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti, secondo la regola dell’arte in accordo alle norme e documenti tecnici pertinenti e al manuale di uso e manutenzione dell’impianto e dell’attrezzatura. E il manuale di uso e manutenzione dell’impianto e delle attrezzature antincendio è predisposto secondo la vigente normativa ed è fornito al responsabile dell’attività.

Si ricorda, a questo proposito, che la manutenzione sugli impianti e sulle attrezzature antincendio è svolta da personale esperto in materia, sulla base della regola dell’arte, che garantisce la corretta esecuzione delle operazioni svolte.

 

Infine si affronta il tema delle emergenze.

In particolare la preparazione all’emergenza, nell’ambito della gestione della sicurezza antincendio, si esplica tramite:

  • pianificazione delle procedure da eseguire in caso d’emergenza, in risposta agli scenari incidentali ipotizzati;
  • nelle attività lavorative con la formazione e addestramento periodico del personale all’attuazione del piano d’emergenza, prove di evacuazione; la frequenza delle prove di attuazione del piano di emergenza deve tenere conto della complessità dell’attività e dell’eventuale sostituzione del personale impiegato.

 

Il Decreto del Ministero dell’Interno 3 agosto 2015 “Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del Decreto Legislativo 8 marzo 2006, n. 139” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/08/20/15A06189/sg

 

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ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI: RAGIONIAMOCI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

02 febbraio 2016

di Pietro Ferrari

Commissione salute e sicurezza sul lavoro CGIL FILCAMS-Brescia
Il registro era uno strumento fondamentale di verifica sull’efficacia della politica aziendale di prevenzione. Come sostituirlo?

 

Il D.Lgs. 151/15, l’ultimo dei quattro Decreti attuativi del Jobs Act (cosiddetto “Decreto semplificazione”), col suo articolo 21, comma 4, ha abrogato il registro degli infortuni:

“A decorrere dal novantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente Decreto, è abolito l’obbligo di tenuta del registro infortuni”.

Il Decreto, del 14 settembre 2015, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.221 del 23 settembre; l’abrogazione dell’obbligo è perciò operante dal 23 dicembre 2015.

 

La storia dell’istituto, da ripercorrere qui brevemente, è abbastanza nota.

Esso è posto per la prima volta con l’articolo 403 del D.P.R. 547/55 (“Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”):

“Le aziende soggette al presente Decreto devono tenere un registro, nel quale siano annotati cronologicamente tutti gli infortuni occorsi ai lavoratori dipendenti, che comportino una assenza dal lavoro superiore ai tre giorni compreso quello dell’evento.

Su detto registro, che deve essere conforme al modello stabilito con decreto del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, sentita la Commissione di cui all’articolo 393, devono essere indicati oltre al nome, cognome e qualifica professionale dell’infortunato, la causa e le circostanze dell’infortunio, nonché la data di abbandono e di ripresa del lavoro.

Il registro infortuni deve essere tenuto a disposizione degli Ispettori del lavoro sul luogo di lavoro”.

 

Successivamente, l’articolo 4, comma 5, lettera o) del D.Lgs. 626/94 confermerà l’obbligo; pur all’interno della problematica titolazione che poneva tale obbligo in capo anche al dirigente e al preposto:

“Il datore di lavoro, il dirigente e il preposto che esercitano, dirigono o sovraintendono le attività indicate all’articolo 1, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, adottano le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori ed in particolare […] tengono un registro nel quale sono annotati cronologicamente gli infortuni sul lavoro che comportano un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni, compreso quello dell’evento […]”.

 

L’incongruenza verrà superata con l’articolo 3, comma 5, del D.Lgs. 242/96 (“Modifiche ed integrazioni al Decreto Legislativo 19 settembre 1994, n. 626, recante attuazione di direttive comunitarie riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro”):

“L’articolo 4 del Decreto Legislativo n. 626/1994, è sostituito dal seguente:

Il datore di lavoro adotta le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori, e in particolare […] tiene un registro nel quale sono annotati cronologicamente gli infortuni sul lavoro che comportano un’assenza dal lavoro di almeno un giorno […]”.

Frattanto la sanzione, di natura penale nel D.P.R. 547/55 (reato contravvenzionale, punito secondo l’articolo 389, lettera c), con l’ammenda da lire 59.000 a lire 100.000) era stata trasformata in illecito amministrativo dal D.Lgs. 626/94.

 

Il D.Lgs. 626 esce il 19 settembre 1994 (in Gazzetta Ufficiale n.265 del 12 novembre). Non passano tre mesi e, con mirabilia coordinatoria non estranea al nostro legislatore, il D.Lgs. 758/94 del 19 dicembre 1994 (“Modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro”; in Gazzetta Ufficiale n.21 del 26 gennaio 1995) interviene a stabilire che:

“Il primo comma dell’articolo 389 [Contravvenzioni commesse dai datori di lavoro e dai dirigenti] del Decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, n. 547, è così modificato:

  1. c) nella lettera c) [che interessava anche l’articolo 403, ovvero la tenuta del registro degli infortuni], le parole: ‘con l’ammenda da lire 250.000 a lire 500.000’ sono sostituite con le seguenti: ‘con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda da lire cinquecentomila a lire due milioni’”.

Da allora trascorrono una quindicina di mesi prima che il sopra citato D.Lgs. 242/96, nell’allargare l’obbligo di registrazione agli “infortuni sul lavoro che comportano un’assenza dal lavoro di almeno un giorno.”, ri-confermi tranquillamente la sanzione (sanzione amministrativa pecuniaria da lire un milione a lire sei milioni) stabilita nel D.Lgs. 626/94, all’articolo 89 (“Contravvenzioni commesse dai datori di lavoro e dai dirigenti”).

 

Il D.Lgs. 81/08, all’articolo 18 (Obblighi del datore di lavoro e del dirigente), comma 1, lettera r), mantiene implicitamente l’obbligo del Registro infortuni, riconoscendone al comma 1-bis la natura transitoria:

“L’obbligo [nuovo] di cui alla lettera r) del comma 1, relativo alla comunicazione a fini statistici e informativi dei dati relativi agli infortuni che comportano l’assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell’evento, decorre dalla scadenza del termine di sei mesi dall’adozione del Decreto di cui all’articolo 8, comma 4. [istituzione del SINP]”.

Dove l’articolo 8 (Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro) specifica che:

“E’ istituito il Sistema informativo nazionale per la prevenzione (SINP) nei luoghi di lavoro […].

Con decreto del Ministro del lavoro, […] da adottarsi entro 180 giorni dalla data dell’entrata in vigore del presente Decreto Legislativo, vengono definite le regole tecniche per la realizzazione ed il funzionamento del SINP, nonché le regole per il trattamento dei dati […]”.

Ne conferma invece l’attualità insieme alla natura transitoria l’articolo 53, comma 6:

“Fino ai sei mesi successivi all’adozione del Decreto interministeriale di cui all’articolo 8 comma 4, [SINP] del presente Decreto restano in vigore le disposizioni relative al registro infortuni”.

 

Con l’articolo 55 (Sanzioni per il datore di lavoro e il dirigente), comma 5, il D.Lgs. 81/08 torna ad applicare la sanzione amministrativa.

Avendo stabilito i diversi fini della comunicazione (statistico quello relativo all’assenza per almeno un giorno, escluso quello dell’evento; assicurativo quello relativo “agli infortuni sul lavoro che comportino un’assenza al lavoro superiore a tre giorni”), applica le diverse sanzioni:

“Il datore di lavoro e il dirigente sono puniti:

[…];

con la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.096,00 a 4.932,00 euro per la violazione dell’articolo 18, comma 1, lettere r), con riferimento agli infortuni superiori ai tre giorni […];

  1. h) con la sanzione amministrativa pecuniaria da 548,00 a 1.972.80 euro per la violazione dell’articolo 18, comma 1, lettera r), con riferimento agli infortuni superiori ad un giorno […]”.

 

A quasi otto anni di distanza, il SINP non è ancora stato costituito, anche se operativamente già sono attivi una serie di canali intercomunicativi che esso doveva assicurare.

Ricordiamo che, ai sensi dell’articolo 8 del D.Lgs. 81/08, il SINP doveva essere istituito “al fine di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l’efficacia della attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali […] e per indirizzare le attività di vigilanza, attraverso l’utilizzo integrato delle informazioni disponibili negli attuali sistemi informativi, anche tramite l’integrazione di specifici archivi e la creazione di banche dati unificate”.

 

A conclusione di questo rapido excursus, e di specifica importanza al prosieguo del ragionamento, va ricordato che il D.Lgs. 626/94 stabiliva esplicitamente all’articolo 19 (Attribuzioni del rappresentante per la sicurezza), comma 5, il diritto del RLS alla consultazione del registro:

 

“Il rappresentante per la sicurezza ha accesso, per l’espletamento della sua funzione, al documento di cui all’articolo 4, commi 2 e 3, nonché al registro degli infortuni sul lavoro”.

E al comma 1, lettera e) del medesimo articolo, stabiliva che il RLS “riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente la valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti le sostanze e i preparati pericolosi, le macchine, gli impianti, l’organizzazione e gli ambienti di lavoro, gli infortuni e le malattie professionali”.

La legge di delega, Legge 3 agosto 2007, n. 123 (“Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia”), articolo 3, comma 1, lettera e), deciderà addirittura l’obbligo di consegna del registro infortuni al RLS:

“Al Decreto Legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modifiche:

  1. e) all’articolo 19, il comma 5 è sostituito dal seguente:

‘5. Il datore di lavoro è tenuto a consegnare al rappresentante per la sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 4, commi 2 e 3, nonché del registro degli infortuni sul lavoro di cui all’articolo 4, comma 5, lettera o)’”.

 

Con l’attuazione della delega da parte del D.Lgs. 81/08, abbiamo visto, l’istituto assume carattere transitorio, in attesa della costituzione del SINP. Eppure il legislatore del 2008/2009 si pone il problema del diritto di accesso al registro da parte del RLS, e lo risolve con l’articolo 18, comma 1, lettera o): “[…] consentire al medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera r) […]”, cioè ai dati relativi agli infortuni sul lavoro oggetto della trasmissione in via telematica all’INAIL.

Esso inoltre, nell’articolo 50 (Attribuzioni del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza), comma 1, lettera e), pone la medesima disposizione del D.Lgs. 626/94626/94: “[…] riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente […] agli infortuni”.

 

Entrando ora nel vivo della problematica, pare evidente la “prova muscolare” dell’attuale legislatore, anche nella formulazione secca dell’articolo 21, comma 4, del cosiddetto “Decreto semplificazione”.

Tuttavia, un approccio basato su ragionevolezza dovrà riconoscere che le derivazioni da tale norma potranno avere ricadute positive, ad esempio nella pratica degli Organi di vigilanza.

 

Ciò che invece pare non esser stato considerato (ed è precisamente il compito che si era posto il legislatore delegante del 2007) è che la consultazione del registro degli infortuni rappresenta parte essenziale della “cassetta degli attrezzi” del RLS. Rappresenta cioè uno strumento fondamentale di verifica sull’efficacia della politica aziendale di prevenzione.

Suonano perciò poco comprensibili, e paiono non proprio lungimiranti, certi giubili immediatamente successivi all’emanazione del provvedimento e relativi alla soppressione di “un adempimento da più parti ritenuto ormai inutile”.

Seguiti, nella logica del “niente prigionieri”, da considerazioni del tipo: poiché il D.P.R. 547/55, il D.Lgs. 626/94 e lo stesso D.Lgs. 81/08 fanno riferimento all’obbligo di “tenere” il registro degli infortuni, dovrà conseguire che il datore di lavoro sia sollevato dall’obbligo non solo, dopo il 23 dicembre 2015, di istituirlo ma anche di conservarlo, di mantenerlo in quanto “storico” degli eventi accaduti prima dell’abrogazione.

 

Fortunatamente, a fare un po’ di chiarezza è intervenuta la Circolare INAIL n. 92 del 23 dicembre 2015. INAIL che, non scordiamo, ai sensi dell’articolo 8, comma 3 del D.Lgs. 81/08, è il deputato gestore del SINP (e gestore in atto delle parti, di quello, già concretamente operative).

Detta Circolare afferma esplicitamente: “Resta inteso che gli infortuni avvenuti in data precedente a quella del 23 dicembre 2015 saranno consultabili nel registro infortuni abolito dalla norma in esame”.

L’INAIL ha poi tamponato il vuoto regolamentare, rendendo telematicamente disponibile un “cruscotto infortuni” “nel quale sarà possibile consultare gli infortuni occorsi a partire dal 23 dicembre 2015”. In tal senso l’INAIL ha predisposto un “Manuale utente” per l’accesso e la ricerca al/nel servizio informatico dell’Istituto.

L’obbligo di conservazione del registro infortuni vale per quattro anni a decorrere dall’ultima registrazione o, se non si sono verificati infortuni, dalla data di vidimazione (oppure di istituzione, in quelle Regioni che avevano già eliminato l’obbligo di vidimazione).

 

Ovviamente, con l’abrogazione del registro infortuni nulla cambia rispetto all’obbligo del datore di lavoro di denunciare all’INAIL gli infortuni occorsi ai dipendenti prestatori d’opera, come previsto dall’articolo 53 del D.P.R. 1124/65 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), modificato dal D.Lgs. 151/15 articolo 21 comma 1, lettera b).

Peraltro, come richiama il D.Lgs. 81/09 all’articolo 18, comma 1, lettera r) seconda parte: “l’obbligo di comunicazione degli infortuni sul lavoro che comportino un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni si considera comunque assolto per mezzo della denuncia di cui all’articolo 53 del Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124;”

 

Tale articolo, come modificato dal D.Lgs. 151/15, dispone che

“Il datore di lavoro è tenuto a denunciare all’Istituto assicuratore gli infortuni da cui siano colpiti i dipendenti prestatori d’opera, e che siano prognosticati non guaribili entro tre giorni […].

La denuncia dell’infortunio deve essere fatta entro due giorni da quello in cui il datore di lavoro ne ha avuto notizia e deve essere corredata dei riferimenti al certificato medico già trasmesso all’Istituto assicuratore per via telematica direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria competente al rilascio”.

 

Il “cruscotto infortuni” INAIL sarà accessibile solamente da:

  • ispettori delle ASL;
  • ispettori dell’INAIL;
  • ispettorato nazionale del lavoro c/o le DTL (Direzioni Territoriali del Lavoro).

Ciò potrà certo concorrere, come accennato, al miglioramento dell’attività ispettiva e consulenziale, significativamente depauperata nel corso degli anni.

 

Ciò che qui si rileva è che anche in questo caso il RLS viene privato di uno strumento necessario alla verifica e proposizione che la legge espressamente gli assegna: “riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente […] agli infortuni […]”, “promuove l’elaborazione, l’individuazione e l’attuazione delle misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori” (articolo 50, comma 1, lettere e) e h) del D.Lgs. 81/08).

Sotto questa luce, la norma in esame si pone senza dubbio in conflitto con le previsioni del D.Lgs. 81/08. Segnatamente, con quelle appena indicate dell’articolo 50 e insieme con l’obbligo di consentire al RLS l’accesso ai dati infortunistici, stabilito dall’articolo 18, comma 1, lettera o) seconda parte (vedi sopra).

 

E’ evidente la necessità di un intervento riequilibratore.

In tal senso, una proposta molto interessante viene da Gino Rubini di “Diario per la prevenzione”.

Scrive Rubini:

“L’atto del Governo sarebbe stato positivo e utile se, in consonanza con l’abrogazione del Registro cartaceo avesse incaricato INAIL di predisporre una piattaforma più evoluta rispetto all’improvvisato ‘cruscotto’, con programmi di software gestionali adatti a monitorare il fenomeno e a elaborare ‘profili aziendali di rischio’, usando i dati provenienti dalle notifiche.

La ‘semplificazione’ sarebbe stata per davvero un passo avanti nella modernizzazione della gestione dei dati per porre sotto governo il fenomeno infortunistico.

Si può ancora rimediare?

Si, se verrà affidato ad INAIL il compito di predisporre un sistema esperto con il quale i dati delle notifiche vengono elaborati e restituiti in automatico alle aziende, che debbono renderli disponibili anche ai RLS. In questo senso avremmo una vera innovazione che semplifica il lavoro delle aziende senza deprivare della conoscenza dei dati i RLS e i lavoratori interessati”.

 

Sarebbe comunque necessario, e urgente, almeno un chiarimento ministeriale.

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.243 DEL 12/02/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.242 DEL 25/01/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.242 DEL 25/01/16

 

INDICE

  • L’esercito europeo di riserva
  • Come tutelare gli operai ILVA?
  • La gestione della sicurezza per i lavoratori che svolgono più mansioni
  • L’abrogazione del registro infortuni: una semplificazione fatta senza testa
  • Identificazione dei lavori ripetitivi e valutazione rapida del rischio
  • La responsabilità per il mancato controllo di un macchinario
  • Le aziende devono rifare la valutazione del rischio chimico?

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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L’ESERCITO EUROPEO DI RISERVA

 

Da Asimmetrie

http://www.asimmetrie.org

Agenor

 

Riporto a seguire un interessante articolo sulle tematiche del lavoro e dello stato sociale (e non solo).

A una prima lettura l’articolo può sembrare estraneo alle tematiche trattate di solito nella mia newsletter, ma a ben guardare esso permette di capire le dinamiche che stanno alla base dell’attuale sistema di sfruttamento della forza lavoro e di conseguenza alla base della voluta mancata tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, che fa parte anch’esso del “disegno strategico di fondo” di cui parla l’articolo.

Marco Spezia

 

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Le grandi strategie sono sempre composte da una sequenza di piccole iniziative e il quadro finale diventa visibile solo quando tutti i singoli pezzi del puzzle sono stati inseriti al posto giusto. La divisione in singole iniziative permette di focalizzare le discussioni su aspetti minori, senza sottoporre la grande strategia al vaglio dell’opinione pubblica o del dibattito parlamentare. Le grandi strategie sovranazionali, poi, hanno anche il vantaggio di limitare il dibattito oltre che alle singole misure anche a specifiche questioni locali, interne ai singoli paesi. Il disegno strategico di fondo non può essere contestato perché non è reso esplicito, non è sottoposto a dibattito e supera i confini delle competenze nazionali. Esso rimane quindi perfettamente al riparo dal processo democratico.

 

Uno di questi grandi disegni strategici che si sta realizzando in questi anni è la trasformazione dello stato sociale e del mercato del lavoro in Europa. Il cambio di paradigma fu dichiarato vent’anni fa dall’OCSE: passare dall’attivismo dello stato in economia per promuovere la piena “occupazione” alle politiche liberiste e mercantiliste per promuovere la piena “occupabilità”.

Destra e sinistra in tutti i paesi si sono egualmente spese senza grandi distinzioni, in Italia come in Europa, per applicare il nuovo paradigma. Come tutte le grandi strategie, anche questa è composta da una sequenza di misure specifiche e ha un preciso modello di riferimento.

 

Il primo punto è il contenimento dei salari. E’ fondamentale che livello dei salari sia basso per mantenere competitivo il sistema produttivo. L’esigenza di essere più competitivi e di tirare un po’ tutti la cinghia in tempi di crisi sono le giustificazioni tipiche per far accettare questo contenimento. Come ben sappiamo questa esigenza diventa più pressante quando non si dispone del meccanismo del tasso di cambio. In altre parole, col cambio fisso il salario deve diventare flessibile. Nella zona euro abbiamo deciso di sostituire il tasso di cambio come meccanismo di aggiustamento degli squilibri esterni con il licenziamento e l’abbassamento dei salari. La riduzione dei salari nel settore pubblico si può fare per decreto (per ridurre il salario in termini reali, basta anche congelarlo in termini nominali, come spesso avviene), nel settore privato si ricorre alla decentralizzazione della contrattazione collettiva a livello di singola azienda. In quel modo il potere negoziale del singolo lavoratore è drasticamente ridotto. L’abbassamento dei salari, in generale, è facilitato dalla maggiore possibilità di licenziamento e dalla maggiore concorrenza per ottenere un posto di lavoro.

 

Subito dopo viene la ben nota questione della flessibilità, ovviamente flessibilità in uscita, come si chiama in linguaggio tecnico la possibilità di licenziare più facilmente. Si tratta di ridurre tutto il sistema di protezioni giuridiche che rendono difficile licenziare un lavoratore. Come si fa a rendere questo accettabile? Prima si colpisce una categoria, e dopo si scatena la classica guerra fra poveri: settore pubblico contro privato, giovani contro anziani, donne contro uomini, nord contro sud o est contro ovest, a seconda del paese. La giustificazione che accompagna questa misura è tipicamente quella di un’istanza di giustizia, modernità, e maggiore efficienza in tempi di crisi.

 

In Italia ce ne è voluto, ma alla fine dopo tanti tentativi l’Articolo 18 è stato abbattuto. Il Jobs Act ha sostanzialmente (anche se non formalmente) fatto sparire il concetto di contratto a tempo indeterminato, in quanto questo tipo di contratto ha perso tutte le tutele che lo rendevano effettivamente tale. Avendo così drasticamente penalizzato una parte dei lavoratori, nel settore privato, è stato poi facile convincerli che la colpa è di quegli altri, quelli del pubblico che sono più tutelati. Quindi anche loro adesso chiedono a gran voce di eliminare i “privilegi” del settore pubblico. Così pian piano si realizza la flessibilità in uscita per tutti. A titolo di esempio, nel paese modello per le recenti riforme del lavoro, la Spagna, ormai il 28% dei nuovi contratti ha una durata inferiore a 7 giorni: assunzione il lunedì mattina, licenziamento il venerdì sera, e poi si ricomincia il lunedì successivo.

 

Il terzo cardine è la mobilità della forza lavoro. Una volta licenziati, i disoccupati-potenziali-lavoratori sono comunque una risorsa utilizzabile altrove, quindi è utile facilitarne lo spostamento verso le zone in cui ce n’è più bisogno. Perché questo avvenga è necessario che ci sia un perfetto coordinamento dei servizi pubblici per l’impiego, non a caso una delle priorità stabilite in quasi tutti i paesi. I servizi pubblici per l’impiego, da centri di raccordo della domanda e dell’offerta a livello locale, devono diventare nodi di un’unica grande rete trans-europea che permetta il ricollocamento rapido di manodopera inutilizzata in un paese verso quello in cui ce n’è maggiormente bisogno. Anche qui la giustificazione è semplice: maggiore integrazione europea e maggiori opportunità di lavoro per chi non ce l’ha più.

 

Il quarto punto, anch’esso cruciale, è il mantenimento o la formazione di competenze adeguate a rendere “occupabile” il disoccupato-potenziale-lavoratore. Nessuno vuole un lavoratore che dopo anni d’inattività non è più capace di utilizzare i nuovi macchinari o sistemi informatici, perché rimasto tecnologicamente indietro. Bisogna quindi formarlo, ovviamente non finanziandogli una continuazione degli studi, che potrebbe permettergli un salto qualitativo sul mercato del lavoro, ma cercando invece di mantenerne aggiornate le competenze tecniche e professionali tali da renderlo utilizzabile immediatamente: saper usare l’ultimo macchinario o la tecnologia più recente introdotta in azienda. Ovviamente, questo tipo di misura si può ben presentare come sostegno ai disoccupati per facilitare l’apprendimento di competenze utili nel mercato del lavoro. In questo modo ci si assicura che tutta la popolazione in età lavorativa sia costantemente formata, addestrata anche nei periodi in cui è disoccupata, e sempre disponibile per le esigenze della produzione.

 

Questa costruzione però non sta in piedi se le persone rimangono disoccupate per lunghi periodi, o se i contratti sono talmente brevi e i periodi di lavoro troppo scarsi per garantire un minimo livello di sussistenza. Ecco che quindi entra in gioco il pezzo fondamentale del puzzle: il reddito minimo. Esso deve essere veramente “minimo”, nel senso di non creare un disincentivo ad accettare qualunque offerta di lavoro, anche la meno appetibile. Esso deve poi essere “condizionato”, cioè immediatamente revocabile nel caso di rifiuto dell’offerta ricevuta o di mancata frequentazione del corso di aggiornamento. E poi il disoccupato deve ovviamente sempre essere reperibile dal centro per l’impiego, pena il decadimento dal reddito minimo.

 

Non c’è bisogno di grandi acrobazie per “vendere” il reddito minimo come una grande conquista sociale. Ciò che veramente lo caratterizza come strumento di un quadro ben più reazionario, invece, è l’insieme di condizionalità a esso legate. Sarebbe tutt’altra cosa remunerare il lavoro nella giusta misura, in linea con la sua produttività, e garantire anche un salario minimo dignitoso a tutti. Come sarebbe tutt’altra cosa istituire un sistema pubblico di “impiego di ultima istanza”. Ma tutto questo ridarebbe al lavoratore un’autonomia, una dignità e una forza contrattuale che lo renderebbe molto meno ricattabile. La differenza fra salario minimo e reddito minimo sembra poco più di una questione semantica, e invece è la differenza fra dignità e dipendenza, fra libertà e schiavitù.

 

Il suggello su questo nuovo modello di stato sociale è poi la sempiterna riforma delle pensioni, che ritorna a intervalli regolari. Il motivo di questa sua ricorrenza è la volontà di passare progressivamente a una privatizzazione del sistema pensionistico, riducendo sempre più quelle pubbliche finché il cittadino non ha più scelta. Nel nuovo modello di stato sociale il costo di supportare il lavoratore vale la pena finché questi è in età lavorativa e può essere utile, dopodiché diventa solo un peso. Per questo motivo si preferisce tagliare sulle pensioni per spendere un po’ di più in formazione professionale e nella sussistenza del disoccupato. Chi può permetterselo, accumulerà in età lavorativa una ricchezza finanziaria che gli possa permettere di mantenersi anche dopo; chi non ce la fa, una volta smesso di lavorare emigrerà dove la vita costa meno o finirà in povertà. Così si riducono i costi per il settore pubblico, cosa ormai richiesta anche da chi avrebbe interesse a non farlo.

 

Queste sono le singole iniziative, che prese singolarmente sono anche accettabili e giustificabili agli occhi dell’opinione pubblica, come progressi verso una società più giusta ed efficiente. Mettendole tutte insieme e facendo attenzione ai dettagli con cui queste misure vengono poi applicate, però, si può vedere come esse concorrano a formare un quadro diverso. Tutta la popolazione in età lavorativa deve essere sempre a disposizione del sistema produttivo, utilizzabile e scartabile secondo il bisogno, formata in quelle competenze direttamente richieste dalla produzione e mantenuta al livello di sussistenza nei periodi in cui non è occupata, ma ricattabile e sottoposta alla concorrenza per il posto di lavoro, cioè con scarso potere contrattuale nel momento in cui viene assunta. Il modello di riferimento è quello tedesco, completato un decennio fa dalle riforme Hartz, dal nome dell’ex-manager Volkswagen, Peter Hartz, consigliere del governo Schröder.

 

Non si può capire quello che sta succedendo in Europa senza conoscere le riforme Hartz e in particolare il pacchetto Hartz IV. E non si possono capire le riforme Hartz senza conoscere i cardini del pensiero ordoliberistatedesco. Esso si differenzia dal cosiddetto neo-liberismo di matrice anglosassone, e ne diventa una versione molto più estrema, in quanto considera come compito esplicito dello stato quello di assicurare il quadro politico necessario per il libero dominio del capitale sul lavoro. In pratica l’ordoliberismo è un liberismo truccato, in cui la tensione fra i due fattori di produzione è ancora più squilibrata perché lo stato interviene esplicitamente per risolverla in favore del capitale a scapito del lavoro.

 

La cosiddetta economia sociale di mercato di matrice tedesca è il modello economico che stiamo applicando in Europa, prevalentemente nella zona euro, dove il margine di manovra dei governi nazionali è molto più limitato. Il quadro strategico complessivo che sta venendo fuori è la trasposizione del modello sociale tedesco nel resto d’Europa, cioè la scientifica costruzione di un esercito industriale di riserva su scala europea.

 

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COME TUTELARE GLI OPERAI ILVA?

 

Da Peacelink

http://www.peacelink.it/index.html

20 gennaio 2016

Fulvia Gravame

 

Appunti sugli strumenti utilizzabili per tutelare gli operai e gli abitanti di Taranto.

Come tutelare gli operai ILVA?

Dopo aver perso tre anni e mezzo facendo finta di salvare la nave (l’ILVA), direi che è il caso di cominciare a predisporre il piano di salvataggio dei marinai e non della nave.

 

Sono passati tre anni e mezzo da quel 26 luglio 2012 che portò al sequestro dell’impianti dell’area a caldo dell’ILVA e del protocollo d’intesa per le bonifiche, in realtà per una serie di interventi in parte già previsti per Taranto, quali i lavori del porto.

Il clima in città è segnato dalla paura degli operai, degli abitanti e dal nervosismo dei politici.

 

I ritardi nel piano governativo di “ambientalizzazione”, i rinvii delle scadenze previste dal Riesame 2012, la grave situazione debitoria dell’ILVA che produce dai cinquanta ai sessanta milioni di euro di debiti al mese, il rinnovo della “solidarietà” a più di 3.000 operai a rotazione, i tanti morti per incidenti nello stabilimento, l’avvio di due procedure europee contro l’Italia sono alla base di questa paura e di questo nervosismo. Sempre di più gli operai si convincono che le scelte del 2012 non stanno portando i frutti promessi e cioè non stanno dando garanzia di salvare l’ILVA e il loro posto di lavoro; le prospettive per il futuro diventano sempre più nere, senza che le istituzioni abbiano finora dato prova di essere in grado di costruire un’alternativa valida per 11.000 dipendenti e sostenibile per una città di 200.000 circa abitanti.

 

Bisognerebbe spiegare a tutti che, giustamente hanno paura di perdere lo stipendio, che l’Unione Europea non vieta di aiutare i lavoratori, ma solo di aiutare le imprese. Di questo abbiamo parlato nella conferenza stampa di Peacelink con Antonia Battaglia e Alessandro Marescotti che si è tenuta il 18 gennaio scorso.

E’ molto grave che gli operai siano tenuti nell’ignoranza di quello che si potrebbe fare per loro con diverse tipologie di finanziamenti e che non viene programmato dalle istituzioni.

 

La Commissione europea apprezzerebbe interventi a favore degli operai e potrebbe autorizzare anche la “no tax area” o altri interventi straordinari come le bonifiche, se adeguatamente motivati in base all’articolo 107 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) che vieta gli aiuti alle imprese, ma non ai lavoratori e alle zone economicamente più fragili.

Infatti l’articolo 107 del TFUE recita: “Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.

 

Sono sicura che non sarebbe una passeggiata preparare l’apposito dossier, sia per la complessità dell’intervento da realizzare a Taranto, sia perché le risorse europee interessano anche ad altri Paesi Membri della Unione, ma (dopo aver perso tre anni e mezzo) penso che sia proprio arrivato il momento di avviare tutto quello che può servire a salvare i marinai e non la nave. La battuta è di Cataldo Ranieri del Comitato lavoratori e cittadini liberi e pensanti.

 

La domanda potrebbe essere perché non lo si è fatto finora, ma io preferisco chiedere a chi di dovere di farlo e subito, considerato che l’ILVA sembra non avere le risorse per continuare a produrre e/o per attuare le prescrizioni AIA.

 

Tra l’altro lo strumento più conosciuto e comprensibile perché già utilizzato più volte nelle crisi industriali di grandi gruppi (Natuzzi ad esempio), è di competenza della Regione che ha a disposizione il Fondo sociale europeo ed in particolare i fondi per la formazione continua, quelli per i dipendenti delle imprese private.

 

La formazione continua (in inglese “continuing vocational training”) è volta a migliorare il livello di qualificazione e di sviluppo professionale delle persone che lavorano, assicurando alle imprese e agli operatori economici sia pubblici che privati, capacità competitiva e dunque adattabilità ai cambiamenti tecnologici e organizzativi.

 

Le disposizioni legislative che predispongono interventi nazionali per la formazione continua sono l’articolo 9 della Legge 236/93 e l’articolo 6 della Legge 53/00. Tali norme prevedono la ripartizione annuale delle risorse erariali a favore delle Regioni che, a loro volta, emanano avvisi pubblici destinati a imprese e lavoratori per il finanziamento di piani formativi aziendali, settoriali e individuali e voucher formativi (aziendali e individuali).

Inoltre, per la formazione dei propri dipendenti, le imprese possono scegliere di aderire a uno dei Fondi paritetici interprofessionali nazionali per la formazione continua, organismi di natura associativa costituiti attraverso accordi interconfederali, stipulati tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale.

 

L’offerta formativa si realizza attraverso la proposta a catalogo di percorsi interaziendali di aggiornamento del personale occupato; corsi interaziendali di alfabetizzazione, qualificazione, riqualificazione e specializzazione, volti all’acquisizione o allo sviluppo di nuove competenze professionali richieste in ambito lavorativo o per l’arricchimento del proprio patrimonio culturale; percorsi aziendali di riqualificazione e aggiornamento del personale occupato.

I corsi sono destinati a diverse categorie di persone, tra le quali:

  • soggetti occupati;
  • soggetti in CIG e mobilità, inoccupati, inattivi e disoccupati per i quali la formazione è propedeutica all’occupazione;
  • lavoratori con contratti di apprendistato e a progetto.

Sono argomenti proposti ripetutamente dal 2012 in poi ed inseriti nel programma amministrative 2012 di “Tarantorespira” che aveva Angelo Bonelli come candidato sindaco e di cui sono coportavoce Vittoria Orlando Giovanni Carbotti.

Analizzai questo problema nel maggio 2012, anche in un seminario di Peacelink in cui presentai i fondi strutturali utilizzabili.

 

Da allora però si contano sulle punta delle dite le interviste dei responsabili delle politiche del lavoro a livello di Governo e Regione. Sono stati al contrario molto frequenti le dichiarazioni del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), mentre (a mio modesto avviso) sarebbe stato opportuno avviare delle analisi su come tutelare i dipendenti diretti dell’ILVA, attraverso forme di prepensionamento e percorsi di riqualificazione. I responsabili delle politiche del lavoro a livello regionale e nazionale hanno taciuto finora!

Prepensionamenti, CIG, solidarietà, CCNL ecc, strumenti delle politiche del lavoro, sono di competenza del Ministero del lavoro e dell’apposito Assessorato regionale. Inutile protestare con il sindaco di Taranto com’è stato fatto negli ultimi anni. Si deve andare a Bari o a Roma. La prima indicazione che i sindacati dovrebbero dare agli operai è qual è l’interlocutore giusto con il quale prendersela. Gli strumenti della lotta sindacale quali scioperi, blocchi del ponte e delle statali e presidi non si devono utilizzare ancora una volta ai danni di chi vive in città.

 

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LA GESTIONE DELLA SICUREZZA PER I LAVORATORI CHE SVOLGONO PIU’ MANSIONI

 

Da Articolo 19

Citta Metropolitana

http://www.cittametropolitana.bo.it

Leopoldo Magelli

 

Come affrontare il problema della valutazione del rischio e della formazione per i lavoratori che svolgono più mansioni?

 

Questo problema ci è stato posto diverse volte da vari RLS, in quanto la situazione in questione è tutt’altro che rara e le soluzioni attivate dalle aziende sono tra loro dissimili. Abbiamo sempre rinviato la risposta a questi quesiti e forse, casualmente, abbiamo fatto bene perché pochi mesi fa, nel giugno del 2015 è stato sottoposto alla Commissione per gli Interpelli proprio questo stesso problema che è di frequentissimo riscontro nel mondo del lavoro, cioè come vanno valutati i rischi e impostata la formazione per quei lavoratori che vedono ricomprese nella loro figura e attività professionale diverse mansioni.

Il problema è stato posto dall’ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili) e la risposta della Commissione per gli Interpelli (n. 4/2015) è datata 24 giugno 2015.

Il problema posto era letteralmente il seguente:

“conoscere il parere…in merito alla formazione prevista dall’articolo 37 del D.Lgs. 81/08, nonché alla valutazione dei rischi specifici delle mansioni, nel caso in cui un lavoratore in possesso di formazione per lo svolgimento di una determinata attività venga adibito allo svolgimento di particolari mansioni, che tradizionalmente, e anche in base alla classificazione ISTAT-ISFOL, costituiscono compiti o attività specifiche ricompresi nell’attività principale per la quale è stata erogata la formazione stessa”.

 

Il quesito, come si può vedere, è un po’ criptico, tant’è vero che l’ANCE propone un esempio per meglio chiarire il senso della domanda :

“A titolo esemplificativo, è questo il caso in cui un lavoratore dei settori delle costruzioni stradali venga adibito alla rifinitura del manto stradale, o alla gestione del traffico veicolare durante le operazioni di rifacimento di una corsia stradale, pur non essendo in possesso di una formazione specifica ad hoc per tali singoli compiti, bensì avendo ricevuto una formazione specifica per asfaltista, figura professionale le cui mansioni comprendono, nella classificazione ISTAT-ISFOL, anche quella suddetta di rifinitura del manto o le operazioni connesse alla realizzazione di opere stradali in senso lato”.

 

Se avessimo risposto come Servizio Informativo per Rappresentanti della Sicurezza, avremmo liquidato così il problema: indipendentemente dagli aspetti formali o classificativi, la valutazione deve riguardare tutti i rischi cui il lavoratore è esposto nella sua attività, e la formazione modellarsi di conseguenza sui rischi valutati.

Quindi, nel caso specifico, se il lavoratore in questione rifinisce il manto stradale e gestisce il traffico veicolare, i rischi connessi a queste due fasi di lavoro (io le chiamerei così, non certo “mansioni”) devono essere puntualmente valutati e devono avere il dovuto spazio nei percorsi formativi (in particolare la gestione del traffico, che espone a rischio non solo il lavoratore addetto, ma anche i suoi colleghi e gli utenti della strada).

 

Vediamo allora come ha risposto la Commissione per gli Interpelli.

Constatiamo con piacere che la sua risposta è perfettamente coerente con la nostra ipotesi. Infatti la Commissione, nella premessa alla sua risposta, precisa che:

“la valutazione redatta dal datore di lavoro deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori… Nel documento redatto a conclusione della valutazione devono essere individuate le mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e addestramento… La formazione non può mai essere sostitutiva dell’addestramento… I contenuti e la durata della formazione in base all’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 costituiscono un percorso minimo e, tuttavia, sufficiente rispetto al dato normativo, salvo che esso non debba essere integrato tenendo conto di quanto emerso dalla valutazione dei rischi o nei casi previsti dalla legge (si pensi all’introduzione di nuove procedure di lavoro o nuove attrezzature)”.

 

Come si può notare, se pur con parole in parte diverse, la Commissione esprime una valutazione del tutto sovrapponibile alla nostra (cosa del resto inevitabile, visto che si deve garantire piena coerenza nell’applicazione della normativa).

La Commissione poi conclude fornendo una serie di indicazioni puntuali:

  • il DVR (Documento di Valutazione dei Rischi) deve contenere la puntuale individuazione di tutti i rischi concretamente connessi al lavoro da svolgere e non può riferirsi astrattamente alla mansione attribuita al lavoratore;
  • l’adeguatezza della formazione per ciascun lavoratore è correlata alla valutazione dei rischi e deve essere periodicamente ripetuta in relazione all’evoluzione o all’insorgenza di nuovi rischi;
  • fatto salvo l’obbligo di frequenza a corsi specifici o aggiuntivi (ove previsto da norme specifiche), se un lavoratore in possesso di formazione per lo svolgimento di una determinata attività venga adibito allo svolgimento di singole particolari mansioni, ricomprese nell’attività principale per la quale è stata erogata la formazione, la stessa può essere riconosciuta valida solo se all’interno del percorso formativo i rischi specifici, relativi a quelle particolari mansioni (ad esempio nel caso citato la gestione del traffico veicolare), sono stati adeguatamente trattati;
  • infine, se i compiti affidati a un lavoratore lo espongono a rischi diversi e ulteriori rispetto a quelli già oggetto di valutazione e formazione, si rendono necessarie, sia una nuova valutazione, che una corretta formazione integrativa.

 

Come si può vedere, le indicazioni fornite dalla Commissione sono molto chiare ed esplicite e non lasciano campo alcuno a riduttive interpretazioni di comodo.

 

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L’ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI: UNA SEMPLIFICAZIONE FATTA SENZA TESTA

 

Da Diario Prevenzione

http://www.diario-prevenzione.it

20 gennaio 2016

Gino Rubini

 

LA SEMPLIFICAZIONE RICHIEDE INTELLIGENZA. L’ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI, UNA SEMPLIFICAZIONE FATTA SENZA TESTA

 

Dal 23 dicembre 2015 il Registro degli infortuni è stato abrogato con il D.Lgs. 151/15. Esultano una parte dei consulenti poco avveduti e una parte della piccola imprenditoria più pasticciona.

 

L’abrogazione è avvenuta in assenza del SINP (Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione) che non è stato istituito. La scelta dell’abrogazione in assenza del SINP, avvenuta in forma affrettata per esigenze propagandistiche del governo, avrebbe messo in difficoltà gli Enti di vigilanza, in particolare INAIL e ASL.

INAIL si è perciò affrettata a mettere una pecetta a questa dissennata scelta del legislatore con l’istituzione del “cruscotto telematico” che non è stato progettato per agevolare la valutazione e gestione dei rischi a livello aziendale. Il cosidetto cruscotto INAIL è un database che raccoglie le notifiche degli infortuni per via telematica e registra gli eventi ai fini assicurativi, non serve a sviluppare le conoscenze utili per la prevenzione.

Con questo provvedimento la tracciabilità aziendale degli eventi, la verifica tramite i RLS sulla descrizione e la registrazione delle modalità dell’accadimento non sono più disponibili per la consultazione ai RLS.

 

Le aziende più serie, non quelle a gestione dilettantesca, continueranno a “tracciare” gli infortuni, le modalità e le cause di accadimento e a trarre da questi dati le indicazioni per migliorare la propria gestione della sicurezza.

Le aziende più serie hanno protocolli e metodologie di rilevazione e memorizzazione dei dati relativi anche ai “near miss”, ai mancati incidenti e su questa base programmano le correzioni e i miglioramenti della organizzazione del lavoro e degli strumenti e ambienti di lavoro.

Le aziende che adottano volontariamente, di propria scelta, queste pratiche positive sono grandi, ma sono, purtroppo, una minoranza dell’universo delle aziende italiane. Per la maggioranza delle piccole imprese il messaggio che viene dall’abrogazione è il seguente: “finalmente ci siamo liberati da questo adempimento burocratico, del problema degli infortuni ce ne occuperemo se ce ne saranno…”.

 

L’atto del Governo sarebbe stato positivo e utile se, in consonanza con l’abrogazione del Registro cartaceo avesse incaricato INAIL di predisporre una piattaforma più evoluta rispetto all’improvvisato “cruscotto”, con programmi di software gestionali adatti a monitorare il fenomeno e a elaborare “profili aziendali di rischio”, usando i dati provenienti dalle notifiche.

La “semplificazione” sarebbe stata per davvero un passo avanti nella modernizzazione della gestione dei dati per porre sotto governo il fenomeno infortunistico.

La fregola propagandistica, l’amabile indifferenza di questo Governo verso la condizione di chi vive del proprio lavoro ha portato invece, anche in questo caso, ad una scelta che fa arretrare i diritti dei lavoratori ad essere tutelati.

 

Si può ancora rimediare?

Si, se verrà affidato ad INAIL il compito di predisporre un sistema esperto con il quale i dati delle notifiche vengono elaborati e restituiti, in automatico alle aziende, che debbono renderli disponibili anche ai RLS. In questo senso avremmo una vera innovazione che semplifica il lavoro delle aziende senza deprivare della conoscenza dei dati i RLS e i lavoratori interessati.

 

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IDENTIFICAZIONE DEI LAVORI RIPETITIVI E VALUTAZIONE RAPIDA DEL RISCHIO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

15 gennaio 2016

Tiziano Menduto

 

Un Decreto regionale riporta le linee guida per la prevenzione delle patologie muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori.

Focus su identificazione dei lavori ripetitivi e “quick assessment” (valutazione rapida del rischio).

 

Presentiamo un Decreto della Regione Lombardia, il Decreto n. 7661 del 23 settembre 2015 che non solo riporta specifiche linee guida regionali per la prevenzione delle patologie muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori, ma definisce anche un percorso per la prevenzione e l’emersione di queste patologie.

 

Il Decreto riporta in un apposita tabella il percorso operativo delineato dalle linee guida, un percorso che prevede un approccio di preliminare valutazione dell’eventuale rischio articolato in tre passaggi:

  • identificazione dei compiti ripetitivi secondo criteri univoci;
  • valutazione rapida del rischio;
  • stima analitica del rischio.

Le linee guida indicano che il primo passaggio rappresenta lo snodo (la chiave di decisione) per definire la necessità o meno di procedere ai passaggi successivi, di fatto di valutazione vera e propria.

Mentre il complesso dei tre passaggi si configura come procedura di valutazione del rischio connesso a movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori nel contesto della più generale valutazione dei rischi lavorativi prevista dal D.Lgs. 81/08.

E i primi due passaggi vengono definiti dal documento regionale in coerenza con il Technical Report (TR) ISO 12295 “Ergonomics – Application document for International Standards on manual handling (ISO 11228-1, ISO 11228-2 and ISO 11228-3) and evaluation of static working postures (ISO 11226)”.

Uno dei punti su cui si soffermano le linee guida riguarda l’identificazione dei compiti ripetitivi attraverso la chiave di ingresso (“key-enter”) del TR ISO 12295.

Infatti l’uso di apposite “key-enters” è finalizzato a verificare l’esistenza di un pericolo (problema) lavorativo (nella fattispecie da sovraccarico biomeccanico per gli arti superiori) e l’eventuale necessità di una ulteriore analisi e valutazione.

Di fatto, attraverso le “key-enters”, si definisce il campo di applicazione delle quattro parti delle norme ISO specificamente trattate.

 

Se nella tabella 5.1 del documento è riportato l’elenco delle “key-enters” del TR ISO 12295, riprendiamo la key-enter per i lavori manuali ripetitivi, in applicazione della norma ISO 1128-3: vi sono uno o più compiti ripetitivi degli arti superiori con durata totale di 1 ora o più nel turno?

 

Ricordiamo che la definizione di compito ripetitivo è: “compito caratterizzato da cicli lavorativi ripetuti”, oppure “compito durante il quale si ripetono le stesse azioni lavorative per oltre il 50% del tempo”.

E tale formulazione sta a significare che laddove siano presenti uno o più compiti ripetitivi la cui durata complessiva nel turno superi 1 ora, è necessario procedere ad una specifica valutazione del rischio.

Si segnala che accertare la presenza di un lavoro ripetitivo serve unicamente a stabilire che lo stesso debba essere oggetto di valutazione, il cui esito può confermare/negare l’esistenza di un rischio e se, invece, il lavoro ripetitivo non è presente non è richiesta alcuna attività di valutazione. Ed è evidente che la stessa logica si applica agli altri aspetti trattati dal TR ISO 12295 (sollevamento e trasporto di carichi; traino e spinta; posture statiche di lavoro).

Veniamo alla valutazione rapida (il “quick assessment”).

Questa tipologia di valutazione consiste in una verifica rapida della presenza di potenziali condizioni di rischio per apparato muscolo-scheletrico degli arti superiori, attraverso semplici domande di tipo quali/quantitativo.

In pratica il “quick assessment” è indirizzato a identificare, in modo semplificato, tre possibili condizioni o esiti (outputs):

  • accettabile (verde): non sono richieste ulteriori azioni;
  • necessità di una analisi più dettagliata (giallo): è necessario procedere ad una stima o valutazione precisa attraverso strumenti più dettagliati di analisi (suggeriti nella fattispecie dagli standard della serie);
  • critica (rosso): è urgente procedere ad una riprogettazione del posto o del processo.

 

Nel caso si verifichi l’esistenza di condizioni rispettivamente di accettabilità e di criticità non è sempre necessario procedere a una stima più circostanziata del livello di esposizione (terzo livello), specie nel caso di condizioni critiche. Ogni sforzo andrà meglio indirizzato alla riduzione del rischio chiaramente emerso, piuttosto che a inutili, e, a volte, assai complessi approfondimenti della valutazione. Qualora, invece, come accade in gran parte dei casi, nessuna di queste due condizioni “estreme” emerga chiaramente, è necessario procedere alla valutazione, semplificata o anche dettagliata, del rischio con i tradizionali metodi di valutazione.

Con riferimento alle indicazioni del TR ISO 12295, dei compiti ripetitivi e della norma ISO 11228-3, è riportata una tabella con l’elenco delle condizioni che devono essere tutte contemporaneamente presenti per valutare come accettabile (verde) un compito manuale ripetitivo.

Si ricorda, a questo proposito, che il riferimento ad una valutazione rapida di accettabilità è desunto dal testo della norma ISO 11228-3 e dalla norma EN 1005-5. E laddove un compito ripetitivo venisse valutato come accettabile tramite la procedura di “quick assessment”, ciò equivarrebbe ad averlo valutato come accettabile attraverso i metodi di dettaglio indicati dagli standard di riferimento.

 

Riportiamo brevemente l’elenco delle condizioni per cui il compito esaminato è in area verde (accettabile) e non è necessario continuare la valutazione del rischio:

  • entrambi gli arti superiori lavorano per meno del 50% del tempo totale di lavoro ripetitivo (uno o più compiti);
  • entrambi i gomiti sono mantenuti al di sotto del livello delle spalle per il 90% del tempo totale di lavoro ripetitivo (uno o più compiti);
  • una forza moderata è attivata dall’operatore per non più di 1 ora durante il tempo totale di lavoro ripetitivo (uno o più compiti);
  • i picchi di forza sono assenti;
  • vi è presenza di pause (inclusa la pausa pasto) che durano almeno 8 minuti almeno ogni 2 ore;
  • i compiti ripetitivi sono eseguiti per meno di 8 ore al giorno.

 

Una ulteriore tabella riporta invece l’elenco delle situazioni che, anche singolarmente, portano a identificare una condizione critica. E quando una condizione di lavoro manuale ripetitivo risulta critica, anche per una sola situazioni elencata nella tabella l’indicazione è di orientarsi decisamente per un rapido e sostanziale intervento di miglioramento (riduzione del rischio) senza necessariamente approfondire la valutazione analitica; questa, peraltro, potrà essere operata successivamente, a verifica della potenziale validità degli interventi attuati.

Concludiamo riportando qualche breve riferimento alla identificazione di lavori problematici ai fini della successiva valutazione del rischio.

In questa parte delle linee guida si segnala infatti che la procedura, tratta dal TR ISO 12295, delle chiavi di ingresso e della valutazione rapida, è raccomandata, in particolar modo nelle Piccole o Medie Imprese e nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura.

 

Tuttavia in alternativa, si può ricorrere alla tecnica dell’identificazione dei “lavori problematici”, che prevede di procedere alla stima e valutazione del rischio e dell’esposizione.

Con riferimento ad una ulteriore tabella sono definiti problematici quei lavori in cui si verificano le seguenti condizioni:

  • il lavoratore ha un’esposizione pressoché quotidiana ad uno o più dei segnalatori di possibile esposizione riportati nella tabella;
  • vi sono segnalazioni di casi, uno o più anche tenendo conto della numerosità dei lavoratori coinvolti, di franche patologie muscoloscheletriche o neurovascolari degli arti superiori correlate al lavoro.

Si ricorda che i segnalatori della tabella sono stati individuati perché consentono di discriminare i contesti di lavoro in cui può risultare, e non necessariamente vi è, una più significativa esposizione ai fattori di rischio per le patologie degli arti superiori. Laddove sia individuata, per un gruppo di lavoratori (posto, linea, reparto, ecc.), la presenza di uno o più segnalatori, sarà necessario procedere ad un’analisi dell’esposizione più articolata secondo i metodi e i criteri descritti nei paragrafi seguenti. In caso contrario (segnalatori negativi) non è necessario procedere a una dettagliata valutazione dell’esposizione. La valutazione dell’esposizione è comunque raccomandata quando i segnalatori di possibile rischio sono negativi e sono presenti segnalazioni da parte del medico competente delle patologie di cui alla tabella.

Riportiamo infine i segnalatori:

  • ripetitività: lavori con compiti ciclici che comportino l’esecuzione dello stesso movimento (o breve insieme di movimenti) degli arti superiori ogni pochi secondi oppure la ripetizione di un ciclo di movimenti per più di 2 volte al minuto per almeno 2 ore complessive nel turno lavorativo;
  • uso di forza: lavori con uso ripetuto (almeno 1 volta ogni 5 minuti) della forza delle mani per almeno 2 ore complessive nel turno lavorativo;
  • posture incongrue: lavori che comportino il raggiungimento o il mantenimento di posizioni estreme della spalla o del polso per periodi di 1 ora continuativa o di 2 ore complessive nel turno di lavoro;
  • impatti ripetuti: lavori che comportano l’uso della mano come un attrezzo (ad esempio usare la mano come un martello) per più di 10 volte all’ora per almeno 2 ore complessive sul turno di lavoro.

Il Decreto n. 7661 del 23 settembre 2015 della Regione Lombardia che fa riferimento alle “Linee Guida Regionali per la prevenzione delle patologie muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.welfare.regione.lombardia.it//shared/ccurl/466/612/Decreto%207661%20del%2023%20settembre%202015%20%20%28comprensivo%20di%20allegato%29%20-%20Linee%20Guida%20Prevenzione%20Patologie%20Muscolo%20Scheletriche%20conne.pdf

 

Il documento “Linee Guida Regionali per la prevenzione delle patologie muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.welfare.regione.lombardia.it/shared/ccurl/764/680/Linee%20guida%20prevenzione%20patologie%20muscolo%20scheletriche.zip

 

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LA RESPONSABILITA’ PER IL MANCATO CONTROLLO DI UN MACCHINARIO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

Gerardo Porreca

 

Le disposizioni della Direttiva Macchine, pur indicando le prescrizioni di sicurezza necessarie per ottenere certificato di conformità e marcatura CE, non escludono il dovere di garanzia di coloro che consentono l’utilizzo di un macchinario.

Si è espressa la Corte di Cassazione in questa Sentenza sull’obbligo da parte del datore di lavoro di assicurarsi della regolarità di un macchina messa a disposizione dei propri lavoratori dipendenti anche se la stessa è in possesso della documentazione attestante la sua conformità alle Direttive europee e della marcatura di conformità CE con le quali il costruttore ha assicurato la sua rispondenza ai Requisiti Essenziali di Sicurezza (RES) previsti sia dalle normative tecniche che dalle disposizioni di legge antinfortunistiche.

La Corte di Appello aveva parzialmente riformata la sentenza emessa dal Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale rideterminando la pena inflitta al rappresentante legale di un’impresa in mesi cinque e giorni dieci di reclusione a seguito della rilevata prescrizione dei reati ascritti ai due capi di imputazione, confermando invece nel resto la sentenza di primo grado. Il Gidice dell’Udienza Preliminare, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato il rappresentante legale, quale datore di lavoro, colpevole del reato di cui all’articolo 589 del Codice Penale per avere cagionato la morte di un lavoratore per negligenza, imprudenza e inosservanza di legge perché aveva impiegato il predetto lavoratore, operaio agricolo qualificato super, a operazioni che hanno comportato l’utilizzo di una macchina “pellettizzatrice” adibita all’accatastamento su bancali di legno di sacchi di pellets per riscaldamento.

La macchina era stata modificata con l’apertura di una via d’accesso agli organi in movimento, in origine protetti da una barriera, e tale apertura non era stata munita di un dispositivo che impedisse l’avvio della macchina in caso di accesso del lavoratore, il quale era stato così schiacciato dalla parte mobile superiore di una pressa mentre stava riposizionando un bancale mal collocato dal dispositivo automatico della macchina bloccatasi per tale evento e rimessasi in movimento a seguito dell’operazione effettuata dal lavoratore. Il giudice di primo grado aveva dichiarato l’imputata colpevole, altresì, della contravvenzione di cui agli articoli 72 e 389 lettera c) del D.P.R. 547/55 per avere omesso di dotare la portiera che consentiva di superare la schermatura di protezione degli organi in movimento della macchina di un dispositivo che all’apertura ne bloccasse il movimento e della contravvenzione di cui agli articoli 35, comma 1, e 89 lettera a) del D.Lgs. 626/94 per avere messo a disposizione dei lavoratori dipendenti un impianto costituito dalla “linea di produzione dei bancali di pellets” non idoneo ai fini della sicurezza, ed ha assolta invece l’imputato dalla contravvenzione di cui agli articoli 41 e 389 lettera c) del D.P.R. 547/55 per avere omesso di munire la macchina di idonea protezione degli organi pericolosi.

Il Tribunale, accertato sulla base della consulenza tecnica del Pubblico Ministero, che l’infortunio si era verificato a causa della vanificazione delle misure di sicurezza delle quali era dotata la macchina, affermava che, ancorché non potesse ritenersi dimostrato che l’imputato ne avesse disposto direttamente la modifica, lo stesso dovesse esserne al corrente e che comunque fosse venuta meno all’obbligo di vigilanza.

La Corte di Appello, su impugnazione dell’imputato, ha confermato in punto di responsabilità la sentenza di primo grado, richiamandone sinteticamente la motivazione. La Corte territoriale ha evidenziato che la condotta della vittima non potesse considerarsi anomala ed imprevedibile, essendo il lavoratore intervenuto per consentire la ripresa del funzionamento della macchina e avendo utilizzato un accesso realizzato sulla struttura di protezione. Con riguardo all’elemento soggettivo, la Corte di Appello ha considerato che nella grata metallica alta circa due metri che isolava la macchina dal resto del capannone era stata realizzata una porta con due maniglie e profili in acciaio e, ritenendo trattarsi di un lavoro di una certa complessità che ha richiesto, oltre che capacità tecniche, anche qualche ora di lavoro, ha quindi desunto da tale considerazione che l’ignoranza di tale modifica da parte dell’imputato fosse colpevole, essendo tra l’altro la stessa avvenuta con modalità pubbliche e almeno quarantotto ore prima dell’infortunio così come riferito da un collega del lavoratore deceduto.

Avverso la Sentenza della Corte di Appello l’imputato ha ricorso in Cassazione censurando la sentenza impugnata e chiedendone l’annullamento. L’imputato ha preliminarmente contestata la individuazione del momento in cui è stata fatta la modifica alla macchina avvenuta, a suo parere, nella mattina stessa dell’infortunio e non 48 ore prima, evidenziando così il brevissimo lasso di tempo intercorso tra la modifica stessa e l’infortunio, elemento questo rilevante per escludere la sua colpevolezza per esserne all’oscuro a fronte della contestazione di aver messo a disposizione del lavoratore un macchinario inidoneo.

Con riferimento a quest’ultima motivazione del ricorso la Corte di Cassazione ha posto in rilievo che i giudici di merito hanno ritenuto accertato, anche sulla base della prova logica, che la modifica della macchina alla quale era adibito il lavoratore infortunato fosse conosciuta o conoscibile dall’imputato e che, contrariamente a quanto indicato nel ricorso, le sentenze di merito sono risultate conformi nel ritenere che la modifica apportata al macchinario abbisognasse di “una certa lavorazione” e che richiedesse “oltre che capacità tecniche, anche qualche ora di lavoro” per cui è risultato che correttamente gli stessi avessero ritenuto, così come descritto nel capo d’imputazione, che il datore di lavoro avesse messo a disposizione dei lavoratori una macchina che, sebbene inizialmente munita di idonea protezione, era stata modificata con l’apertura di una via d’accesso agli organi in movimento, omettendo tuttavia di dotarla di un dispositivo che all’apertura ne bloccasse il funzionamento e che quindi avesse messo a disposizione dei lavoratori un impianto non idoneo ai fini della sicurezza.

Per un corretto inquadramento del caso concreto esaminato dai Giudici di merito, la Sezione IV ha evidenziato che occorre prendere le mosse dalla normativa introdotta con il D.P.R. 459/96, la cosiddetta “Direttiva Macchine”, la quale ha disciplinato i presidi antinfortunistici concernenti le macchine e i componenti di sicurezza immessi sul mercato ed ha recepito la Direttiva Macchine europea 89/392/CE nata con l’obiettivo di armonizzare le disposizioni normative degli Stati membri. La Direttiva Macchine europea nella originaria versione è stata, successivamente, modificata e integrata con altre Direttive che sono state recepite nell’ordinamento italiano mediante il D.Lgs. 17/10.

Dal raccordo delle Direttive europee con il sistema prevenzionistico già in vigore in Italia, ha sottolineato la Suprema Corte, si è desunta un’anticipazione della tutela antinfortunistica al momento della costruzione, vendita, noleggio e concessione in uso delle macchine coinvolgendo nella responsabilità per la mancata rispondenza delle stesse alle normative di sicurezza tutti gli operatori ai quali siano imputabili dette attività. “Si è, in sostanza, introdotto”, ha proseguito la Sezione IV, “un minimum tecnologico obbligato comune che da un lato, ha esteso ad altri operatori l’obbligo di controllo della regolarità della macchina o del pezzo prima che gli stessi vengano messi a disposizione del lavoratore; d’altro canto, si è attribuito tale obbligo a soggetti individuati come costruttori in senso giuridico del macchinario quando, ad esempio, pur risultando il macchinario composto di pezzi prodotti da altre ditte, l’obbligo di controllare la regolarità del macchinario nel suo complesso al fine di ottenere la certificazione necessaria per immetterlo sul mercato spettasse ad una impresa in particolare, in ipotesi incaricata di assemblare tutte le componenti”.

La Corte Suprema ha avuto quindi modo di precisare che “le disposizioni che hanno dato attuazione alle Direttive macchine dell’Unione Europea, pur indicando le prescrizioni di sicurezza necessarie per ottenere il certificato di conformità e il marchio CE richiesti per immettere il prodotto nel mercato, non escludono ulteriori profili in cui si possa sostanziare il complessivo dovere di garanzia di coloro che pongono in uso il macchinario nei confronti dei lavoratori, che sono i diretti utilizzatori delle macchine stesse, non potendo costituire motivo di esonero della responsabilità del costruttore quello di aver ottenuto la certificazione e di aver rispettato le prescrizioni a tal fine necessarie”. La Suprema Corte ha tenuto, infatti, a ricordare che, a norma dell’articolo 3, comma 1 del D. Lgs. 626/94, le misure generali che il datore di lavoro deve adottare per la protezione della salute e per la sicurezza dei lavoratori sono, tra le altre, la valutazione dei rischi, l’eliminazione dei rischi in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, la riduzione dei rischi alla fonte, la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è o è meno pericoloso, l’uso di segnali di avvertimento o di sicurezza, la regolare manutenzione di ambienti, attrezzature, macchine e impianti, con particolare riguardo ai dispositivi di sicurezza in conformità alla indicazione dei fabbricanti.

Nel caso in esame, ha quindi proseguito la Sezione IV, era stata apportata alla macchina, in epoca antecedente l’infortunio, una modifica che aveva vanificato le misure di sicurezza delle quali la macchina stessa era inizialmente dotata per cui correttamente i giudici di merito hanno ritenuto esigibile dal datore di lavoro il rispetto dell’obbligo di controllare che la macchina messa a disposizione dei lavoratori fosse sicura. Il datore di lavoro, che aveva demandato al padre il potere di fatto di impartire direttive ai lavoratori, è stato ritenuto essere in grado di conoscere la non conformità della macchina alla regola dettata dall’articolo 72 del D.P.R. 547/55 a motivo delle circostanze riscontrate nel caso concreto (complessità della modifica, previo accordo circa la modifica tra il lavoratore ed il padre dell’imputato, posizione in luogo ben visibile della nuova porta di accesso alla macchina e tempo trascorso tra la modifica e l’infortunio).

La Corte di Cassazione ha quindi in conclusione rigettato il ricorso avendo ritenuto che correttamente i giudici di merito avevano fatto rientrare il caso in esame nella norma incriminatrice per non avere il datore di lavoro proceduto all’eliminazione di un rischio, prevedibile ed evitabile in quanto connesso ad una modifica eseguita sul macchinario.

La Sentenza n. 43425 del 28 ottobre 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14234:cassazione-penale-sez-4-28-ottobre-2015-n-43425-&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

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LE AZIENDE DEVONO RIFARE LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO CHIMICO?

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

19 gennaio 2016

Tiziano Menduto

 

In relazione alla scadenza del primo giugno 2015 e ai nuovi criteri di classificazione molte miscele possono essere diventate pericolose. Cosa devono fare le aziende? Ne parliamo con Ludovica Malaguti Aliberti del Centro Nazionale delle Sostanze chimiche.

In questi mesi si è parlato molto sul nostro giornale della scadenza del primo giugno 2015. Da questa data entra pienamente in vigore il Regolamento CLP (Regolamento CE n. 1272/2008) relativo alla classificazione, etichettatura ed imballaggio di sostanze e miscele. Ed è ora obbligatorio seguire il Regolamento CLP non solo per la classificazione delle sostanze (era già obbligatorio dal primo dicembre 2010), ma anche per la classificazione delle miscele.

Ma la scadenza del primo giugno e le novità sulla classificazione delle miscele possono avere anche altre ripercussioni sulle aziende italiane? Sono valide le valutazioni del rischio chimico fatte con riferimento alle precedenti classificazioni?

 

Per rispondere a queste domande e per fare luce su alcune delle più importanti novità in materia chimica, abbiamo intervistato, durante la manifestazione Ambiente Lavoro, che si è tenuta a Bologna nel mese di ottobre, la dottoressa Ludovica Malaguti Aliberti del Centro Nazionale delle Sostanze chimiche (Istituto Superiore di Sanità Roma).

La dottoressa Ludovica Malaguti Aliberti era relatrice a Bologna in due diversi convegni organizzati da INAIL e Regione Emilia Romagna: il 15 ottobre al convegno “REACH 2015 L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di lavoro” e il 16 ottobre al convegno “REACH Sanità L’applicazione dei Regolamenti Europei delle Sostanze Chimiche in ambito sanitario”.

Chiaramente la prima domanda che le abbiamo posto è relativa alla scadenza del primo giugno e alle sue conseguenze.

Come cambiano i criteri di classificazione di sostanze e miscele? Come può variare la pericolosità di una miscela? E ci sarà un regime di proroga per i prodotti immessi sul mercato prima della scadenza?

E se, come ci segnala la rappresentante dell’Istituto Superiore di Sanità, le miscele che con le Direttive precedenti non erano classificate come pericolose, possono ora diventare pericolose, come devono regolarsi le aziende che hanno a che fare con queste miscele?

Con la scadenza del primo giugno un’azienda deve anche cambiare la propria valutazione del rischio chimico?

Entro quando un’azienda dovrebbe aggiornare la propria valutazione? Quali sono le tempistiche?

 

Una domanda non potevamo poi non farla sulla percezione che il Centro Nazionale delle Sostanze chimiche dell’Istituto Superiore di Sanità ha della percezione e conoscenza nelle aziende dei regolamenti europei in materia di sostanze chimiche.

 

Nelle aziende c’è la consapevolezza delle conseguenze della piena entrata in vigore del Regolamento CLP?

Infine ci soffermiamo sulle conseguenze della scadenza sulle scheda dati di sicurezza.

Cosa cambia nell’elaborazione delle schede dati di sicurezza?

Che supporto possono dare le schede al datore di lavoro?

E come deve utilizzare il datore di lavoro gli scenari di rischio?

Come sempre diamo ai nostri lettori la possibilità di ascoltare integralmente l’intervista e/o di leggerne una parziale trascrizione.

 

Soffermiamoci sul convegno “L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di lavoro” e sulla nuova scadenza del primo giugno 2015. E’ una scadenza importante? E con quali conseguenze?

LUDOVICA MALAGUTI ALIBERTI

Certamente è una scadenza importante, perché si tratta dell’entrata in vigore piena del Regolamento CLP, che, come acronimo, sta per classificazione, etichettatura e imballaggio di sostanze e miscele pericolose.

Nel 2010 il Regolamento è entrato in vigore per le sole sostanze, per cui già nel 2010 c’era la possibilità di conoscere i nuovi pittogrammi, indicazioni di pericolo, consigli di prudenza.

Con la nuova scadenza non avremo più in circolazione etichette con pittogrammi, con indicazioni di pericolo e consigli di prudenza secondo le vecchie Direttiva sui prodotti e le miscele pericolose. Questo significa che non avremo più i pittogrammi arancioni con quadrati, ma avremo i rombi con il fondo bianco e con il segnale di pericolo che fondamentalmente ricalca quelli precedenti, salvo che per i cancerogeni, mutageni, reprotossici, sensibilizzanti che riportano la figura dell’ “uomo esploso”.

Ma le novità non si riducono a questo.

Sono modificati anche i criteri di classificazione.

I criteri di classificazione di sostanze e miscele diventano più ristrettivi e sono una garanzia in più per la salute umana e anche per l’ambiente. Perché questi regolamenti si applicano alla salute umana e all’ambiente. Diversamente dalla normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro dove l’ambiente non è tenuto in conto.

E dunque le miscele che con le Direttive precedenti non erano classificate come pericolose, possono ora diventare pericolose, ai sensi dei criteri più ristrettivi.

Questa entrata in vigore non è però così netta. Come nel 2010 noi andiamo incontro ad un regime di proroga per ciò che è già immesso sul mercato. Ci sarà anche in questo caso un regime di proroga di due anni per i produttori, fabbricanti e importatori per arrivare nel 2017 con un assoluto cambio di passo: tutto ciò che sarà etichettato, classificato, lo sarà con il regolamento CLP. Quindi di fatto oggi possiamo avere prodotti (ad esempio la varechina o altre sostanze reattive nel mondo dell’industria e nei luoghi di lavoro) che marciano con etichette diverse ma con la stessa miscela.

Entriamo nello specifico degli obblighi delle aziende. Con questa novità del primo giugno un’azienda deve anche cambiare la propria valutazione del rischio chimico?

LUDOVICA MALAGUTI ALIBERTI

Sicuramente per gli ambienti di lavoro, il datore di lavoro che ha nella propria valutazione dei rischi l’applicazione del Titolo IX del D.Lgs. 81/08, quindi sia il Capo I che il Capo II, dovrà rivedere la valutazione perché potrebbe essere che si trovi con miscele che hanno cambiato classificazione e che quindi possono diventare pericolose.

Quindi la valutazione dei rischi va sicuramente aggiornata. O quanto meno ripresa in mano e analizzata per vedere se c’è bisogno di aggiornamenti…

In teoria dunque già dai primi giorni di giugno un’azienda dovrebbero avere già aggiornato la loro valutazione.

LUDOVICA MALAGUTI ALIBERTI

Lo sta facendo, io credo. Anche perché il rischio chimico nelle aziende è solitamente analizzato con degli algoritmi. Questo significa che gli algoritmi hanno avuto necessità di essere aggiornati. E’ stato lungo il processo di aggiornamento degli algoritmi, ed è un processo lungo quello di aggiornare. E’ chiaro che in teoria dal 2 giugno le valutazioni dovrebbero essere aggiornate. Però credo che, ed è il messaggio da dare, l’importante è che ci sia consapevolezza di questo cambio.

Perché mentre da un lato la grande industria, soprattutto l’industria chimica, ne è al corrente, perché ha altri obblighi rispetto ai Regolamenti, la micro, piccola e media impresa hanno delle difficoltà non solo a saper come fare, ma anche solo a sapere che c’è bisogno di questo cambio.

Concludiamo questa intervista cercando di capire se la scadenza del primo giugno 2015 ha conseguenze anche sull’elaborazione delle schede dati di sicurezza. Che supporto possono dare al datore di lavoro? Come deve utilizzare il datore di lavoro gli scenari di rischio?

LUDOVICA MALAGUTI ALIBERTI

Le schede dati di sicurezza sono normate dal Regolamento REACH e riviste poi dal Regolamento n. 453/2010. Però visto che sarà necessario aggiornare la classificazione delle miscele anche nelle schede dati di sicurezza, sicuramente dal primo giugno noi andremo ad utilizzare l’Allegato II del Regolamento n. 453/2010.

Le schede dati di sicurezza sono uno strumento formidabile di supporto per il datore di lavoro perché gli forniscono tutta le informazioni sulla gestione e sul corretto utilizzo delle miscele. Anche perché per quelle che sono messe sul mercato in quantità superiore alle 10 tonnellate, c’è l’obbligo di inserire nella scheda un “Chemical Safety Report” che comprende gli scenari di esposizione studiati, con le relative “Risk Management Measures”.

E quindi il datore di lavoro dovrà verificare che la sua lavorazione, la sua tipologia di esposizione, rientri in quegli scenari. Laddove ciò non succeda, dovrà, risalendo nella catena di approvvigionamento, chiedere di far verificare il proprio uso con un uso sicuro.

Tutto questo è un meccanismo assai complesso, molto più difficile di quanto possa apparire raccontandolo, perché coinvolge professionalità estremamente specifiche sia nel fare gli scenari, sia nel verificare che la propria attività rientri in quegli scenari.

Il datore di lavoro può poi avere un ulteriore supporto perché per le miscele che non sono classificate come pericolose, ma che contengono delle sostanze pericolose fino allo 0,1%, si può richiedere la scheda dati di sicurezza.

Noi in realtà diciamo ai datori di lavoro di richiederle sempre. Perché su questo è il D.Lgs. 81/08 che comanda, rispetto all’invito che fa il Regolamento Reach.

E ricordo anche che quello che si trova negli scenari non è la valutazione dei rischi secondo il D.Lgs. 81/08, ma è quello che il fabbricante scrive. Il datore di lavoro deve far proprio lo scenario, lo deve adattare alla propria attività in funzione dell’esposizione. Il datore deve porsi in modo attivo anche nei confronti delle schede dati di sicurezza.

 

Il video dell’intervista completa alla dottoressa Ludovica Malaguti Aliberti è consultabile all’indirizzo:

https://www.youtube.com/watch?v=9P1F-5zEgw0

 

Il Regolamento (UE) della Commissione Europea n. 453/10 del 20 maggio 2010 “Recante modifica del regolamento (CE) n. 1907/06 del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH)” è scaricabile all’indirizzo:

http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ:L:2010:133:FULL&from=IT

 

Il Regolamento (CE) del Parlamento e del Consiglio Europeo n. 1272/08 del 16 dicembre 2008 “Relativo alla classificazione, all’etichettatura e all’imballaggio delle sostanze e delle miscele che modifica e abroga le direttive 67/548/CEE e 99/45/CE e che reca modifica al regolamento CE n. 1907/06 è scaricabile all’indirizzo”:

http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2008:353:0001:1355:it:PDF

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.242 DEL 25/01/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.241 DEL 22/01/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.241 DEL 22/01/16

 

INDICE

  • In tema di valore etico della salute e sicurezza sul lavoro
  • Amianto, continua la strage di lavoratori
  • Il mobbing: guida giuridica
  • Il rischio chimico e la relazione sulla sicurezza chimica

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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IN TEMA DI VALORE ETICO DELLA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

14 gennaio 2016

di Pietro Ferrari

 

Dalla Costituzione al Decreto 81: quale deve essere il valore etico attribuibile alla sicurezza sul lavoro.

 

Di fronte al profilarsi di pericolose involuzioni (anche in sede di Commissione europea) rispetto alle politiche di prevenzione e protezione in ambito lavorativo, forse non è inutile fermarsi a considerare quello che deve essere il valore etico attribuibile alla sicurezza sul lavoro (altri ha detto, e dirà, sul valore propriamente economico).

Se davvero vogliamo ragionare, oggi, intorno al tema del valore etico della sicurezza sul lavoro, non possiamo esimerci dallo sforzo di individuare, di “ricostruire” la traccia storica che ci consenta di articolare il discorso.

E’ una traccia antica e di straordinaria importanza quella che si vuole considerare: essa rappresenta il solco tracciato molti anni fa dalla Costituzione della Repubblica per regolare il nostro vivere civile e democratico.

 

Perché dunque partire dalla Costituzione? E cosa rappresenta la nostra Costituzione?

Le Costituzioni, in generale, rappresentano le regole fondamentali che una organizzazione sociale complessa, qual è lo stato democratico moderno, adotta per regolare il proprio funzionamento.

Ma la nostra Costituzione ha, in più, una caratteristica: essa è nata, alla fine della tragica esperienza della seconda guerra mondiale, dalla lotta di resistenza.

In questa lotta, i lavoratori (operai e contadini) hanno svolto, con le proprie organizzazioni, un ruolo fondamentale ed hanno pagato un grave prezzo per giungere al giorno della Liberazione.

Con questa lunga lotta, alfine vittoriosa, la classe dei lavoratori si è emancipata definitivamente dalla condizione di subalternità, ponendo la dignità ed il valore del suo ruolo quale base fondante della convivenza sociale.

E’ per questo che nel primo articolo dei Principi Fondamentali la Carta Costituzionale stabilisce che “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”.

A differenza di quanto stabilito nel previgente “Statuto Albertino”, all’interno del quale il cardine del sistema dei diritti statutari era costituito dal diritto di proprietà.

Ma facciamo ora un passo indietro e torniamo a quella fase storica denominata “Periodo costituzionale transitorio” che è compresa tra il 25 luglio 1943 (caduta del governo fascista, arresto di Mussolini e nomina del generale Badoglio quale capo del Governo) ed il 1 gennaio 1948 (entrata in vigore della Costituzione).

Nel periodo compreso tra la caduta del governo fascista e l’ingresso a Roma delle truppe alleate (4 giugno 1944) si affermò un nuovo soggetto politico unitario, il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) il quale raggruppava i partiti e le forze che dalla clandestinità avevano combattuto prima il regime fascista, e poi l’occupazione nazi-fascista.

Dopo la liberazione di Roma il CLN entrò a far parte del nuovo governo e il suo presidente, Ivanoe Bonomi, fu nominato Presidente del Consiglio. Nel frattempo continuavano però l’occupazione nazifascista e la lotta partigiana nel nord dell’Italia laddove operava, in clandestinità, il CLN Alta Italia.

L’anno successivo, conclusa vittoriosamente la lotta di liberazione (25 aprile 1945), gran parte del territorio nazionale veniva ricondotto sotto l’autorità formale del governo “romano” e la sovranità formale del Re.

Nuovo Presidente del Consiglio venne nominato Ferruccio Parri, comandante partigiano del Partito d’Azione, il quale provvide a istituire il Ministero per la Costituente con il compito di raccogliere e coordinare i materiali necessari per il lavoro di elaborazione e stesura che l’Assemblea Costituente sarebbe stata chiamata a svolgere.

Le elezioni del 2 giugno 1946 che chiamavano i cittadini (e per la prima volta le donne) al voto, li impegnavano a effettuare la scelta tra monarchia e repubblica e, altresì, a scegliere i componenti dell’Assemblea Costituente: vinse la scelta repubblicana (con 12.717.923 voti contro 10.719.284) e venne eletta l’Assemblea, con l’assegnazione dei 556 seggi alle diverse parti politiche.

L’Assemblea Costituente della Repubblica Italiana cominciò i suoi lavori il 25 giugno 1946 in quanto organo preposto alla stesura di una Carta Costituzionale per la nuova forma dello Stato italiano: la Repubblica Democratica.

La Commissione (la cosiddetta “Commissione dei 75”) incaricata di stendere il progetto generale concluse i suoi lavori nel gennaio 1947. Dopodiché (marzo ‘47) iniziò il dibattito sul testo in sessione plenaria.

Qual è dunque il compito che si poneva ai costituenti?

E come lo affrontarono?

In primo luogo si poneva il difficile compito di ricostituire il tessuto sociale e identitario, dopo le tragiche lacerazioni prodotte dalla guerra. Si trattava, perciò, anche di portare a compimento il difficile processo di riconciliazione nazionale; condizione, questa, necessaria non soltanto per giungere a sentirsi tutti “cittadini della stessa nazione” ma, altresì, per poter avviare il faticoso percorso della ricostruzione materiale ed economica.

Per giungere a ciò i padri costituenti compresero che avrebbero dovuto formulare, nel testo costituzionale, “i diritti inalienabili e imprescrittibili della persona umana come presupposto e limite legale permanente all’esercizio di ogni pubblico potere”, prima ancora che le parti relative ai rapporti civili, economici e di ordinamento della Repubblica.

E compresero (nonostante l’ultima lacerazione nel frattempo intervenuta con la rottura del Patto di unità nazionale) che questo obiettivo generale si sarebbe potuto raggiungere soltanto tramite lo strumento del compromesso, utilizzato per mediare e comporre le diverse posizioni.

 

C’è però compromesso e compromesso!

Nel caso dei costituenti si trattò di un compromesso alto. Perché essi si sentirono pienamente investiti del compito straordinario al quale venivano chiamati in quel preciso frangente storico e lo affrontarono con un atteggiamento che non è retorico definire sacrale. Come ebbe a dire uno di essi “La Costituzione è veramente una cosa sacra. La Costituzione è per il popolo la legge propria che lo garantisce e lo tutela; è la legge che esso primieramente si dà e che scaturisce dalla sua situazione storica, dalle sue esigenze morali e religiose e da tutto quell’insieme che forma il popolo stesso. Noi dobbiamo dare a questa Costituzione un prestigio di fronte al paese che la renda veramente sacra.”

La Costituzione della Repubblica Italiana entrò in vigore il 1 gennaio 1948.

Se torniamo ora a cercare di stabilire le connessioni rispetto a quello che è il nostro argomento (cioè che cosa si voglia e si debba intendere per valore etico della sicurezza sul lavoro), dobbiamo subito verificare il dettato costituzionale nelle formulazioni dettate nei suoi “Principi Fondamentali” (articoli da 1 a 12), e poi le parti in cui definisce i diritti e i doveri dei cittadini (articoli da 13 a 54).

 

Articolo 1

“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Articolo 2

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo […]”.

Articolo 3

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge […] E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana […]”.

 

Articolo 4

“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

 

Articolo 32

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti […]”.

 

Articolo 35

“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni e […] cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”.

 

Articolo 37

“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.

Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione”.

 

Articolo 41

“L’iniziativa economica è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

 

Vediamo dunque come la nostra Costituzione stabilisca qui (per quanto di interesse al nostro ragionamento) alcuni diritti fondamentali e, in quanto tali, inalienabili e garantiti (Articolo 2). Vale a dire, diritti cosiddetti indisponibili.

Essi sono: il diritto alla salute (articoli 2, 32, 35, 37, 41), il diritto al lavoro (articoli 1, 2, 4, 35, 37, 41), la pari dignità sociale di tutti i cittadini (articoli 3, 4).

Non è difficile notare quanto già accennato all’inizio rispetto alla nuova dignità conquistata dal ruolo del lavoratore. Notare cioè come il complesso degli articoli citati vada a reticolare una sorta di “combinato disposto” che concorre a definire il principio, riconosciuto e garantito dalla Repubblica Italiana su decisione del Legislatore costituzionale (articolo 2), ad avere un lavoro che sia sano, sicuro e dignitoso.

La stessa importantissima iniziativa economica/imprenditoriale è sottoposta al limite di non potersi svolgere in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza e alla dignità del lavoratore (articolo 41). Sotto questo aspetto, decisivo risulta quanto dettato dall’articolo 2087 del Codice Civile; articolo ormai considerato universalmente come “norma di chiusura” rispetto alla legislazione e alle politiche di prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Articolo 2087 – Tutela delle condizioni di lavoro

“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Ma il dettato costituzionale dice un’altra cosa ancora, anch’essa decisiva: dice che non solo la salute (e dunque la salute e sicurezza sul lavoro) è un diritto fondamentale dell’individuo ma che, nel contempo, essa è un interesse fondamentale della collettività (articolo 32). Dunque la condizione di salute del singolo lavoratore (come di qualunque cittadino) è un problema per tutta la collettività e ha perciò diritto alla tutela più alta prevista dalla norma superprimaria, la Costituzione appunto.

E’ su queste fondamenta che nel decennio successivo alla entrata in vigore della Costituzione si svilupperà una legislazione (molto avanzata per quel tempo) in materia di prevenzione e protezione dei lavoratori nell’ambiente di lavoro (la cosiddetta “legislazione tecnica” della metà degli anni ‘50) sotto forma prevalentemente di D.P.R. (Decreto del Presidente della Repubblica).

Fondamentali il D.P.R. 547/55 “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”, il D.P.R. 164/56 “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni” e il D.P.R. 303/56 “Norme generali per l’igiene del lavoro”.

Caratteristica di questo tipo di legislazione era quella di essere di tipo impositivo. Essa imponeva cioè al datore di lavoro una serie puntuale di obblighi da rispettare e/o di misure da adottare, ad esempio con riguardo alle protezioni nei macchinari o all’igiene degli ambienti, la cui violazione costituiva violazione di legge diversamente sanzionata, anche con sanzioni penali. Il lavoratore, per suo conto, doveva limitarsi a ubbidire alle eventuali disposizioni impartite dal datore di lavoro. E comunque a rispettare gli apprestamenti protettivi adottati.

In generale è da riconoscere che questo sistema di normative ha rappresentato, in qualche misura, un elemento di protezione che ha mantenuto la sua validità praticamente fino ai nostri giorni. L’abrogazione di quel sistema avverrà solo con l’emanazione del D.Lgs.81/08 (ma consistenti tracce “tecniche” sono ancora rinvenibili nei suoi Allegati).

Si dovranno attendere circa 40 anni perché, con il Decreto Legislativo n.626 del 19 settembre 1994, questa logica venisse capovolta in positivo. Anche se, per il vero, la Legge 300/70 (cosiddetto Statuto dei Lavoratori) col suo articolo 9 aveva in certa misura prefigurato e anticipato la futura direttrice comunitaria.

 

Articolo 9 – Tutela della salute e dell’integrità fisica

I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.

Il D.Lgs. 626/94 venne emanato in (tardo) come accoglimento della Direttiva della Comunità Economica Europea n.391 del giugno 1989 “Direttiva del Consiglio concernente l’attuazione di misure volte al miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro”. La norma comunitaria obbliga infatti gli Stati membri a recepire nelle rispettive legislazioni le Direttive europee.

Naturalmente, rispetto alle diverse materie, la Direttiva Comunitaria si limita a dettare le condizioni generali minime e inderogabili rispetto alle quali gli Stati membri sono chiamati al recepimento, adeguandole alle normazioni nazionali. Senza dunque poter trascurare o stravolgere le indicazioni generali dettate dalla Direttiva. Vale infatti il divieto espresso all’abbassamento delle tutele.

Il D.Lgs. 626/94 ha capovolto il modo di concepire la problematica della prevenzione e protezione in materia di salute e sicurezza sul lavoro (avrebbe anzi dovuto cambiarne radicalmente l’approccio).

Questa, infatti, non è più relegata al solo rispetto, da parte del datore di lavoro, di una serie di norme a carattere “tecnico” (e al conseguente obbligo di disciplina da parte dei lavoratori) ma si espande a tutti gli attori (nuovi) della prevenzione nei luoghi di lavoro e a tutti i rischi individuabili in ogni specifica realtà.

Anzi proprio questa “partecipazione equilibrata” (per usare il linguaggio della Direttiva 89/391/CEE) è la condizione essenziale perché il sistema della prevenzione possa operare correttamente.

Tra le nuove figure previste dal D.Lgs. 626/94 si segnalano il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione aziendale (RSPP), con il compito di collaborare con il datore di lavoro nella valutazione dei rischi e nella elaborazione del Documento di Valutazione dei Rischi e di coordinare il Servizio di Prevenzione e Protezione nelle figure degli Addetti (ASPP); il Medico Competente (MC), che partecipa alla valutazione dei rischi e provvede alla sorveglianza sanitaria nei casi previsti dalla normativa vigente; il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), il quale deve ricevere, a cura del datore di lavoro, una adeguata e specifica formazione, venire consultato rispetto alla valutazione dei rischi e ai programmi della prevenzione e che, più in generale, ha il compito di verificare che le condizioni di tutela vengano adottate e costantemente rispettate.

Per la prima volta, il D.Lgs. 626/94 prevede anche l’obbligo per il datore di lavoro di fornire ai lavoratori una informazione e formazione sufficienti, adeguate e non episodiche.

Nei suoi circa 14 anni di vigenza, il D.Lgs. 626/94 (con le modifiche e integrazioni successivamente intervenute sul testo originario) ha offerto grandi possibilità per il miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e suscitato negli RLS sensibili aspettative in questo senso.

Purtroppo, pur riconoscendo al Decreto una funzione protettiva e (grazie all’apparato sanzionatorio) deterrente rispetto alle ipotesi di violazione, pur riconoscendo agli enti istituzionalmente preposti alla vigilanza (in primo luogo i Servizi di Prevenzione delle ASL) un impegno significativo, ciò che è venuto a mancare è stato proprio lo spirito collaborativo che informava la legge e, prima ancora, la direttiva comunitaria, la quale rappresenta fonte primaria e inderogabile.

In via generale non è stata cioè superata, da parte delle imprese, la diffidenza nel far partecipare i lavoratori e le loro rappresentanze alla organizzazione della prevenzione; anche perché, non di rado, quest’ultima risultava ignorata, o percepita come costo “non sostenibile” e inutile aggravio burocratico. (non pare inutile richiamare, in questo contesto, l’inattuata previsione costituzionale dell’articolo 46 secondo cui “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”).

A ciò si aggiunga che, permanendo in vigore tutta la complessa decretazione degli anni ‘50 e quella via via succedutasi, s’era venuta a determinare una sorta di “iperfetazione” di leggi e regolamenti che rendevano la materia di difficile accessibilità e interpretazione.

Il problema che, a quest’altezza, si poneva al legislatore, era quello di accorpare, armonizzandola e integrandola, una legislazione/normazione vasta e complessa; per di più soggetta, a progressive rivisitazioni e modifiche.

Tale problema, a dire il vero, era già stato posto dalla Legge di riforma sanitaria del 1978 (la 833/78 “Istituzione del servizio sanitario nazionale”) nella parte in cui sollecitava il legislatore a procedere ad un riassetto e a una rivisitazione della materia.

A partire da allora, si succedettero diverse prefigurazioni di “riforma” e una proposta organica (ma scellerata) di Testo Unico che il governo del 2005 fu poi costretto a ritirare, sostanzialmente in conseguenza della pronuncia sfavorevole del Consiglio di Stato e del parere negativo delle Regioni.

Quella esigenza, posta già dalla legge del 1978, venne finalmente risolta dal legislatore del 2008 con l’emanazione del Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81.

Il D.Lgs. 81/08, che si presentava fattualmente come Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro pur non avendone qualificazione formale, soddisfaceva alla delega formulata un anno prima dall’articolo 1 della Legge 123/07 “Misure in tema di salute e sicurezza e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia”.

 

Articolo 1

“Il Governo è delegato ad adottare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per il riassetto e la riforma delle disposizioni vigenti in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro […]”.

Cosa fa il D.Lgs. 81/08, modificato dal Decreto integrativo e correttivo n. 106 del 2009?

Esso adempie al compito di rendere omogenea e aggiornata (rispetto alle Direttive comunitarie, alla normazione tecnica internazionale e alla giurisprudenza consolidata) tutta la materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Dunque anche abolendo grandissima parte della precedente legislazione di riferimento o, per certa parte, incorporandola.

 

Non è qui compito di addentrarci in specifiche valutazioni dei contenuti del Testo Unico.

Nostro compito è invece quello di individuare gli elementi di tali contenuti che possano riconnetterci al ragionamento su che cosa debba intendersi per “valore etico della sicurezza”.

Tali elementi sono quelli che “riassumono” e richiamano il dettato (e lo spirito) costituzionale, saldando (soprattutto) gli articoli 35 e 41 della Costituzione con la norma generale stabilita dall’articolo 2087 del codice civile.

Richiamiamoli brevemente:

  • la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività;
  • l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana;
  • l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Ecco dunque che l’articolo 15 del D.Lgs. 81/08 elencando diffusamente le misure di tutela definisce il sovraordinato obbligo generale di sicurezza posto a carico del datore di lavoro dall’articolo 2087 del Codice Civile. In primo luogo nei confronti dei lavoratori; e però anche nei confronti di terzi (presenti sul luogo di lavoro) e dell’ambiente esterno (si pensi solo ai danni da emissioni nocive o da smaltimento di rifiuti tossici).

E tuttavia anche il lavoratore è sottoposto all’obbligo di sicurezza: nei confronti di sé stesso, come nei confronti dei colleghi di lavoro, come nei confronti di terzi, ad esempio lavoratori di altre imprese che si trovino a operare su quel luogo di lavoro, visitatori, clienti ecc. .

Ciò proprio perché la salute, che è un bene indisponibile (cioè non riducibile, né contrattabile) non rappresenta soltanto un diritto fondamentale dell’individuo (si parla, giuridicamente, di diritto soggettivo perfetto) ma, nel contempo, rappresenta un interesse altrettanto fondamentale per la collettività; basti pensare agli altissimi costi umani, sociali ed economici degli infortuni e delle malattie professionali.

 

E’ per questo che l’articolo 20 del Dlgs. 81/08 procede a definire gli obblighi dei lavoratori, indicando nel primo comma l’obbligo generale:

 

Articolo 20, comma 1

“Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni od omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”.

Vediamo dunque come il cerchio del ragionamento vada a chiudersi.

Abbiamo percorso e considerato, sia pure in modo estremamente sintetico, una “lunga storia”.

E’ la nostra storia. Quella dei nostri padri e dei “padri” costituenti.

Storia fatta dalle donne e dagli uomini di questa Repubblica (res publica) democratica (démos cràtos), dalle loro intelligenze e dalla loro passione, per una società progressiva.

Certamente di faticoso avanzamento sociale, del tutto diverso dalle “magnifiche sorti e progressive” della celebre critica leopardiana.

In questo senso, dobbiamo intendere l’etica, sul piano socio-politico, come il complesso delle leggi più nobili delle quali una società si dota per regolare il proprio svolgimento.

E invece, sul piano morale, essa deve intendersi (secondo le parole di Antigone nella grande tragedia di Sofocle) come le “eterne leggi non scritte”.

Pietro Ferrari

Commissione salute e sicurezza sul lavoro – FILCAMS CGIL Brescia

 

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AMIANTO, CONTINUA LA STRAGE DI LAVORATORI

 

Da Il Pane e le Rose

http://www.pane-rose.it

19 Gennaio 2016

 

Amianto, continua la strage di lavoratori.

4.000 mila morti ogni anno, mille morti solo per mesotelioma.

 

Articolo pubblicato dalla rivista “Nuova Unità”, gennaio 2016

 

A 23 anni dalla messa al bando dell’amianto, con la Legge 257 del 1992, ci sono in Italia ancora 32 milioni di tonnellate di amianto e le bonifiche sono tuttora da fare. Chi sperava che dopo l’approvazione della legge, l’amianto sarebbe stato rimosso dalle nostre vite deve ricredersi: la decontaminazione dalla fibra è fallita.

A oggi ci sono oltre 400 norme regionali e nazionali sull’amianto, un labirinto legislativo che fa comodo a molti che per i propri interessi speculano sulla vita delle persone.

Istituzioni, padroni, governi, giocano scaricando le responsabilità su altri.

 

Il profitto viene prima di qualsiasi diritto alla salute e alla sicurezza e si realizza sulla pelle dei lavoratori e cittadini.

L’amianto è un problema sociale, sanitario, medico, una bomba ecologica non ancora disinnescata, che prima ha ucciso i lavoratori esposti alla fibra killer e oggi avvelena la popolazione.

 

Nonostante la Legge 257/92 che metteva al bando l’amianto lo preveda, a tutt’oggi manca una mappatura completa dei siti contaminati da amianto e da bonificare e molto spesso le mappature sono datate o inattendibili. L’articolo 10 della Legge 257/92 stabilisce che le regioni in mancanza di adozione dei Piani Regionali amianto, possono essere commissariate, ma nonostante ciò diverse regioni non lo hanno ancora adottato e molte non lo hanno ancora rinnovato (come Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna, ad esempio).

In Italia come sempre fatta la legge si trova subito l’inganno. La legge ha bandito l’utilizzo del minerale killer ma non ha obbligato lo smaltimento, e la polvere d’amianto continua a uccidere almeno 8 italiani al giorno e avvelenarne altre migliaia.

 

In Italia esistono tuttora oltre 300 mila edifici (di cui almeno 3.000, rappresentano un grave rischio di contaminazione per tutta la popolazione, uomini, e donne, bambini e anziani, e più di 2.400 sono scuole italiane) tuttora contaminati dall’amianto e come ha riconosciuto la presidente della Commissione di Inchiesta sugli infortuni sul lavoro del Senato Camilla Fabbri, “di questo passo ci vogliano 85 anni per smaltirlo e eliminarlo dalle nostre vite”.

 

Tutti conosciamo la storia di Casale Monferrato grazie alle lotte condotte dagli ex lavoratori dell’Eternit e dai cittadini, ma lo sviluppo industriale, il “progresso” di questo paese si fonda sul sangue di decine di migliaia di proletari e i cittadini, spesso dimenticati.

La stessa Unione Europea nel quadro strategico per la sicurezza sul lavoro dal 2007 al 2011 afferma che anche se in Europa si assiste a una diminuzione degli infortuni del 28%, i morti per amianto sono in continuo aumento.

 

Il mesotelioma, il tipico tumore maligno continua a colpire e uccidere senza pietà, in tutto il paese, dal nord al sud, ma l’amianto provoca anche molti altri tumori maligni di cui si parla poco nei mass-media.

Secondo recenti dichiarazioni del presidente di INAIL, Massimo De Felice, i lavoratori vittime dell’asbesto decedute assicurate all’INAIL sono state 17.428 e oltre 21.000 i casi di mesotelioma tra il 1993 e il 2014.

I numeri ci dicono che l’amianto continua a uccidere oggi come nel passato e purtroppo senza bonifiche dei siti industriali e del territorio la lista dei morti e malati continuerà a crescere ancora per molti anni. Tutti sono a rischio, nessuno è esente dal pericolo.

 

Anche nel tempio della musica, il Teatro della Scala di Milano (dove abbiamo manifestato in occasione della prima) l’amianto ha fatto delle vittime, e per le morti sospette per amianto alla Scala sono indagati quattro ex sindaci di Milano, Carlo Tognoli, Gian Paolo Pillitteri, Giampiero Borghini e Marco Formentini. Indagato anche l’ex sovrintendente Carlo Fontana indagati, con altre persone, per omicidio colposo e lesioni colpose per sette decessi e altri casi di malattia dovuti all’amianto presente al Teatro alla Scala.

In questo le denunce dei lavoratori e comitati sono servite.

 

La procura contesta agli indagati di non essersi adoperati per rimuovere in passato l’amianto dai manufatti nei vari locali, soprattutto tecnici, ma anche dal famoso lampadario all’interno del teatro. Per l’accusa non sarebbe stato fatto il censimento dell’amianto previsto dalla legge del 1992, e il minerale avrebbe provocando la morte dei lavoratori. Tra le persone morte per esposizione alla sostanza cancerogena dagli anni ‘70-80, ci sono un siparista, un macchinista, un vigile del fuoco, un falegname, un addetto al trasporto delle scene e anche una cantante lirica. Questo dramma è solo uno dei tanti.

 

Anni di omertà e complicità da parte di tutte le istituzioni hanno finora garantito l’impunità a padroni e manager colpevoli di aver mandato consapevolmente a morte migliaia di lavoratori nelle fabbriche pur di realizzare i massimi profitti. In questi anni molti processi sono stati esempi d’ingiustizia per le vittime e i loro famigliari assolvendo i padroni nel merito o per prescrizione. In ogni caso la mobilitazione dei lavoratori e delle vittime organizzate in comitati è servita per portare sul banco degli accusati i padroni e manager assassini di tanti operai. Anche se la giustizia per le vittime dell’amianto non arriva quasi mai e quando arriva è tardiva come dimostra il processo Eternit di Casale Monferrato, le vittime, i comitati e le associazioni continuano a lottare: oggi in Italia sono in corso più di 50 processi per amianto.

 

Michele Michelino

Presidente del “Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio”

 

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IL MOBBING: GUIDA GIURIDICA

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

18 gennaio 2016

 

COSA E’ IL MOBBING

Con il termine “mobbing” si fa riferimento, in generale, all’insieme dei comportamenti che tendono a emarginare un soggetto dalla società di cui esso fa parte, tramite violenza psichica protratta nel tempo e in grado di causare seri danni alla vittima.

Non esiste un criterio specifico per individuare tali atti, nei quali rientra quindi ogni forma di angheria perpetrata da una o più persone nei confronti dell’individuo più debole: ostracismo, umiliazioni pubbliche e diffusione di notizie non veritierie.

 

ETIMOLOGIA DEL TERMINE

La parola mobbing è stata coniata ufficialmente da un etologo austriaco, Konrad Lorenz.

Il significato iniziale si riferiva, infatti, a tutti quegli atteggiamenti animali perpetrati da uno o più membri di un gruppo nei confronti di quello che potrebbe essere definito come l’anello debole dell’insieme, al fine di estraniare il soggetto dal resto branco e allontanarlo.

Più specificamente, il termine mobbing non è altro che una forma di gerundio sostantivato del verbo “to mob”, coniato, nella lingua inglese, nel corso del XVII secolo e diretto derivato di una comune espressione latina, mobile vulgus, con la quale ci si riferiva ai folti gruppi tipici di una parata o di un evento locale, che avevano la cattiva abitudine di muoversi in modo disordinato seminando il caos nei dintorni.

Con il termine “to mob”, in sostanza, si intende letteralmente: accalcarsi intorno a qualcuno, affollarsi, assalire tumultuando.

Oggi, tuttavia, l’accezione del termine si è sviluppata sino ad indicare, in generale, le persecuzioni psicologiche perpetrate da parte di uno o più individui nei confronti di un altro, nel contesto lavorativo e non solo.

 

RILEVANZA GIURIDICA

Come accennato, dunque, oggi con il termine mobbing si intende quella forma di terrore psicologico, esercitato, con modalità e tempistiche ben precise, in danno di un collega di lavoro, di un subordinato, di un individuo più debole, con il chiaro intento di danneggiarlo ed emarginarlo.

Affinché il mobbing assuma rilevanza sul piano giuridico è più in particolare necessario che il terrore psicologico si estrinsechi in comportamenti aggressivi e vessatori, che si protraggano nel tempo in maniera ripetitiva, regolare e frequente.

 

MOBBING E LAVORO

Il contesto principale con riferimento al quale si è iniziato a far riferimento al mobbing come a un comportamento illecito, giuridicamente rilevante, è quello lavorativo.

In tal contesto, sostanzialmente, il mobbing si estrinseca in tutti quei comportamenti che il datore di lavoro o i colleghi pongono in essere, per svariate ragioni, al fine di emarginare e allontanare un determinato lavoratore.

Da tale definizione è possibile far discendere una prima forma di classificazione del mobbing: quella che distingue il mobbing verticale dal mobbing orizzontale.

Il mobbing verticale (o bossing) è la classica forma nella quale si estrinseca il mobbing e consiste negli abusi e nelle vessazioni perpetrati ai danni di uno o più dipendenti da un loro diretto superiore gerarchico. In questi casi le possibilità di ribellarsi a tali atteggiamenti sono spesso molto limitate e di non facile attuazione, in ragione dei rapporti di forza sbilanciati tra mobber e mobbizzato.

Per mobbing orizzontale, invece, si intende l’insieme di atti persecutori messi in atto da uno o più colleghi nei confronti di un altro, spesso finalizzati a screditare la reputazione di un lavoratore mettendo in crisi la sua posizione lavorativa. Si tratta di comportamenti difficili da fronteggiare e denunciare soprattutto se attuati da un gruppo.

Per quanto esse siano del tutto inusuali, talvolta possono comunque verificarsi anche ipotesi di mobbing dal basso o low mobbing.

Si tratta di una serie di azioni che mirano a ledere la reputazione delle figure di spicco aziendali, magari a seguito di un loro comportamento ritenuto non idoneo da parte di un buon numero di dipendenti oppure per motivi semplici quanto futili, come antipatia o invidia per il potere mostrato o per la posizione raggiunta.

E’ una situazione che, ad esempio, può verificarsi in ipotesi di crisi economica aziendale. In questi casi, infatti, non è raro che la figura del capo sia considerata alla base della crisi e di ogni altra problematica come disorganizzazione, cattiva reputazione dell’azienda, incapacità di essere competitivi.

 

IN PARTICOLARE: IL BOSSING

Tra le diverse tipologie di mobbing che possono estrinsecarsi nel mondo del lavoro, di certo quella più diffusa è il bossing.

Su di esso, quindi, è il caso di soffermarsi qualche riga in più.

Innanzitutto occorre chiarire che questa pratica combina, in maniera premeditata, azioni a scopo intimidatorio con veri e propri atti di violenza psico-fisica e di esclusione dai privilegi aziendali solitamente riservati in forma equa ai vari dipendenti.

Tali provvedimenti riguardano spesso l’assegnazione d’incarichi lavorativi specifici, l’esclusione dai meeting del personale dipendente e il tenere nascoste solo ad alcuni dipendenti le informazioni che usualmente vengono diffuse tra tutti.

Tra gli altri atteggiamenti che caratterizzano il comportamento mobbizzante vi è poi, ad esempio, il fenomeno del ridimensionamento di ruolo nella comunità aziendale, che vede brillanti dipendenti (ritenuti potenzialmente pericolosi per lo status di alcuni alti membri del comitato direttivo a rischio) incaricati di mansioni di poco conto, come quella di fare fotocopie o gestire la posta di altri dipendenti di pari rango, che li demotivano e limitano l’espressione delle proprie capacità e conoscenze.

L’intento è quello di creare nella vittima, per varie ragioni, un senso di emarginazione e di cagionarle frustrazione e un’ansia sempre crescente e spesso insopportabile.

 

CAUSE ALLA BASE DEL MOBBING

Se i comportamenti individuati come mobbing hanno assunto rilevanza nei vari ordinamenti giuridici principalmente in relazione agli ambienti di lavoro, ciò è derivato dalle particolari caratteristiche che connotano il relativo ramo del diritto.

Il mobbing, non a caso, riguarda spesso grandi aziende, le quali lo utilizzano per aggirare la normativa a tutela dei licenziamenti cagionando nel lavoratore “sgradito” una condizione di stress psico-fisico, idonea a determinarlo ad abbandonare di sua “spontanea volontà” il luogo di lavoro.

Tuttavia le motivazioni che possono celarsi dietro gli atti mobbizzanti sono molteplici.

Talvolta, ad esempio, l’intento dei mobber è quello di riversare su un “capro espiatorio” alcune problematiche interne di vario genere.

Altre volte il mobbing è dettato da motivazioni di carattere strettamente personale.

Esso può anche essere la conseguenza del rifiuto, da parte della vittima, delle avances del superiore o del collega poi divenuto mobber.

Da tutto ciò emerge chiaramente che le conseguenze dannose del mobbing non sono necessariamente connesse alla perdita del posto di lavoro che esso può illecitamente e indirettamente cagionare. Essere vittima di ripetute vessazioni, attacchi e umiliazioni può, infatti, indurre nel lavoratore paure e insicurezze, idonee ad incidere in maniera anche rilevante sulla sua salute psico-fisica.

 

MOBBING SOCIALE

Sino ad ora, nel parlare di mobbing si è fatto riferimento esclusivo al mondo del lavoro.

Tuttavia, nonostante questo sia il contesto in cui il fenomeno assume la rilevanza maggiore, il mobbing riguarda anche altri contesti.

Un individuo, infatti, può essere “preso di mira” e può divenire vittima di ripetute vessazioni in qualsiasi contesto sociale.

Ciò accade, ad esempio, all’interno dell’ambiente scolastico, in cui i ragazzi possono divenire vittime del mobbing operato sia da altri studenti che dagli insegnanti.

Si pensi ai casi di disapprovazione infondata di alcune abitudini o idee dello studente o, ancora peggio, ai casi di pregiudizio nei suoi confronti derivante dalle origini, dalle tradizioni o dalla diversa etnia.

Anche nel caso di “mobbing scolastico” non sono da sottovalutare, seppur rari, i casi di mobbing dal basso che riguardano gruppi coalizzati di studenti che mirano a ledere le capacità organizzative e di dialogo di uno o più insegnanti ritenuti particolarmente deboli.

Un altro contesto sociale in cui il mobbing può estrinsecarsi è quello familiare.

Esso, ad esempio, riguarda i casi in cui un coniuge vuole ottenere il monopolio delle attenzioni della prole e, a tal fine, cerca di estromettere il partner dalle questioni familiari.

E’ chiaro che questo tipo di mobbing è nocivo non solo della stabilità del nucleo familiare e della salute della vittima diretta ma anche di quella dei figli e di tutto il nucleo familiare.

 

TUTELA GIURIDICA CONTRO IL MOBBING

Nel nostro ordinamento possono rinvenirsi diverse norme che permettono alle vittime di tutelarsi rispetto a fenomeni di mobbing.

 

LA COSTITUZIONE

La prima fondamentale tutela può essere rinvenuta nella Costituzione.

La carta fondamentale del nostro ordinamento, infatti, all’articolo 32 riconosce e tutela la salute come un diritto fondamentale dell’uomo, all’articolo 35 tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni e all’articolo 41 vieta lo svolgimento delle attività economiche private che possano arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

 

IL CODICE CIVILE E LE LEGGI SPECIALI

Spostandoci dal piano dei principi a quello pratico, nel nostro codice civile è possibile rinvenire due fondamentali norme in grado di aiutare le vittime di comportamenti mobbizzanti a trovare tutela rispetto alle lesioni subite.

Si tratta, innanzitutto, dell’articolo 2043 che prevede l’obbligo di risarcimento in capo a chiunque cagioni ad altri un danno ingiusto con qualunque fatto doloso o colposo.

Si tratta poi dell’articolo 2087 che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale di lavoratori.

Con riferimento alle leggi speciali, una tutela contro comportamenti mobbizzanti può essere ravvisata innanzitutto nello Statuto dei lavoratori, nella parte in cui pone una specifica procedura per le contestazioni disciplinari a carico dei lavoratori e laddove punisce i comportamenti discriminatori del datore di lavoro.

Un’ulteriore tutela, di carattere più generale, è ravvisabile, infine, nel Testo unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

 

IL CODICE PENALE

Il mobbing, nel nostro ordinamento può talvolta assumere rilevanza anche da un punto di vista penale, sebbene non esista una specifica figura di reato.

I comportamenti mobbizzanti, infatti, a determinate condizioni possono cagionare delle conseguenze riconducibili al reato di lesioni personali di cui all’articolo 590 del codice penale.

 

TUTELA CIVILISTICA

Le vittime di mobbing, quindi, trovano la loro principale fonte di tutela nella possibilità di esperire i tradizionali rimedi civilistici offerti dal nostro ordinamento.

Esse potranno insomma citare in giudizio il loro mobber nelle forme del rito ordinario al fine di vederne accertata la responsabilità per il danno che hanno cagionato nei loro confronti, ovverosia non solo il danno biologico ma anche il danno morale.

 

ONERE DELLA PROVA

Affinché possa essere risarcito del danno subito, tuttavia, è necessario che il mobbizzato fornisca una prova precisa e adeguata del mobbing.

Innanzitutto egli dovrà provare che, nei suoi confronti, è stata perpetrata una serie di comportamenti persecutori, con intento vessatorio.

Costituiscono esempi di tali comportamenti, si ricorda, le critiche continue e immotivate, la dequalificazione, l’emarginazione, le molestie.

Il mobbizzato dovrà provare, poi, che tali comportamenti non sono sfociati in un unico, isolato, evento, ma sono stati reiterati lungo un arco temporale medio-lungo, ovverosia per un periodo di tempo tale da rendere invivibile il contesto di riferimento.

Un’ulteriore fondamentale prova da fornire è quella relativa al danno subito. Essa potrà essere data con dichiarazioni testimoniali e, ancor più efficacemente, con perizie e certificati medici che attestino lo stato di depressione e frustrazione.

Infine, ed è questa la prova più delicata da fornire, dovrà essere accertato lo stretto rapporto causale tra la condotta denunciata e il danno subito.

 

MASSIME DELLA CASSAZIONE

Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 13693 del 03/07/15

“Il lavoratore vittima di mobbing non è tenuto a dimostrare la colpa del datore di lavoro ma è sempre tenuto a dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume siano state violate”.

Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 11547 del 04/06/15

“Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:

  • la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano posti in essere in modo miratamene sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
  • l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
  • il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
  • la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio”.

Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 10037 del 15/05/15

“Il fatto che le condotte persecutorie integranti la fattispecie di mobbing sino opera di un altro dipendente, superiore gerarchico della vittima, non esclude la responsabilità del datore di lavoro se questi è rimasto colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo. Nella specie la durata e le modalità con cui è stata posta in essere la condotta mobbizzante, quale risulta anche dalle prove testimoniali, sono tali da far ritenere la sua conoscenza anche da parte del datore di lavoro, nonché organo politico, che l’ha comunque tollerata”.

Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 1258 del 23/01/15

“Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi da parte del datore di lavoro comportamenti, anche protratti nel tempo, rivelatori (in modo inequivoco, di un’esplicita volontà di quest’ultimo di emarginazione del dipendente, occorrendo, pertanto dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte dirette (oggettivamente) all’espulsione dal contesto lavorativo, o comunque connotate da un alto tasso di vessatori età e prevaricazione, nonché sorrette (soggettivamente) da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall’unico fine intenzionale di isolare il dipendente”.

Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 1262 del 23/01/2015

“Per potersi parlare di mobbing è necessaria una pluralità di condotte ostili, protrattesi nel tempo, tese ad emarginare il singolo lavoratore. Per l’esattezza, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte affinché sia configurabile un mobbing devono ricorrere:

  • una serie di comportamenti di carattere persecutorio (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  • l’evento lesivo della salute, della personalità e/o della dignità del dipendente;
  • il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  • l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”.

 

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IL RISCHIO CHIMICO E LA RELAZIONE SULLA SICUREZZA CHIMICA

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

05 gennaio 2016

di Tiziano Menduto

 

Un intervento si sofferma sui regolamenti europei REACH e CLP in materia di sostanze chimiche. Focus sulla relazione sulla sicurezza chimica (CSR), sulla valutazione della sicurezza chimica (CSA) e sugli obblighi dell’utilizzatore a valle.

 

Proprio per la complessità della disciplina europea relativa alla sicurezza delle sostanze chimiche e, più in generale, della tutela dal rischio chimico nei luoghi di lavoro, torniamo spesso a presentare documenti in grado di approfondire e chiarire eventuali dubbi su questo tema.

Proprio sul rischio chimico si sono soffermati alcuni interventi ad un recente Convegno che si è tenuto a Imola il 3 novembre 2015 nell’ambito delle Settimane della Sicurezza 2015 organizzate dall’ Associazione Tavolo 81 Imola.

Stiamo parlando del convegno “Rischio chimico e amianto: facciamo il punto” in cui è stato possibile fornire alle aziende un quadro sul tema delle sostanze chimiche e materie prime, prodotti o semplicemente sostanze usate per il funzionamento di macchinari o processi dal punto di vista dei Regolamenti europei, della tutela dei lavoratori e con riferimento particolare agli ambienti sospetti di inquinamento e alla normativa correlata (D.Lgs.177/11).

Possiamo avere alcune indicazioni sul regolamento REACH e sul regolamento CLP (ricordando che dal primo giugno 2015 è diventato obbligatorio seguire il Regolamento CLP nella classificazione delle miscele) attraverso uno degli atti pubblicati sul proprio sito dall’Associazione Tavolo 81 Imola e relativo a un intervento di Bruno Marchesini (Chem-Consulting) sulle “Novità in materia di gestione dei prodotti chimici”.

Nell’intervento vengono presentati diversi aspetti sia del Regolamento 1907/06 (REACH) che del Regolamento 1272/08 (CLP).

Ad esempio si ricorda che il Regolamento REACH si basa sul principio che ai fabbricanti, agli importatori e agli utilizzatori a valle spetta l’obbligo di fabbricare, immettere sul mercato o utilizzare sostanze che non arrecano danno alla salute umana o all’ambiente.

In breve gli elementi chiave del Regolamento REACH sono:

  • registrazione: le sostanze fabbricate e importate nello SEE vengono registrate presso l’ECHA; l’informazione sull’uso sicuro vengono comunicate nella catena di approvvigionamento;
  • valutazione: esame delle proposte di test del registrante; verifica di conformità dei dossier, valutazione delle sostanze;
  • gestione del rischio: autorizzazione; restrizione; classificazione armonizzata.

L’intervento ricorda che, fatto salvo l’articolo 4 della Direttiva 98/24/CE (articolo 223 del D.Lgs.81/08), va effettuata una valutazione della sicurezza chimica e va compilata una relazione sulla sicurezza chimica per tutte le sostanze soggette a registrazione in forza del presente capo in quantitativi pari o superiori a 10 tonnellate all’anno per dichiarante.

Attenzione che, come già accennato, tale valutazione del rischio che deriva dagli obblighi del Regolamento REACH non è sostitutiva di quella che deve essere attuata ai sensi del D.Lgs.81/08.

La relazione sulla sicurezza chimica include dunque anche la valutazione della sicurezza chimica che deve contenere:

  • valutazione dei pericoli per la salute umana;
  • valutazione dei pericoli per la salute umana dovuti alle proprietà fisico-chimiche;
  • valutazione dei pericoli per l’ambiente;
  • valutazione PBT (Persistent, Bioaccumulative and Toxic) e VPVB (Very Persistent, Very Bioaccumulative).

La sostanza deve dunque essere valutata ancor prima di arrivare nell’ambiente di lavoro. E nel caso in cui si identifichi un pericolo (sostanza classificata pericolosa oppure PBT o VPVB), si deve procedere anche con:

  • l’individuazione degli scenari di esposizione e la relativa valutazione dell’esposizione;
  • la caratterizzazione del rischio.

E gli scenari di esposizione, valutazione e caratterizzazione dei rischi tengono conto di tutti gli usi identificati.

In definitiva la relazione sulla sicurezza chimica indica le misure di gestione del rischio che devono essere adottate. Tali misure, se del caso, devono essere indicate nelle Schede di Dati di Sicurezza (SDS).

Senza dimenticare che (come indicato dall’ Helpdesk Reach) l’utilizzatore a valle (persona fisica o giuridica diversa dal fabbricante e dall’importatore che utilizza una sostanza, in quanto tale o in quanto componente di una miscela, nell’esercizio delle sue attività industriali o professionali) deve:

  • informare il proprio fornitore su un uso quando la sostanza non è ancora registrata;
  • informare il proprio fornitore su un uso non contemplato nella SDS della sostanza registrata;
  • intraprendere azioni appropriate quando si riceve una SDS (individuare e mettere in atto misure adeguate per controllare i rischi derivanti dall’uso della particolare sostanza; comunicare al fornitore se le misure di gestione del rischio sono inadeguate o si rendano note nuove informazioni sui pericoli di una sostanza; verificare se gli scenari di esposizione allegati alla SDS coprano l’uso della sostanza e le condizioni d’uso e se l’uso non è coperto informare il fornitore);
  • comunicare informazioni riguardanti l’uso sicuro ai propri clienti mediante fornitura della propria SDS;
  • preparare una relazione sulla sicurezza chimica dell’utilizzatore a valle se il proprio uso non è coperto dalla SDS fornita.

La relazione ricorda poi in particolare che se l’utilizzatore finale utilizza la sostanza al di fuori dello scenario descritto dal suo fornitore e preferisce che tali utilizzi rimangono sconosciuti al fornitore, deve provvedere in proprio a redigere una relazione sulla sicurezza chimica (in questo caso la soglia quantitativa è di 1 ton/anno).

Tale obbligo decade se:

  • si tratta di una sostanza non pericolosa;
  • si tratta di casi in cui il produttore o importatore non deve eseguire la valutazione della sicurezza chimica (esenzioni);
  • si usa la sostanza o il preparato in quantitativi totali inferiori a 1 tonnellata all’anno;
  • se la sostanza è contenuta in un preparato a concentrazione inferiore a limiti definiti;
  • si usano misure di gestione del rischio più rigide di quelle raccomandate dal produttore/importatore;
  • se l’uso è nell’ambito delle attività di ricerca e sviluppo orientate ai prodotti e ai processi e il rischio è adeguatamente controllato.

Concludiamo ricordando che, a proposito degli obblighi degli utilizzatori finali la “Guida per gli utilizzatori a valle” fornisce suggerimenti per verificare se gli usi e le condizioni d’uso di una sostanza chimica sono coperti dagli scenari di esposizione delineati dai fornitori con la scheda di sicurezza. E la guida fornisce una panoramica dei principali compiti degli utilizzatori a valle per quanto riguarda gli scenari di esposizione in ambito REACH.

Il documento “Le novità in materia di gestione dei prodotti chimici”, a cura di Bruno Marchesini è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151214_gestione_prodotti_chimici.pdf

 

Il Regolamento (CE) n.1907/06 concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH) è scaricabile all’indirizzo:

http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2007:136:0003:0280:it:PDF

 

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.241 DEL 22/01/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.240 DEL 18/01/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.240 DEL 18/01/16

 

INDICE

  • I pareri della Commissione degli Interpelli – N.5
  • Lavoro agile, tanto “agile” da essere volatile e insicuro per la salute e sicurezza
  • Jobs Act, la legge dell’insicurezza
  • Rischio fumo di tabacco: la politica aziendale
  • Macchine agricole: le scadenze della revisione e della formazione
  • L’esorbitanza nel comportamento del lavoratore infortunato

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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I PARERI DELLA COMMISSIONE DEGLI INTERPELLI – N.5

 

L’articolo 12 del D.Lgs.81/08 (Testo Unico sulla sicurezza) ha previsto la costituzione della Commissione degli Interpelli, composta da rappresentanti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del Ministero della salute, della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome con lo scopo di rispondere a “quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro” posti da Organismi associativi, Enti pubblici, Organizzazioni sindacali dei datori di Lavoro e dei lavoratori, Consigli nazionali degli ordini.

La Commissione degli Interpelli è stata effettivamente costituita con Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 28 settembre 2011.

Secondo il comma 3 dell’articolo 12 del D.Lgs.81/08 “Le indicazioni fornite nelle risposte ai quesiti di cui al comma 1 [quelli posti alla Commissione] costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza”.

Riporto pertanto in una nuova rubrica della mia newsletter tali pareri con il link per scaricare il testo completo del quesito e del parere della Commissione.

Marco Spezia

 

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IDONEITA’ TECNICO PROFESSIONALE DEI LAVORATORI AUTONOMI NELL’AMBITO DEL TITOLO IV DEL D.LGS. 81/2008

Interpello in materia di sicurezza n.7 del 2 maggio 2013

 

RICHIEDENTE

ANCE – Associazione Nazionale Costruttori Edili

 

QUESITO

L’ANCE, Associazione Nazionale Costruttori Edili, ha avanzato istanza d’interpello per conoscere il parere della Commissione relativamente alla corretta interpretazione di quanto riportato nell’allegato XVII comma 2, lettera d) del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni, con particolare riferimento alla documentazione minima che i lavoratori autonomi devono esibire al committente o al responsabile dei lavori ai fini della dimostrazione della idoneità tecnico professionale prevista per operare in un cantiere temporaneo o mobile cosi come definito nell’articolo 89 del D.Lgs.81/08.

 

CHIARIMENTO

Al riguardo va premesso che gli obblighi in materia di salute e sicurezza di un lavoratore autonomo sono in via generale riportati nell’articolo 21 del D.Lgs.81/08 e, con specifico riferimento al “cantiere temporaneo o mobile”, nell’articolo 94 del medesimo provvedimento.

In particolare, il primo comma dell’articolo 21, citato, identifica gli obblighi del lavoratore autonomo nell’utilizzo di attrezzature di lavoro e Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) in modo conforme “alle disposizioni di cui al Titolo III” (lettere a e b), e del munirsi di “tessera di riconoscimento” (lettera c).

L’articolo 21, comma 2, citato, prevede inoltre che i lavoratori autonomi, relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico hanno pure facoltà di:

  1. beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’articolo 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali;
  2. partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’articolo 37, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali.

Il Legislatore, nel rispetto dei principi e criteri direttivi generali contenuti nell’articolo 1 della Legge 3 agosto 2007, n.123, che prevedevano “adeguate e specifiche misure di tutela per i lavoratori autonomi, in relazione ai rischi propri delle attività svolte e secondo i principi della raccomandazione 2003/134/CE del Consiglio, del 18 febbraio 2003” ha introdotto non uno specifico obbligo ma una facoltà di “beneficiare della sorveglianza sanitaria” e di “partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro”.

Ai fini delta verifica dell’idoneità tecnico professionale di un lavoratore autonomo destinato a operare in un cantiere temporaneo o mobile, il Legislatore nell’allegato XVII, comma 2, lettera d) del D.Lgs.81/08 aveva previsto che il lavoratore autonomo dovesse esibire gli “attestati inerenti la propria formazione e la relativa idoneità sanitaria previsti dal presente Decreto Legislativo”.

Questa formulazione aveva creato notevoli difficoltà in quanto sembrava che quella “facoltà” di “beneficiare della sorveglianza sanitaria” e di “partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro diventasse invece, per un lavoratore autonomo, un obbligo necessario per dimostrare la propria idoneità tecnico professionale per operare in un cantiere temporaneo o mobile”.

Con la modifica introdotta con il D.Lgs.106/09, espressamente richiesta dalle parti sociali, il lavoratore autonomo deve esibire al committente o al responsabile dei lavori o, in caso di subappalto, al Datore di Lavoro dell’impresa affidataria gli “attestati inerenti la propria formazione e la relativa idoneità sanitaria ove espressamente previsti dal presente Decreto Legislativo”.

La modifica introdotta con il D.Lgs.106/09, all’allegato XVII, citata e volta a rilevare la non obbligatorietà della formazione e della sorveglianza sanitaria per i lavoratori autonomi tranne che le stesse non siano espressamente previste da disposizioni speciali anche di attuazione del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni.

Tale concetto, peraltro, è stato ribadito nel documento della Conferenza Stato-Regioni “Adeguamento e linee applicative degli accordi ex articolo 34, comma 2, e 37, comma 2 del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni”, in cui a stato specificato che le previsioni di cui all’accordo ex articolo 37 del “testo unico” di salute e sicurezza sulla formazione di lavoratori, dirigenti e preposti, non hanno efficacia obbligatoria, ma sono dirette a fornire ai lavoratori autonomi utile parametro di riferimento per la formazione. La medesima fonte rimarca che è altresì obbligatoria altra formazione rispetto a quella oggetto di regolamentazione da parte dell’accordo ex articolo 37 qualora quest’ultima sia disciplinata da disposizioni di legge speciali rispetto alla previsione generale riportata all’articolo 21, comma 2 (e ad esempio il caso della formazione necessaria per effettuare lavori in ambienti confinati obbligatoria anche per i lavoratori autonomi, ai sensi del D.P.R.177/11) del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni.

Pertanto un committente o un’impresa affidataria, in fase di verifica dell’idoneità tecnico professionale del lavoratore autonomo, è tenuto a verificare il possesso della documentazione, di cui all’allegato XVII da parte del lavoratore autonomo, ma non anche ad esigere, al medesimo, l’esibizione degli attestanti inerenti la propria formazione e l’idoneità sanitaria.

Di conseguenza, risulta legittimo sia l’affidamento di lavori al lavoratore autonomo in possesso di documentazione inerente la formazione e l’idoneità sanitaria sia l’affidamento di lavori al lavoratore autonomo privo dei predetti requisiti.

Resta fermo per il committente la facoltà di richiedere al lavoratore autonomo ulteriori requisiti rispetto a quelli minimi individuati dall’allegato XVII, anche qualora essi consistano nel possesso della documentazione appena citata.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.7 del 2 maggio 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.07.pdf

 

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ARTICOLO 41, COMMA 2 DEL D.LGS.81/08 E VISITA MEDICA PREVENTIVA

Interpello in materia di sicurezza n.8 del 24 ottobre 2013

 

RICHIEDENTE

Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro

 

QUESITO

Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, su proposta del Consiglio provinciale di Palermo, ha inoltrato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito alla corretta interpretazione dell’articolo 41, comma 2 del D.Lgs.81/08.

In particolare l’istante chiede di sapere “se la previsione di visita medica preventiva di cui all’ articolo 41, comma 2, lettera a) del Decreto debba ritenersi dovere operare ogni qualvolta il datore di lavoro provvede a effettuare l’assunzione del lavoratore o se nel caso in cui vi siano assunzioni dello stesso lavoratore successive a una interruzione del rapporto di lavoro, per mansioni uguali o sostanzialmente collegate alto stesso rischio, per il quale sia trascorso un termine breve e comunque entro la periodicità prevista dal medico competente per la visita successiva non necessita una nuova visita preventiva”.

 

CHIARIMENTO

Al riguardo si osserva che ]a sorveglianza sanitaria, disciplinata dall’articolo 41 del D.Lgs.81/08, è effettuata dal medico competente nei casi previsti dalla normativa vigente.

In particolare l’articolo 41, comma 2, lettera a) del D.Lgs.81/08 prevede una visita medica preventiva con l’obiettivo di “constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato, al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica”.

Il successivo comma prevede una “visita medica periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica la cui periodicità, qualora non prevista dalla relativa normativa, viene stabilita, di norma, in una volta l ‘anno”.

Tutto ciò premesso la Commissione ritiene che, nel caso di assunzioni successive, qualora il lavoratore sia impiegato in mansioni che lo espongono allo stesso rischio nel corso del periodo di validità della visita preventiva o della visita periodica di cui all’articolo 41, comma 2, lettera b) del D.Lgs.81/08 e comunque per un periodo non superiore ad un anno, il datore di lavoro non è tenuto ad effettuare una nuova visita preventiva, in quanto la situazione sanitaria del lavoratore risulta conosciuta dal medico competente.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.8 del 24 ottobre 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.08.pdf

 

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IMPRESE FAMILIARI

Interpello in materia di sicurezza n.9 del 24 ottobre 2013

 

RICHIEDENTE

CNA – Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e media impresa

 

QUESITO

La Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa ha inoltrato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito alla applicazione del D.Lgs.81/08 alla “impresa familiare di fatto (ai sensi dell’articolo 230 bis del Codice Civile) che opera con collaboratori senza essersi costituita con atto espresso: atto notarile dichiarativo”.

 

CHIARIMENTO

Al riguardo va premesso che l’articolo 230 bis del Codice Civile prevede che “salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato […]”.

Pertanto, il legislatore ha voluto introdurre una figura di impresa familiare fondata sulla “solidarietà familiare” e non su un rapporto contrattuale.

Tutto ciò premesso, la Commissione fornisce le seguenti indicazioni.

La Commissione ritiene sia possibile costituire, ai sensi dell’articolo 230 bis del Codice Civile, un’impresa familiare senza la necessità di uno specifico atto notarile.

E opportuno sottolineare che ai fini dell’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, alle imprese familiari si applica l’articolo 21 del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.9 del 24 ottobre 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.09.pdf

 

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FORMAZIONE ADDETTI EMERGENZA

Interpello in materia di sicurezza n.10 del 24 ottobre 2013

 

RICHIEDENTE

Consiglio Nazionale degli Ingegneri

 

QUESITO

Il Consiglio Nazionale degli Ingegneri ha avanzato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito ai corsi tenuti dagli ingegneri abilitati ai sensi della Legge n.818/84. In particolare chiedono di sapere se il suddetto professionista sia:

  • adeguatamente titolato, agli effetti del D.M.10/03/98, quale soggetto formatore per gli addetti alle aziende valutate a rischio media e basso;
  • sia abilitato al rilascio di attestati di frequenza per gli stessi corsi e se tali attestati siano validi agli effetti della documentazione e della formazione obbligatoria prevista nel D.Lgs.81/08.

 

CHIARIMENTO

Il D.M.10/03/98 non prevede né requisiti specifici né titoli ai fini dell’idoneità del soggetto formatore per gli addetti all’emergenza. I soggetti formatori devono possedere competenza nella materia antincendio.

Pertanto si ritiene che gli ingegneri, abilitati ai sensi della Legge n.818/84, possano svolgere i corsi per addetti all’emergenza e, quindi, rilasciare i relativi attestati di frequenza. Inoltre si sottolinea come, per le aziende individuate dall’allegato X del Decreto, “i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle emergenze”, debbano conseguire “l’attestato di idoneità tecnica di cui all’articolo 3 della Legge n.609/96”.

Infine la Commissione ritiene validi ai fini della formazione prevista dall’articolo 37, comma 9 del D.Lgs.81/08 i suddetti attestati.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.10 del 24 ottobre 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.10.pdf

 

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ACCORDO STATO-REGIONI DEL 21 DICEMBRE 2011

Interpello in materia di sicurezza n.11 del 24 ottobre 2013

 

RICHIEDENTE

Federambiente

 

QUESITO

La Federazione Italiana Servizi Pubblici Igiene Ambientale (Federambiente) ha avanzato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito all’Accordo Stato Regioni del 21/12/11 relativo alle modalità di svolgimento della formazione dei lavoratori, ai sensi dell’articolo 37, comma 2 del D.Lgs.81/08.

In particolare l’interpellante chiede di conoscere se la durata e i contenuti della formazione dei lavoratori possa prescindere dall’appartenenza a uno specifico settore Ateco e possa essere tarata sulla effettiva condizione di rischio che si rileva, per ciascuna attività lavorativa, a valle del processo di valutazione.

 

CHIARIMENTO

L’Accordo Stato Regioni del 21/12/11 disciplina la durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione, nonché l’aggiornamento dei lavoratori, ai sensi dell’articolo 37, comma 2 del D.Lgs.81/08. La suddetta formazione, come esplicitato nella premessa dell’Accordo in parola, da erogare al lavoratore e, per quanto facoltativa nell’articolazione, ai dirigenti e ai preposti, costituisce un percorso minimo da organizzare e integrare sulla base delle risultanze della valutazione dei rischi.

L’Accordo Stato Regioni del 25/07/12, concernente le linee guida applicative e integrative dell’Accordo Stato Regioni del 21/12/11, chiarisce che la classificazione dei lavoratori, “può essere fatta anche tenendo conto delle attività concretamente svolte dai soggetti medesimi, avendo a riferimento quanto nella valutazione dei rischi”.

Tutto ciò premesso la Commissione fornisce le seguenti indicazioni.

L’articolo 37, comma 1 del D.Lgs.81/2008, prevede che “il datore di lavoro assicura che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento ai […] rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda”.

Alla luce delle vigenti disposizioni normative e in particolare sulla base di quanto indicato negli Accordi Stato-Regioni citati in premessa, la formazione (che deve essere “sufficiente e adeguata”) va riferita all’effettiva mansione svolta dal lavoratore, considerata in sede di valutazione dei rischi; pertanto la durata del corso può prescindere dal codice Ateco di appartenenza dell’azienda.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.11 del 24 ottobre 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.11.pdf

 

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LAVORO AGILE, TANTO “AGILE” DA ESSERE VOLATILE E INSICURO PER LA SALUTE E SICUREZZA

 

Da: Diario Prevenzione

http://www.diario-prevenzione.it

sabato 16 gennaio 2016

 

Abbondano i disegni di legge per dare una parvenza di “legalità” alle forme di lavoro “precario” con la sostituzione delle parole che lo definiscono.

Da “precario” il lavoro diviene “agile”, e in alcune accezioni diviene addirittura “smart” dove di “smart” per il lavoratore vi è molto poco.

Tutto diviene indefinito, la cosiddetta cornice costruita per dare una parvenza di “legalità” per alcuni elementi diviene risibile rispetto, ad esempio, alle norme per la gestione della sicurezza sul lavoro.

 

Abbiamo tra le mani un ibrido che sta tra il regolamento aziendale tipo e un contratto commerciale ove il lavoratore è un fornitore in una relazione di potere sbilanciata. L’aspetto della prestazione è affidato al contratto individuale tra lavoratore e impresa, in una condizione di totale subalternità del lavoratore.

 

Orari, tempi di lavoro, aspetti gestionali sono consegnati alla trattativa individuale tra lavoratore e impresa. Abusi, truffe e compensi non pagati in ragione di contestazione della qualità della prestazione erogata dal lavoratore saranno possibili e numerosi in quanto le clausole contro gli abusi riguardano solo gli aspetti formali del contratto.

Il “dominus” è l’azienda committente “versus” il lavoratore che è monade isolata e debole.

Non esiste nessun accenno che richiami l’ergonomicità delle attrezzature fornite dal committente o proprie del lavoratore. Per fare un esempio i lavoratori “agili” del call center potranno operare con cuffie da tre soldi, apparecchiature di bassa qualità…

Non parliamo poi della prevenzione dello stress lavoro correlato totalmente ignorata in quanto il lavoro “agile” non sarebbe stressante per definizione…

 

I commi 2 e 3 dell’articolo 6 del Disegno di Legge sul “Lavoro agile” sono emblematici dell’assenza di tutela della salute di questi lavoratori.

Il Parlamento dovrà discutere seriamente prima di licenziare questo pericoloso pastrocchio ove di “agile” vi è solo l’amabile disinvoltura a evitare di affrontare la complessità dei problemi che questa tipologia di lavoro produrrà nel mercato del lavoro.

La pericolosità sta nella diffusione di un rapporto di lavoro di natura altamente subordinata spacciato come rapporto di lavoro autonomo “leggero” e senza rischi per la salute. La sua “pericolosità sociale” è pari solo a quella generata dai “Voucher”.

 

L’articolo 6 “Sicurezza sul lavoro” del Disegno di Legge sul “Lavoro agile” riporta quanto segue:

Il datore di lavoro deve garantire la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile.

Al fine di dare attuazione all’obbligazione di sicurezza, e tenuto conto dell’impossibilità di controllare i luoghi di svolgimento della prestazione lavorativa, il datore di lavoro deve consegnare una informativa periodica, con cadenza almeno annuale, nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alle modalità di svolgimento della prestazione.

Il lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile, per i periodi nei quali si trova al di fuori dei locali aziendali, deve cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro”.

 

La bozza del Disegno di Legge sul “Lavoro agile” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.diario-prevenzione.it/ddl/DDL-lavoro-autonomo-e-lavoro-agile-1%20%281%29%281%29.pdf

 

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JOBS ACT, LA LEGGE DELL’INSICUREZZA

 

Da: Rassegna.it

http://www.rassegna.it

15 gennaio 2016

 

Abolizione del Registro infortuni, riduzione dei componenti sindacali in Commissione consultiva, non applicazione delle tutele ai lavoratori con i voucher: questi i punti più controversi, che porteranno all’aumento di infortuni e malattie professionali

 

Non verrà certo meno nei prossimi mesi (e forse anni) l’esigenza da parte della CGIL di approfondire e soppesare gli effetti concreti che il Jobs Act (articolato finora in otto Decreti) dispiegherà nel prossimo futuro, soprattutto in materia di salute, sicurezza e prevenzione per i lavoratori e le lavoratrici.

Occorre dire subito, però, che non solo le misure specifiche dell’articolo 20 del D.Lgs.151/15 (cosiddetto “Decreto semplificazione”) e del Decreto riguardante le attività ispettive avranno un effetto sulle condizioni di vita e di lavoro nel nostro paese.

 

La norma sul demansionamento ad esempio, che abbiamo giudicato molto negativamente, oltre ad avere permesso alle aziende azioni finora non possibili, ha anche introdotto il concetto della “non obbligatorietà” della formazione specifica alla mansione prima del cambio della mansione stessa.

Può sembrare un dettaglio, ma non lo è. Cosa succede, in concreto, quando un lavoratore viene immediatamente adibito a un compito del quale non conosce i rischi specifici e le relative misure di prevenzione da adottare? Succede che l’incidenza di infortuni e malattie professionali aumenta, e aumenterà nei prossimi anni, per un’intrinseca falla che si crea nel sistema di prevenzione e protezione aziendale.

 

Come non pensare anche alla questione della sorveglianza elettronica (o classicamente “videosorveglianza”), che assegna al datore di lavoro la possibilità del controllo attraverso apparecchiature specificamente fornite per l’espletamento della prestazione lavorativa (come smartphone, tablet, personal computer), senza alcuna negoziazione con le rappresentanze sindacali o altro?

Oltre ai noti e sollevati problemi di privacy, è evidente come l’eventuale uso disciplinare o discriminatorio dei dati provenienti da questo tipo di controllo solleverà molti contenziosi, non aiutando certo il clima di benessere organizzativo necessario al nostro tessuto produttivo e aziendale.

 

Le misure contenute, infine, nel Decreto che istituisce l’Ispettorato nazionale per l’attività ispettiva, lasciano aperti molti problemi: il coordinamento sarà limitato ai soli Ministero del Lavoro, INPS e INAIL, o si realizzerà il famoso e auspicato coordinamento con il sistema di Regioni e ASL?

E le funzioni del cosiddetto “Ispettore unico”, la sua dote formativa e strumentale, quando vedranno la luce? Sono ancora molti, quindi, gli aspetti non chiariti da questo intervento di riforma che ha bisogno di decretazione attuativa per essere pienamente giudicato. Bisognerà dunque lavorarci sopra come Confederazione e come categorie, per far sì che, nelle possibilità concrete, esso possa rappresentare un reale elemento di avanzamento.

 

Ma torniamo all’articolo 20 del Decreto “semplificazioni”, che riguarda direttamente le materie di salute e sicurezza. Il primo problema evidente a chi legge (e a chi ha seguito la nostra campagna contraria, sfociata anche in un avviso comune, unitario con Confindustria, avverso al provvedimento) è la riduzione dei componenti della Commissione consultiva permanente (ex articolo 6 del D.Lgs.81/08) di espressione delle parti sociali, con l’introduzione al loro posto di componenti espressione del mondo associazionistico e tecnico professionale.

E’ evidente a chiunque abbia un po’ di discernimento e buona fede che in questo modo la “governance” della Commissione viene mutata con la modifica dei numeri necessari per l’espressione del parere, violando il principio del “tripartitismo” cui è informata la legislazione italiana ed europea in materia di salute e sicurezza. Il giusto ruolo delle parti sociali, a questo punto soccombente con la nuova disciplina rispetto alla parte di Stato e Regioni, è invece importantissimo e centrale per la trattazione di problemi che le suddette organizzazioni risolvono o tentano di risolvere ogni giorno nei posti di lavoro (reali e fisici) di questo paese. Ma la vulgata imperante rispetto alla “pletoricità” della Commissione stessa e al ruolo non più “utile” o “necessario” dei corpi intermedi all’interno della dinamica sociale e politica, ha deciso altro.

 

Gli altri due aspetti assolutamente negativi contenuti nel Decreto (rispetto ai quali come CGIL stiamo pensando a ricorsi di tipo giuridico in sede sia europea sia italiana), sono quelli relativi ai lavoratori retribuiti attraverso i voucher e all’abolizione del Registro infortuni.

Per i primi si prevede la non applicazione delle tutele relative alla prevenzione previste dal D.Lgs.81/08, se questi non prestano la propria opera nei confronti di un’impresa o di un professionista.

Ci si dimentica però che questa forma di lavoro, nata per regolamentare in qualche modo il lavoro accessorio e occasionale, riconducendolo nell’ambito della regolarità, è subito diventata una dilagante forma di precarietà: è evidente, dunque, la discriminatorietà della norma in questione nei confronti di centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici.

 

Altro punto negativo è quello dell’abolizione dell’obbligatorietà della tenuta del Registro infortuni, che doveva essere una misura collaterale al famoso Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione (SINP), sistema peraltro mai partito né deliberato dai governi dal 2008 a oggi.

La misura è del tutto favorevole a quelle aziende scorrette che non gradiscono che si tenga traccia di quanto succede all’interno dei loro luoghi di lavoro, che non gradiscono “intrusioni” da parte degli organi di vigilanza. E pensare, invece, che proprio la legislazione europea e la Direttiva relativa a queste materie prevedono che le aziende sono tenute ad adottare una simile forma di registro, che tracci gli accadimenti e sia a disposizione delle autorità e delle rappresentanza sindacali aziendali e territoriali.

 

Solo un accenno, in conclusione, a un’ulteriore questione la cui interpretazione è ancora controversa, ovvero l’abolizione dell’obbligo di comunicazione degli infortuni con una prognosi sotto i 30 giorni da parte del datore di lavoro, sostituita da una comunicazione da parte dell’INAIL. Oltre alle evidenti conseguenze di opacità e problematicità che la norma comporterebbe (fra cui la mancata comunicazione automatica all’autorità giudiziaria), la farraginosità della misura assegna all’INAIL un ruolo molto rilevante e anche rischioso.

 

Sebastiano Calleri

Responsabile nazionale Salute e Sicurezza CGIL

 

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RISCHIO FUMO DI TABACCO: LA POLITICA AZIENDALE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

4 gennaio 2016

 

L’approccio gestionale del fumo di tabacco è il modo concreto di trattare questo rischio per i lavoratori: conseguenze, vantaggi e svantaggi, le attività di promozione della salute.

 

In azienda è opportuno che il fumo di tabacco venga considerato attentamente sia per l’applicazione del divieto che per la valutazione del rischio globale. L’approccio gestionale del fumo di tabacco è il modo concreto di trattare un rischio per la salute in maniera efficace anche in azienda, offrendo ai lavoratori informazione e consulenza sull’argomento al fine di proteggerli dal fumo passivo, proponendo la disassuefazione ai fumatori attivi e cercando di evitare l’iniziazione al fumo dei non fumatori.

La presenza di lavoratori fumatori può comportare per l’azienda:

  • maggiori assenze per malattia;
  • aumento di incidenti e infortuni;
  • contrasti con i colleghi non fumatori;
  • possibile interazione fra i prodotti del fumo di tabacco e i fattori di rischio occupazionale, con maggiore probabilità di insorgenza di patologie.

 

Una gestione aziendale mirata al fumo di tabacco può determinare per tutti i lavoratori i seguenti vantaggi:

  • miglioramento delle condizioni di salute;
  • miglioramento delle relazioni con i colleghi (benessere personale e di gruppo);
  • miglioramento dell’ambiente di lavoro;
  • promozione della salute.

L’azienda può limitarsi all’applicazione di un piano che preveda il solo rispetto del divieto oppure può creare uno strumento di promozione della salute.

Nel primo caso il progetto sarà improntato per diffondere informazioni ai dipendenti sul rispetto della normativa, i divieti, le sanzioni, l’informazione sui danni da fumo attivo e passivo e avrà come obiettivo la difesa dei lavoratori dal fumo passivo.

Nel secondo caso potrà essere attivato un vero e proprio percorso di promozione della salute dedicato ai fumatori.

Il progetto di promozione della salute, oltre al rispetto della normativa sul posto di lavoro per la tutela dei non fumatori, si prefigge anche l’intento di aiutare i fumatori presenti in azienda a smettere, coinvolgendo il Medico Competente (ove previsto dalla normativa vigente), le ASL, i centri territoriali antifumo, il personale, sanitario e non, che possa essere di aiuto e supporto al fumatore che decida di smettere.

La politica aziendale deve essere strutturata in modo da fornire adeguata informazione ai lavoratori, sostegno costante e indicazioni sui soggetti e le strutture cui rivolgersi.

 

A questo fine appare essenziale:

  • costituire un Gruppo di lavoro aziendale con la partecipazione dei lavoratori;
  • valutare la situazione esistente nella propria azienda (sopralluoghi, questionari, ecc.);
  • scegliere fra divieto assoluto o parziale (zone per fumatori);
  • definire obiettivi (divieto o promozione della salute) e piano d’azione;
  • redigere il regolamento (regole, divieti, luoghi dove poter fumare, referenti, sanzioni, ecc.);
  • comunicare a tutti la politica aziendale (cartelli, incontri, ecc.);
  • offrire programmi per smettere di fumare (interni o esterni all’azienda);
  • monitorare l’attuazione del progetto (punti critici);
  • valutare i risultati a breve e lungo termine (6 – 12 mesi)
  • riproporre periodicamente il progetto.

Il Gruppo di lavoro, istituito dalla direzione aziendale, dovrebbe essere costituito da rappresentanti dei diversi settori (reparti, manutenzione, personale, ufficio tecnico, economato, ecc.), dal Medico Competente (ove previsto), dal Responsabile o da un Addetto del Servizio di Prevenzione e Protezione, dal Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, da lavoratori volontari ed eventualmente da rappresentanti dei servizi territoriali (ASL).

All’interno del gruppo dovrebbe essere nominato un referente con il compito di curare i rapporti con la direzione aziendale nelle varie fasi del progetto.

Sarebbe importante definire dei ruoli che possano persistere anche nel caso di cessazione degli incarichi.

 

Prima di stendere il progetto dovrebbe essere valutata la situazione presente in azienda riguardo l’abitudine al fumo di tabacco (presenza di fumatori, contrasti con i non fumatori, aree esterne per fumare, ecc.) e il rispetto del divieto.

L’opinione dei lavoratori potrebbe essere raccolta tramite la formulazione di un questionario da distribuire via mail o con il cedolino dello stipendio. Lo stesso potrebbe essere fatto periodicamente durante la realizzazione del progetto per verificare gli effetti della politica antifumo. Un’azione di propaganda sul progetto dovrebbe essere effettuata tramite gli stessi mezzi e con poster e dépliant illustrativi appositamente predisposti e collocati nelle varie strutture aziendali.

Il documento dell’INAIL “La gestione del fumo di tabacco in azienda” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/intranet/documents/document/ucm_201604.pdf

 

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MACCHINE AGRICOLE: LE SCADENZE DELLA REVISIONE E DELLA FORMAZIONE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

4 gennaio 2016

 

Un intervento si sofferma sulle novità normative nel comparto agricolo. La rete per il lavoro di qualità, la revisione delle macchine agricole e la formazione degli operatori. La scadenza del 31 dicembre 2015 per la revisione e l’abilitazione.

 

Nel nostro paese agricoltura e selvicoltura sono settori ad alto numero di infortuni. E se il nostro paese è caratterizzato dal grande impegno nell’ambito della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, i risultati in questi settori continuano ad essere altalenanti malgrado la buona qualità della legislazione e dalla grande competenza e passione degli operatori.

Ad affermarlo, intervenendo al Convegno “Salute e sicurezza in agricoltura e selvicoltura. Le prospettive. Il piano 2014-2018” che si è tenuto l’8 settembre 2015 a Lodi, è la senatrice Maria Grazia Gatti, componente della Commissione Agricoltura del Senato della Repubblica.

La senatrice è intervenuta nel Convegno, organizzato dall’ASL di Lodi, su due aspetti: la costituzione della rete per il lavoro agricolo di qualità e la Risoluzione in Commissione Agricoltura del Senato relativa alla revisione delle macchine agricole e alla formazione degli operatori votata prima della successiva emanazione del Decreto Ministeriale del 20 maggio 2015.

L’intervento ricorda che la rete per il lavoro agricolo di qualità (la cui cabina di regia nazionale è già operante) procederà a monitoraggi costanti, su base trimestrale, anche accedendo ai dati INPS su instaurazione, trasformazione e cessazione dei rapporti di lavoro, dell’andamento del mercato del lavoro agricolo, valutando in particolare il rapporto tra il numero dei lavoratori stranieri che risultano impiegati e il numero di lavoratori stranieri ai quali è stato richiesto il nulla-osta per il lavoro agricolo dagli sportelli unici per l’immigrazione. Promuoverà iniziative anche d’intesa con le autorità competenti e le parti sociali, in materia di politiche attive del lavoro, contrasto al lavoro sommerso e all’evasione contributiva, organizzazione e gestione dei flussi di manodopera stagionale, assistenza ai lavoratori stranieri immigrati.

Per quanto riguarda invece la revisione delle macchine agricole e la formazione professionale per il conseguimento dell’abilitazione all’uso, la relatrice racconta innanzitutto come si è arrivati al Decreto.

Se agricoltura e selvicoltura continuano a essere fra i settori con più infortuni mortali, anche nell’ultimo periodo una grande percentuale sono avvenuti su trattori e la principale causa è stata il ribaltamento/rovesciamento del mezzo. Nella maggior parte dei casi il capovolgimento trasversale e/o longitudinale del mezzo è avvenuto per sovraccarico del trattore, per sforzo eccessivo di traino, per manovre brusche e per eccessiva pendenza del terreno.

Si ricorda che i principali dispositivi di protezione sono rappresentati dall’installazione direttamente sul trattore di una struttura di protezione ROPS (Roll Over Protection Structure – Struttura di Protezione contro il Ribaltamento) tale da evitare o limitare i rischi in caso di capovolgimento e di schiacciamento e dalla cintura di sicurezza. Ai fini di sicurezza è indispensabile la contemporanea presenza dei due dispositivi.

Tuttavia dalle indagini sugli infortuni emerge anche che gli infortuni legati all’uso dei trattori agricoli o forestali sono, nella maggior parte dei casi, determinati oltre che dalle carenze delle attrezzature sotto il profilo della sicurezza e dall’eccessiva obsolescenza del parco macchine circolante, anche da carenze di formazione specifica degli operatori addetti all’uso. Quindi la revisione delle macchine con la eventuale rottamazione e la formazione degli operatori sono i due strumenti attraverso cui rendere il lavoro in agricoltura un lavoro più sicuro.

Una risoluzione della Commissione Agricoltura in Senato (di cui la senatrice è stata relatrice) ha fissato gli impegni per il governo nella attuazione del Decreto.

 

La risoluzione impegnava il Governo a:

  • far sì che non si prevedessero ulteriori proroghe rispetto all’entrata in vigore dell’obbligo della revisione delle macchine agricole e della formazione degli operatori, considerato che erano già tre le proroghe intervenute circa la revisione e due quelle sull’abilitazione obbligatoria;
  • prevedere, nella scrittura del Decreto Ministeriale con cui disporre le modalità di esecuzione della revisione, disposizioni volte a garantire non solo i profili di sicurezza di circolazione stradale delle macchine agricole ma anche quelli attinenti alla sicurezza sui luoghi di lavoro; questo è il punto fondamentale e richiederà un impegno particolare del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali;
  • prevedere che la revisione si effettui non solo con controlli visivi ma anche con controlli adeguati (sull’usura e su altri profili);
  • a prevedere una scalettatura delle revisioni che permetta una copertura progressiva in tempi adeguati di tutto il parco macchine e, a regime, una revisione periodica;
  • a prevedere la possibilità di utilizzare officine mobili presso le aziende o punti di raccolta che facilitino il conferimento delle macchine agricole oggetto di revisione;
  • a prevedere meccanismi che consentano la rottamazione delle macchine agricole più obsolete con tariffe e procedure semplificate che incentivino l’eliminazione delle macchine più pericolose;
  • a prevedere tariffe di revisione che favoriscano l’avvio della campagna tenendo anche conto della difficile situazione economica delle imprese;
  • per quanto riguarda i finanziamenti, a incrementare, da parte del Governo e degli enti strumentali (INAIL), i fondi per i bandi specifici per la revisione delle macchine agricole, oltre a stabilire una relazione con le Regioni affinché i Piani di sviluppo rurale inseriscano nella specifica della misura 17 le revisioni delle macchine agricole come misura di ammodernamento delle imprese ed incremento della sicurezza sul lavoro.

Inoltre per quanto concerne la formazione degli operatori la risoluzione impegnava il Governo a:

  • a rafforzare le sperimentazioni realizzate anche in collaborazione con l’INAIL e il Ministero del lavoro, dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca negli istituti tecnici-agrari con l’obiettivo di rendere istituzionalizzato il conseguimento del patentino;
  • a verificare tutte le possibilità per favorire la formazione all’uso dei trattori come strumenti di lavoro con tariffe adeguate, prendendo parte eventualmente a stabilire relazioni fra soggetti formatori e produttori di macchine agricole per un utilizzo migliore della disponibilità data dai produttori a fornire le macchine per la formazione;

Infine per quanto riguarda la revisione delle macchine agricole e la formazione degli operatori la risoluzione impegnava il Governo a:

  • prevedere dei punti di controllo per verificare l’andamento dei processi e la necessita di aggiustamenti o di nuove norme (in particolare, per quanto riguarda la formazione sarà importante verificare la necessita di adeguare i programmi, anche per una più completa integrazione e formazione della manodopera straniera molto presente nel settore).

Ricordiamo che il decreto del 20 maggio 2015 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.149 del 30 giugno 2015) ha stabilito i tempi per procedere alla revisione obbligatoria delle macchine agricole e delle macchine operatrici.

Tuttavia le modalità di esecuzione della revisione (articolo 5, comma 1) dovranno essere definite con un Decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, ed è con questo Decreto che si dovrà corrispondere alle altre richieste del Parlamento.

 

E poi si tratterà di monitorare attentamente il processo per intervenire in caso di intoppi e rallentamenti ed inoltre bisognerà favorire in tutti i modi sia il processo di revisione che quello della formazione.

Segnaliamo in conclusione che il Decreto prevede che i trattori agricoli siano sottoposti a revisione generale “a far data dal 31 dicembre 2015 e, successivamente, ogni 5 anni, entro il mese corrispondente alla prima immatricolazione secondo l’anno stabilito nella tabella” di cui all’allegato 1 del Decreto Ministeriale.

Mentre le altre macchine agricole semoventi a due o più assi e i rimorchi agricoli (aventi massa complessiva a pieno carico superiore a 1,5 tonnellate e con massa complessiva inferiore a 1,5 tonnellate, se le dimensioni d’ingombro superano i 4 metri di lunghezza e 2 metri di larghezza) sono sottoposte a revisione generale obbligatoria a far data dal 31 dicembre 2017.

 

E’ diversa invece la data per alcune particolari macchine operatrici:

  • macchine impiegate per la costruzione e la manutenzione di opere civili o delle infrastrutture stradali o per il ripristino del traffico;
  • macchine sgombraneve, spartineve o ausiliarie, quali spanditrici di sabbia e simili;
  • carrelli, quali veicoli destinati alla movimentazione di cose.

Queste macchine sono sottoposte alla revisione generale a far data dal 31 dicembre 2018.

Senza dimenticare, infine, che riguardo alla formazione professionale per il conseguimento dell’abilitazione all’uso delle macchine agricole, il Decreto rinvia a quanto già stabilito dall’ Accordo Stato-Regioni del 22 febbraio 2012, concernente l’individuazione delle attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori, nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione, i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di validità della formazione, in attuazione dell’articolo 73, comma 5, del Decreto Legislativo del 9 aprile 2008, n.81.

E anche in questo caso è da segnalare la scadenza del 31 dicembre 2015.

E’ infatti in questa data che (dopo le proroghe del “Decreto del Fare”: Legge n.98/13 e della Legge 11/15) è entrato in vigore l’obbligo dell’abilitazione all’uso delle macchine agricole considerate nell’Accordo del 22 febbraio 2012.

L’Intervento della senatrice Maria Grazia Gatti al convegno “Salute e sicurezza in agricoltura e selvicoltura. Le prospettive. Il piano 2014-2018” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151230_Sicurezza_agricoltura_gatti.pdf

Il Decreto 20 maggio 2015 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti “Revisione generale periodica delle macchine agricole ed operatrici, ai sensi degli articoli 111 e 114 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285” è consultabile all’indirizzo:

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/06/30/15A04679/sg

 

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L’ESORBITANZA NEL COMPORTAMENTO DEL LAVORATORE INFORTUNATO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

11 gennaio 2016

di Gerardo Porreca

 

Nel concetto di esorbitanza del comportamento del lavoratore infortunato vanno incluse l’inosservanza di norme antinfortunistiche e una condotta contraria a precise direttive organizzative ricevute.

 

In questa Sentenza la Corte di Cassazione ha focalizzata la propria attenzione sui limiti di responsabilità del datore di lavoro e su quando il comportamento del lavoratore che ha subito un infortunio costituisce una evidente causa interruttiva del nesso causale fra una omissione del datore di lavoro stesso e l’evento lesivo, argomento sul quale per la verità la suprema Corte non sembra aver trovato una linea comune, univoca e condivisa.

Pur se il criterio idoneo a discriminare il comportamento anomalo del lavoratore da quello che non lo è, ha sostenuto nella Sentenza stessa la Corte suprema, è basato sullo svolgimento delle proprie mansioni nel concetto di esorbitanza vanno incluse anche l’inosservanza a precise norme antinfortunistiche o la condotta del lavoratore contraria a precise direttive organizzative ricevute sempre a condizione che tale comportamento non risulti determinato da carenze o inidoneità delle norme di sicurezza adottate dal datore di lavoro.

La Corte di Appello ha riformato, con esclusivo riferimento alla concessione delle circostanze attenuanti generiche e rideterminazione della pena in quindici giorni di reclusione, la pronuncia di condanna emessa dal Tribunale nei confronti di un datore di lavoro, imputato del reato previsto dall’articolo 590 del Codice Penale in relazione all’articolo 583 del Codice Penale perché, nella sua qualità, per colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia e inosservanza delle norme dettate per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in particolare per violazione dell’articolo 68 del D.P.R.547/55, omettendo di proteggere o comunque di dotare di idoneo dispositivo di sicurezza gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, ha cagionato ad una dipendente, con la qualifica di operaia addetta al reparto frigo, lesioni personali guaribili in 92 giorni.

L’infortunio era accaduto mentre la lavoratrice svolgeva mansioni di addetta a una foratrice allorquando questa si è inceppata a causa di una basetta facente parte del macchinario che si era incastrata nei meccanismi di trazione. In particolare la lavoratrice, nonostante fosse a conoscenza della procedura idonea a sbloccare la foratrice in sicurezza, ha preso un cacciavite e ha infilato la mano, protetta dal guanto, in un piccolo varco presente nel recinto di protezione in plexiglas posto a copertura degli ingranaggi del macchinario. Una volta sbloccato il meccanismo, la foratrice si è riattivata agganciando il guanto di protezione e trascinando la mano della lavoratrice stessa tra gli ingranaggi, con conseguente frattura esposta del terzo dito della mano destra.

Il datore di lavoro ha ricorso per Cassazione censurando la decisione impugnata sostenendo che la Corte di Appello avesse desunto la sua colpa dalla violazione di una generica norma cautelare, ossia dall’aver omesso di adottare la cautela di impedire l’avvicinamento della lavoratrice alla zona di operazione della macchina, mentre l’imputazione si riferiva alla specifica norma cautelare dettata dall’articolo 68 del D.P.R.547/55 che prevede che “gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, quando possono costituire un pericolo per i lavoratori, devono, per quanto possibile, essere protetti o segregati oppure provvisti di dispositivo di sicurezza”.

Secondo il ricorrente, quindi, il Giudice avrebbe dovuto accertare in concreto l’avvenuta violazione della più generica regola cautelare così identificata e avrebbe dovuto altresì motivare l’insufficienza della barriera protettiva di plexiglas posta attorno alla macchina, tanto sotto il profilo dell’inidoneità della decisione aziendale di posizionare tale barriera alla distanza di almeno 85 centimetri dagli ingranaggi quanto sotto il profilo del posizionamento del varco di 10 centimetri a un’altezza tale da rendere necessaria una condotta positiva del lavoratore finalizzata al superamento dell’ostacolo costituito dalla posizione in quota della predetta fessura.

Nel ricorso l’imputato ha riscontrato, altresì, una violazione della legge penale sostanziale con riferimento ai principi che regolano l’individuazione della violazione di una regola cautelare. Premesso che l’infortunio era stato causato da una deliberata decisione della lavoratrice, munitasi di un cacciavite e arrampicatasi sui caricatori della macchina per accedere per il tramite di un varco di dieci centimetri alla zona meccanica della macchina, il ricorrente ha sostenuto l’erroneità della decisione di ritenere penalmente rilevante la condotta del datore di lavoro per aver tratto dall’articolo 2087 del Codice Civile il suo dovere di garantire la sicurezza assoluta dei lavoratori, per aver trascurato che la presenza dei varco di dieci centimetri costituiva una condizione essenziale per il funzionale esercizio della macchina e che la segregazione richiesta dall’articolo 68 del D.P.R.547/55 è imposta “per quanto possibile”, per avere altresì omesso di considerare il legittimo affidamento dell’imputato nel comportamento della dipendente conforme alle direttive ricevute, desumibile dall’obbligo diffuso che grava su tutti i soggetti dell’organizzazione aziendale, ivi inclusi i lavoratori a norma dell’articolo 20 del D.Lgs.81/08, a carico dei quali sono previste sanzioni penali in caso di inosservanza delle direttive comportamentali derivanti da soggetti apicali, per avere ritenuto che la condotta della lavoratrice rientrasse nel segmento lavorativo attribuitole nonostante si trattasse di condotta difforme dalle direttive di organizzazione ricevute ed esorbitante dalle mansioni attribuitele e per avere infine omesso di applicare il principio secondo il quale il vigente sistema penale non assicura la sua protezione a chi, nella piena consapevolezza del pericolo, si espone per propria decisione ad esso.

Il ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione. E’ risultata pacifica e condivisa, ha messo in evidenza la Corte suprema, la circostanza che la lavoratrice fosse stata adeguatamente informata sulle procedure che, in assoluta sicurezza e senza rischio alcuno per la sua incolumità, le avrebbero consentito di fronteggiare la situazione da cui si è originato l’infortunio. La stessa, infatti, per accedere alla macchina avrebbe dovuto aprire la porta di sicurezza, dotata di dispositivo di blocco del funzionamento all’apertura, ovvero chiamare l’addetto alla manutenzione. Nella Sentenza inoltre, ha fatto osservare la Sezione IV, è stato riportato quanto dalla stessa dichiarato e cioè che aveva già operato in precedenti analoghe occasioni nel rispetto delle prescrizioni di sicurezza.

E’ risultata pacifica, inoltre, la circostanza che il varco nel quale la lavoratrice ha infilato il braccio fosse funzionale al processo produttivo e che gli organi lavoratori della macchina fossero integralmente protetti e segregati, fatta eccezione per il suindicato varco, da un recinto di protezione. Sulla base di tali premesse la Corte territoriale, a differenza del Tribunale, non aveva ravvisata la violazione della specifica regola cautelare contestata, ossia quella di cui all’articolo 68 del D.P.R.547/55, ma ha confermata la pronuncia di condanna sussumendo la violazione nella generale norma prevenzionale dettata dall’articolo 2087 del Codice Civile secondo la quale l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

In merito al nesso di causalità, ha fatto notare altresì la Sezione IV, la Corte territoriale aveva escluso che il comportamento della lavoratrice avesse avuto effetto interruttivo sul presupposto che l’infortunio era riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta, essendo la dipendente addetta al controllo della macchina foratrice ed essendosi l’infortunio verificato all’interno del ciclo produttivo, e che la lavoratrice aveva compiuto un’operazione rientrante nel segmento di lavoro attribuitole. Secondo la stessa Corte territoriale quindi il comportamento della lavoratrice non è consistita in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e pertanto prevedibili scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro, ma è stato solo un gesto imprudente compiuto nell’esercizio delle proprie mansioni lavorative.

La Corte di Cassazione al fine di valutare la legittimità delle argomentazioni svolte in proposito dai giudici di merito ha ritenuto opportuno richiamare in sintesi alcuni principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in tema di condotta cosiddetta abnorme del lavoratore, da valutare in applicazione dell’articolo 41, comma 2 del Codice Penale, a norma del quale il nesso eziologico può essere interrotto da una causa sopravvenuta che si presenti come atipica, estranea alle normali e prevedibili linee di sviluppo della serie causale attribuibile all’agente e costituisca, quindi, un fattore eccezionale.

La Corte di Cassazione ha quindi messo in evidenza che nelle decisioni assunte precedentemente in merito dalla stessa Corte “se da un lato, è stato posto l’accento sulle mansioni del lavoratore, quale criterio idoneo a discriminare il comportamento anomalo da quello che non lo è, nel concetto di esorbitanza si è ritenuto di includere anche l’inosservanza di precise norme antinfortunistiche, ovvero la condotta del lavoratore contraria a precise direttive organizzative ricevute, a condizione che l’infortunio non risulti determinato da assenza o inidoneità delle misure di sicurezza adottate dal datore di lavoro”.

“In sintesi” – ha così proseguito la Sezione IV – “si può cogliere nella giurisprudenza di legittimità la tendenza a considerare interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore non solo quando essa si collochi in qualche modo al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso, ma anche quando, pur collocandosi nell’area di rischio, sia esorbitante dalle precise direttive ricevute e, in sostanza, consapevolmente idonea a neutralizzare i presidi antinfortunistici posti in essere dal datore di lavoro; quest’ultimo, dal canto suo, deve aver previsto il rischio e adottato le misure prevenzionistiche esigibili in relazione alle particolarità del lavoro”.

Dai principi così richiamati, ha così concluso la suprema Corte, si può, dunque, sviluppare il seguente corollario: “si deve ritenere abnorme o, comunque, eccezionale e, in quanto tale, idoneo a interrompere il nesso di causa tra la condotta datoriale e l’evento il comportamento del lavoratore esorbitante dalle precise direttive impartitegli, così qualificabile qualora, per la serie di operazioni messe in atto al fine di superare le barriere poste a presidio della sua sicurezza, riveli la piena consapevolezza di violare le prescrizioni datoriali ponendo inoltre in essere, come nel caso in esame, una condotta, ex se, fonte di pericolo (nella concreta fattispecie, la lavoratrice si era addirittura arrampicata sui bidoni di alimentazione del macchinario allungandosi per raggiungere in quota una piccola feritoia di 10 centimetri in cui infilare una mano con la quale impugnava un cacciavite, e ciò in assenza di qualsiasi esigenza tecnica che rendesse necessaria una così azzardata ed anomala e dunque imprevedibile manovra)”.

Alla luce in definitiva dei principi sopra indicati la Corte di Cassazione ha ritenuta quindi la pronuncia impugnata viziata dalla violazione dell’articolo 41, comma 2 del Codice Penale, laddove si è ritenuto che il comportamento della lavoratrice non fosse qualificabile come causa sopravvenuta sufficiente a determinare l’evento, nonostante fosse stato accertato che il datore di lavoro avesse adottato le misure prevenzionistiche funzionali a segregare gli organi lavoratori della macchina e avesse adeguatamente informato e formato la lavoratrice in merito ai comportamenti da adottare qualora si fosse verificato l’inceppamento del macchinario al quale era addetta e nonostante fosse stato accertato che la lavoratrice avesse violato le direttive ricevute mettendo in atto una serie di operazioni (prendere un cacciavite, raggiungere allungandosi il varco di dieci centimetri presente nel recinto segregatore e infilarvi il braccio) rivelatrici della piena consapevolezza di violare tali direttive.

Pertanto la Corte di Cassazione ha annullata la Sentenza impugnata senza rinvio “perché le pacifiche acquisizioni istruttorie enunciate nel provvedimento non consentivano di pervenire alla condanna, in presenza di una evidente causa interruttiva del nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e l’evento infortunistico ascrittogli”.

La Sentenza n.4890 del 2 febbraio 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=12580:2015-02-12-18-11-37&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.240 DEL 18/01/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.239 DEL 13/01/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.239 DEL 13/01/16

 

INDICE

  • Le “Frequently Asked Questions” di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights! – n.8
  • Aumento dell’età pensionabile: una questione di vita o di morte
  • La gestione della sicurezza negli appalti
  • Scegliere i dispositivi di protezione dei piedi più idonei
  • Le conseguenze della normativa sulle malattie professionali
  • I rischi organizzativi e psicosociali nelle strutture ospedaliere

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO – KNOW YOUR RIGHTS! – N.8

 

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.

In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.

Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.

Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

 

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DOMANDA

Buongiorno,

una domanda: ieri sono andata a prendere il registro degli infortuni da gennaio a ora (tantissimi) che servono per la relazione di fine anno e mi è stato detto che non possono darmi la copia ma li devo trascrivere.

E’ possibile questo?

Ci vogliono dieci ore a trascrivere tutto.

Mi fai sapere?

Grazie.

 

RISPOSTA

Ciao Adriana,

sollevi un problema spinoso, che è stato oggetto da tempo di dibattito senza arrivare ancora a una risoluzione legislativamente definitiva.

Partiamo dal D.Lgs.81/08 che afferma all’articolo 18, comma 1, lettera o) (obblighi sanzionabili a carico del datore di lavoro e dei dirigenti):

Il datore di lavoro […], e i dirigenti […] devono consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a) [documento di valutazione dei rischi], anche su supporto informatico come previsto dall’articolo 53, comma 5, nonché consentire al medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera r); il documento è consultato esclusivamente in azienda”.

La lettera r) a cui fa riferimento la lettera o) afferma poi che:

Il datore di lavoro […], e i dirigenti […] devono comunicare in via telematica all’INAIL […] i dati e le informazioni relativi agli infortuni sul lavoro che comportino l’assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell’evento e, a fini assicurativi, quelli relativi agli infortuni sul lavoro che comportino un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni […]”.

L’articolo 50, comma 1, lettera e) del medesimo Decreto (attribuzioni dei RLS) afferma poi che:

Fatto salvo quanto stabilito in sede di contrattazione collettiva, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali”.

Quindi, secondo il Decreto, è evidente che il RLS debba ricevere la documentazione aziendale relativa a salute e sicurezza, tra cui il registro infortuni.

Il problema si pone sulle modalità di consegna, in quanto il citato articolo 18, comma 1, lettera o), relativamente al documento di valutazione dei rischi, ma la cui “ratio” si può estendere al resto della documentazione da consegnare al RLS, afferma che “il documento è consultato esclusivamente in azienda”.

Cosa significhi nella pratica ciò non è stato ancora specificato, in modo univoco in sede legislativa.

Non è stato quindi ancora specificato se consegna e la consultazione prevede solo la mera disponibilità dei documenti in azienda senza però che essi possano essere fotocopiati o portati fuori della azienda, oppure se sussiste quest’ultima possibilità.

La Commissione interpelli (Interpello in materia di sicurezza n.52 del 19 dicembre 2008) alla specifica domanda riguardante la “possibilità di consegna al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza del documento di valutazione dei rischi unicamente su supporto informatico” ha dato la seguente risposta:

Non essendo prevista alcuna formalità per la consegna del documento, l’adempimento all’obbligo di legge è comunque garantito mediante consegna dello stesso su supporto informatico, anche se utilizzabile solo su terminale video messo a disposizione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza giacché tale modalità, consentendo la disponibilità del documento in qualsiasi momento ed in qualsiasi area all’interno dei locali aziendali, non pregiudica lo svolgimento effettivo delle funzioni del RLS”.

Che sinceramente non chiarisce molto la questione, anche se afferma la necessità della “disponibilità del documento in qualsiasi momento ed in qualsiasi area all’interno dei locali aziendali”.

Più chiarificatrice (e decisamente più orientata a una garanzia reale delle attribuzioni del RLS) è la Sentenza del 29 gennaio 2010 della Sezione Lavoro del Tribunale Ordinario di Milano che a tale proposito ha affermato che:

Ad ogni modo, poiché il ruolo del RLS all’interno dell’azienda è posto a presidio e controllo della salvaguardia di intessi di primaria importanza, quali sono quelli relativi alla salute dei lavoratori ne deriva che il datore di lavoro dovrà consentire al RLS la consultazione del DVR per tutto il tempo che sarà necessario, tenuto conto della eventuale complessità del documento stesso. Non è dunque controvertibile il fatto che il datore di lavoro abbia l’obbligo di consegna del DVR al RLS; ciò che è cambiato è la possibilità alternativa per il RLS di richiedere in quale forma preferisca consultare il documento stesso”.

Al di là dell’affermazione di cui sopra, tale Sentenza ha valore particolarmente significativo poiché conferma il decreto ingiuntivo con cui il RLS aziendale aveva chiesto di poter consultare il DVR al di fuori della azienda e quindi, eventualmente di fotocopiarlo.

In conclusione, io mi rifarei a quest’ultima Sentenza (che però non sono sicuro che sia passata in giudicato), chiedendo alla tua azienda di poter consultare il Registro infortuni anche al di fuori dell’azienda oppure di fotocopiarlo.

Attenzione però che grazie al Governo Renzi, a seguito dei Decreti attuativi del Jobs Act decade l’obbligo di tenuta del Registro infortuni, in quanto uno di tali Decreti ha modificato l’articolo 53, comma 6 del D.Lgs.81/08 (tenuta delle documentazione) abrogando il periodo relativo alla tenuta del Registro infortuni.

Va osservato che l’abolizione del registro infortuni non esime il datore di lavoro e i dirigenti delle aziende di dotarsi di uno strumento di monitoraggio del fenomeno infortunistico, in quanto rimangono invariati l’articolo 18, comma 1, lettera r) (comunicazione in via telematica all’INAIL delle informazioni sugli infortuni che comportano l’assenza di almeno un giorno escluso quello dell’infortunio) e 35, comma 2, lettera b) (esame nell’ambito della riunione annuale del fenomeno infortunistico) del D.Lgs.81/08.

A tua disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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DOMANDA

Ciao,

nel mio ufficio (Poste) hanno fatto dei lavori edili per nuovi servizi, riducendo lo spazio per noi portalettere.

A me pare che esista uno spazio previsto, ma non ne sono sicuro.

Forse varia da lavoro a lavoro…

 

RISPOSTA

Ciao,

le dimensioni minime degli ambienti di lavoro a livello generale sono definite dal D.Lgs.81/08 (Decreto).

Il loro rispetto costituisce un obbligo sanzionabile a carico del datore di lavoro.

L’articolo 64, comma 1, lettera a) del Decreto impone infatti che:

Il datore di lavoro provvede affinché i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all’articolo 63, commi 1, 2 e 3”.

In particolare l’articolo 63, comma 1 impone poi che

I luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti indicati nell’allegato IV”.

Il mancato adempimento dei contenuti dell’allegato IV del Decreto e, di conseguenza, dell’articolo 64, comma 1 è sanzionato per datore di lavoro e dirigenti dall’articolo 68, comma 1, lettera b) del Decreto con l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.000 a 4.800 euro.

In merito agli spazi minimi degli ambienti di lavoro il punto 1.2 dell’allegato IV del Decreto, che riporto per intero, stabilisce che:

1.2. ALTEZZA, CUBATURA E SUPERFICIE

1.2.1. I limiti minimi per altezza, cubatura e superficie dei locali chiusi destinati o da destinarsi al lavoro nelle aziende industriali che occupano più di cinque lavoratori, ed in ogni caso in quelle che eseguono le lavorazioni che comportano la sorveglianza sanitaria, sono i seguenti:

1.2.1.1. altezza netta non inferiore a 3 metri;

1.2.1.2. cubatura non inferiore a 10 metri cubi per lavoratore;

1.2.1.3. ogni lavoratore occupato in ciascun ambiente deve disporre di una superficie di almeno 2 metri quadri.

1.2.2. I valori relativi alla cubatura e alla superficie si intendono lordi cioè senza deduzione dei mobili, macchine ed impianti fissi.

1.2.3. L’altezza netta dei locali è misurata dal pavimento all’altezza media della copertura dei soffitti o delle volte.

1.2.4. Quando necessità tecniche aziendali lo richiedono, l’organo di vigilanza competente per territorio può consentire altezze minime inferiori a quelle sopra indicate e prescrivere che siano adottati adeguati mezzi di ventilazione dell’ambiente. L’osservanza dei limiti stabiliti dal presente articolo circa l’altezza, la cubatura e la superficie dei locali chiusi di lavoro è estesa anche alle aziende industriali che occupano meno di cinque lavoratori quando le lavorazioni che in esse si svolgono siano ritenute, a giudizio dell’organo di vigilanza, pregiudizievoli alla salute dei lavoratori occupati.

1.2.5. Per i locali destinati o da destinarsi a uffici, indipendentemente dal tipo di azienda, e per quelli delle aziende commerciali, i limiti di altezza sono quelli individuati dalla normativa urbanistica vigente.

1.2.6. Lo spazio destinato al lavoratore nel posto di lavoro deve essere tale da consentire il normale movimento della persona in relazione al lavoro da compiere”.

Il punto 1.2.1 specifica che tali limiti sono validi “per aziende industriali che occupano più di cinque lavoratori, ed in ogni caso in quelle che eseguono le lavorazioni che comportano la sorveglianza sanitaria”. Pertanto visto che le Poste non sono aziende industriali, essi si applicano solo nel caso in cui siate sottoposti a sorveglianza sanitaria, anche in merito all’utilizzo dei videoterminali.

Negli altri casi (aziende non industriali e senza sorveglianza sanitaria, si applicano le prescrizioni impartite dai regolamenti urbanistici locali (punto 1.2.5).

In ogni caso gli spazi di lavoro devono essere tali da consentire piena libertà di movimento ai lavoratori (punto 1.2.6).

Immagino che i lavori di ristrutturazione siano stati svolti a seguito di progetto realizzato da professionista e che sia stata richiesta autorizzazione a costruire al Comune competente.

Pertanto ritengo che i limiti imposti dai regolamenti edilizi siano stati rispettati.

Provate però a fare una verifica in tal senso.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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DOMANDA

Salve,

nella nostra azienda si sta valutando la possibilità di introdurre il lavoro notturno per la gestione della centrale termica (attualmente affidata in appalto).

Le volevo chiedere se per cortesia mi può far sapere quali sono gli enti competenti che si occupano delle normative vigenti per la conduzione del lavoro notturno, in modo da poterli interpellare e avere delucidazioni in merito.

Grazie.
Saluti.

 

RISPOSTA

Ciao,

per tutto quanto attiene alla normativa di sicurezza sul lavoro (cioè le norme contenute all’interno del D.Lgs.81/08 “Testo Unico” sulla sicurezza) l’organismo pubblico di controllo è il settore Prevenzione Salute e Sicurezza sui Luoghi di Lavoro della ASL competente per territorio, i cui ispettori sono Ufficiali di Polizia Giudiziaria.

Per quanto invece attiene al rispetto della normativa sull’orario di lavoro (il D.Lgs.66/03) il controllo spetta all’Ispettorato del Lavoro competente per territorio, i cui ispettori sono pure Ufficiali di Polizia Giudiziaria.

Poiché le modifiche organizzative che intende adottare la tua azienda impattano su entrambi gli aspetti, io farei ricorso a entrambi gli Enti.

Tieni presente che, trattandosi di modifiche organizzative che toccano pesantemente gli aspetti di salute e sicurezza dei lavoratori, la tua azienda è obbligata a modificare il documento di valutazione dei rischi, analizzando cosa comporta la modifica relativamente ai rischi per la salute e la sicurezza e definendo misure di prevenzione e protezione per eliminare o ridurre l’aumento del rischio.

Il riferimento normativo è l’articolo 29, comma 3 del D.Lgs.81/08 che stabilisce che:

La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate. Nelle ipotesi di cui ai periodi che precedono il documento di valutazione dei rischi deve essere rielaborato, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, nel termine di trenta giorni dalle rispettive causali. Anche in caso di rielaborazione della valutazione dei rischi, il datore di lavoro deve comunque dare immediata evidenza, attraverso idonea documentazione, dell’aggiornamento delle misure di prevenzione e immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.

Ovviamente nella modifica del documento di valutazione dei rischi deve essere coinvolto, come specificato esplicitamente nel dettato normativo di cui sopra anche il Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Un caro saluto.

Marco

 

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DOMANDA

Ciao Marco,

ho visto sulla tua Newsletter l’articolo “Visite mediche a seguito di assenza lunga malattia” e avrei bisogno di un chiarimento su tale aspetto.

Mia moglie è stata in malattia più di 60 giorni per una frattura al polso sinistro per una caduta accidentale in un giorno festivo.

Mia moglie rientra lunedì prossimo, per cui volevo avere una dritta sulla procedura.

Non vorrei che il lunedì, non essendoci il medico competente in azienda, la rimandino a casa senza essere retribuita e con proprie ferie.

Grazie, ciao.

 

RISPOSTA

Ciao,

la visita medica a seguito di lunga assenza dal lavoro per motivi di salute è regolamentata dall’articolo 41, comma 2, lettera e-ter), che stabilisce che:

La sorveglianza sanitaria comprende […] visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione”.

La “ratio” del disposto legislativo è quella di stabilire se un lavoratore a seguito di una lunga assenza per motivi di salute (a seguito di malattia o di infortunio) sia ancora idoneo fisicamente a svolgere il lavoro specifico della sua mansione.

E’ compito del medico competente stabilire se la lunga assenza dal lavoro e la patologia che l’ha causata possano avere annullato o ridotto la idoneità del lavoratore a svolgere i compiti lavorativi propri della sua mansione, a fronte dei rischi specifici della mansione stessa.

Mi spiego con due esempi.

Se un videoterminalista (che svolge la sua mansione in un ambiente climaticamente adeguato, cioè con adeguato impianto di riscaldamento) manca per più di 60 giorni per una polmonite, il medico competente non potrà che, una volta acquisiti i referti medici relativi alla malattia, confermare l’idoneità del lavoratore alla sua mansione specifica che non comporta (a seguite della adeguata climatizzazione degli ambienti di lavoro) rischi di natura climatica fredda.

Se, al contrario, un addetto al magazzino (che svolge la sua mansione con ripetuti sollevamenti di carichi pesanti) manca per più di 60 giorni per un’ ernia discale, il medico competente dovrà, una volta acquisiti i referti medici relativi alla malattia, verificare se lo stato di salute del lavoratore sia già in grado di riprendere un’attività lavorativa potenzialmente a rischio per la colonna vertebrale interessata dalla patologia, esprimendo, in alternativa un giudizio di non idoneità totale, oppure di idoneità totale, oppure ancora di idoneità con prescrizione (non sollevare più di…kg).

Pertanto non ci sono regole assolute, ma solo relative alla patologia subita e alla mansione svolta.

E questo lo può stabilire solo il medico competente.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Un caro saluto.

Marco

 

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NOTA

Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:

ASL = Azienda Sanitaria Locale

CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro

DPI = Dispositivi di Protezione Individuali

DVR = Documento di Valutazione dei Rischi

DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto

RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione

RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza

D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)

 

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AUMENTO DELL’ETA’ PENSIONABILE: UNA QUESTIONE DI VITA O DI MORTE

 

Da La Città Futura

http://www.lacittafutura.it

 

8 Gennaio 2016

di Carmine Tomeo

 

Sotto il governo guidato dal segretario del PD, Matteo Renzi aumenta ancora l’età pensionabile.

Si dirà che questo è l’effetto della riforma Fornero. Ma quella riforma era nata con il cosiddetto governo tecnico di Mario Monti, sostenuto anche dal PD. E soprattutto, PD e alleati di centrodestra quella riforma non si sono mai sognati di modificarla. D’altronde, l’attuale Presidente del Consiglio è quello che nel 2013, poche settimane prima di assumere l’incarico di segretario del PD e a pochi mesi dall’inizio del suo mandato, senza titubanze affermava che “è naturale in un Paese che vive 20 anni in più rispetto al passato che si lavori qualche anno in più”.

Il risultato? In Italia aumentano i morti come fossimo in guerra. Il bilancio demografico dell’ISTAT mostra un aumento del numero di decessi nel 2015 di 68.000 unità in più rispetto al 2014, che trova ordini di grandezza comparabili, appunto, solo con gli anni di guerra.

 

Detto, fatto.

Da quest’anno si dovrà lavorare 4 mesi in più prima di poter andare in pensione. In questo modo, gli uomini, siano essi dipendenti o lavoratori autonomi, potranno andare in pensione all’età di 66 anni e 7 mesi, le donne, a 65 anni e 7 mesi per le lavoratrici del settore privato e a 66 anni e un mese per le lavoratrici autonome.

 

Provate a immaginare un uomo quasi settantenne su un ponteggio a mettere su mattoni o a spostare sacchi di cemento; oppure una donna ultrasessantenne costretta otto ore in piedi, assumere posizioni anche scomode per assemblare pezzi in serie ripetendo freneticamente la stessa operazione centinaia di volte al giorno.

Provate ad immaginare un’infermiera a 65 anni sollevare di peso e accudire pazienti anche più pesanti di lei; oppure un autotrasportatore di 66 anni costretto a lunghi ed estenuanti viaggi per consegnare merci qua e là lungo la Penisola e oltre.

 

Nel libro-intervista “La lotta di classe, dopo la lotta di classe”, Luciano Gallino spiegava che “La fatica non uccide sul colpo, ma peggiora la vita e l’accorcia”.

Il sociologo torinese affermava, dati alla mano, che la fatica da lavoro spiega un accorciamento della speranza di vita: “L’esistenza di forti disuguaglianze nella speranza di vita a danno delle persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso reddito e modesta posizione sociale è ampiamente documentata nella letteratura internazionale”.

Si arriva quindi a “una inaccettabile redistribuzione di risorse a scapito delle persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso reddito e modesta posizione sociale, risorse che vengono riversate sui gruppi sociali più avvantaggiati”, affermava Gallino.

E questo è un chiaro “indicatore di classe”.

 

Ecco, vista così, non è poi così naturale, come afferma Renzi, andare in pensione più tardi, mentre è palese l’attacco padronale contro quelle classi sociali più deboli fatte di persone che per il lavoro che svolgono vedono accorciata la loro speranza di vita; e che sono costrette a condizioni di vita, durante gli anni della pensione, sempre più drammatiche.

Dopo anni vissuti a lavorare subendo carichi e ritmi di lavoro sempre più intensi, i pensionati si ritrovano con schiene affaticate, braccia doloranti, malattie professionali. E con una pensione che troppo spesso non permette l’accesso alle cure mediche.

L’ultimo rapporto INPS (2014) mostra che quasi 5 milioni e mezzo di pensionati per vecchiaia percepisce mediamente poco più di 700 euro al mese. Soldi che spesso non sono sufficienti nemmeno per una vita dignitosa, specie con i tagli alla spesa sociale che sistematicamente e con cinismo vengono portati avanti da governi filo padronali.

 

Il risultato? Come detto, in Italia aumentano i morti come fossimo in guerra.

E’ presto per spiegare compiutamente il fenomeno, ma Gian Carlo Blangiardo, docente di demografia presso l’Università di Milano Bicocca, lancia un allarme. Secondo il professor Blangiardo, la rilevazione dell’ISTAT deve essere consegnata “alla riflessione sia del mondo scientifico, sia di quello della politica, della pubblica amministrazione e del welfare”. Siamo infatti di fronte ad “un evento straordinario che richiama alla memoria l’aumento della mortalità nei Paesi dell’Est Europa nel passaggio dal comunismo all’economia di mercato: un déjà vu che non vorremmo certo rivivere”.

Quell’economia di mercato la cui logica trova applicazione nei provvedimenti di governi nazionali come quello italiano che applicano servilmente i memorandum della troika. Provvedimenti che si traducono in tagli anche a settori essenziali come la sanità pubblica. Una politica, ricorda ancora Blangiardo, che “può avere effetti molto pesanti sul già fragile sistema demografico”.

 

Un altro dato dovrebbe fare riflettere chi, come Renzi, sostiene che è naturale aumentare l’età pensionabile: i morti sul lavoro.

Fino a tutto il mese di ottobre del 2015, sono stati denunciati 185 infortuni con esito mortale di lavoratori tra i 55 e i 64 anni e 79 di lavoratori di oltre 65 anni di età. Questo dato, in rapporto agli occupati delle stesse classi di età, si traduce con la macabra statistica di 7 morti ogni 100.000 lavoratori nella fascia di età tra i 55 ed i 64 anni e di 21 morti sul lavoro ogni 100.000 lavoratori che, compiuti 65 anni, anziché godersi una meritata pensione, la mattina si alzano per andare al lavoro.

La statistica fredda e spietata mostra che i lavoratori con più di 64 anni di età sono vittime di infortuni mortali con una frequenza maggiore di 5 volte rispetto a chi ha non più di 54 anni e addirittura 23 volte rispetto a lavoratori che hanno un’età compresa tra i 25 ed i 34 anni.

E siamo di fronte a cifre che sono confermate anno dopo anno e che sarebbero anche peggiori se non ci fermassimo a leggere i dati ufficiali dell’INAIL, visto che questi riguardano solo i lavoratori assicurati a quell’ente. Ma ciò dimostra il fatto che costringere al lavoro persone in età avanzata significa esporre cinicamente i lavoratori al serio rischio di abbandonare il posto di lavoro stesi dentro una bara.

 

E’ in un quadro così macabro che il governo guidato dal segretario del PD permette ancora l’innalzamento dell’età pensionabile.

C’è di che riflettere.

Soprattutto, c’è da incazzarsi e da cominciare ad organizzare una seria di risposta all’attacco di classe del padronato e dei governi suoi amici. E’ proprio il caso di dire che è una questione di vita o di morte.

 

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LA GESTIONE DELLA SICUREZZA NEGLI APPALTI

 

Da FILCAMS CGIL Lombardia

http://www.rlsfilcams-lombardia.org

 

Nella FILCAMS è un tema spesso sottovalutato dagli stessi lavoratori e delegati e di conseguenza anche dai funzionari, troppo impegnati nell’affrontare la quotidianità fatta di riduzioni di ore, mancati pagamenti continui cambi di datori di lavoro.

 

Per questo abbiamo tenuto il 9 dicembre 2015 a Milano un momento di studio e approfondimento sul tema insieme alla dottoressa Tiziana Vai dell’ASL città di Milano.

 

Vogliamo qui focalizzare l’attenzione di tutti su un tema su cui varrebbe la pena di intervenire.

 

Il D.Lgs.81/08 affronta il tema degli appalti nell’articolo 26, articolo poco letto e ancor meno utilizzato da RSA, RLS e funzionari sindacali.

Ora senza voler elencare tutti quelli che sono gli obblighi del committente in materia di sicurezza, vorremmo che i RLS degli appalti, ma anche i funzionari che seguono il settore iniziassero a esigere dal committente quanto previsto dal comma 3 del citato articolo 26 del D.Lgs.81/08:

“Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il coordinamento di cui al comma 2, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di attività a basso rischio d’infortuni e malattie professionali di cui all’articolo 29, comma 6-ter, con riferimento sia all’attività del datore di lavoro committente sia alle attività dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi, un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, adeguate e specifiche in relazione all’incarico conferito, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro, per sovrintendere a tali cooperazione e coordinamento. In caso di redazione del documento esso è allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere adeguato in funzione dell’evoluzione dei lavori, servizi e forniture. A tali dati accedono il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale […]”.

A seguire trovate un modulo di richiesta di tali dati.

 

Vi ricordiamoo ulteriori obblighi che riguardano le aziende che si sono dotate di un “modello organizzativo di gestione idoneo ad avere attività esimente della responsabilità amministrativa” (ai sensi del D.Lgs.231/01).

 

L’applicazione del modello di organizzazione e gestione di cui all’articolo 30 del D.Lgs.81/08 prevede tra l’altro l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi:

  • alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori (lettera f);
  • alla acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie per legge (lettera g);
  • alle periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate lettera h).

 

Le slides dell’intervento tenuto dalla dottoressa Tiziana Vai dell’ASL città di Milano, sono visionabili all’indirizzo:

http://www.rlsfilcams-lombardia.org/art-26-d-lgs-81-08-contratti-d-appalto-o-d-opera-o-di-somministrazione/

 

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MODULO RELATIVO ALLA RICHIESTA DI INFORMAZIONI PER LAVORAZIONI AFFIDATE IN APPALTO

 

Al Datore di Lavoro dell’azienda appaltante

Al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione dell’azienda appaltante

 

OGGETTO: RICHIESTA DOCUMENTAZIONE DI CUI COMMI 3 E 5 DELL’ARTICOLO 26, COMMA 3 DEL D.LGS 81/08

 

Con la presente la scrivente Organizzazione Sindacale / lo scrivente Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza dell’azienda ________________ (appaltata) richiede ai sensi della normativa in oggetto di ricevere copia del Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza (DUVRI ex articolo 26, comma 3 del D.Lgs.81/08) da voi predisposto, in quanto committente, dell’appalto ___________ per lavorazioni da eseguire negli ambienti di lavoro della Vostra azienda e affidato alla azienda ________________ (appaltata).

 

Si richiede altresì di conoscere i dati relativi a “i costi delle misure adottate per eliminare o, ove ciò non sia possibile, ridurre al minimo i rischi in materia di salute e sicurezza sul lavoro derivanti dalle interferenze delle lavorazioni” così come previsto dal comma 5 dello stesso articolo 26.

 

In attesa di un vostro sollecito riscontro, vi inviamo i nostri distinti saluti.

 

Luogo e data

 

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SCEGLIERE I DISPOSITIVI DI PROTEZIONE DEI PIEDI PIU’ IDONEI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

29 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Informazioni sui dispositivi di protezione dei piedi e sulle calzature antinfortunistiche. I requisiti e le caratteristiche dei DPI, la classificazione, le protezioni particolari per attività specifiche e i fattori da valutare per la scelta.

 

In molte attività lavorative i piedi devono essere protetti da idonei Dispositivi di Protezione Individuali (DPI) in relazione a diverse tipologie di rischio.

Ad esempio rischi meccanici (schiacciamento, scivolamento, urti, tagli, ecc.), rischi chimici e biologici (dello sversamento di prodotti chimici, contatto con materiali biologici, ecc.), rischi fisici (umidità, acqua, temperatura, cariche elettrostatiche, ecc.).

 

Per parlare di calzature antinfortunistiche, di scarpe di sicurezza, ci soffermiamo oggi sul contenuto del progetto multimediale Impresa Sicura (un progetto elaborato da Ente Bilaterale Emilia Romagna, Ente Bilaterale Marche, Regione Emilia Romagna, Regione Marche e INAIL) che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come “Buona prassi” nella seduta del 27 novembre 2013.

Il documento “Impresa Sicura DPI”, correlato al progetto, presenta anche la struttura interna ed esterna delle calzature di sicurezza e ricorda che per evitare la contaminazione delle scarpe o degli stivali da materiale chimico o biologico, è possibile anche l’utilizzo di sovrascarpe/sovrastivali monouso, antiscivolo e antistatici, generalmente dotati di elastico o di lacci da legare sopra la tuta alla caviglia o al polpaccio.

In commercio si trovano anche sovrascarpe/sovrastivali di protezione contro altri rischi quali il calore, il freddo. Inoltre quando è necessario proteggere i polpacci si utilizzano stivali, ma anche ghette. Le ghette, a differenza degli stivali, sono un accessorio costituito solo dal gambale che ha il vantaggio di poter essere indossato e tolto senza coinvolgere la calzatura e quindi può essere utilizzato solo quando serve.

I requisiti richiesti per le calzature antinfortunistiche sono relativi alla sicurezza, alla salute, al comfort e all’estetica.

Queste sono alcune possibili caratteristiche relative alla salute e sicurezza:

  • tomaia resistente allo strappo e alla flessione;
  • fodere resistenti allo strappo e all’abrasione;
  • suola resistente all’abrasione, alle flessioni, all’idrolisi, agli idrocarburi;
  • resistenza al distacco della tomaia/suola;
  • resistenza alla corrosione dei puntali metallici;
  • protezione da rischio di scivolamento;
  • resistenza del battistrada agli oli minerali;
  • protezione delle dita del piede con puntale in acciaio resistente all’impatto fino a 200 Joule.

Le calzature antinfortunistiche si differenziano poi in relazione alle esigenze specifiche di utilizzo e alle caratteristiche corrispondenti richieste.

E dunque la scelta del corretto dispositivo di protezione dei piedi dipende dalla mansione del lavoratore, dalle caratteristiche delle stesse e dai rischi presenti nei luoghi di utilizzo.

Sono infatti disponibili calzature di materiale diverso e con caratteristiche diverse, quindi il termine generico “calzature antinfortunistiche” non è indicativo della esclusività del dispositivo di protezione.

 

In particolare si suddividono in due classi principali, in base al materiale del corpo della calzatura:

  • Tipo I: calzature di cuoio o altri materiali, escluse le calzature interamente in gomma o in polimero;
  • Tipo II: calzature interamente in gomma o in polimero.

 

Le classi I e II si possono poi distinguere in 3 categorie (di sicurezza, di protezione, da lavoro, cui corrispondono le sigle S, P, O derivanti dalle definizioni in inglese) in base alle caratteristiche di protezione, definite da norme tecniche separate: la differenza fra i tre tipi è data, in sostanza, dal diverso grado di protezione del puntale (assente in quelle da lavoro e in grado invece di assorbire la caduta di un peso di 20 kg da un’altezza di 1 metro, in quelle di sicurezza).

Inoltre, poiché gli scivolamenti e le cadute sono tra le maggiori cause di infortunio sul lavoro tutte le calzature antinfortunistiche (classe I o II) devono essere resistenti allo scivolamento.

Veniamo ai requisiti di protezione aggiuntivi alle dotazioni di base minime, requisiti che possono essere necessari per proteggere da alcuni rischi specifici.

Ad esempio, rispetto al rischio elettrico, si devono indossare calzature conduttive o almeno antistatiche: quelle conduttive (sigla C, classi I o II), sono necessarie quando occorre ridurre al minimo le cariche elettrostatiche potenziali causa di scintille (ad esempio nella manipolazione di esplosivi) e invece, al contrario, sono da evitare accuratamente se non è stato completamente eliminato il rischio di scosse elettriche prodotte ad esempio da elementi sotto tensione.

Le calzature isolanti (sigla I, pittogramma con doppio triangolo) sono solo di classe II, cioè interamente di gomma (cioè interamente vulcanizzate) o di materiale polimerico (cioè interamente formate) e sono necessarie quando si ha rischio di scosse elettriche (ad esempio nelle installazioni elettriche, nei lavori elettrochimici, se ci sono apparecchi elettrici danneggiati con elementi sotto tensione).

Riguardo invece ai rischi termici, si possono avere calzature che isolano il piede dal calore (HI), da usare quando si prevede presenza di forte calore (ad esempio se si deve calpestare una superficie calda, come nei lavori di bitumazione stradale o nella siderurgia), oppure, al contrario, calzature (CI) che isolano dal freddo (ad esempio per lavori all’esterno a basse temperature o industria alimentare con conservazione a freddo).

Esistono poi anche protezioni particolari per attività specifiche, come nel caso delle calzature resistenti:

  • al calore e spruzzi di metallo fuso, come può avvenire in fonderia o in saldatura, per cui è richiesto l’uso di specifica calzatura atta a proteggere contro i rischi termici;
  • al taglio da motosega a mano (sega a catena), sempre necessarie in tutte le attività che comportano il maneggiare una sega a catena (ad esempio lavori boschivi, costruzioni, industria del legno, ecc.); sono marcate con un pittogramma supplementare rappresentante una sega a catena e un livello di protezione (riferito alla velocità utilizzata nella prova);
  • agli incendi: le calzature resistenti ai rischi per la lotta agli incendi (protezione dal fuoco F) hanno una classificazione complessa ma, in estrema sintesi, sono marcate con un pittogramma apposito e un simbolo (HLN) che indica il livello di protezione relativo all’isolamento dal caldo.

Riguardo infine ai criteri generali di scelta, il documento segnala che prima di scegliere il modello più adatto all’utilizzatore, tra calzature basse o alla caviglia, stivali al polpaccio o al ginocchio o alla coscia, è indispensabile conoscere i rischi legati all’ambiente di lavoro, le condizioni ambientali e la mansione di colui che le deve indossare.

Ed è necessario operare una scelta fra le tre differenti categorie di calzature antinfortunistiche (S, P, O), in base ai rischi meccanici, e poi, se necessario, in base ai requisiti supplementari.

Quando, ad esempio, è presente il rischio di caduta di gravi e di schiacciamento delle dita (imprese edili, industrie metallurgiche, lavori agricoli, demolizioni di fabbricati, ecc.) a seconda dell’entità del rischio saranno necessarie calzature di sicurezza o di protezione con puntali (da S1 a S5 e da P1 a P5).

Quando è presente il rischio di perforazioni della suola da parte di oggetti appuntiti (ad esempio ristrutturazione di rustici, lavori stradali, lavori su impalcatura, demolizioni, cantieri edili in generale ed aree di deposito) è necessario come requisito aggiuntivo la resistenza alla perforazione (P).

Senza dimenticare che la scelta di calzature inadatte può comportare problemi e rischi aggiuntivi per l’operatore: peso eccessivo della calzatura, suola troppo rigida, cattiva traspirazione, sensibilizzazione, scorretta posizione del piede sul piano di calpestio o scelta inadatta rispetto al suolo su cui si deve camminare, fanno sì che l’operatore rinunci all’ utilizzo di questi DPI, esponendosi così al rischio.

L’accesso via internet al sito “Impresa Sicura” è gratuito e avviene, tramite registrazione, all’indirizzo:

http://impresasicura.org/ita/pages/home.php

 

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LE CONSEGUENZE DELLA NORMATIVA SULLE MALATTIE PROFESSIONALI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

29 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Alcuni interventi riflettono sulle conseguenze in questi ultimi venti anni della normativa in materia di salute e sicurezza sugli infortuni lavorativi e sulle malattie professionali. La situazione attuale, i mutamenti e i suggerimenti per il futuro.

 

La normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro (a partire dal D.Lgs.626/94 e con riferimento alle leggi successive come il D.Lgs.494/96, il D.Lgs.81/08 e le correlate leggi di modifica) ha portato importanti modifiche e cambiamenti.

Benché non sia facile verificarne i risultati, un convegno che si è tenuto il 27 ottobre 2015 a Milano, promosso da diverse associazioni, ha cercato di valutarli e di comprendere come poter meglio calibrare le future strategie e obiettivi di prevenzione.

Stiamo parlando del convegno dal titolo “A 20 anni dalla 626/94: quali risultati possiamo valutare?” che si è dunque soffermato a ragionare sui risultati in termini di salute e sicurezza nel lavoro conseguiti in conseguenza delle trasformazioni normative degli ultimi venti anni.

Trasformazioni che hanno comportato profonde modifiche nell’assetto istituzionale, nel sistema e nelle responsabilità delle imprese e più in generale nelle modalità e nell’assetto della prevenzione dei rischi lavorativi.

A presentare il convegno e queste modifiche è stato un intervento introduttivo a cura di Claudio Calabresi (Società Nazionale Operatori della Prevenzione).

L’intervento ha ricordato che l’andamento degli infortuni negli ultimi anni ha evidenziato un progressivo decremento, non senza criticità, certamente legato anche alle modifiche produttive e negli ultimi anni alla crisi e alla contrazione del lavoro (e c’è da aspettarsi, con l’attenuarsi della crisi, un arresto del decremento e forse un nuovo aumento, di cui sembra ci siano già i segnali).

Riguardo invece alle malattie professionali, si indica che tali malattie sono complessivamente aumentate negli ultimi 7-8 anni, sostanzialmente per il “decollo” delle patologie osteo-artro-muscolo-tendinee (70%), ma è probabile che in qualche tempo si ritorni ad una diminuzione.

Il relatore ricorda che stiamo assistendo a diverse elementi che potranno indurre nel prossimo futuro a modifiche delle conseguenze del lavoro sulla salute: le profonde modifiche produttive e dei rapporti di lavoro, con il procedere della terziarizzazione e il progressivo rilevante decremento delle attività manifatturiere, la flessibilità imponente con il frequente cambio di attività e mansioni di un gran numero di lavoratori, la precarizzazione, il non-lavoro, la disoccupazione alternata a lavori instabili, questi anni di crisi.

Mutamenti possono avvenire anche nella distribuzione e tipologia degli infortuni sia, forse soprattutto, nelle patologie professionali, con una diminuzione dei quadri “classici”.

Aumenteranno, infatti, le patologie psico-fisiche “multifattoriali” di non semplice interpretazione causale, sempre più di confine tra lavoro e vita. Occorre quindi “attrezzarsi” sempre di più per saper “leggere” (e far fronte a) questa probabile futura evoluzione.

Non ci si deve fermare poi agli infortuni e alle malattie professionali.

Ci sono infatti altri effetti (meno “classificati”) sulla qualità della vita, sulle variazioni biologiche, psico-fisiche nelle varie fasce di lavoratori, sulle patologie che apparentemente non sono tipicamente di origine lavorativa o vengono definite multifattoriali, sulla durata (o attesa) della vita.

Riguardo alla popolazione lavorativa di cui occuparsi, il relatore indica che la popolazione assicurata “stimata” presso l’INAIL è attualmente pari a circa 17 milioni di addetti, ma gli occupati stimati dall’ISTAT sono attualmente tra i 22 ed i 23 milioni e ci sono poi almeno circa 3 milioni di occupati (forse anche più) che non lavorano in regola.

In definitiva i lavoratori tutelati assicurativamente dall’INAIL, nei quali si “contano” i danni da lavoro, sono circa il 70% dei lavoratori effettivamente attivi nel Paese.

 

Claudio Calabresi, che si sofferma anche sulla presenza di disomogeneità, di diseguaglianze, in tema di diritti dei lavoratori, indica che occorre potenziare e accelerare la costruzione di un valido, organico e completo Sistema informativo, e aumentare la disponibilità e fruibilità delle informazioni per le varie categorie di soggetti interessati e coinvolti.

Per approfondire il tema delle conseguenze delle normative in materia di salute e sicurezza sulle malattie professionali, ci soffermiamo brevemente anche sull’intervento “Gli effetti dei cambiamenti normativi sulle malattie da lavoro”, a cura di Alberto Baldasseroni (Centro Regionale Infortuni e Malattie Professionali della Regione Toscana).

La relazione si sofferma ampiamente sulla storia del riconoscimento delle malattie professionali in Italia, a partire dall’Assicurazione obbligatoria contro le Malattie Professionali (Regio Decreto n.928 del 13 Maggio 1929), entrata in vigore il 1° gennaio del 1934, ma per l’indennizzabilità delle malattie dal 1° luglio del 1934.

Sono poi riportate indicazioni sull’andamento dei riconoscimenti con indennizzo delle 5 più frequenti malattie professionali (ipoacusia; dermatite da contatto e altri eczemi; affezione dei dischi intervertebrali; malattie dei tendini e affezioni delle sinoviali, tendini e borse; affezioni dei muscoli, legamenti, aponeurosi e tessuti molli). Indicazioni che mostrano ad esempio, come evidenziato già da Claudio Calabresi, l’aumento delle patologie osteo-artro-muscolo-tendinee e la diminuzione delle ipoacusie nel periodo tra il 1994 e il 2012.

Il relatore affronta poi il tema delle nuove patologie e indica anche che gli studi epidemiologici documentano in maniera robusta che lo stress causa incrementi nella patologia dei lavoratori esposti. Tuttavia i sistemi di monitoraggio delle malattie professionali attualmente esistenti nel nostro paese non sono in grado di cogliere questo fenomeno, dato che sono basati sull’accertamento individuale del rischio e del nesso tra esposizione e malattia.

E in assenza di sistemi di sorveglianza epidemiologica orientata a seguire (follow-up) il destino di salute di coorti di lavoratori esposti a noxae patogene, quali per esempio lo stress, è difficile che anche nel prossimo futuro si possa disporre di stime accurate dei danni dovuti a questo fattore di rischio.

Riportiamo infine le conclusioni della relazione.

Per avere un’idea più vicina alla realtà del carico di danni dovuto alle malattie professionali è importante uscire dalla “gabbia” del nesso individuale di causalità e dedicare risorse anche a stimare il “burden of disease” (carico di malattia) attribuibile al lavoro per decidere priorità e esigenze di salute. Ricordiamo che con disease burden si può intendere l’impatto di un problema di salute e il Global Burden of Disease è un sistema di misurazione della salute che consente di generare stime sul peso di singoli fattori o gruppi di fattori che sono in grado di orientare politiche e programmi.

In attesa di disporre di tali stime è comunque doveroso far buon uso degli strumenti basati sul computo dei casi di malattie per le quali sia stata individuata una causa lavorativa e che sono ormai disponibili per la programmazione e la valutazione del lavoro di prevenzione.

Il documento “Intervento di Claudio Calabresi” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151116_SNOP_risultati_20_anni_626.pdf

Il documento “Gli effetti dei cambiamenti normativi sulle malattie da lavoro” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151116_SNOP_effetti_20_anni_626.pdf

 

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I RISCHI ORGANIZZATIVI E PSICOSOCIALI NELLE STRUTTURE OSPEDALIERE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

30 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Per una valutazione efficace dei rischi negli ambienti ospedalieri bisogna tener conto anche degli aspetti psicologici e organizzativi. Focus sullo stress psichico tra gli operatori e sulle conseguenze sulla salute del lavoro notturno.

 

In questi mesi, presentando i rischi degli operatori sanitari (attraverso quanto riportato dal Servizio di Prevenzione e Protezione dell’ Azienda Sanitaria Locale Alba-Bra), ci siamo soffermati sui rischi chimici e biologici, sui rischi correlati alla movimentazione manuale dei carichi e dei pazienti e agli agenti fisici e sui rischi infortunistici.

Tuttavia negli ambienti sanitari per poter valutare efficacemente i rischi e tutelare adeguatamente la salute e sicurezza dei lavoratori, non bisogna dimenticare anche la rilevanza dei rischi psicosociali e dei rischi organizzativi.

 

A questo proposito il Servizio di Prevenzione e Protezione dell’ Azienda Sanitaria Locale Alba-Bra, ricorda che in ambiente ospedaliero sono frequentemente segnalate situazioni di stress psichico tra il personale. Le cause possono essere legate sostanzialmente a fattori di tipo individuale, organizzativo, sociale o culturale.

Ad esempio si fa riferimento al coinvolgimento emotivo richiesto talvolta dal paziente, l’impatto quotidiano con la sofferenza, il dolore o la morte, possono generare nel personale sanitario e in particolare in quell’infermieristico sensazioni di fallimento e distacco personale.

Inoltre si segnala che le condizioni dell’ambiente di lavoro prevedono molte volte un sovraccarico di lavoro, mancanza di pianificazione, svalutazione della professionalità, burocratizzazione eccessiva. Elementi che possono essere motivo di perdita d’interesse alla professione e alla responsabilità nel proprio lavoro.

Una adeguata prevenzione in ambito stress lavoro correlato dovrebbe, ad esempio, prevedere una riduzione dei sovraccarichi di lavoro, il coinvolgimento dei lavoratori nell’organizzazione, la formazione costante del personale e il suo sostegno psicologico finalizzato a sostenere angosce e ansie legate alla sofferenza, alle malattie e alla morte.

Riguardo ai rischi organizzativi, il Servizio di Prevenzione e Protezione si sofferma in particolare sul lavoro notturno, con riferimento anche a quanto contenuto nel Decreto Legislativo n. 532 del 26 novembre 1999, recante “Disposizioni in materia di lavoro notturno”.

Il D.Lgs. 532/1999 definisce:

  • lavoro notturno: l’attività svolta nel corso di un periodo di almeno sette ore consecutive comprendenti l’intervallo fra la mezzanotte e le cinque del mattino;
  • lavoratore notturno: qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga, in via non eccezionale, almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero; qualsiasi lavoratore che svolga, in via non eccezionale, durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro normale secondo le norme definite dal contratto collettivo nazionale di lavoro; in difetto di disciplina collettiva è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga lavoro notturno per un minimo di 80 giorni lavorativi all’anno.

Riguardo alle conseguenze sui lavoratori si sottolinea che l’alterazione delle condizioni di salute dei turnisti dipende oltre che dall’alterazione dei ritmi biologici (sfera biologica) anche dalle interferenze sulle abitudini alimentari e di sonno dei soggetti esposti (sfera lavorativa) e dalle eventuali interferenze sulla vita di relazione (sfera relazionale).

Il sonno è sicuramente il primo elemento a subire modifiche dal lavoro a turni. Una riduzione delle ore di sonno si determina già nel corso del turno mattutino in relazione all’alzata precoce. Inoltre nel turno notturno la riduzione del sonno è più vistosa in presenza di situazioni familiari ed abitative sfavorevoli, che limitano la possibilità di recupero successivo.

 

E comunque con il lavoro a turni ad alterarsi non è solo la quantità di sonno ma anche la sua qualità a causa della perturbazione delle fasi del sonno che riducono i periodi di sonno profondo e di sonno REM: ciò determina un minor effetto ristoratore del sonno che si accentua quando si dorme di giorno. E con l’età si assiste ad un’accentuazione delle alterazioni quantitative e qualitative del sonno. Si pensa che i lavoratori turnisti abbiano un più precoce invecchiamento funzionale rispetto a quelli non in turno anche a causa di tale fattore.

Veniamo ai problemi alimentari.

Questi problemi sono legati alla anomala sequenza dei pasti e all’interferenza sui pasti operata dal sonno:

  • i turnisti (anche se si alimentano normalmente) per effetto del turno spostano la sincronizzazione socio-ambientale dei pasti;
  • il turno mattutino di solito interferisce con l’orario del pranzo e induce uno spostamento del pasto di due o tre ore;
  • allo stesso modo il turno pomeridiano ha un effetto sulla cena;
  • durante il turno di notte, anche se gli orari dei pasti si mantengono, si modifica la qualità dei cibi consumati (prevalentemente freddi e preconfezionati) e aumenta l’incremento di bevande stimolanti (caffè e tè) e di tabacco.

E dunque nei turnisti può registrarsi un incremento delle malattie dell’apparato digerente (gastroduodenite, ulcera peptica, colonpatie funzionali).

La relazione ricorda poi che un altro problema rilevante nel lavoro a turni è l’incidenza dei disturbi psichici (disturbi comportamentali, sindromi ansiose e depressive) e neurologici (fatica cronica, insonnia). I lavoratori a turni, pertanto, spesso assumono psicofarmaci e ricorrono al ricovero in luoghi di cura con maggior frequenza della restante popolazione attiva.

Vengono poi brevemente presentati alcuni risultati di studi sulla salute dei turnisti.

Ad esempio con riferimento a:

  • aumento del rischio per le malattie cardiovascolari (indagini effettuate nei paesi scandinavi): i problemi cardiaci (angina, infarto) sono da due a tre volte più frequenti nei lavoratori con turni solo di mattina; tale rischio è indipendente dall’età e dal consumo di tabacco;
  • aumento del colesterolo e dei trigliceridi: a prescindere dall’uso o dall’abuso di tabacco e dall’anzianità anagrafica si è riscontrato un maggiore incremento del LDL e una riduzione del HDL durante il lavoro notturno; le alterazioni dell’assetto lipidico appaiono indipendenti dall’obesità e dalle abitudini alimentari;
  • irregolarità mestruali, un minor numero di gravidanze, un incremento d’incidenza di minacce d’aborto e di aborti spontanei sono state osservate nelle lavoratrici a turno rispetto alle donne che lavorano soltanto la mattina.

Riprendiamo infine le conclusioni del sul lavoro notturno.

Occorre infatti valutare sotto una nuova ottica le implicazioni che il lavoro a turni determina sulla vita e sulla salute dei lavoratori.

I lavoratori turnisti, se non già soggetti a controllo periodico obbligatorio da parte di un Medico Competente, dovrebbero esser periodicamente sottoposti a visita sanitaria allo scopo di evidenziare il più precocemente possibile i segni ed i sintomi di alterazione.

E sarebbe poi importante non solo avere specifiche indagini epidemiologiche sull’incidenza di tale rischio in ambito sanitario, ma anche avviare un’indagine che approfondisca le implicazioni di tale organizzazione del lavoro sui diversi aspetti della vita relazionale e lavorativa dei turnisti e sulle ricadute che si determinano sulla loro salute.

Il documento “Principali rischi in ambiente ospedaliero”, spazio online a cura del Servizio di Prevenzione e Protezione dell’Azienda Sanitaria Locale Alba-Bra è scaricabile all’indirizzo:

http://www.aslcn2.it/azienda-asl-cn2/servizio-di-prevenzione-e-protezione/principali-rischi-in-ambiente-ospedaliero

 

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.238 DEL 29/12/15

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.238 DEL 29/12/15

 

INDICE

  • Lavoro notturno e gestione della salute e della sicurezza
  • Attenzione alle visite e ai giudizi del medico competente
  • L’amianto presente nell’80% delle ristrutturazioni e demolizioni
  • Il nuovo Codice prevenzione incendi: il sistema di esodo
  • Differenze di genere: rischi psicosociali, stress e suicidi
  • Ponteggi metallici: le norme ci sono, ma bisogna applicarle

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LAVORO NOTTURNO E GESTIONE DELLA SALUTE E DELLA SICUREZZA

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.70

 

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti del lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

 

 

QUESITO

 

Buongiorno Marco,

la mia azienda intende introdurre in alcuni reparti il lavoro notturno (dalle 9 di sera alle 5 di mattina).

In realtà questo non sarebbe per tutto il periodo dell’anno, ma solo in presenza di picchi di richieste e quindi necessità di aumentare la produzione.

L’ufficio del personale e la produzione parlano di un periodo complessivo non superiore ai 30 giorni nell’arco dell’anno.

Ti volevo chiedere se abbiamo diritto a misure di sicurezza particolari visto che faremo questo lavoro notturno, quando in fabbrica mancheranno molti dei servizi che ci sono a giornata (responsabile sicurezza, addetti primo soccorso e antincendio).

Ti ringrazio.

 

 

RISPOSTA

 

Prima di addentrarmi sull’argomento che mi poni è bene verificare se nel vostro caso si possa parlare di lavoro notturno, come definito dalla normativa vigente.

A tale proposito ho riportato in fondo il Punto 18 della Circolare del Ministero del Welfare n.8 del 3 marzo 2005, che trovi integralmente ad esempio al link:

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Speciali/2006/documenti_lunedi/09gennaio2006/FERIE/CIR_3_3_2005_8.pdf?cmd%3Dart

Tale Circolare, interpretativa del Decreto Legislativo n.66 del 8 aprile 2003 e successive modifiche e integrazioni , che trovi ad esempio al link:

http://www.dplmodena.it/leggi/66-03_Collegato%20Lavoro.pdf

definisce in maniera molto chiara cosa deve intendersi per “lavoratore notturno”.

 

Secondo tali fonti normative, il caso da te citato, in cui il lavoratore esegue un turno di 8 ore di cui almeno 7 nel periodo notturno come sopra definito, ma per meno di 80 giorni all’anno non rientra nella definizione di “lavoratore notturno”.

In ogni caso, anche se i lavoratori coinvolti non possano essere identificati come “lavoratori notturni” secondo il D.Lgs.66/03, ciò nondimeno parte della attività della tua azienda avviene nel “periodo notturno” come definito dal medesimo Decreto.

 

Pertanto (ma questa è mia interpretazione) gli obblighi di cui all’articolo 14 del D.Lgs.66/03, si devono applicare alla tua azienda nel periodo di lavoro notturno, cioè dalle 24 alle 5, indipendentemente se i lavoratori possano essere classificati come “lavoratori notturni” secondo le definizioni e i chiarimenti di cui sopra.

 

In particolare devono essere adottati gli obblighi di cui all’articolo 14, comma 2:

Durante il lavoro notturno il datore di lavoro garantisce, previa informativa alle rappresentanze sindacali di cui all’articolo 12 [rappresentanze sindacali in azienda], un livello di servizi o di mezzi di prevenzione o di protezione adeguato ed equivalente a quello previsto per il turno diurno”.

Quanto sopra deve essere garantito sia per l’aspetto routinario delle attività lavorative, sia, in particolare, per la gestione delle situazioni di emergenza che dovessero manifestarsi.

 

Comunque, al di là della mia interpretazione di quanto disposto dal D.Lgs.66/03, a seguito delle modifiche organizzative comportate dal passaggio a lavoro notturno, anche se parziale, il datore di lavoro della tua azienda ha l’obbligo di aggiornare il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) di cui agli articoli 17, comma 1, lettera a), 28 e 29 del Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 (D.Lgs.81/08).

 

Infatti l’articolo 29, comma 3, del D.Lgs.81/08 impone (a seguito delle ultime modifiche operate dalla Legge 161 del 2014:

La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori […]. A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate. Nelle ipotesi di cui ai periodi che precedono il documento di valutazione dei rischi deve essere rielaborato, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, nel termine di trenta giorni dalle rispettive causali. Anche in caso di rielaborazione della valutazione dei rischi, il datore di lavoro deve comunque dare immediata evidenza, attraverso idonea documentazione, dell’aggiornamento delle misure di prevenzione e immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.

 

Pertanto il datore di lavoro (e la responsabilità è esclusivamente sua, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08) deve, prima dell’inizio dei lavori con orario notturno, definire formalmente misure di prevenzione e protezione specifiche conseguenti al mutato scenario di rischio e darne comunicazione al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS).

 

Entro trenta giorni poi dall’inizio del lavoro notturno, il DVR deve essere rielaborato, comprendendo anche le misure di prevenzione e protezione sopra specificate.

Ovviamente il RLS deve essere consultato preventivamente in merito alla modifica del DVR e ha la facoltà di consultare il DVR stesso, ai sensi dell’articolo 50, comma 1 lettere b) ed e) del D.Lgs.81/08 rispettivamente.

 

La modifica del DVR (così come la sua redazione) deve essere eseguita dal datore di lavoro, con la collaborazione del medico competente e del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (articolo 29, comma 1 del D.Lgs.81/08).

 

In particolare il medico competente dovrà verificare se le mutate variazioni organizzative non richiedano una modifica al protocollo di sorveglianza sanitaria, di cui agli articoli 25, comma 1, lettera b) e 41 del D.Lgs.81/08.

Quindi (ma anche questa è una mia interpretazione), anche se, ai sensi del D.Lgs.66/03 non è obbligatoria la sorveglianza sanitaria specifica di verifica e di controllo della idoneità sanitaria alla mansione dei lavoratori notturni, il medico competente dovrà comunque esprimere un suo giudizio sulla idoneità sanitaria alla mansione dei lavoratori, a fronte del mutamento organizzativo.

E sempre seconde me, il medico competente dovrebbe esprimere in maniera formale la necessità o meno di variazione del protocollo di sorveglianza sanitaria.

 

In merito alle altre misure di prevenzione e protezione, il datore di lavoro deve verificare che il mutamento organizzativo non comporti un aumento o un’aggiunta di rischio e definire di conseguenza specifiche misure di prevenzione e protezione.

 

Per quanto riguarda l’aspetto routinario della attività lavorativa, il datore di lavoro dovrà valutare l’influenza dei seguenti aspetti sul profilo di rischio:

  • illuminazione artificiale dei luoghi di lavoro (punto 1.10 dell’allegato IV del D.Lgs.81/08);
  • parametri microclimatici (punto 1.9 dell’allegato IV del D.Lgs.81/08);
  • stress lavoro correlato (articolo 28, comma 1, del D.Lgs.81/08);
  • manutenzione e controllo delle attrezzature utilizzate (in assenza di una squadra di manutenzione) (articolo 71, comma 4 del D.Lgs.81/08).

 

Per quanto riguarda invece le situazioni di emergenza, il datore di lavoro dovrà valutare l’influenza dei seguenti aspetti sul profilo di rischio:

  • presenza degli addetti al designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza (articoli 18, comma 1, lettera b) e 43, comma 2 del D.Lgs.81/08);
  • possibilità di contattare i servizi pubblici competenti in materia di primo soccorso, salvataggio, lotta antincendio e gestione dell’emergenza (articolo 43, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08);
  • possibilità che i lavoratori, in caso di pericolo grave e immediato che non può essere evitato, possano cessare la loro attività, o mettersi al sicuro, abbandonando immediatamente il luogo di lavoro (articolo 43, comma 1, lettera d) del D.Lgs.81/08);
  • possibilità per i lavoratori, in caso di pericolo grave e immediato per la propria sicurezza o per quella di altre persone e nell’impossibilità di contattare il competente superiore gerarchico, possano prendere le misure adeguate per evitare le conseguenze di tale pericolo, tenendo conto delle sue conoscenze e dei mezzi tecnici disponibili (articolo 43, comma 1, lettera e) del D.Lgs.81/08).

 

* * * *

 

CIRCOLARE DEL MINISTERO DEL WELFARE N.8 DEL 3 MARZO 2005

 

18 “LAVORO NOTTURNO”

Gli articoli dall’11 al 15, in materia di lavoro notturno, riprendono in larga misura il contenuto del decreto legislativo n. 532 del 1999 con il quale era stata data attuazione alla delega conferita al Governo dall’art. 17, comma 2 della legge n. 25 del 1999, nonché alla direttiva 93/104.

La normativa di cui ai citati articoli non si allontana, sostanzialmente, da quella del 1999, ma viene riordinata e razionalizzata.

 

DEFINIZIONE DI LAVORO E DI LAVORATORE NOTTURNO

Il lavoro notturno è quello prestato in un periodo di almeno sette ore consecutive comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino.

Quindi il lavoro notturno è quello svolto tra le 24 e le 7, ovvero tra le 23 e le 6, ovvero tra le 22 e le 5, indipendentemente dalla eventuale maggiorazione retributiva prevista dalla contrattazione collettiva.

Il lavoratore notturno è il lavoratore che svolge, durante il periodo notturno, almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale; è, inoltre, lavoratore notturno anche colui che svolge durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo le norme definite dai contratti collettivi di lavoro. Qualora la disciplina collettiva nulla stabilisca sul punto è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga, durante il periodo notturno almeno una parte del suo tempo di lavoro giornaliero, per un minimo di 80 giorni lavorativi all’anno.

Quest’ultimo criterio di definizione del lavoratore notturno non va a sovrapporsi con il primo in quanto prende in considerazione lo svolgimento di una prestazione lavorativa in parte esercitata durante il periodo notturno, a prescindere che l’attività in oggetto rientri nell’orario normale di lavoro. Quindi, deve considerarsi lavoratore notturno anche colui che non sia impiegato in modo normale durante il periodo notturno ma che, nell’arco di un anno, svolga almeno 80 giorni di lavoro notturno. Ad esempio se al lavoratore è richiesto lo svolgimento, per esigenze contingenti, di prestazioni durante il periodo notturno, tale prestatore è considerato lavoratore notturno ai fini della disciplina in oggetto se detto periodo, anche frazionato, abbia durata di almeno 80 giorni lavorativi nell’arco temporale di un anno solare.

Ove il limite degli 80 giorni venga superato in ragione del sopravvenire di eventi eccezionali e straordinari (gravi incidenti agli impianti o nell’esercizio di particolari servizi, calamità naturali), non potrà configurarsi la fattispecie in esame.

Il suddetto limite minimo è riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale.

Il lavoratore, per poter svolgere prestazioni di lavoro notturno, deve esserne ritenuto idoneo mediante accertamento ad opera delle strutture sanitarie pubbliche competenti o per il tramite del medico competente.

I lavoratori notturni, la cui idoneità sia già stata verificata ai sensi della legge previgente, non devono essere sottoposti ad un nuovo accertamento.

Oltre a questa iniziale valutazione che deve precedere l’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno, lo stato di salute dei lavoratori notturni deve essere periodicamente verificato. La periodicità di tali controlli è individuata dal legislatore in almeno due anni. I controlli potranno essere più frequenti sia nel caso in cui il medico competente abbia prescritto una periodicità inferiore sia nel caso in cui siano mutati i rischi relativi alle lavorazioni cui il lavoratore è addetto.

Tali controlli devono essere effettuati dalle competenti strutture sanitarie pubbliche, o dal medico competente di cui all’articolo 17 del decreto legislativo n. 626 del 1994. In ogni caso tali controlli devono avvenire a cura e spese del datore di lavoro.

 

LIMITAZIONI AL LAVORO NOTTURNO

L’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno è obbligatoria per i lavoratori idonei fatto salvi i casi di divieto o di esclusione dall’obbligo di eseguire la prestazione.

È vietato adibire al lavoro dalle 24 alle 6 le donne in gestazione dall’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino o, comunque, dal momento in cui il datore di lavoro ha avuto conoscenza della fattispecie generatrice del divieto.

Alcuni lavoratori hanno facoltà di non prestare lavoro notturno dandone comunicazione, in forma scritta, al datore di lavoro entro 24 ore precedenti al previsto inizio della prestazione. Il datore ha facoltà di accettare la comunicazione del rifiuto avvenuta in un termine inferiore rispetto a quello previsto.

L’individuazione dei requisiti dei lavoratori che determinano l’insorgere della facoltà sono stabiliti dai contratti collettivi. Il decreto prevede, inoltre, che abbiano facoltà di rifiutarsi di prestare lavoro notturno:

  • la lavoratrice subordinata, madre di un figlio di età inferiore di tre anni o, qualora la stessa non abbia esercitato la facoltà di rifiutare l’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno;
  • il lavoratore padre convivente che sia anch’esso lavoratore subordinato;
  • l’unico genitore affidatario e convivente di un minore di età inferiore a 12 anni;
  • coloro che abbiano a loro carico un soggetto disabile ai sensi della legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.

 

OBBLIGHI DI COMUNICAZIONE

Il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicare per iscritto, annualmente, l’esecuzione di lavoro notturno continuativo oppure compreso in turni periodici regolari.

La comunicazione deve essere effettuata ai servizi ispettivi della DPL competente e alle organizzazioni sindacali titolari del diritto ad essere consultate al fine dell’introduzione del lavoro notturno.

Se il contratto collettivo applicato in azienda disciplina in modo specifico l’esecuzione di lavoro notturno continuativo oppure compreso in turni periodici regolari, non sorge l’obbligo di comunicazione.

 

DURATA DELLA PRESTAZIONE

Ai sensi dell’articolo 13 del D.Lgs. n. 66/2003, per tutti i lavoratori notturni, l’orario non può superare le 8 ore, in media, nell’arco di 24 ore calcolate dal momento di inizio dell’esecuzione della prestazione lavorativa.

Tale limite costituisce, data la sua formulazione, un media fra ore lavorate e non lavorate pari ad 1/3 (8/24) che, in mancanza di una esplicita previsione normativa, può essere applicato su di un periodo di riferimento pari alla settimana lavorativa – salva l’individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo più ampio sul quale calcolare detto limite – considerato che il Legislatore ha in più occasioni adoperato l’arco settimanale quale parametro per la quantificazione della durata della prestazione (vedi ad esempio gli articoli 3 e 4 del D.Lgs. n. 66/2003 in materia di orario normale di lavoro e orario medio).

Per il settore della panificazione industriale la media su cui calcolare il limite di durata della prestazione lavorativa è riferito, comunque, alla settimana lavorativa e, pertanto, la norma si configura quale limite alla contrattazione collettiva di estendere ulteriormente il periodo di riferimento sul quale calcolare l’orario di lavoro.

Inoltre, conformemente alla direttiva 93/104/CE, per alcune lavorazioni che comportano rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali, il limite orario è di otto ore nel corso di ogni periodo di 24 ore. In questo caso il limite è fisso e non va considerato come media.

L’individuazione di tali lavorazioni è rimessa ad un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali – di concerto col Ministro per la funzione pubblica per quanto riguarda, in modo non esclusivo, i pubblici dipendenti – previa consultazione delle organizzazioni sindacali nazionali dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Per le materie di esclusivo interesse dei pubblici dipendenti il decreto è adottato dal ministro della funzione pubblica di concerto col Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

La durata massima della settimana lavorativa non potrà, quindi, superare le 48 ore comprensive delle ore di straordinario, tenendo presente che queste ultime non potranno essere superiori, in assenza di determinazioni collettive, di 250 ore annue.

Nel computo della media su cui calcolare il limite delle 8 ore non si deve tener conto del periodo di riposo minimo settimanale quando questo ricade nel periodo di riferimento stabilito dai contratti collettivi.

 

TRASFERIMENTO AL LAVORO DIURNO

Qualora sopraggiungano condizioni di salute che comportino l’inidoneità alla prestazione di lavoro notturno il lavoratore può essere trasferito al lavoro diurno.

La sopraggiunta inidoneità deve essere accertata dalle competenti strutture sanitarie pubbliche o dal medico competente.

Il decreto dispone che il trasferimento al lavoro notturno è subordinato alla esistenza e alla disponibilità di un posto di lavoro la cui esecuzione sia relativa a mansioni equivalenti a quelle svolte. In mancanza di tali condizioni il datore di lavoro ha facoltà di risolvere il rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo.

Alla contrattazione collettiva è attribuita la facoltà di definire le modalità di applicazione delle disposizioni illustrate in materia di trasferimento al lavoro diurno e di individuare le soluzioni per le ipotesi in cui manchino le condizioni per l’assegnazione al lavoro diurno del prestatore di lavoro notturno.

Quindi, mentre il decreto legislativo n. 532 del 1999 stabiliva che il trasferimento al lavoro diurno o ad altra mansione era automatico, con la nuova disciplina tale trasferimento è vincolato alla disponibilità in azienda, secondo le modalità stabilite dalla contrattazione collettiva che potrà ricercare anche soluzioni alternative in caso di inesistenza di altro posto di lavoro disponibile.

 

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ATTENZIONE ALLE VISITE E AI GIUDIZI DEL MEDICO COMPETENTE

 

Da FILCAMS CGIL Lombardia

http://www.rlsfilcams-lombardia.org

 

Si rivolgono sempre più spesso a noi, lavoratori, che a seguito di visita dal Medico competente, ci segnalano di aver ricevuto dallo stesso l’invito a continuare la malattia in quanto a parere del Medico competente sono inidonei a riprendere la propria attiva lavorativa.

Questo avviene nella gran parte dei casi a voce e in altri per iscritto con diciture tutt’altro che inattaccabili. Spesso i lavoratori accettano quanto loro viene detto o scritto senza valutarne a pieno le conseguenze.

 

Per questo pensiamo utile ricordare a tutti quali le norme e la procedura da seguire:

  • il lavoratore non si può rifiutare di sostenere le visite mediche disposte dal Datore di Lavoro (articolo 20, comma 2, lettera i) del D.Lgs.81/08);
  • i costi sono a totale carico del datore di lavoro (articolo 15, comma 2 del Decreto).
  • le visite siano esse preventive all’applicazione, periodiche legate al programma di sorveglianza sanitaria, richieste dal lavoratore o conseguenti ad assenze superiori a 60 giorni non devono essere fatte quando il lavoratore è in malattia;
  • dopo la visita il Medico competente deve redigere il proprio giudizio che può essere d’idoneità, idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni e limitazioni, inidoneità temporanea, inidoneità permanente (articolo 41, comma 5 del Decreto).
  • in caso d’inidoneità temporanea vanno indicati i limiti temporali. (articolo 41, comma 7 del Decreto);
  • qualora il giudizio del Medico competente preveda un’inidoneità alla mansione specifica, il Datore di Lavoro deve adibire il lavoratore (se possibile) a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza (articolo 42 del Decreto).

 

Chiaro è che l’invito verbale a mettersi in malattia non rientra nelle norme citate.

Il Medico competente può ritenere che un dipendente sano (se è stato in malattia o in infortunio ed è stato giudicato idoneo a riprendere il lavoro dal medico di base) sia inidoneo a svolgere questa o quella mansione in funzione dei rischi a cui è sottoposto.

Ma nel caso il Medico competente giudichi un dipendente che svolge un’attività specifica questo non significa che sia inidoneo a svolgere tutte le mansioni.

 

Proprio perché il Medico Competente, ha partecipato alla valutazione del rischio e ha visitato gli ambienti di lavoro, potrebbe tranquillamente indicare eventuali mansioni cui il dipendente può essere adibito nell’ambito della propria azienda.

 

Un paio di esempi.

 

Un lavoratore della Grande Distribuzione Organizzata addetto al rifornimento, a causa di problemi ai piedi, non può per un certo periodo utilizzare le calzature antinfortunistiche previste per la propria mansione. Questo non significa automaticamente che non possa essere trovata una collocazione lavorativa all’interno dell’azienda ove le calzature antinfortunistiche non sono obbligatorie ove applicarlo, ad esempio alla cassa.

 

Una commessa della moda per problemi al rachide non può stare in piedi continuativamente per otto ore, non significa automaticamente che possa essere giudicata inidonea alla mansione. E’ possibile, infatti, definire pause di riposo o di altra attività non in posizione eretta.

 

Chi accetta supinamente indicazioni verbali a rimettersi in malattia, o un responso scritto d’inidoneità lavorativa di dubbia validità senza presentare ricorso avverso entro trenta giorni dal ricevimento all’ASL di competenza (articolo 41, comma 9 del Decreto) rischia nel peggiore dei casi di ritrovarsi (come già capitato) una lettera di licenziamento per superamento dei periodi di comporto.

 

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L’AMIANTO PRESENTE NELL’80% DELLE RISTRUTTURAZIONI E DEMOLIZIONI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

15 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

L’Italia è un paese pieno di amianto, con bonifiche insufficienti e un’insufficiente attenzione e tutela della popolazione e dei lavoratori. Cosa si dovrebbe fare? Ne parliamo con Stefano Farina di AIFOS (Associazione Italiana Formatori e Operatori della Sicurezza) e Paolo Varesi della Commissione Consultiva.

 

Che la presenza nel nostro paese di fibre d’amianto e la necessità di idonee bonifiche siano ormai da considerare una emergenza nazionale, è emerso anche dalla recente “Assemblea Nazionale sull’Amianto” che si è tenuta il 30 novembre al Senato e che ha parlato anche concretamente della possibilità di un futuro Testo Unico. Un Testo Unico in grado di dare organicità alla materia, raccordando le oltre 400 norme regionali e nazionali sull’amianto, e offrire tutela e aiuto ai familiari delle vittime, come richiesto anche da Camilla Fabbri, presidente della Commissione di Inchiesta sugli infortuni sul lavoro del Senato.

 

E tutto questo in un paese, come il nostro, in cui l’amianto è stato massicciamente utilizzato. Un paese, come ha ricordato all’Assemblea il presidente dell’INPS Tito Boeri, in cui si procede troppo lentamente con le bonifiche. Infatti riguardo alla quantità di amianto, “sul territorio italiano sono ancora presenti 32 milioni di tonnellate. A questo ritmo di bonifica, occorrerebbero ancora 85 anni, un’infinità…”.

Del rinnovato impegno a liberare l’Italia dall’amianto e ad aumentare l’attenzione verso questo pericolosissimo materiale, vogliamo parlare anche noi di PuntoSicuro pubblicando una recente intervista sul tema amianto che abbiamo realizzato durante la manifestazione Ambiente Lavoro che si è tenuta a Bologna nel mese di ottobre.

Con i nostri microfoni abbiamo raccolto le esperienze e le indicazioni di Stefano Farina (coordinatore della sicurezza e responsabile del settore costruzioni di AIFOS) e Paolo Varesi (componente della Commissione Consultiva, ex articolo 6 del D.Lgs.81/08) a margine del convegno, organizzato dall’associazione ANMIL (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro), dal titolo “Rischio amianto: il quadro informativo aggiornato e gli strumenti pratici per la migliore assistenza e tutela” (Bologna, 14 ottobre 2015). I due intervistati erano relatori del convegno sul tema specifico della “Valutazione della presenza di amianto nei cantieri di ristrutturazione e in agricoltura”.

A 23 anni dalla Legge n. 257 del 27 marzo 1992, contenente le “Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”, chiediamo innanzitutto ai due relatori quale sia la dimensione del problema amianto in edilizia e agricoltura. Accade spesso in questi comparti che ci si trovi ad avere a che fare con materiale in amianto?

Rimandando per le risposte alla trascrizione dell’intervista, che ci ricorda come nei cantieri di ristrutturazione o demolizione di edifici “circa nell’80% dei casi si riscontra la presenza di amianto” e dell’abitudine a utilizzare l’amianto nel mondo agricolo, nei palazzi pubblici e nelle tubazioni, chiediamo ai due relatori anche informazioni più dettagliate sulla tutela dei lavoratori.

In edilizia quando si progetta una ristrutturazione si pensa all’amianto?

E il manutentore cosa deve fare se si trova di fronte a materiali contenenti amianto?

Quali sono invece le procedure da seguire laddove si sa che è presente amianto?

Non possiamo poi non soffermarci a quanto fatto in questi anni dalla Commissione Consultiva e sulle necessità odierne a livello procedurale e normativo.

In Commissione Consultiva si sta lavorando per migliorare la prevenzione del fenomeno amianto?

In questi anni è cambiato qualcosa dal punto di vista normativo e procedurale riguardo alla sicurezza per esposti all’amianto?

Quali sono le problematiche che dovrebbe affrontare oggi il legislatore?

Chi sono i lavoratori più esposti al rischio amianto?

L’intervista si conclude elencando le iniziative più urgenti.

Ad esempio, ricorda Paolo Varesi, è necessario “instaurare anche un po’ di paura”. Stiamo parlando di una malattia, quella correlata alla presenza di amianto, “che ha una latenza lunghissima, addirittura di 30/40 anni, e che non lascia scampo. Si muore, non c’è speranza di vita. E questa malattia colpisce spesso persone che hanno avuto una attività professionale che le ha messe in contatto con l’amianto, ma anche persone che, nel 20% dei casi, non riescono a spiegare come sia avvenuto il contatto con la fibra…”.

Ci vorrebbe dunque “una giornata nazionale da dedicare al’amianto, un momento di riflessione collettiva che non coinvolga soltanto gli addetti ai lavori”. E, ricorda infine anche Stefano Farina, necessita anche una “diffusione capillare della formazione”.

Come sempre diamo ai nostri lettori la possibilità di ascoltare integralmente l’intervista, al link:

https://www.youtube.com/watch?v=Bp9SRWxO2JI

e/o di leggerne una parziale trascrizione.

ARTICOLO E INTERVISTA A CURA DI TIZIANO MENDUTO

Cominciamo a cercare di comprendere la dimensione del problema della presenza di amianto in edilizia e agricoltura. Accade spesso in questi comparti che ci si trovi ad avere a che fare con materiale in amianto?

Stefano Farina

Secondo quella che è la mia esperienza, nei cantieri di ristrutturazione o demolizione di edifici circa nell’80% dei casi abbiamo riscontrato la presenza di amianto. Una quantità molto elevata che non sempre è visibile. Tante volte ci si sofferma alle verifica delle coperture, mentre in realtà all’interno di strutture o finiture troviamo la presenza di queste fibre, chiamate anche “fibre killer”.

Anche in agricoltura specialmente in fase di smontaggio di capannoni o annessi agricoli si rileva la presenza di amianto. E molte volte questo amianto, soprattutto se in lastre, viene riutilizzato perché non c’è la conoscenza della sua pericolosità. La presenza di amianto si riscontra anche nel sottosuolo, in tubazioni di tipo irriguo o di acquedotti e fognature…

Nella Commissione Consultiva questa dimensione del problema è avvertita? Si sta lavorando per migliorare la prevenzione del fenomeno amianto?

Paolo Varesi

C’è una grande attenzione istituzionale. La Commissione già nel precedente mandato aveva istituito un apposito Comitato Tecnico che aveva approfondito vari aspetti in collaborazione con il Ministero della Salute e con l’INAIL. La nuova Commissione ha già previsto la permanenza di questo comitato.

Io integrerei quanto già detto da Farina, ricordando che il nostro paese è stato il più grande utilizzatore di fibra d’amianto. Ne sono presenti sul territorio milioni di tonnellate, in modo molto diffuso, perché l’utilizzo di questa fibra veniva raccomandata. Ci sono pubblicità in cui si raccomandava l’uso di questo materiale per le sue caratteristiche a livello industriale per l’isolamento termico.

Stefano Farina

E per la protezione dei lavoratori…

Paolo Varesi

Per cui non a caso in alcuni ambiti, come in agricoltura ed edilizia, oggi è difficile censire completamente la presenza di questo materiale.

La mia generazione è nata con l’Eternit che veniva utilizzato anche per realizzare la cuccia del cane. Veniva utilizzato con molta facilità, soprattutto in campagna. E viene ancora utilizzato. Ci sono regioni in cui l’Eternit è usato dalle famiglie per proteggere particolari formaggi che vengono realizzati in fossa, oppure per proteggere gli animali da cortile.

Questo è un tema che non può restare di interesse istituzionale o da addetti ai lavori ma deve permeare la popolazione attraverso tutti gli strumenti di comunicazione. Ad esempio attraverso le scuole che spesso vengono investite da questo problema e che spesso sono oggetto di attenzione perché moltissimi edifici pubblici, è stato ricordato anche recentemente dall’ex Ministro Balduzzi, sono caratterizzati dalla presenza di fibre d’amianto.

Proprio per la caratteristica del nostro paese e per l’uso che questo paese ha fatto dell’amianto noi abbiamo il problema di individuare bene tutti i siti, di fare una buona informazione, perché le persone si difendano, e soprattutto di instaurare anche un po’ di paura. E lo dico senza creare allarmismo. Il problema è che noi tema siamo abituati a vivere sulla cronaca, a prevenire l’infortunio, mentre qui stiamo parlando di una malattia che ha una latenza lunghissima, addirittura di 30/40 anni, e che non lascia scampo. Si muore, non c’è speranza di vita. E questa malattia colpisce spesso persone che hanno avuto una attività professionale che le ha messe in contatto con l’amianto, ma anche persone che, nel 20% dei casi, non riescono a spiegare come sia avvenuto il contatto con la fibra.

In edilizia quando, ad esempio, si pianifica, si progetta una ristrutturazione si pensa all’amianto?

Stefano Farina

Sicuramente si dovrebbe pensare all’amianto facendo campionamenti, sopralluoghi e vedendo, locale per locale, se c’è presenza di amianto.

Molte volte invece questo controllo viene fatto solo a livello visivo, per cui si guardano le superfici in cui è quasi assodato ci sia la presenza di amianto mentre non si vanno ad approfondire altri aspetti.

E sappiamo che l’amianto può trovarsi in realtà anche nelle contropareti, all’interno degli sfiati e anche dietro a stufe. C’erano infatti i cartonati di amianto che venivano utilizzati dietro stufe e termosifoni per isolare la parete.

Un altro problema è relativo alle caldaie. Sappiamo che molte guarnizioni e rivestimenti delle caldaie contengono amianto…

Per cui parliamo anche di rischi nelle manutenzioni…

Stefano Farina

Parliamo di manutenzioni e anche soprattutto di situazioni dove magari una caldaia è stata dismessa, ma è stata lasciata in ambiente e la fibra d’amianto rimane. E quando si fa la manutenzione successiva, il manutentore è esposto all’amianto.

Parliamo anche di rivestimenti di tubazioni (idriche, riscaldamento, ecc.). Anche in questo caso mi è capitato di vedere isolazioni completamente danneggiate, con perdita di fibra, anche in ambienti pubblici. E il manutentore è totalmente esposto e non sempre è a conoscenza di questi aspetti.

E’ cambiato qualcosa in questi anni dal punto di vista normativo e procedurale riguardo alla sicurezza per esposti all’amianto? Quali sono le problematiche che dovrebbe affrontare oggi il legislatore alla luce di quanto ci avete detto? Quali sono oggi i lavoratori più a rischio riguardo all’amianto?

Paolo Varesi

A volte ci dimentichiamo che i manutentori spesso sono lavoratori stranieri che arrivano da paesi in cui non c’è questa sensibilità, dove spesso non c’è neanche una normativa che tuteli i lavoratori dall’esposizione all’amianto, e che si trovano a fare lavori (cosiddetti in economia) con un datore di lavoro che chiede la risoluzione veloce del problema manutentivo.

Per questo io dico che si devono fare grandi campagne molto aggressive per sensibilizzare le persone e anche per sensibilizzare i datori di lavoro che spesso non sono grandi imprese, dove comunque il sistema tiene, ci sono RSPP qualificati, dove c’è un sistema di collaborazione che consente questa tipologia di interventi.

Noi dobbiamo parlare della quotidianità, dell’acquirente di un appartamento di un negozio, di un appartamento, di uno stabile da ristrutturare, che spesso si rivolge a lavoratori autonomi, a piccole ditte di cittadini stranieri che fanno un lavoro in economia. Stiamo parlando di un lavoro che si fa senza orario, velocemente, senza guardare la tutela dei lavoratori. Questi sono i futuri esposti all’amianto, non sono i lavoratori che hanno la fortuna di lavorare in una grande azienda o in un grande progetto.

Per concludere cosa servirebbe dunque oggi in Italia a livello normativo o a livello di campagne di prevenzione?

Paolo Varesi

Ci vorrebbe un’attenzione politica e mediatica innanzitutto. Ci vorrebbe una giornata nazionale da dedicare all’amianto, un momento di riflessione collettiva che non coinvolga soltanto gli addetti ai lavori, ma anche tutte le associazioni, le comunità, le parrocchie, tutti quegli strumenti che possono aiutare a fare decollare questa formazione culturale.

Stefano Farina

E’ anche necessario operare per una diffusione capillare della formazione. In questi anni tanta formazione è stata fatta, ma probabilmente a livello di amianto e di conoscenza della presenza di amianto non si è sviluppato, ad esempio in edilizia e agricoltura, un sistema di passaggio di informazioni. Molte volte capita di venire consultati da colleghi e imprese dopo che l’amianto è stato trovato all’interno di un edificio con perdita di fibre.

Dobbiamo far capire prima come comportarsi e non arrivare dopo, perché dopo è tardi.

 

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IL NUOVO CODICE PREVENZIONE INCENDI: IL SISTEMA DI ESODO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

15 dicembre 2015

 

Il nuovo codice di prevenzione incendi riporta precise indicazioni relative al sistema di esodo. Procedure ammesse, vie di esodo, luoghi sicuri, scale, illuminazione di sicurezza, segnaletica d’esodo ed orientamento.

 

Le finalità del sistema di esodo sono quelle di “assicurare che gli occupanti dell’attività possano raggiungere o permanere in un luogo sicuro, a prescindere dall’intervento dei Vigili del Fuoco”.

Inizia con queste parole il capitolo dedicato al “sistema d’esodo” e contenuto nel cosiddetto “Codice di prevenzione Incendi” relativo al Decreto del Ministero dell’Interno del 3 agosto 2015 recante “Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del Decreto Legislativo 8 marzo 2006, n. 139”, Codice di prevenzione che è entrato in vigore il 18 novembre 2015.

 

Riguardo a questo aspetto così importante per l’efficacia delle strategie di prevenzione antincendio nei luoghi di lavoro, ricordiamo innanzitutto che secondo il Codice le procedure ammesse per l’esodo sono tra le seguenti:

  • esodo simultaneo: modalità di esodo che prevede lo spostamento contemporaneo degli occupanti fino a luogo sicuro (l’attivazione della procedura di esodo segue immediatamente la rivelazione dell’incendio oppure è differita dopo verifica da parte degli occupanti dell’effettivo innesco dell’incendio);
  • esodo per fasi: modalità di esodo di una struttura organizzata con più compartimenti, in cui l’evacuazione degli occupanti fino a luogo sicuro avviene in successione dopo l’evacuazione del compartimento di primo innesco; si attua con l’ausilio di misure antincendio di protezione attiva, passiva e gestionali (ad esempio l’esodo per fasi si attua in edifici di grande altezza, ospedali, multisale, centri commerciali, grandi uffici, ecc.);
  • esodo orizzontale progressivo: modalità di esodo che prevede lo spostamento degli occupanti dal compartimento di primo innesco in un compartimento adiacente capace di contenerli e proteggerli fino a quando l’incendio non sia estinto o fino a che non si proceda a una successiva evacuazione verso luogo sicuro (l’esodo orizzontale progressivo si attua ad esempio nelle strutture ospedaliere);
  • protezione sul posto: modalità di esodo che prevede la protezione degli occupanti nel compartimento in cui si trovano.

Il documento “Norme tecniche di prevenzione incendi”, allegato al Decreto del 3 agosto 2015, riporta nel capitolo sull’esodo varie indicazioni relative ai livelli di prestazione, ai criteri di attribuzione dei livelli di prestazione e alle possibili soluzioni progettuali.

 

Noi ci soffermiamo invece su alcune delle caratteristiche generali del sistema d’esodo.

Ad esempio riguardo al “luogo sicuro” (luogo esterno alle costruzioni nel quale non esiste pericolo per gli occupanti che vi stazionano o vi transitano in caso di incendio) si indica che ogni luogo sicuro deve essere idoneo a contenere gli occupanti che lo impiegano durante l’esodo. La superficie lorda del luogo sicuro è calcolabile tenendo in considerazione le superfici minime per occupante riportate in una tabella contenuta nel codice.

Inoltre si considerano luogo sicuro per l’attività almeno le seguenti soluzioni:

  • la pubblica via,
  • ogni altro spazio scoperto esterno alla costruzione sicuramente collegato alla pubblica via in ogni condizione d’incendio, che non sia investito dai prodotti della combustione, in cui il massimo irraggiamento dovuto all’incendio sugli occupanti sia limitato a 2,5 kW/m2, in cui non vi sia pericolo di crolli (nel Codice è presente una metodologia per calcolare anche la distanza di separazione che limita l’irraggiamento sugli occupanti e a meno di valutazioni più approfondite da parte del progettista, la distanza minima per evitare il pericolo di crollo dell’opera da costruzione è pari alla sua massima altezza).

Infine il luogo sicuro deve essere contrassegnato con cartello UNI EN ISO 7010:2015 o equivalente.

Veniamo invece al “luogo sicuro temporaneo” (luogo interno o esterno alle costruzioni nel quale non esiste pericolo imminente per gli occupanti che vi stazionario o vi transitano in caso di incendio: da ogni luogo sicuro temporaneo gli occupanti devono poter raggiungere un luogo sicuro). In particolare si considera luogo sicuro temporaneo per un’attività almeno un compartimento adiacente a quelli da cui avviene l’esodo o uno spazio scoperto.

Veniamo alle vie d’esodo.

Riportiamo alcune indicazioni:

  • l’altezza minima delle vie di esodo è pari a 2 m; sono ammesse altezze inferiori per brevi tratti segnalati lungo le vie d’esodo da locali ove vi sia esclusiva presenza occasionale e di breve durata di personale addetto (ad esempio locali impianti);
  • non devono essere considerati ai fini del calcolo delle vie d’esodo i seguenti percorsi: scale portatili e alla marinara; ascensori; rampe con pendenza superiore all’8%; scale e marciapiedi mobili non progettati secondo le indicazioni presenti nel paragrafo 5.4.5.4 del Codice;
  • è ammesso l’uso di scale alla marinara a servizio di locali ove vi sia esclusiva presenza occasionale e di breve durata di personale addetto (ad esempio locali impianti);
  • per quanto possibile, il sistema d’esodo deve essere concepito tenendo conto che, in caso di emergenza, gli occupanti che non hanno familiarità con l’attività tendono solitamente a uscire percorrendo in senso inverso la via che hanno impiegato per entrare;
  • tutte le superfici di calpestio delle vie d’esodo devono essere non sdrucciolevoli;
  • il fumo ed il calore dell’incendio smaltiti o evacuati dall’attività non devono interferire con il sistema delle vie d’esodo.

Il Codice si sofferma poi su vari altri aspetti che riguardano il sistema d’esodo: via d’esodo protetta, via d’esodo a prova di fumo, via d’esodo esterna, via d’esodo aperta, rampe d’esodo, porte lungo le vie di esodo, uscite finali, posti a sedere fissi e mobili, affollamento, scale, segnaletica, illuminazione.

Ci soffermiamo sulle “scale d’esodo”:

  • nelle attività con massima quota dei piani superiore a 54 m almeno una scala d’esodo deve addurre anche al piano di copertura dell’edificio, qualora praticabile;
  • quando un pavimento inclinato immette in una scala d’esodo, la pendenza deve interrompersi almeno ad una distanza dalla scala pari alla larghezza della stessa;
  • le scale d’esodo devono essere dotate di corrimano laterale;
  • le scale d’esodo di larghezza maggiore di 2.400 mm dovrebbero essere dotate di corrimano centrale;
  • le scale d’esodo devono consentire l’esodo senza inciampo degli occupanti, a tal fine i gradini devono avere alzata e pedata costanti e le scale devono essere interrotte da pianerottoli di sosta;
  • dovrebbero essere evitate scale d’esodo composte da un solo gradino in quanto fonte d’inciampo; se il gradino singolo non è eliminabile, deve essere opportunamente segnalato.

Nel documento sono anche riportate le condizioni per considerare scale e marciapiedi mobili ai fini del calcolo delle vie di esodo.

Riportiamo inoltre alcune indicazioni generali relative alla segnaletica d’esodo ed orientamento.

Il sistema d’esodo (ad esempio le vie d’esodo, i luoghi sicuri, gli spazi calmi, ecc.) deve essere facilmente riconosciuto e impiegato dagli occupanti grazie ad apposita segnaletica di sicurezza. Ciò può essere conseguito anche con ulteriori indicatori ambientali quali: accesso visivo e tattile alle informazioni; grado di differenziazione architettonica; uso di segnaletica per la corretta identificazione direzionale, tipo UNI EN ISO 7010:2015 o equivalente; ordinata configurazione geometrica dell’edificio, anche in relazione ad allestimenti mobili o temporanei.

Inoltre la segnaletica d’esodo deve essere adeguata alla complessità dell’attività e consentire l’orientamento degli occupanti (wayfinding).

E a tal fine:

  • devono essere installate in ogni piano dell’attività apposite planimetrie semplificate, correttamente orientate, in cui sia indicata la posizione del lettore (ad esempio “Voi siete qui”) e il layout del sistema d’esodo (ad esempio vie d’esodo, spazi calmi, luoghi sicuri, ecc.); a tal proposito possono essere applicate le indicazioni contenute nella norma ISO 23601 “Safety identification – Escape and evacuation plan sign”;
  • possono essere applicate le indicazioni supplementari contenute nella norma ISO 16069 “Graphical symbols – Safety signs – Safety way guidance systems”.

E riguardo all’illuminazione di sicurezza deve essere installato un impianto di illuminazione di sicurezza lungo tutto il sistema delle vie d’esodo fino a luogo sicuro qualora l’illuminazione possa risultare anche occasionalmente insufficiente a garantire l’esodo degli occupanti.

Tale impianto deve assicurare un livello di illuminamento sufficiente a garantire l’esodo degli occupanti, conformemente alle indicazioni della norma UNI EN 1838:2013 o equivalente.

Il documento “Norme tecniche di prevenzione incendi”, allegato al Decreto del 3 agosto 2015, riporta infine anche precise indicazioni relative al calcolo delle vie d’esodo, alle misure antincendio minime per l’esodo e alla progettazione dell’esodo, anche con riferimento alla presenza di occupanti con disabilità.

Concludiamo questa breve presentazione del capitolo relativo all’Esodo (S.4), contenuto nel nuovo Codice di prevenzione Incendi, riportandone l’indice:

  • premessa;
  • livelli di prestazione;
  • criteri di attribuzione dei livelli di prestazione;
  • soluzioni progettuali;
  • caratteristiche generali del sistema d’esodo;
  • dati di ingresso per la progettazione del sistema d’esodo;
  • misure antincendio minime per l’esodo;
  • progettazione dell’esodo;
  • esodo in presenza di occupanti con disabilità;
  • misure antincendio aggiuntive;

Il Decreto del Ministero dell’Interno 3 agosto 2015 “Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del Decreto Legislativo 8 marzo 2006, n. 139” è consultabile all’indirizzo:

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/08/20/15A06189/sg

 

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DIFFERENZE DI GENERE: RISCHI PSICOSOCIALI, STRESS E SUICIDI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

21 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Informazioni sulle differenze di genere nel mondo del lavoro con particolare riferimento ai rischi psicosociali e allo stress lavoro correlato. I fattori di rischio, le mansioni femminili e le differenze sull’incidenza di suicidio tra donne e uomini.

 

Diversi articoli di PuntoSicuro in questi ultimi anni hanno sottolineato come le differenze di genere si associno spesso nel mondo del lavoro a una distribuzione diversa, per tipologia e incidenza, delle patologie di origine professionale.

E questa differente distribuzione è attribuibile sia ad una ineguale esposizione ai rischi per la salute che ad alcune specificità dei due sessi, ad esempio a peculiarità di tossico-cinetica e tossico-dinamica, differenti suscettibilità di organi bersaglio e specificità legate al sistema riproduttivo e ormonale che possono predisporre a effetti biologici diversi, anche a parità di esposizione.

 

Ad affermarlo è il documento INAIL “Salute e sicurezza sul lavoro, una questione anche di genere. Rischi lavorativi. Un approccio multidisciplinare” che segue la pubblicazione di altri tre volumi INAIL sul tema delle differenze correlate all’appartenenza al genere maschile o femminile.

E se in passati articoli di presentazione del documento, PuntoSicuro ha evidenziato diverse differenze di genere correlate, ad esempio, ai rischi chimici e biologici e ai rischi ergonomici e organizzativi, si possono notare sensibili differenze anche riguardo ai rischi psicosociali?

Ricordiamo che i rischi psicosociali sono (come indica il documento INAIL e come da definizione di Cox e Griffiths del 1995, ripresa nel 2000 dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro) “gli aspetti di progettazione, organizzazione e gestione del lavoro e i loro contesti ambientali e sociali che, potenzialmente, possono dar luogo a danni di natura psicologica, sociale o fisica”. E in particolare “lo stress lavoro correlato è un insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste in ambito lavorativo non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore” (NIOSH, 1999).

Per capire se ci siano specificità e differenze di genere riguardo ai rischi psicosociali, bisogna innanzitutto elencare i principali fattori di rischio in ambito lavorativo suddivisi per contenuto e contesto di lavoro, per i quali esiste un’ampia evidenza scientifica che rappresentino un potenziale di stress e di danno per la salute: l’elevato carico di lavoro, una scarsa autonomia, un basso supporto sociale da colleghi e superiori, instabilità e insicurezza del lavoro, alcune caratteristiche dell’orario di lavoro e una bassa remunerazione.

Se fino a oggi gli studi “non hanno evidenziato differenze tra uomini e donne nelle cause dello stress lavoro correlato” (Miller e altri, 2000), è importante sottolineare che molti di questi fattori di rischio indicati sono presenti nelle mansioni svolte generalmente da donne: mancanza di controllo sul proprio lavoro, posizione nella gerarchia organizzativa, gap salariale, compiti ripetitivi, instabilità e insicurezza sul lavoro, esigenze contrastanti tra lavoro e vita privata, discriminazione, molestie sessuali.

Ad esempio la difficoltà nel conciliare lavoro e vita familiare è “considerato un fattore in grado di aumentare nelle donne il rischio di disturbi psicologici da stress quali stanchezza cronica, nervosismo, ansia, disturbi della sfera sessuale e depressione” (Wedderburn, 2000).

Inoltre “i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità così come quelli derivanti da statistiche condotte in Italia, dimostrano come la depressione e i disturbi d’ansia siano più diffusi tra le donne rispetto agli uomini e che questa maggiore prevalenza femminile può essere dovuta a fattori ormonali (basti pensare alla depressioni post-partum), biologici e sociali, o potrebbe essere l’epifenomeno di una maggior propensione delle donne a richiedere un trattamento terapeutico” (Dell’Osso, 2012).

E all’inverso “il minor ricorso a trattamenti terapeutici, ovviato spesso da condotte di abuso di alcol e droghe, potrebbe portare alla sottostima di queste patologie nel sesso maschile” (Haslam, 2003).

E se le differenze di genere sono particolarmente evidenti con riferimento ai casi di segregazione occupazionale, cioè all’ineguale distribuzione per genere degli individui tra le diverse occupazioni, si evidenzia come in alcuni settori a elevata occupazione femminile (sanità e istruzione in primo luogo) si richiede alle lavoratrici di svolgere mansioni molto impegnative sia sul piano fisico, che su quello mentale, con un forte uso delle risorse relazionali ed emotive che possono comportare stati di stress e di stanchezza notevoli.

Senza dimenticare che, come ricordato a proposito dei rischi da fattori inerenti l’organizzazione di lavoro, in una lavoratrice un lavoro faticoso e stressante può alterare il ciclo mestruale provocando, amenorrea, dismenorrea, cicli anovulatori e riduzione della fertilità.

Inoltre secondo alcuni studi le donne “tendono a sviluppare 2-3 volte più degli uomini il disturbo post traumatico da stress dopo un trauma e ad avere sintomi più persistenti” (American Medical Association Councilon Scientific Affairs).

E sembra che il rischio di disturbi dell’ansia e dell’umore sia in genere associato per le donne a eventi stressanti della vita legati alla riproduzione, educazione e cura dei figli e alla gestione della famiglia, mentre per gli uomini tale rischio “viene a essere associato maggiormente a problematiche lavorative e finanziarie” (Afifi, 2007).

Concludiamo l’articolo proprio parlando delle reazioni alle problematiche economiche e alle differenze riscontrate sull’incidenza di suicidio tra donne e uomini.

Infatti si è riscontrato, in uno studio condotto alla fine degli anni ‘80, che l’incidenza di suicidio è “superiore nell’uomo rispetto alla donna con un rapporto 3,5:1 nella popolazione generale” (Conroy, 1989). Altri studi hanno evidenziato come tale divario aumenti notevolmente se si considerano solo i suicidi per i quali fosse possibile riconoscere una motivazione legata al mondo del lavoro.

Veniamo ad alcuni dati che riguardano l’Italia, come riportati nel documento dell’INAIL:

  • i suicidi di imprenditori e lavoratori, motivati da difficoltà economiche, sono saliti del 52% dai 123 del 2005 ai 187 del 2010 (dati ISTAT);
  • secondo i dati EURES nel corso del 2009 in Italia i suicidi commessi sono stati 2.986 (il 5,6% in più rispetto all’anno precedente), con incremento sia della componente femminile (643 casi, +1,6% rispetto al 2008) che, ancor più, della componente maschile (2.197 casi, + 5,6%);
  • i suicidi per ragioni economiche (per quanto sia possibile attribuire una motivazione univoca al gesto e al netto dei suicidi “non spiegati”) risultano essere stati 198 nel 2009 (+32% rispetto al 2008, +67,8% rispetto al 2007), rappresentando il 10,3% dei casi totali contro il 2,9% rilevato nel 2000, evidenziando così la forte influenza determinata dalla crisi economica che il Paese sta attraversando.

 

In ogni caso il suicidio per ragioni economiche sembra rappresentare nel nostro paese un fenomeno quasi esclusivamente maschile e si può ipotizzare, infine, che questo dipenda dal particolare contesto socio culturale del nostro paese: la centralità del lavoro e la responsabilità del mantenimento della famiglia sono, infatti, ancora oggi prerogativa e responsabilità prettamente maschili.

IL documento dell’INAIL “Salute e sicurezza sul lavoro, una questione anche di genere. Rischi lavorativi. Un approccio multidisciplinare” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/internet/documents/document/ucm_107230.pdf

 

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PONTEGGI METALLICI: LE NORME CI SONO, MA BISOGNA APPLICARLE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

22 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Per evitare incidenti nei cantieri le norme relative ai ponteggi metallici fissi le l’abbiamo, ma bisogna applicarle. Ne parliamo con Michele Candreva del Ministero del Lavoro.

 

La cronaca di molti incidenti professionali che avvengono quotidianamente nei cantieri (ad esempio il caso del crollo di un’impalcatura con la morte di due operai che è avvenuta a fine ottobre a Piedimonte Matese, in provincia di Caserta) ci ricordano come sia importante la nostra opera di informazione sul tema delle cadute dall’alto in edilizia o, più semplicemente, della tenuta delle opere provvisionali.

 

Per affrontare il tema della sicurezza delle opere provvisionali, del rischio di caduta dall’alto, per cercare di capire perché sono ancora così tanti gli incidenti di lavoro gravi e mortali, abbiamo intervistato l’ingegner Michele Candreva della Direzione Generale della tutela delle condizioni di lavoro e delle relazioni industriali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Lo abbiamo intervistato a margine della manifestazione Ambiente Lavoro, che si è tenuta a Bologna nel mese di ottobre, dove l’ingegner Candreva è intervenuto come relatore al convegno INAIL “I ponteggi metallici fissi: comportamento strutturale ed utilizzi specifici”.

E’ un’intervista diversa dalle altre interviste che realizziamo ai vari attori istituzionali della sicurezza. Il rappresentante del Ministero portava con sé una capiente e pesante borsa nella quale conservava alcuni importanti elementi dei ponteggi, quegli elementi che spesso sono alla radice di molti problemi delle opere provvisionali. E ha voluto mostrarceli, farli vedere alla nostra telecamera, parlarne praticamente per mostrare come a volte servano anche conoscenze pratiche per una reale prevenzione. Per dimostrare che “le norme in questo settore, le disposizioni giuridiche, ce l’abbiamo già”. E che “lo sforzo che dobbiamo fare è applicare quelle norme”.

Veniamo brevemente alle domande rivolte dal nostro giornale.

Non si può non partire da un breve excursus storico che è anche il tema della sua relazione.

Partendo dagli anni cinquanta cosa è cambiato a livello normativo, tecnico e legislativo, sul tema delle disposizioni legislative sulla fabbricazione, commercializzazione dei ponteggi metallici fissi e sulle norme per la prevenzione?

Passare poi nell’intervista dalle norme teoriche agli aspetti pratici e tecnici, è un attimo…

Lei dice che non mancano le norme per la prevenzione e che ci sono tuttavia alcuni aspetti pratici che, spiegati in concreto, potrebbero migliorare la prevenzione. Può fare qualche esempio?

In questa parte dell’intervista, che si sviluppa quasi come una breve sessione di addestramento, l’ingegner Candreva si sofferma in particolare su:

  • elementi contro lo sganciamento accidentale delle tavole metalliche;
  • spine a verme per tenere collegati il montante inferiore con il montante superiore;
  • pipette di un corrente o di un diagonale.

E viene più volte citato l’articolo 137 del D.Lgs.81/08 sulla manutenzione e revisione. Articolo in cui si indica che “il preposto, ad intervalli periodici o dopo violente perturbazioni atmosferiche o prolungata interruzione di lavoro deve assicurarsi della verticalità dei montanti, del giusto serraggio dei giunti, della efficienza degli ancoraggi e dei controventi, curando l’eventuale sostituzione o il rinforzo di elementi inefficienti”. E che i vari elementi metallici “devono essere difesi dagli agenti nocivi esterni con idonei sistemi di protezione”.

Le domande cercano poi di capire le cause e le eventuali “soluzioni” per migliorare la prevenzione.

Perché queste normative sono poco applicate? Mancanza di consapevolezza nelle aziende o nei lavoratori? Mancanza di formazione o addestramento?

A questo proposito l’ingegner Candreva ricorda quanto possa essere importante l’addestramento per “far capire agli operatori l’importanza del montaggio di quel determinato attrezzo, di quel determinato dispositivo di protezione, di quel determinato dispositivo di sicurezza”.

E infine cosa può fare il legislatore per aumentare la prevenzione?

Viene citata la Circolare del Ministero del lavoro 9 febbraio 1995 sull’utilizzo di elementi di impalcato metallico prefabbricato di tipo autorizzato in luogo di elementi di impalcato in legname. E la Circolare 27 agosto 2010, n. 29 in relazione all’impiego di ponteggi come protezione collettiva per i lavoratori che svolgono la loro attività sulle coperture.

Come sempre diamo ai nostri lettori la possibilità di ascoltare integralmente l’intervista al link:

https://www.youtube.com/watch?v=__sROjuY1GQ

e/o di leggerne una parziale trascrizione.

ARTICOLO E INTERVISTA A CURA DI TIZIANO MENDUTO

Partendo dagli anni cinquanta cosa è cambiato a livello normativo, tecnico e legislativo, sul tema delle disposizioni legislative sulla fabbricazione, commercializzazione dei ponteggi metallici fissi e sulle norme per la prevenzione?

Michele Candreva

Purtroppo gli infortuni degli ultimi sessanta anni, relativi alle cadute dall’alto e alle opere provvisionali e dei ponteggi, sono in buona sostanza sempre gli stessi.

A mio parere la norma c’è. Il legislatore italiano è intervenuto in questo settore già dal 1955/1956 con idee molto chiare. La differenza con i tempi odierni è che all’epoca era il legislatore ad avere già fatto la valutazione dei rischi e aver dato le indicazioni precise ed esatte di quello che si doveva fare. Ora grazie all’Europa (e l’Europa da questo punto ci ha dato tantissimo) a seguito dell’analisi, dello studio, della valutazione dei rischi, si esamina il problema e si arriva a definire quali sono le migliori misure preventive e protettive per il caso specifico.

Nel mio intervento ho detto che, a mio parere, le norme in questo settore, le disposizioni giuridiche, ce l’abbiamo già. Lo sforzo che dobbiamo fare è applicare quelle norme. Dopo di che ho dato anche altre informazioni. Ad esempio ho detto che le Direttive europee di prodotto sulle opere provvisionale non esistono. Inutile che diciamo che c’è quel prodotto marcato CE, perché non può essere marcato CE, perché non esiste una Direttiva di prodotto sull’argomento.

Viceversa il legislatore italiano ha seguito costantemente questi temi fino ai giorni nostri, l’ultima circolare sui dispositivi di ancoraggio è infatti la Circolare n. 3 del 13 febbraio 2015. E’ vero che non esiste una Direttiva di prodotto su questo argomento, ma esiste una Direttiva di uso che è la Direttiva 2001/45/CE del giugno del 2001. E poi esistono una serie di norme a livello europee pubblicate dal Comitato europeo di normazione. Ne esistono tantissime: sui ponteggi, sui trabattelli, sui pontelli, sulle reti di sicurezza, sui parapetti provvisori, ecc..

Di normativa ne abbiamo tantissima, dobbiamo soltanto applicare quelle norme. Per applicare quelle norme avremo necessità di fare, a mio avviso, più che della formazione, dell’addestramento. Bisogna far vedere quelle cose che sono di natura pratica agli operatori del settore e far capire per quale motivo è utile, opportuno, necessario, inserire un certo dispositivo o meno.

Lei dice che non mancano le norme per la prevenzione e che ci sono tuttavia alcuni aspetti pratici che, spiegati in concreto, potrebbero migliorare la prevenzione. Può fare qualche esempio?

Michele Candreva

All’operatore bisogna dire che nel momento in cui questi elementi contro lo sganciamento accidentali sono utilizzati, ci sono diversi benefici.

Montiamo il ponteggio, magari montiamo naturalmente anche l’impalcato sull’ultimo piano del ponteggio a quota quindici metri, venti metri, trenta metri (a seconda di come sia l’edificio). E magari lo montiamo in una zona molto ventosa. Voi capite bene che quando vediamo sul giornale che le tavole metalliche di un ponteggio sono stata sbilanciate a trenta, quaranta metri di distanza evidentemente questi elementi contro lo sganciamento accidentale della tavola metallica non erano stati montati. E nel momento in cui vengono effettuate le prove di controventatura in pianta sulle tavole metalliche che questi elementi contro lo sganciamento siano montati o meno incide almeno per il 30-40% sulla prova.

Mi viene poi in mente un articolo che è tra quelli più disattesi, l’articolo 137 del Testo Unico, quello sulla manutenzione.

Spesso e volentieri quando noi acquistiamo qualcosa, anche per casa nostra, non pensiamo alla manutenzione. Ma la manutenzione è molto importante. L’articolo dice che a intervalli periodici o dopo violente perturbazioni atmosferiche o prolungata interruzione di lavoro bisogna fare dei controlli periodici.

Ma questi controlli possono anche essere semplici. E, a mio modesto parere, si può andare a prendere l’allegato XIX del Testo Unico, fare la fotocopia, aggiungere due colonne alla fine con un si e un no, dare queste sette/otto pagine ad un responsabile del cantiere, a un preposto che, magari, ogni lunedì mattina vada a verificare il ponteggio.

Perché queste normative sono poco applicate? Mancanza di consapevolezza nelle aziende? Mancanza di formazione o addestramento?

Michele Candreva

L’impresa in realtà conosce abbastanza bene le problematiche e penso che cerchi di tenere le attrezzature in ordine. Molte volte è la fretta del cantiere che non consente di affrontare correttamente le problematiche.

Cosa si potrebbe fare? A mio avviso si dovrebbe operare il più possibile con l’addestramento: far capire agli operatori l’importanza del montaggio di quel determinato attrezzo, di quel determinato dispositivo di protezione, di quel determinato dispositivo di sicurezza. Quando si comprende che se, ad esempio non viene inserita la spina a verme o l’elemento contro lo sganciamento delle tavole metalliche viene a decurtarsi il coefficiente di sicurezza dell’intero ponteggio e ne va della sicurezza degli operatori, forse abbiamo più coscienza dei rischi.

 

 

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.237 DEL 22/12/15

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.237 DEL 22/12/15

 

INDICE

  • I pareri della Commissione degli Interpelli – n.4
  • Registro nazionale dei mesoteliomi: V Rapporto
  • RLS nelle aziende con più strutture operative
  • Sorveglianza sanitaria e idoneità alla mansione
  • Sulla figura del datore di lavoro “formale” e di fatto
  • Ambienti confinati: ruoli e responsabilità
  • L’obbligo del fermo assoluto nella manutenzione delle macchine

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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I PARERI DELLA COMMISSIONE DEGLI INTERPELLI – N.4

 

L’articolo 12 del D.Lgs.81/08 (Testo Unico sulla sicurezza) ha previsto la costituzione della Commissione degli Interpelli, composta da rappresentanti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del Ministero della salute, della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome con lo scopo di rispondere a “quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro” posti da Organismi associativi, Enti pubblici, Organizzazioni sindacali dei datori di Lavoro e dei lavoratori, Consigli nazionali degli ordini.

La Commissione degli Interpelli è stata effettivamente costituita con Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 28 settembre 2011.

Secondo il comma 3 dell’articolo 12 del D.Lgs.81/08 “Le indicazioni fornite nelle risposte ai quesiti di cui al comma 1 [quelli posti alla Commissione] costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza”.

Riporto pertanto in una nuova rubrica della mia newsletter tali pareri con il link per scaricare il testo completo del quesito e del parere della Commissione.

Marco Spezia

 

 

SERVIZI IGIENICO ASSISTENZIALI

Interpello in materia di sicurezza n.4 del 2 maggio 2013

 

RICHIEDENTE

Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro

 

QUESITO

L’interpello è relativo alla richiesta di conoscere il parere della Commissione in merito alla corretta interpretazione dell’articolo 63, comma 1, del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni e, in particolare, dei punti 1.13.1.1 e 1.13.3.1 dell’Allegato IV.

Il punto 1.13.1.1 dell’Allegato IV prevede che “nei luoghi di Lavoro o nelle loro immediate vicinanze deve essere messa a disposizione dei lavoratori acqua in quantità sufficiente, tanto per uso potabile quanto per lavarsi”; mentre il punto 1.13.3.1 dell’Allegato IV recita “i lavoratori devono disporre, in prossimità dei loro posti di Lavoro, dei locali di riposo, degli spogliatoi e delle docce, di gabinetti e di lavabi con acqua corrente calda, se necessario, e dotati di mezzi detergenti e per asciugarsi”.

 

CHIARIMENTO

Nei casi in cui un luogo di Lavoro è posto all’interno di un ambiente ben definito e circoscritto, considerando che la norma impone al Datore di Lavoro di mettere a disposizione del lavoratore i servizi igienico-assistenziali nel luogo di Lavoro o nelle sue immediate vicinanze, si ritiene che il Datore di Lavoro assolva al suo obbligo purché questi servizi, anche se non in uso esclusivo, siano fruibili dai lavoratori liberamente, facilmente e senza aggravio di costo per loro e nel rispetto delle norme igieniche.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.4 del 2 maggio 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.04.pdf

 

 

VALUTAZIONE DEL RISCHIO STRESS LAVORO-CORRELATO

Interpello in materia di sicurezza n.5 del 2 maggio 2013

 

RICHIEDENTE

FIM CISL – Federazione Italiana Metalmeccanici

 

QUESITO

La FIM ha avanzato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione se anche nel caso della valutazione del rischio stress lavoro-correlato, il Datore di Lavoro non possa delegare quest’attività a terzi, cosi come previsto dall’articolo 17, comma 1, lettera a) del D.lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni.

 

CHIARIMENTO

Al riguardo va premesso che l’articolo 28, comma 1, del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni, prevede che la valutazione dei rischi debba riguardare tutti i rischi da lavoro, “ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato”.

Il successivo comma 1-bis dell’articolo in commento dispone, di seguito, che la relativa valutazione del rischio da stress lavoro-correlato è effettuata nel rispetto delle indicazioni fornite dalla Commissione Consultiva di cui all’articolo 6 del D.Lgs.81/08, approvate da tale organismo in data 17 novembre 2010.

II legislatore ha poi fissato il principio di generale di delegabilità con l’articolo 16, comma 1 del D.Lgs.81/08, il quale può incontrare eccezioni solo nei casi in cui la delega sia “espressamente esclusa”. Le deroghe tassativamente previste segnano, pertanto, i limiti giuridici di trasferibilità delle funzioni in materia prevenzionistica, e cosi, individuano gli obblighi del Datore di Lavoro aventi natura strettamente personale.

La valutazione dello stress lavoro-correlato è parte integrante della valutazione del rischio e, pertanto, a essa si applica integralmente la pertinente disciplina (articoli 17, 28 e 29 del D.Lgs.81/08). In particolare, l’articolo 17 del D.Lgs.81/08 individua la valutazione dei rischi tra gli adempimenti non delegabili da parte del Datore di Lavoro, anche qualora il Datore di Lavoro decida di avvalersi di soggetti in possesso di specifiche competenze in materia.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.5 del 2 maggio 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.05.pdf

 

 

APPLICAZIONE DEL D.LGS. 81/2008 A “STUNTMEN” E “ADDETTO AGLI EFFETTI SPECIALI”

Interpello in materia di sicurezza n.6 del 2 maggio 2013

 

RICHIEDENTE

APT – Associazione Produttori Televisivi

 

QUESITO

La APT ha chiesto alla Commissione di pronunciarsi sulla normativa di salute e sicurezza applicabile alle attività degli stuntmen (intendendosi per stuntman un “acrobata particolarmente esperto nel fingere cadute, tuffi, salti e scene pericolose”) e degli addetti agli effetti speciali (intendendosi per addetto agli effetti speciali “un esperto di particolari tecniche di lavorazione net settore cinematografico, impegnato in attività specifiche come l’uso di macchine e degli artifizi per la produzione di effetti speciali, l’uso di materiali e sostanze per la realizzazione degli effetti speciali, la realizzazione di scene simulanti crolli o rotture, l’impiego di sostanze infiammabili o esplosive, l’utilizzo di armi da fuoco e da taglio, la produzione di fiamme libere”).

Tali attività, sempre secondo la richiedente, si concretizzano in scene pericolose, realizzate secondo esigenze di scena da una troupe (come tale intendendosi l’insieme delle persone impiegate dalla società di produzione per lo svolgimento delle relative attività), a sua volta divisa in diversi reparti operativi, composti da gruppi di persone con compiti specifici (macchinisti, elettricisti, attrezzisti, produzione, ecc.), ciascuno con un proprio capo reparto.

In relazione alle attività appena descritte, la APT distingue due diverse modalità di organizzazione del lavoro, la prima in cui l’attività sia realizzata da personale della società di produzione e la seconda in cui l’attività sia affidata in appalto dalla società di produzione a terzi.

In relazione alla prima ipotesi (attività svolte da personale della società di produzione), la richiedente chiede quanto segue.

  • In ragione della particolarità delle attività di riferimento, il Datore di Lavoro della società di produzione possa “legittimamente richiedere la collaborazione dei responsabili dei suddetti reparti nella valutazione dei rischi della scena pericolosa”?
  • Il capo reparto, nel caso di cui al punto 1, deve possedere una particolare formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro?
  • In assenza di specifica formazione dei responsabili degli stuntman e/o degli effetti speciali, può il RSPP collaborare con il Datore di Lavoro e i suddetti responsabili dei reparti esclusivamente nella formalizzazione della relazione fornendo semplicemente le procedure corrette per effettuare una adeguata individuazione dei fattori di rischio e delle misure di prevenzione e protezione?
  • Qualora alla scena pericolosa partecipino esclusivamente addetti al reparto stuntmen e/o del reparto effetti speciali è possibile utilizzare la relazione da loro redatta quale valutazione esclusiva e specifica dell’attività svolta da questi lavoratori da inserire nel DVR della società di produzione?

In ordine all’affidamento delle attività in parola da parte della società di produzione a società specializzate, la APT chiede, invece, quanto segue.

  • I rischi generati dagli stuntmen e/o dagli addetti agli effetti speciali devono essere considerati “rischi specifici propri dell’attività”, ai sensi dell’articolo 26, comma 3, del D.Lgs.81/08, senza necessità di redazione del DUVRI?
  • Al fine della valutazione dell’idoneità tecnico professionale delle imprese specializzate è sufficiente che il Datore di Lavoro della società di produzione chieda i curricula con dettaglio delle esperienze specifiche nel campo del personale impegnato nell’attività appaltata?
  • Nel caso in cui una società committente affidi in appalto un’attività che comporta solo rischi specifici propri per la sua realizzazione, in cosa consiste l’attività di coordinamento che il Datore di Lavoro della committente deve realizzare?
  • Nel caso in cui una società committente affidi in appalto due o più servizi a società o lavoratori autonomi che prevedano solo rischi specifici propri per le rispettive attività, e che nessuna di queste preveda il coinvolgimento del personale della società committente, come deve gestire il coordinamento il Datore di Lavoro della società committente? Gli eventuali rischi interferenziali presenti esclusivamente tra i fornitori, devono essere trattati in qualche modo dal Datore di Lavoro committente?

 

CHIARIMENTO

In merito alla prima ipotesi prospettata, va evidenziato come l’articolo 17, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08 imponga al Datore di Lavoro l’obbligo (indelegabile) di valutare “tutti i rischi” sul lavoro, “con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 28”. Il contenuto della valutazione dei rischi viene, quindi, puntualmente individuato dall’articolo 28, nella sua interezza, e le modalità della valutazione dei rischi sono descritte (si pensi, ad esempio, alla necessità di rielaborare la valutazione dei rischi “in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza sul lavoro”, di cui al comma 3 dell’articolo 29 del D.Lgs.81/08) al successivo articolo 29.

Rispetto invece alla seconda ipotesi, va evidenziato che le disposizioni di specifico riferimento sono quelle di cui all’articolo 26 del D.Lgs.81/08. Tale articolo individua precisi obblighi in capo al Datore di Lavoro committente nell’eventualità che questi decida di affidare lavori nell’ambito del proprio ciclo produttivo a imprese appaltatrici o lavoratori autonomi. Le norme di riferimento sono dirette a tutelare da un lato i lavoratori autonomi o quelli dell’appaltatore che vengano a operare in ambienti per loro e per lo stesso Datore di Lavoro sconosciuti e, dall’altro, i lavoratori dei committenti che si trovino davanti a inusuali situazioni di rischio determinate dall’appalto o dalla prestazione d’opera.

In via di sintesi, ai sensi dell’articolo 26, commi 1 e 2 del D.Lgs.81/08, in capo al Datore di Lavoro committente gravano al momento i seguenti obblighi:

  • verificare, anche attraverso l’iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato, l’idoneità tecnico-professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da affidare in appalto o contratto d’opera;
  • fornire agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività;
  • promuovere, in particolare:
  • la cooperazione all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto;
  • il coordinamento degli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva.

Il comma 3 della norma in esame impone, quindi, al Datore di Lavoro, l’obbligo di promuovere la cooperazione e il coordinamento elaborando un unico documento di valutazione dei rischi (di seguito, DUVRI), il quale va allegato al contralto d’appalto o d’opera, che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze.

Tale documento, per espressa previsione legislativa, non trova applicazione con riferimento ai “rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi”; ciò in quanto evidentemente il Legislatore, in relazione a tali rischi, da considerare “tipici” della attività dell’impresa o dei lavoratori autonomi, non ne ritiene (ferma restando l’applicazione delle disposizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo in commento) necessaria la puntuale identificazione in un documento.

Al riguardo (si veda anche la Determinazione n.3 del 5 marzo 2008 dell’Autorità per la vigilanza sui contralti pubblici, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 15 marzo 2008) va evidenziato che è possibile parlare d’interferenza ove si verifica un “contatto rischioso” tra il personale del Datore di Lavoro committente e quello dell’appaltatore o tra il personale di imprese diverse che operano nella stessa sede aziendale con contratti differenti. In linea di principio, in altre parole, occorre mettere in relazione i rischi presenti nei luoghi in cui verrà espletato il lavoro, servizio o fornitura con i rischi derivanti dall’esecuzione del contratto, con la conseguenza che il DUVRI dovrà essere redatto solo nei casi in cui esistano interferenze.

Inoltre, resta inteso che nel documento in parola non devono essere riportati i rischi propri dell’attività delle singole imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi, in quanto trattasi di rischi per i quali resta immutato l’obbligo dell’appaltatore di redigere un apposito documento di valutazione del rischio e di provvedere all’attuazione delle misure necessarie per ridurre o eliminare al minimo tali rischi.

In via preliminare, la Commissione ritiene opportuno ricordare come la stessa sia tenuta unicamente a rispondere a “quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa di salute e sicurezza sul lavoro” (in questo, inequivoco, senso, l’articolo 12 del D.Lgs.81/08) non potendo pronunciarsi “in astratto” sulla correttezza delle modalità in base alle quali le aziende attuino le disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro, oggetto, casomai, di specifico accertamento in sede ispettiva. Per tale ragione, non si ritiene possibile esprimere l’indirizzo della Commissione rispetto a una serie di richieste di APT dirette a ottenere indicazioni sulla coerenza di determinate soluzioni organizzative alle norme di legge, impossibili da fornire senza una verifica in concreto di quanto descritto. La Commissione ritiene, invece, di pronunciarsi come segue in ordine alla interpretazione delle norme di legge applicabili nei casi descritti dalla richiedente.

In ordine allo svolgimento di attività da parte di qualunque soggetto che si possa definire come “lavoratore” (nel senso individuato dall’articolo 2, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08) dell’azienda di produzione cineaudiovisiva trovano integrale applicazione le disposizioni in materia di valutazione dei rischi di cui agli articoli 17, 28 e 29 del D.Lgs.81/08, le quali attribuiscono al Datore di Lavoro la titolarità giuridica (con la conseguente responsabilità) delle relative funzioni.

Sara quindi il Datore di Lavoro dell’azienda di produzione a dovere individuare le modalità migliori di adempimento degli obblighi in questione, avuto riguardo alle modalità di svolgimento delle attività di riferimento. Ove tali attività comprendano una serie di azioni di contenuto particolare, quali quelle richieste agli stuntmen o agli addetti agli effetti speciali, è opinione della Commissione che il coinvolgimento dei capi reparto (ove, come appare probabile, essi svolgano in concreto le funzioni di preposto) nella valutazione dei rischi sia opportuna. Quanto alla formazione del personale coinvolto nelle relative attività, essa dovrà essere coerente con il vigente quadro normativo (si fa riferimento, in particolare, agli accordi in Conferenza Stato-Regioni relativi alla formazione di lavoratori, dirigenti e preposti del 21 dicembre 2011 e del 25 luglio 2012), avuto riguardo alle funzioni svolte nell’ambito dell’organizzazione aziendale, anche in applicazione del principio di cui all’articolo 299 del D.Lgs.81/08 (rubricato “Esercizio di fatto di poteri direttivi”). Ne deriva, ad esempio, che se (come pare plausibile e, anzi, probabile) il capo reparto, nelle attività qui in questione, svolga in concreto le funzioni di preposto, egli dovrà essere formato come tale.

Infine, in relazione alle richieste avanzate ai punti 3 e 4 (relativamente alle attività in house delle aziende di produzione cineaudiovisiva) si rimarca come il DVR sia documento che deve avere le caratteristiche di cui agli articoli 28 e 29 e come l’unico soggetto responsabile di tale coerenza sia il Datore di Lavoro, il quale è libero di operare le proprie scelte secondo le peculiarità della propria azienda e, correlativamente, risponde della coerenza di esse alla legge.

Venendo, quindi, a trattare delle questioni sollevate (punti da 1 a 4) in riferimento all’ipotesi in cui la società cineaudiovisiva di produzione decida di affidare a terzi le attività tipiche degli stuntmen o degli addetti agli effetti speciali, si evidenzia innanzitutto come, tenendo conto delle particolari modalità (quali descritte nell’interpello al quale si fornisce riscontro) dello svolgimento delle attività degli stuntmen e/o degli addetti agli effetti speciali e ferma restando ogni riserva in ordine alla verifica delle concrete modalità con le quali vengono rese le prestazioni in oggetto, si ritiene che i rischi delle attività svolte in autonomia nei cicli produttivi delle società di produzione dagli stuntmen e/o dagli addetti agli effetti speciali possano essere considerati come rischi specifici della attività delle appaltatrici o dei lavoratori autonomi, purché non vi siano interferenze con strutture o processi del committente o di altre imprese.

Resta inteso che sarà cura del Datore di Lavoro committente far si che gli obblighi di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 26 del D.Lgs.81/08, sopra richiamati, vengano correttamente e completamente ottemperati, in particolare mediante il rigoroso accertamento della idoneità tecnico-professionale degli stuntmen o degli addetti agli effetti speciali allo svolgimento della attività commissionate e una efficace attività di scambio di informazioni, di cooperazione e coordinamento, la cui concreta realizzazione a soggetta al controllo del competente organo di vigilanza, tra Datore di Lavoro committente e appaltatrice (o lavoratori autonomi).

Di conseguenza, quanto al quesito di cui al punto 3 dell’interpello, si ritiene di sottolineare che, in coerenza con quanto appena esposto e con quanto argomentato dalla giurisprudenza assolutamente maggioritaria (si veda, per tutte, la Sentenza n. 28197 del 9 luglio 2009 della Cassazione Penale Sezione IV), il Datore di Lavoro committente non possa intervenire in supplenza dell’appaltatore o dei lavoratori autonomi rispetto alle attività che sono proprie (con relativa assunzione di rischio) dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi in quanto ciò si risolverebbe in una inammissibile ingerenza nell’attività affidata a terzi (incompatibile, in particolare, con la figura dell’appalto, regolata dall’articolo 1655 del Codice Civile). L’obbligo di cooperazione è, quindi, da intendersi come riferibile all’attuazione delle misure di prevenzione dirette a eliminare (o ridurre al minimo, se l’eliminazione e impossibile) i pericoli che, per effetto dell’esecuzione delle opere appaltate, vanno a incidere sia sui dipendenti dell’appaltante sia su quelli dell’appaltatore in ordine alle attività tipiche dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi, salvo che tali attività non vengano svolte con modalità di aperta pericolosità, tali da mettere in evidente pericolo tutti coloro che si trovano nei luoghi di lavoro.

In relazione al quesito di cui al punto 2 dell’interpello (ferma restando la necessità che il Datore di Lavoro committente acquisisca l’iscrizione alla Camera di Commercio, industria e artigianato e I’autocertificazione di cui all’articolo 26, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08) si richiama la necessità che la verifica in parola (la quale potrà essere riferita, in assenza di altri parametri, ai curricula, cosi come alle altre certificazioni, quali, ad esempio, quelle relative alla attività di formazione svolta, rilevanti in materia di salute e sicurezza sul lavoro) venga effettuata con particolare rigore, in modo da permettere al Datore di Lavoro committente di valutare la capacità tecnico-professionale del personale di riferimento della appaltatrice o dei lavoratori autonomi.

Non si ritiene, infine, per le ragioni sopra indicate, di rispondere al quesito, sempre relativo alle attività affidate dalle società di produzione a terzi, di cui al punto 4.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.6 del 2 maggio 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.06.pdf

 

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REGISTRO NAZIONALE DEI MESOTELIOMI: V RAPPORTO

 

Da Portale Consulenti

http://www.portaleconsulenti.it

9 dicembre 2015

 

Le misure epidemiologiche di incidenza, latenza, età media alla diagnosi, sopravvivenza per oltre 21.000 casi.

 

La sorveglianza epidemiologica degli effetti sulla salute dell’esposizione a fibre aerodisperse di amianto è un tema di grande rilevanza per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.

Malgrado infatti il bando del 1992, che ha determinato la cessazione di ogni attività di estrazione, lavorazione, utilizzo e commercio di amianto, la lunga latenza delle malattie amianto correlate, la storia industriale del nostro Paese e le caratteristiche eziologiche delle patologie coinvolte, rendono necessarie ancora oggi in Italia le attività di monitoraggio dei rischi e degli effetti.

 

Il Registro Nazionale dei Mesoteliomi in questo quadro rappresenta un modello di interazione costruttiva e feconda fra INAIL e Regioni e si caratterizza, oggi come nel passato, per la solidità dei risultati scientifici e di ricerca al servizio della sanità pubblica e di tutti gli operatori del settore.

 

Le conoscenze rese disponibili dal Registro Nazionale dei Mesoteliomi, in ordine alle caratteristiche epidemiologiche della malattia e ai settori di attività economica coinvolti nell’esposizione, sono preziose per i compiti istituzionali che l’Istituto è chiamato a svolgere nel quadro del sistema di tutele del nostro Paese.

In particolare su questo tema infatti la sinergia fra le acquisizioni della ricerca scientifica e le attività di riconoscimento ai fini assicurativi è essenziale e strategica per l’efficienza del sistema sanitario e della prevenzione dei rischi nei luoghi di vita e di lavoro.

 

L’Italia è attualmente uno dei Paesi al mondo maggiormente colpiti dall’epidemia di malattie amianto correlate. Tale condizione è la conseguenza di utilizzi dell’amianto che sono quantificabili a partire dal dato di 3.748.550 tonnellate di amianto grezzo prodotto nazionalmente nel periodo dal 1945 al 1992 e 1.900.885 tonnellate di amianto grezzo importato nella stessa finestra temporale.

 

La relazione di associazione causale estremamente significativa fra esposizione ad amianto e mesotelioma e la pressoché completa assenza di fattori confondenti e di altri agenti eziologici causali per la malattia, hanno consigliato e consentito lo sviluppo di un sistema di sorveglianza epidemiologica per i mesoteliomi basato sulla ricerca attiva dei casi e la ricostruzione anamnestica individuale tramite questionario delle circostanze di esposizione ad amianto (siano esse avvenute in ambito professionale come in ambito residenziale o familiare).

 

Il sistema di sorveglianza epidemiologica dei casi di mesotelioma è costituito dal Registro Nazionale dei Mesoteliomi (ReNaM) istituito presso l’INAIL, Dipartimento di Medicina, Epidemiologia, Igiene del Lavoro ed Ambientale (DiMEILA), i cui compiti e le cui modalità e procedure operative sono definite dal D.P.C.M. 308/02.

 

La pubblicazione realizzata da INAIL DiMEILA “Registro Nazionale dei Mesoteliomi: V Rapporto” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.data-storage.it/download/2015/ucm_207055.pdf

 

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RLS NELLE AZIENDE CON PIU’ STRUTTURE OPERATIVE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

01 dicembre 2015

 

E’ opportuna la presenza di un RLS in ciascuna struttura operativa periferica di una grande azienda operante sul territorio nazionale?

 

Pubblichiamo un articolo tratto da “Articolo 19” n.04/2015, bollettino di informazione e comunicazione per la rete di RLS delle aziende della Provincia di Bologna realizzato dal SIRS (Servizio Informativo per i Rappresentanti dei lavoratori per la Sicurezza) con la collaborazione di vari soggetti istituzionali provinciali (Provincia di Bologna, ASL, INAIL, DPL, organizzazioni sindacali, ecc.).

Sono stati recentemente posti al SIRS alcuni quesiti sul particolare problema della nomina dei RLS e delle loro relazioni con l’azienda in situazioni complesse, con diverse dislocazioni dei lavoratori dell’azienda.

 

Sostanzialmente le fattispecie sono tre:

  • holding, comprendenti diverse aziende tra loro variamente articolate e interconnesse;
  • aziende operanti sul territorio nazionale che hanno diverse articolazioni operative (filiali, succursali, reparti, settori, ecc.) in aree diverse, anche molto lontane tra loro e dalla casa madre;
  • aziende che assumono lavori in appalto e inviano quindi il loro personale a operare in località lontane dalla “casa madre”, in cantieri di vario tipo, dall’edilizia alla manutenzione, dalla pulizia alla sanificazione, costituendo gruppi anche grossi di lavoratori che operano anche all’interno di aziende terze.

Il problema che si pone in questi casi è quello di stabilire se i RLS sono quelli della sede centrale della holding o dell’azienda, oppure se individuare in ogni realtà periferica uno o più RLS.

La normativa non ci aiuta a sciogliere il nodo, perché da un lato non affronta in nessun modo il problema, dall’altro rimanda (comma 5 dell’articolo 47 del D.Lgs.81/08) alla contrattazione collettiva: “Il numero, le modalità di designazione o di elezione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, nonché il tempo di lavoro retribuito e gli strumenti per l’espletamento delle funzioni sono stabiliti in sede di contrattazione collettiva”.

Questo almeno fa chiarezza, a nostro avviso, su un elemento: non rientrano i casi in cui le strutture periferiche (chiamiamole così) abbiano dignità di unità produttive (per la cui definizione si veda l’articolo 2, comma 1, lettera t del D.Lgs.81/08 per cui unità produttiva è stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale).

 

L’altro riferimento normativo importante è il comma 1 dell’articolo 47 del D.Lgs.81/08, secondo cui “In tutte le aziende, o unità produttive, è eletto o designato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.

 

Quindi, acclarato che per le aziende e per le unità produttive il RLS deve essere eletto o designato (vedi comma 2 sopra citato), resta il problema dei casi in cui le articolazioni periferiche non sono né aziende né unità produttive. In questi casi è la contrattazione collettiva che stabilisce le modalità cui attenersi: ovviamente, se in sede di contrattazione non si raggiunge un accordo tra le parti, il problema resta irrisolto (ed ecco da dove nascono i quesiti che pervengono al SIRS: da casi di non accordo sulle modalità).

A nostro avviso, questo è un tipico problema da Interpello (vedasi indicazioni all’articolo 12 del D.Lgs.81/08), e quindi non possiamo permetterci di fornire una nostra interpretazione, che sarebbe del tutto soggettiva e individuale, e quindi non utilizzabile dai RLS.

L’unica cosa che possiamo fare è evidenziare gli elementi che a nostro avviso dovrebbero indurre a privilegiare la scelta di RLS presenti in tutte le articolazioni periferiche di un’azienda che abbiano almeno una certa consistenza numerica, organizzativa e di mandato:

  • solo un RLS che conosca direttamente la realtà di una situazione lavorativa può portare contributi utili al miglioramento delle condizioni di rischio e al controllo di eventuali criticità, ovvero può essere un interlocutore valido ed affidabile per la dirigenza aziendale ed una reale risorsa per i suoi compagni di lavoro;
  • al contrario, un RLS che si trovi nella sede centrale aziendale non può avere il polso concretamente delle situazioni periferiche (che possono anche essere diverse) e quindi, se volesse svolgere il suo ruolo con l’efficacia che la legge prevede dovrebbe, ad esempio, avere la possibilità di recarsi spesso o almeno al bisogno nelle realtà periferiche stesse, quanto meno in due momenti topici: per esprimere il suo parere sulla valutazione dei rischi (sentendo anche i suoi compagni di lavoro della struttura periferica) e in occasione della preparazione e svolgimento della riunione annuale di prevenzione;
  • un RLS che si trovi solo nella sede centrale aziendale, per poter essere efficace, deve comunque disporre di una rete, anche se informale, di referenti nelle strutture periferiche, referenti che comunque non sono RLS e non hanno né gli strumenti né la formazione per poter fare le funzioni dell’RLS, e quindi questa situazione kafkiana potrebbe generare facilmente disservizi e conflitti;
  • l’individuazione di RLS solo a livello della sede centrale aziendale porta di fatto o a uno svuotamento totale del ruolo dell’RLS stesso o, in alternativa, se invece tale ruolo si vuole conservare e promuovere, a una serie di problemi gestionali e organizzativi di non poco conto, ad esempio numerose trasferte, necessità di una rete di collegamenti in tempo reale, individuazione comunque di figure di riferimento di cui definire compiti, funzioni, agibilità, ecc.

L’elenco potrebbe continuare, ma questi ci sembrano i quattro punti più importanti utili a sostenere l’opportunità che il RLS sia presente in tutte le strutture operative periferiche di una grande azienda con strutture operative diverse sul territorio nazionale.

 

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SORVEGLIANZA SANITARIA E IDONEITA’ ALLA MANSIONE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

09 dicembre 2015

 

L’attività di sorveglianza sanitaria svolta dal medico competente e l’espressione del giudizio di idoneità alla mansione specifica.

 

Pubblichiamo un estratto del documento INAIL “INSula: Indagine nazionale sulla salute e sicurezza sul lavoro. Medici competenti” che affronta lo svolgimento dell’attività di Medico competente e gli obblighi.

La Sorveglianza Sanitaria (articolo 41 del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni) è definita (articolo 2) come l’insieme di atti medici finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa.

Lo svolgimento della Sorveglianza Sanitaria da parte del Medico competente sui lavoratori esposti ai rischi occupazionali, consiste, pertanto, nell’esecuzione di visite mediche, accertamenti di laboratorio chimico-clinici, strumentali, tossicologici e visite specialistiche per l’esplorazione degli organi specificamente esposti a un determinato fattore di rischio. Questi accertamenti sanitari consentono al Medico competente di verificare lo stato di salute del lavoratore e conseguentemente gli permettono di esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica.

 

Nell’ambito della Sorveglianza Sanitaria vengono ricomprese differenti tipologie di visite mediche svolte dal Medico competente:

  • visita medica preventiva, intesa a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato, al fine di valutare l’idoneità alla mansione specifica;
  • visita medica periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica (la periodicità di tali accertamenti, qualora non prevista dalla relativa normativa, viene stabilita, di norma, in una volta l’anno; tale periodicità può assumere cadenza diversa, stabilita dal Medico competente in funzione della Valutazione dei Rischi. L’Organo di Vigilanza, con provvedimento motivato, può disporre contenuti e periodicità della Sorveglianza Sanitaria differenti rispetto a quelli indicati dal Medico competente;
  • visita medica su richiesta del lavoratore, qualora sia ritenuta dal Medico competente correlata ai rischi professionali o alle sue condizioni di salute, suscettibili di peggioramento a causa dell’attività lavorativa svolta, al fine di esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica;
  • visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l’idoneità alla mansione specifica;
  • visita medica alla cessazione del rapporto di lavoro nei casi previsti dalla normativa vigente;
  • visita medica preventiva in fase preassuntiva;
  • visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione.

Al termine delle visite mediche di Sorveglianza Sanitaria, sulla base delle risultanze degli accertamenti sanitari eseguiti e in considerazione dello stato di salute del lavoratore, il Medico competente esprime il giudizio di idoneità alla mansione specifica.

Tale giudizio può essere di:

  • idoneità;
  • idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
  • inidoneità temporanea (vanno precisati i limiti temporali di validità);
  • inidoneità permanente.

Il giudizio di idoneità deve essere espresso dal Medico competente per iscritto fornendo copia dello stesso al lavoratore ed al Datore di Lavoro.

Su tale giudizio, che deve contenere la firma del lavoratore per avvenuta consegna, deve essere specificata la mansione svolta dal lavoratore e i relativi fattori di rischio ai quali egli è esposto, deve essere specificata la data della successiva visita medica e deve essere riportata la data di emissione.

 

Avverso i giudizi del Medico competente, ivi compresi quelli formulati in fase preassuntiva, è ammesso ricorso, entro trenta giorni dalla data di comunicazione del giudizio medesimo, all’Organo di Vigilanza territorialmente competente, che dispone (dopo eventuali ulteriori accertamenti) la conferma, la modifica o la revoca del giudizio stesso.

 

Il documento INAIL “INSula: Indagine nazionale sulla salute e sicurezza sul lavoro. Medici competenti” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/intranet/documents/document/ucm_205275.pdf

 

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SULLA FIGURA DEL DATORE DI LAVORO “FORMALE” E DI FATTO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

09 dicembre 2015

di Gerardo Porreca

 

Il datore di lavoro titolare degli obblighi prevenzionistici va individuato sia in colui che risulta esserlo secondo il contratto di lavoro, sia nel soggetto che di fatto assume i poteri tipici della figura datoriale.

 

Si esprime la Corte di Cassazione in questa sentenza sulla figura del datore di lavoro di fatto e su quello che risulta essere tale formalmente dalla documentazione di contratto. La stessa nell’individuare la responsabilità per un infortunio occorso ad un lavoratore caduto da una scala durante lo svolgimento di alcuni lavori agricoli, ha infatti sostenuto che l’individuazione di un datore di lavoro “formale”, risultato tale dalla documentazione di contratto non si pone comunque in contrapposizione con la eventuale esistenza anche di un datore di lavoro di fatto sicché affermare l’esistenza di un datore di lavoro sulla scorta di quanto emerge da documenti non può valere a escludere che tale ruolo fosse stato in concreto assunto anche da altri.

 

La Corte di Appello ha riformato la pronuncia emessa dal Tribunale con la quale un datore di lavoro era stato ritenuto responsabile del reato di lesioni personali colpose commesse in danno di un lavoratore e condannato alla pena ritenuta equa. Secondo il giudice di primo grado dalle dichiarazioni della persona offesa era emerso che l’infortunato era stato assunto “in nero” dall’imputato e avviato ai lavori di raccolta degli agrumi e che questi nello svolgimento di tali compiti è caduto da una scala riportando lesioni personali da ricondurre all’imputato quale datore di lavoro di fatto.

La Corte Territoriale, da parte sua, ha mandato assolto l’imputato sostenendo che l’accertamento processuale non aveva consentito di ritenere che l’imputato fosse stato datore di lavoro dell’infortunato e quindi titolare degli obblighi prevenzionistici la cui violazione aveva determinato l’infortunio allo stesso occorso. Tanto in ragione della ritenuta inattendibilità della dichiarazione dell’infortunato e della circostanza che la proprietaria del terreno ove si svolgeva la raccolta degli agrumi aveva effettuato una comunicazione di assunzione di quel lavoratore, anche se tardiva tanto da essere sanzionata dall’Ispettorato del lavoro, e che l’INAIL aveva riconosciuto che l’infortunio fosse occorso mentre svolgeva attività lavorativa alle dipendenze della proprietaria del terreno.

Avverso tale decisione ha ricorso per cassazione il lavoratore infortunato, costituitosi parte civile a mezzo del difensore di fiducia, sostenendo che la denuncia infortuni si riferisse ad altro lavoratore e non a lui, lamentandosi inoltre che la Corte di Appello non aveva tenuto conto delle dichiarazioni rese da alcuni testimoni. L’imputato da parte sua, con propria memoria difensiva, ha chiesto il rigetto del ricorso avanzato dall’infortunato non ritenendo sussistente i vizi motivazionali dallo stesso indicati nel suo ricorso e sostenendo che l’obbligo prevenzionistico la cui violazione ebbe a determinare l’infortunio era da attribuire alla proprietaria del terreno.

Il ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione che ha perciò annullata la sentenza impugnata. Secondo la suprema Corte il giudice di primo grado aveva affermato che l’imputato era stato il datore di lavoro di fatto dell’infortunato a ciò pervenendo sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, che aveva riferito di essere stato ingaggiato telefonicamente dallo stesso e di aver ricevuto da questi il salario. A fronte di ciò la Corte di Appello ha valorizzato dati meramente formali, quali il fatto che la documentazione, tutta formata dopo l’incidente, era stata sottoscritta dalla proprietaria del terreno e indicava in essa la datrice di lavoro. La Corte di Appello, secondo la Sezione IV della Cassazione, ha quindi svolta una argomentazione manifestamente illogica, avendo contrapposto a un accertamento di una situazione di fatto un’analisi della situazione “apparente”.

“Orbene, è noto che in materia prevenzionistica”, ha così concluso la suprema Corte, “il datore di lavoro, titolare degli obblighi prevenzionistici, va individuato sia in colui che risulta parte in senso formale del contratto di lavoro, sia nel soggetto che di fatto assume i poteri tipici della figura datoriale” per cui “ne consegue che l’individuazione di un datore di lavoro formale non si pone in contrapposizione con l’eventualità dell’esistenza anche di un datore di lavoro di fatto; sicché affermare l’esistenza di un datore di lavoro sulla scorta di quanto emerge da documenti non può valere ad escludere che tale ruolo fosse stato in concreto assunto anche dal datore di lavoro di fatto”.

Per quanto sopra detto la Corte di Cassazione ha annullata la sentenza impugnata di proscioglimento dell’imputato con rinvio, ai sensi dell’articolo 622 del Codice di Procedura Penale, al giudice civile competente per valore in grado di appello.

 

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AMBIENTI CONFINATI: RUOLI E RESPONSABILITA’

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

14 dicembre 2015

 

Indicazioni su quali siano i ruoli e i compiti nei modelli nordamericani in relazione tutela della sicurezza nei lavori negli ambienti confinati. Focus su entrant, attendant, entry supervisor e rescue team member.

 

Esaminiamo il documento “Istruzioni operative in materia di sicurezza ed igiene del lavoro per i lavori in ambienti confinati”, che raccoglie le indicazioni operative elaborate dal gruppo di lavoro denominato “Ambienti Confinati”, insediato dal Comitato Regionale di Coordinamento ex articolo 7 del D.Lgs.81/08 della Regione Emilia Romagna, con la collaborazione, nella fase di seconda revisione, dell’ingegner Adriano Paolo Bacchetta.

 

Nell’allegato viene fornito uno stralcio del modello organizzativo e di responsabilità ripreso da modelli nordamericani, che chiaramente non fa riferimento ai vincoli e ai ruoli definiti della nostra normativa. Ruoli che sono stati più volte individuati nei nostri articoli sugli spazi confinati, ad esempio in relazione al referente del committente o all’attività di vigilanza del preposto o, comunque, all’attività del soggetto che, posto all’esterno del punto di accesso allo spazio confinato, vigila sull’operato di lavoratori all’interno.

Nel modello nordamericano, come presentato nella guida, i soggetti per cui devono essere definiti ruoli e responsabilità (oltre al Rappresentante del’azienda Committente), sono invece identificabili in funzione di quattro ruoli:

  • Entrant (operatore che entra nello spazio confinato);
  • Attendant (operatore che assiste dall’esterno l’operatore entrato);
  • Entry supervisor (Responsabile);
  • Rescue Team member (addetto al salvataggio).

A ognuno di questi soggetti sono affidati specifici compiti e responsabilità.

Vediamo nel dettaglio i compiti e responsabilità assegnati dal modello americano.

L’Entrant (il lavoratore che deve accedere allo spazio confinato):

  • effettua le operazioni prefissate seguendo le procedure aziendali;
  • si attiene alle istruzioni ricevute e non effettua manovre/operazioni che possano mettere in pericolo la sua o l’altrui sicurezza;
  • verifica, prima di indossarli, lo stato di conservazione e l’efficienza dei previsti DPI e delle attrezzature di lavoro;
  • segnala al Supervisor ogni anomalia o rottura o mancato funzionamento riscontrato nei DPI e nelle attrezzature di lavoro e, se del caso, chiede la loro sostituzione;
  • si mantiene in comunicazione continua con l’Attendant;
  • avvisa l’Attendant in caso di pericolo;
  • abbandona lo spazio confinato quando si sente in pericolo o a seguito di un ordine ricevuto dall’Attendant; in caso di emergenza, si attiene alle disposizioni impartite dal responsabile del Rescue Team e si mette a sua disposizione per eventuali necessità.

L’Attendant (il preposto):

  • verifica che solo i lavoratori autorizzati (Entrant) accedano allo spazio confinato;
  • conoscendo i rischi associati con lo spazio confinato e le operazioni previste controlla che l’Entrant indossi i previsti DPI e che non effettui manovre/operazioni che possano mettere in pericolo la sua o l’altrui sicurezza;
  • controlla costantemente che permangano le condizioni di sicurezza verificate all’inizio delle attività e impedisce l’accesso ai non autorizzati;
  • non abbandona mai il suo posto e si mantiene in comunicazione continua con l’Entrant effettuando, se previsto, il continuo monitoraggio dell’atmosfera;
  • se necessario, su propria iniziativa o a seguito della richiesta del Supervisor, ordina all’Entrant di abbandonare lo spazio confinato;
  • se necessario, attua le manovre di Non Entry rescue e/o richiede tempestivamente l’intervento del Rescue Team.

Il Supervisor (il supervisore):

  • conosce i rischi associati con le attività negli ambienti a sospetto inquinamento e confinato, le operazioni previste e i rischi specifici del luogo di lavoro;
  • redige/prende visione del permesso di lavoro e, prima dell’ingresso, effettua i necessari test controllando personalmente che siano garantite le condizioni di sicurezza necessarie per l’avvio delle operazioni secondo quanto previsto;
  • controlla la presenza ed efficienza delle attrezzature necessarie all’intervento;
  • controlla la disponibilità/presenza del Rescue Team;
  • conduce il Pre entry Briefing ed effettua i Test di Pre ingresso;
  • controlla che gli Entrant indossino i previsti DPI e che la squadra operativa non effettui manovre/operazioni che possano risultare pericolose;
  • controlla costantemente che permangano le condizioni di sicurezza verificate all’inizio delle attività e, se del caso, adotta provvedimenti di adeguamento;
  • si mantiene costantemente disponibile e in comunicazione continua con l’Attendant;
  • se necessario, ordina all’Attendant di disporre l’abbandono dello spazio confinato;
  • se necessario, dispone in No Entry Rescue e/o richiede tempestivamente l’intervento del Rescue Team;
  • se necessario, chiede l’intervento degli addetti del sistema di emergenza del Servizio sanitario nazionale e dei Vigili del Fuoco;
  • conduce il Post Entry Debriefing.

Il Rescue Team member (l’addetto al salvataggio):

  • deve essere dichiarato in buona salute e idoneo al compito da parte del Medico Competente;
  • dispone di adeguati DPI per l’intervento ed è correttamente addestrato al loro impiego in ogni situazione;
  • può utilizzare in modo sicuro ed efficace le attrezzature di salvataggio che ha a disposizione, essendo stato adeguatamente formato e addestrato
  • ha ben chiari i propri compiti, il ruolo che ricopre nel Team di soccorso e le procedure di soccorso specifiche per ogni spazio confinato in cui deve operare;
  • conosce i rischi legati agli interventi di soccorso negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati e, nello specifico, quali sono le caratteristiche dell’ambiente nel quale è chiamato, volta per volta, a operare;
  • è addestrato sulle tecniche di Basic Life Support (BLS), Basic Trauma Life Support (BTLS) e sulle manovre di assistenza rianimatoria cardiopolmonare (CRP) e Basic Life Support Defibrillation (BLSD);
  • effettua esercitazioni pratiche sulle tecniche di salvataggio con l’utilizzo di manichini antropomorfi da ambienti che riproducono il più possibile le reali condizioni di intervento (dimensione passaggio, volume interno, ecc.).

Concludiamo ricordando, ancora una volta, che questi non sono i ruoli individuati dalla normativa nazionale, ma i ruoli e responsabilità individuate dai modelli organizzativi nordamericani con riferimento alle attività nei “Confined spaces”.

Il documento della Regione Emilia Romagna “Istruzioni operative in materia di sicurezza ed igiene del lavoro per i lavori in ambienti confinati”, realizzato dal gruppo di lavoro denominato “Ambienti Confinati”, insediato dal Comitato Regionale di Coordinamento della Regione Emilia Romagna è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/131220_indicazioni_operative_spazi_confinati.pdf

 

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L’OBBLIGO DEL FERMO ASSOLUTO NELLA MANUTENZIONE DELLE MACCHINE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

14 dicembre 2015

di Gerardo Porreca

 

E’ indispensabile, ai fini del rispetto della sicurezza sul lavoro, che su una macchina sia installato un dispositivo di fermo assoluto che impedisca che la stessa durante i lavori di manutenzione possa riavviarsi o essere riavviata

 

Chiamata ad esprimersi su di un infortunio occorso ad un lavoratore nei pressi di una macchina durante l’effettuazione di alcuni lavori di manutenzione la Corte di Cassazione in questa sentenza ha ribadita una disposizione di legge che è ritenuta indispensabile per garantire la sicurezza degli operatori impegnati in tali tipi di operazione, prevista del resto ormai da tempo dalle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

E’ assolutamente necessario, ha ricordato la suprema Corte, che ogni macchina sia dotata di un dispositivo di “fermo assoluto” al fine di impedire che durante i lavori di manutenzione la stessa possa riavviarsi o possa essere accidentalmente riavviata da altri lavoratori.

Nella circostanza è stato escluso altresì dalla suprema Corte che l’evento infortunistico fosse legato a un comportamento del lavoratore abnorme, esorbitante e comunque tale da interrompere il nesso di causalità tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l’evento letale occorsogli in quanto lo stesso stava svolgendo delle mansioni a lui assegnate dal datore di lavoro e non una operazione imprevedibile quale è quella di un intervento manutentivo.

Hanno ricorso in Cassazione i difensori di fiducia di un datore di lavoro avverso una sentenza emessa dalla Corte di appello che, in parziale riforma di quella del Tribunale, aveva ridotta la pena inflitta rideterminandola in 200,00 euro di multa e aveva revocata la sospensione condizionale della stessa.

L’imputato era stato ritenuto colpevole del delitto di cui agli articoli 40 e 590 commi 1, 2, e 3 del Codice Penale per avere, in qualità di legale rappresentante di una società e quindi di datore di lavoro, per colpa consistita in negligenza, imperizia, imprudenza e violazione di legge (in particolare degli articoli 70, comma 2, 71, comma 1, 87, comma 2 del D.Lgs 81/08 e 2087 del Codice Civile), cagionato a un operaio dipendente della società stessa, addetto alla manutenzione degli impianti, lesioni personali consistite in ferita lacera al secondo dito della mano sinistra con interessamento della lamina ungueale e frattura della falange, con prognosi complessiva di giorni 72.

In particolare è stato ritenuto colpevole per non avere adottato dispositivi, misure e cautele tali da assicurare in modo assoluto la posizione di fermo dell’attrezzatura di lavoro e dei suoi organi durante l’esecuzione di interventi manutentivi e tali da garantire il riavvio in condizioni di sicurezza e per non avere inoltre adeguato le pulsantiere delle rulliere motorizzate del macchinario alla normativa tecnica di riferimento. L’operaio, in particolare, durante l’intervento manutentivo volto alla regolazione del sistema della catena di trascinamento, era rimasto incastrato con la mano sinistra nel sistema catena pignone, con trascinamento prima del guanto di protezione e poi del secondo dito della mano sinistra, che veniva conseguentemente schiacciato, a causa di un riavvio intempestivo del macchinario.

Il ricorrente ha lamentata l’omessa applicazione e valutazione dell’articolo 70 del D.Lgs.81/08 nella parte in cui richiama le indicazioni dell’Allegato V dello stesso decreto e ha messa in evidenza la mancata definizione di “fermo assoluto” della macchina, l’assenza di una effettiva verifica circa la sua esistenza nel caso in esame e di una verifica della combinata presenza del “fermo assoluto” e del comportamento concreto del lavoratore nel governo del suddetto dispositivo.

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione ed è stato pertanto rigettato. In buona sostanza, ha fatto osservare la suprema Corte, il ricorso, ribadendo censure già prospettate e disattese con congrue e corrette motivazioni in entrambi i giudizi di merito, ha ricondotto essenzialmente il verificarsi dell’infortunio al comportamento del lavoratore stesso, qualificato come abnorme, imprudente e anzi improntato a deliberata accettazione del rischio in violazione di una elementare regola di cautela e a una precisa istruzione operativa.

Al riguardo, ha ribadito la Sezione IV, correttamente e con adeguata motivazione è stato escluso un comportamento imprevedibile e abnorme del lavoratore e comunque idoneo da solo a cagionare l’evento e a elidere il nesso di causalità tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l’evento letale allo stesso occorso, comportamento che pur avventato, negligente, o disattento, era connesso all’attività lavorativa e da essa non esorbitante né eccentrico rispetto alle mansioni al medesimo specificamente assegnate nell’ambito del ciclo produttivo e pertanto non imprevedibile come era appunto l’intervento manutentivo che gli competeva.

La Corte territoriale, ha fatto altresì notare la Sezione IV, aveva, fra l’altro, richiamate e condivise le argomentazioni del giudice di prime grado laddove è stato esaustivamente rilevato che la mancanza di dispositivi atti ad assicurare in modo assoluto la posizione di fermo dell’attrezzatura e dei suoi organi che garantissero l’impossibilità dello stesso di riattivarsi o di essere volontariamente riattivato, durante l’intervento di manutenzione ed in particolare durante la scopertura della catena e del pignone mediante la rimozione del carter di protezione (accorgimento che avrebbe certamente scongiurato l’evento lesivo) era stata accertata dall’ASL nel suo atto di contestazione laddove era stata anche constatata la mancata previsione di misure adottabili di maggior cautela per il ripristino del moto della macchina e l’omessa consegna ai lavoratori di procedure scritte consequenziali.

Né alcuna rilevanza, ha così concluso la Corte di Cassazione, ha avuto il dedotto fraintendimento tra il lavoratore infortunato e il collega di lavoro addetto all’avviamento e all’arresto del macchinario, dal momento che il “fermo assoluto” dopo la rimozione del carter di protezione, misura di salvaguardia che incombeva sul datore di lavoro che omise di adottarla (con la conseguente integrazione della colpa per violazione di legge ex articolo 70 del D.Lgs.81/08 e 2087 del Codice Civile), avrebbe sicuramente evitato l’infortunio.

 

La Sentenza n.45051 del 11 novembre 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14291:cassazione-penale-sez-4-11-novembre-2015-n-45051-infortunio-durante-lintervento-di-manutenzione-mancanza-di-dispositivi-atti-ad-assicurare-in-modo-assoluto-la-posizione-di-fermo-dellattrezzatura&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.237 DEL 22/12/15 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.236 DEL 07/12/15

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.236 DEL 07/12/15

 

INDICE

  • Le “Frequently Asked Questions” di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights! – n.7
  • Jobs Act: una panoramica dei principali provvedimenti
  • Medico competente e formazione dei lavoratori
  • Le regole vitali per le attività in presenza di traffico veicolare
  • Esposizione e rischio amianto: problemi normativi e analitici
  • Radiazioni ottiche artificiali: cosa devono fare le aziende?

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO – KNOW YOUR RIGHTS! – N.7

 

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.

In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.

Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.

Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

 

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DOMANDA

Ciao Marco,

ti faccio un quesito.

Un lavoratore che, facendo parte della squadra antincendio e pertanto anche addetto all’emergenza, in caso di incendio o terremoto abbandona il proprio posto di lavoro e relativo incarico senza avvertire nessuno (preso dal panico o per altro motivo), quali conseguenze potrebbe avere?

 

RISPOSTA

Ciao,

il D.Lgs.81/08 pone a carico del lavoratore in generale gli obblighi (sanzionabili) di cui all’articolo 20.

Tali obblighi prevedono (articolo 20, comma 2, lettera b) quello di “osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale”.

Pertanto si deve intendere che anche i compiti specifici assegnati ai lavoratori nominati nella squadra antincendio ed emergenza debbano essere osservati.

Tali compiti non sono indicati nel D.Lgs.81/08, ma devono essere contenuti all’interno del Piano di Emergenza Aziendale di cui all’articolo 43, comma 1, lettera d) del Decreto e di cui all’articolo 5 del D.M.10/03/98.

In caso di emergenza vale comunque quanto stabilito dall’articolo 44 comma 1 del D.Lgs.81/08, secondo il quale:

Il lavoratore che, in caso di pericolo grave, immediato e che non può essere evitato, si allontana dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, non può subire pregiudizio alcuno e deve essere protetto da qualsiasi conseguenza dannosa”.

Pertanto, in condizioni di rischio limitato, come può essere un principio di incendio, l’addetto antincendio si deve attenere a quanto disposto dal Piano di emergenza e se non lo fa può essere passibile di sanzione disciplinare e sanzione dell’organo di vigilanza.

Ma se l’addetto si trova in una condizione di “pericolo grave, immediato e che non può essere evitato”, anche in considerazione delle sue attitudini psico-fisiche, come ad esempio un incendio di vaste dimensioni o un terremoto di magnitudo elevata, egli può abbandonare il posto di lavoro senza subire alcun pregiudizio.

In ogni caso il lavoratore dovrà comunicare alla struttura aziendale di gestione dell’emergenza che egli ha dovuto abbandonare il posto di lavoro spiegando i motivi per cui lo ha fatto.

In altre parole l’addetto antincendio non deve per forza fare l’eroe, perché non ha la preparazione e l’esperienza che ha un Vigile del Fuoco, ma si deve limitare a seguire quelle che sono le indicazioni riportate nel Piano di Emergenza.

Rimane comunque di sua responsabilità avvertire l’azienda o i soccorsi esterni del pericolo presente chiedendone l’intervento.

Un caro saluto.

Marco

 

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DOMANDA

Ciao Marco,

la mia azienda ha appaltato una ditta esterna per attività di pulizia di una fossa Imhoff, che è di fatto uno spazio confinato.

Io, come RLS, ho chiesto di verificare l’idoneità tecnico professionale della ditta, tenendo conto del particolare rischio di lavorare in spazi confinati.

La mia azienda mi ha passato la documentazione fornita dalla ditta esterna, tra cui compaiono, tra le altre cose, anche gli attestati di formazione per lavori in spazi confinati ai sensi del D.P.R.177/11.

Quindi credo vada bene.

Ti chiedo però se tali attestati prevedono un aggiornamento e, se sì, ogni quanto.

Occorre poi una sorveglianza sanitaria specifica per i lavoratori che operano in spazi confinati?

Grazie per il gentile riscontro.

 

RISPOSTA

Ciao,

le mie risposte/osservazioni a seguire.

Come giustamente osservi, per tali attività trova applicazione, oltre al D.Lgs.81/08, anche il D.P.R.177/11 “Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinanti” che trovi, ad esempio, al link:

http://www.provinz.bz.it/lavoro/download/DPR_177_11.pdf

Per quanto riguarda la formazione, il D.P.R.171/11 non prevede aggiornamento.

Poiché però tale formazione rientra nella formazione specifica di cui all’articolo 37 del D.Lgs.81/08 e di cui all’Accordo Stato Regioni 21/12/11, deve essere previsto un aggiornamento (di tutta la formazione specifica di cui una parte dedicata a quella per gli ambienti confinati) di almeno 6 ore ogni 5 anni.

Per quanto riguarda la sorveglianza sanitaria essa è dovuta, secondo il D.Lgs.81/08 “nei casi previsti dalla normativa vigente”. Né il D.Lgs.81/08, né il D.P.R.171/11 prevede sorveglianza sanitaria specifica per le lavorazioni in ambienti confinati.

E’ però vero che l’articolo 18, comma 1, lettera c) del D.Lgs.81/08, pone come obbligo sanzionabile a carico del datore di lavoro o del dirigente quello di “nell’affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza”.

E’ chiaro che a seguito di tale obbligo il datore di lavoro dovrà verificare (anche con semplice visita preventiva e non periodica da parte del medico competente) che il lavoratore addetto al lavoro in spazi confinati sia idoneo a tali compiti e quindi non sia affetto da patologie che potrebbero aumentare i fattori di rischio (epilessia, sbalzi di pressione, labirintite, sindrome da crisi di panico o da claustrofobia, ecc.).

Oltre ai requisiti formalizzati dalla ditta appaltata, occorre poi, ai sensi del D.P.R.171/11 che essa fornisca:

  • dichiarazione in merito all’integrale applicazione delle vigenti disposizioni in materia di valutazione dei rischi, sorveglianza sanitaria e misure di gestione delle emergenze;
  • dichiarazione in merito alla presenza all’interno dell’azienda di personale, in percentuale non inferiore al 30 per cento della forza lavoro, con esperienza almeno triennale relativa a lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, assunta con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (ovvero anche con altre tipologie contrattuali o di appalto, a condizione che i relativi contratti siano stati preventivamente certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276);
  • possesso di dispositivi di protezione individuale, strumentazione e attrezzature di lavoro idonei alla prevenzione dei rischi propri delle attività lavorative in ambienti sospetti di inquinamento o confinati e avvenuta effettuazione di attività di addestramento all’uso corretto di tali dispositivi (quindi se usa delle imbracature salva vita o degli autorespiratori deve essere fornita attestazione dell’addestramento specifico di tali dispositivi);
  • dichiarazione in merito all’integrale applicazione della parte economica e normativa della contrattazione collettiva di settore.

Ti ricordo inoltre che in relazione alle attività lavorative in ambienti sospetti di inquinamento o confinati non é ammesso il ricorso a subappalti, se non autorizzati espressamente dal datore di lavoro committente e certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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DOMANDA

Ciao Marco,

mia moglie è stata in malattia più di 60 giorni per una frattura al polso sinistro per una caduta accidentale in un giorno festivo.

Mia moglie rientra al lavoro lunedì e per cui volevo avere una dritta sulla procedura, prevista da Testo Unico, sul rientro dopo assenze prolungate..

Non vorrei che lunedì non essendoci il medico competente in azienda la rimandino a casa senza essere retribuita e con proprie ferie.

Grazie.
RISPOSTA

Ciao,

l’articolo 41, comma 2, lettera e-ter) del D.Lgs.81/08 prevede che:

La sorveglianza sanitaria comprende […] visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione”.

La “ratio” di tale disposto legislativo è quella di stabilire se un lavoratore a seguito di una lunga assenza per motivi di salute (a seguito di malattia o di infortunio) sia ancora idoneo fisicamente a svolgere il lavoro specifico della sua mansione.

E’ compito del medico competente stabilire se la lunga assenza dal lavoro e la patologia che l’ha causata possano avere annullato o ridotto la idoneità del lavoratore a svolgere i compiti lavorativi propri della sua mansione, a fronte dei rischi specifici della mansione stessa.

Mi spiego con due esempi.

Se un videoterminalista (che svolge la sua mansione in un ambiente climaticamente adeguato, cioè con adeguato impianto di riscaldamento) manca per più di 60 giorni per una polmonite, il medico competente non potrà che, una volta acquisiti i referti medici relativi alla malattia, confermare l’idoneità del lavoratore alla sua mansione specifica che non comporta (a seguite della adeguata climatizzazione degli ambienti di lavoro) rischi di natura climatica fredda.

Se, al contrario, un addetto al magazzino (che svolge la sua mansione con ripetuti sollevamenti di carichi pesanti) manca per più di 60 giorni per un’ernia discale, il medico competente dovrà, una volta acquisiti i referti medici relativi alla malattia, verificare se lo stato di salute del lavoratore sia già in grado di riprendere un’attività lavorativa potenzialmente a rischio per la colonna vertebrale interessata dalla patologia, esprimendo, in alternativa un giudizio di non idoneità totale, oppure di idoneità totale, oppure ancora di idoneità con prescrizione (non sollevare più di…kg).

Pertanto non ci sono regole assolute, ma solo relative alla patologia subita e alla mansione svolta.

E questo lo può stabilire solo il medico competente.

In ogni caso vale il principio fissato dall’articolo 15, comma 2 del D.Lgs.81/08, secondo il quale:

Le misure relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori”.

Pertanto, in attesa della visita del medico competente, tua moglie non può tornare a svolgere la sua mansione. Ma poiché ciò dipende dalla azienda, che aveva il dovere di programmare la visita di controllo prima del ritorno al lavoro di tua moglie, ella potrà non recarsi al lavoro a seguito di prolungamento del periodo di assenza per infortunio e non dovrà pertanto prendere ferie.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Un caro saluto.

Marco

 

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DOMANDA

Ciao Marco,

sono RLS di un’azienda metalmeccanica.

Poiché nella linea produttiva vengono movimentati pezzi di acciaio taglienti, dopo vari infortuni, siamo riusciti a convincere l’azienda a fornire ai lavoratori DPI antitaglio.

Quelli che ci hanno presentati sono però molto spesso e rigidi e impediscono di movimentare i pezzi più piccoli o fare lavori più fini (tipo imboccare le viti nelle loro sedi) per cui temiamo che poi i lavoratori non li indossino per comodità di lavoro e diventino loro i colpevoli in caso di infortunio.

Possibile che non ci siano dei guanti antitaglio adatti anche a lavori di precisione?

Nei sai qualcosa?

Grazie

 

RISPOSTA

Ciao,

innanzitutto riporto i riferimenti normativi utili per il caso che mi hai segnalato.

Il datore di lavoro deve individuare i DPI in funzione del rischio presente ed eseguire analisi di mercato per individuare i DPI idonei.

Ciò è stabilito dall’articolo 77, comma 1, lettere b) e c) del 81/08:

Il datore di lavoro ai fini della scelta dei DPI:

[…]

  1. b) individua le caratteristiche dei DPI necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi di cui alla lettera a), tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi DPI;
  2. c) valuta, sulla base delle informazioni e delle norme d’uso fornite dal fabbricante a corredo dei DPI, le caratteristiche dei DPI disponibili sul mercato e le raffronta con quelle individuate alla lettera b);

[…]”.

I DPI devono essere adeguati ai rischi, ma nel contempo tenere conto delle condizioni di lavoro e delle esigenze ergonomiche. Ciò è stabilito dall’articolo 76, comma 2, lettere a), b) e c) del 81/08:

I DPI di cui al comma 1 devono inoltre:

  1. a) essere adeguati ai rischi da prevenire, senza comportare di per sé un rischio maggiore;
  2. b) essere adeguati alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro;
  3. c) tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore;

[…]”.

Il RLS deve essere consultato anche sulla scelta dei DPI, in quanto essi costituiscono misure di prevenzione dei rischi. Ciò è stabilito dall’articolo 50, comma 1, lettere b) del 81/08:

Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza:

[…]

  1. b) è consultato preventivamente e tempestivamente in ordine alla valutazione dei rischi, alla individuazione, programmazione, realizzazione e verifica della prevenzione nella azienda o unità produttiva;

[…]”.

In merito ai guanti antitaglio, ne esistono sul mercato di quelli che oltre ad avere una elevata resistenza al taglio (seconda cifra della marcatura secondo norma EN 388), sono anche tali da garantire una finezza soddisfacente e quindi una facilità di utilizzo anche per la manipolazione di piccoli oggetti.

Si tratta di guanti ottenuti con filati di fibre di kevlar che è un materiale molto fine ed elastico, ma molto resistente al taglio. Questi guanti costano ovviamente di più dei guanti antitaglio tradizionali che però non garantiscono le medesime caratteristiche di confort e agilità.

Pertanto la tua azienda dovrà dotare i lavoratori di guanti antitaglio con tali caratteristiche, indipendentemente dal loro costo.

Per ulteriori chiarimenti chiamami pure.

Marco

 

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NOTA

Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:

ASL = Azienda Sanitaria Locale

CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro

DPI = Dispositivi di Protezione Individuali

DVR = Documento di Valutazione dei Rischi

DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto

RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione

RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza

D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)

 

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JOBS ACT: UNA PANORAMICA DEI PRINCIPALI PROVVEDIMENTI

 

Da Articolo 19

http://www.cittametropolitana.bo.it/lavoro/Engine/RAServePG.php/P/261611560408/T/Articolo-19

 

Articolo 19

Numero 4 Anno 2015

 

In attuazione della Legge Delega 183/2014 il Governo ha emesso otto Decreti attuativi che hanno così completato il percorso di approvazione della riforma del lavoro nota come Jobs Act, una serie di provvedimenti di portata estremamente vasta che non mancano di toccare nel vivo anche le tematiche riguardanti la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

 

Volendo svolgere una panoramica dei principali provvedimenti, in maniera per forza di cose semplificata, innanzi tutto non vanno trascurate le disposizioni contenute in uno dei Decreti attuativi della riforma già approvati in estate, il Decreto Legislativo 81/15 “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni”, che hanno senza dubbio riflessi di natura prevenzionale se letti alla luce del tema Salute e Sicurezza.

 

E’ sufficiente infatti citare la nuova disciplina della mansioni, con la possibilità di mutare le mansioni del lavoratore in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali, e la nuova disciplina lavoro a orario ridotto e flessibile che agevola il ricorso al lavoro supplementare e straordinario per i lavoratori part time e la possibilità di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale dei lavoratori affetti da patologie oncologiche o da gravi patologie cronico-degenerative.

 

Di impatto ancora più significativo la previsione con cui nello stesso Decreto si abroga il comma 5 dell’articolo 3 del D.Lgs.81/08, eliminando così l’obbligo in capo all’utilizzatore degli adempimenti riguardanti la prevenzione e la protezione dei lavoratori somministrati. Una disposizione importante che comunque non potrà trascurare quanto previsto in tema di formazione per i lavoratori somministrati dall’Accordo Stato-Regioni del 21/12/11 e la definizione di lavoratore offerta dal D.Lgs.81/08, laddove si individua come destinatario delle tutele la più ampia platea di soggetti che “indipendentemente dalla tipologia contrattuale svolge un’attività lavorativa” presso un datore di lavoro.

 

Pur contenendo interventi di portata inferiore rispetto a quanto annunciato e a quanto contenuto nel titolo dello schema di Decreto (il 176 del giugno 2015) è però sicuramente il D.Lgs.151/15 “Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità”, approvato ad inizio settembre e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 23/09/15, quello che maggiormente interviene in tema di salute e sicurezza sul lavoro andando a modificare all’articolo 20 alcuni punti specifici del D.Lgs.81/08.

 

TRE REGIMI PER IL LAVORO ACCESSORIO

Ai lavoratori occupati presso un committente imprenditore o professionista saranno applicate tutte le disposizioni previste dal D.Lgs.81/08, con tutti i diritti di natura prevenzionale, mentre per i lavoratori occupati in tutti gli “altri casi” sono assicurate le sole disposizioni dettate all’articolo 21 del D.Lgs.81/08 (nel quale per le disposizioni inerenti sorveglianza sanitaria e formazione sono le facoltà, anziché gli obblighi, a trovare regolazione). Viene poi confermata l’esclusione dall’applicazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro per i prestatori di lavoro di accessorio che svolgono piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compreso l’insegnamento privato e l’assistenza domiciliare ai bambini, agli anziani, agli ammalati e ai disabili.

 

COMMISSIONE PERMANENTE

Si assiste ad una ricomposizione della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro con un ridimensionamento dei numeri delle tre compagini istituzioni (Ministeri e Regioni), parte datoriale e parte sindacale e introducendo la “rappresentanza” di “esperti in medicina del lavoro, igiene industriale e impiantistica industriale”, nel numero di tre e del “rappresentante dell’ANMIL”, nel numero di uno.

La novità introdotte nella composizione della Commissione, oltre a superare l’elemento del tripartitismo perfetto (principio cardine delle disposizioni dettate anche dal livello europeo), apre una domanda su quali siano le professionalità tecniche che troveranno collocazione in un organismo di carattere politico in considerazione del fatto che i quattro voti corrispondenti a tali nuovi soggetti introdotti nella Commissione, acquisiscono un peso numerico superiore a quanto singolarmente rappresentato dalle tre compagini costitutive (istituzioni e parti sociali), fino ad oggi perfettamente equilibrate nei numeri.

 

VALUTAZIONE DEI RISCHI

La modifica introdotta riguarda la formalizzazione del contributo tecnico dell’INAIL, in collaborazione con le aziende sanitarie locali, verso i datori di lavoro ai fini dell’elaborazione della valutazione dei rischi (secondo modalità operative che dovranno essere definite) e la possibilità di utilizzare strumenti informatizzati secondo il prototipo europeo OIRA per le aziende di piccole dimensioni (da attuare previo parere della Commissione consultiva permanente e previo Decreto del Ministero del Lavoro).

 

SERVIZIO DI PREVENZIONE E PROTEZIONE

Viene introdotta la possibilità da parte del datore di lavoro di svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché di prevenzione incendi e di evacuazione e viene eliminata la soglia numerica del “fino a cinque lavoratori”, oggi in tutte le imprese o unità produttive (salvo ancora i casi previsti all’articolo 31, comma 6) il datore di lavoro che rientra nei termini dettati dall’articolo 34, è libero di svolgere direttamente i compiti di primo soccorso, nonché di prevenzione degli incendi e di evacuazione, oltre a quelli del servizio di prevenzione e protezione dai rischi.

 

ATTREZZATURE DI LAVORO

Su questo tema viene effettuata una esplicitazione importante in quanto, con riferimento all’articolo 69 comma e) del D.Lgs.81/08, si indica anche il datore di lavoro al pari del lavoratore nella definizione di “operatore” come incaricato dell’utilizzo delle attrezzature e dei DPI.

 

FORMAZIONE

Si introduce un obbligo di formazione specifica per gli operatori destinati alla conduzione di generatori di vapore e, con riferimento ai cantieri temporanei o mobili, si modificano i requisiti professionali necessari per le figure di Coordinatore per la progettazione (CSP) e Coordinatore per l’esecuzione (CSE), anche attraverso la modalità e-learning, i cui contenuti dovranno essere ratificati in sede di Conferenza Stato-Regioni come per i precedenti provvedimenti inerenti gli obblighi formativi sulla sicurezza.

 

SANZIONI

Corpose e di impatto significativo le modifiche apportate sul tema in particolare dalla lettera i) del comma 1 del già richiamato articolo 20 e dell’articolo 22, comma 4, lettera c).

Si inaspriscono notevolmente le sanzioni a carico del datore di lavoro in caso di violazione riferita alla mancata formazione dei lavoratori, degli addetti alle emergenze, dei preposti, dei dirigenti e dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, nonché del mancato rispetto dell’obbligo a carico del datore di lavoro e/o dei dirigenti di inviare i lavoratori a visita medica. Nello specifico le sanzioni sono raddoppiate se coinvolgono più di cinque lavoratori e triplicate se la violazione riguarda più di dieci lavoratori.

Sono altresì raddoppiate le sanzioni a carico del datore di lavoro che non abbia protetto in maniera sufficiente il lavoratore degli effetti derivanti dal rischio elettrico e che non sia in grado di dimostrare all’organo di vigilanza di aver cercato in tutti i modi di ridurre le probabilità di accadimento del danno a carico del lavoratore che utilizza attrezzature di lavoro.

Su questo fronte, in considerazione del fatto che le sanzioni vengono comminate dagli organi di vigilanza solo a seguito di controlli effettuati in azienda, assume ancora maggiore rilievo l’attività di monitoraggio degli RLS/RLST.

 

AGENZIA UNICA DI VIGILANZA

Infine, non certo per ordine di importanza, occorre considerare quanto previsto nel D.Lgs.149/15 “Disposizioni per la razionalizzazione e la semplificazione dell’attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale” con il quale si istituisce il “famoso” Ispettorato nazionale del lavoro voluto dal legislatore per razionalizzare e semplificare l’attività di vigilanza in materia di lavoro e evitare la sovrapposizione di interventi ispettivi.

E’ l’articolo 2 in particolare a descrivere l’operatività del nuovo Ispettorato nazionale del lavoro come un’agenzia unica per le ispezioni del lavoro che integra i ruoli e le funzioni ispettivi oggi svolte ad opera rispettivamente del Ministero del lavoro, dell’INPS e dell’INAIL oltre che fornire pareri su interpelli e a svolgere un coordinamento dell’attività formativa.

E’ esclusa dal Decreto in questione, contrariamente alle prime versioni circolate, un’adozione anche dell’attività ispettiva oggi svolta dalle ASL attraverso i SPAL territoriali.

Il Decreto è in vigore dalla data successiva alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (avvenuta come per il precedente 151/15 il 23/09/15), ma occorrerà attendere quarantacinque giorni successivi a tale data per l’adozione tramite Decreto interministeriale dello statuto dell’Ispettorato unico.

 

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MEDICO COMPETENTE E FORMAZIONE DEI LAVORATORI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

25 novembre 2015

 

Quali sono le cause del mancato coinvolgimento del Medico Competente nella formazione in tema di salute e sicurezza sul lavoro?

Cosa prevede il D.Lgs.81/08?

Quali sanzioni sono previste per il datore di lavoro?

 

Rifletto sui motivi che escludono il medico competente dai programmi di formazione in tema di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Partiamo dalla normativa.

L’articolo 25 (Obblighi del medico competente) del Testo Unico, al comma 1, lettera a) prevede che il medico competente partecipi alle attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di competenza (articolo non sanzionato per il medico):

“Il medico competente collabora con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione alla valutazione dei rischi, anche ai fini della programmazione, ove necessario, della sorveglianza sanitaria, alla predisposizione della attuazione delle misure per la tutela della salute e della integrità psico-fisica dei lavoratori, all’attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di competenza, e alla organizzazione del servizio di primo soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione ed esposizione e le peculiari modalità organizzative del lavoro. Collabora inoltre alla attuazione e valorizzazione di programmi volontari di promozione della salute, secondo i principi della responsabilità sociale”.

Tuttavia l’articolo 18 (Obblighi del datore di lavoro e del dirigente), comma 1, lettera g) del D.Lgs.81/08 prevede che il datore di lavoro richieda al medico competente l’osservanza degli obblighi previsti a suo carico nel Decreto stesso:

“Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all’articolo 3, e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono inviare i lavoratori alla visita medica entro le scadenze previste dal programma di sorveglianza sanitaria e richiedere al medico competente l’osservanza degli obblighi previsti a suo carico nel presente decreto”.

Gli obblighi del medico competente sono quelli previsti dall’articolo 25 che, al comma 1, lettera a) prevede appunto che il medico competente partecipi alle attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di competenza.

L’inosservanza del citato comma dell’articolo 18 comporta una sanzione, per il datore di lavoro, stabilita dall’articolo 55, comma 5, lettera e) costituita da un’ammenda da 2.192 a 4.384 euro.

Quindi il mancato coinvolgimento del medico competente non prevede sanzioni per il medico quanto piuttosto per il datore di lavoro.

Il motivo invece per il quale le aziende non coinvolgano il medico sono, a mio avviso, le seguenti:

  • la mancata conoscenza delle norme da parte dei datori di lavoro (e questo è comprensibile) e da parte di molti RSPP (e questo lo è un po’ meno);
  • la scarsa attenzione degli RSPP sul fatto che debbono coinvolgere il medico anche per tutelare il datore di lavoro oltre che per il fatto che erogherebbero una formazione un po’ più completa;
  • l’affidamento della formazione a società esterne che sono dotate di struttura propria e forniscono ore di formazione standard poco attinenti alla reale organizzazione aziendale e che quindi non hanno alcun interesse nel coinvolgere il medico;
  • il fatto di dover retribuire il medico per la prestazione; questo ovviamente non succede se il medico assumesse solo incarichi con retribuzioni forfettarie in modo che siano inclusive tutte le attività che gli competono; quindi se il contratto/lettera di incarico prevedesse tutti gli obblighi come dovrebbe, ciò sarebbe una tutela per tutti;
  • l’assenza di audit interni in tema di qualità della formazione;
  • l’assenza di controlli esterni;
  • l’inerzia degli RLS molto spesso passivi nel loro ruolo;
  • l’inerzia dei medici che, privi di sanzione, non premono certamente fuori dalle porte delle aule per partecipare alla formazione;
  • la fornitura del medico competente alle azienda da parte di società intermediarie: poliambulatori, società di servizi che retribuiscono il medico a prestazione erogata e non per gli obblighi che gli competono

E allora mi chiedo: ma cosa spiegheranno i formatori in tema di rischi per la salute, in tema di effetti su organi bersaglio, in tema di anatomia, fisiologia, patologie, risposte dell’organismo, prevenzione medica, malattie professionali, ecc.?

Quale sarebbe quindi l’iter corretto?

Il servizio di prevenzione e protezione, stabilendo il programma formativo dovrebbe condividere i contenuti con il medico competente, affidandogli un monte ore quale docente formatore.

Consiglio ai medici competenti di verbalizzate, nel corso dei sopralluoghi o altre relazioni la vostra disponibilità a partecipare ai programmi formativi aziendali.

Consiglio alle aziende e agli RSPP, considerata la pesante sanzione prevista qualora il datore di lavoro non richiami il medico competente agli obblighi previsti dal Testo Unico, di richiedere in forma scritta al medico competente la partecipazione alla formazione.

dottor Cristiano Ravalli

http://medicocompetente.blogspot.it

 

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LE REGOLE VITALI PER LE ATTIVITA’ IN PRESENZA DI TRAFFICO VEICOLARE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

27 novembre 2015

 

Raccolte da SUVA le nove regole vitali di sicurezza per gli operatori che lavorano sulle vie di traffico.

La pianificazione dei lavori, la segnaletica, la visibilità, le zone di pericolo, la movimentazione dei carichi, gli accessi sicuri e gli scavi.

 

Anche in Svizzera, come in Italia, non sono pochi gli infortuni mortali che riguardano gli operatori che lavorano sulle vie di traffico, nei cantieri stradali, ad esempio impegnati nella pavimentazione o nella manutenzione stradale.

E se a questi incidenti gravi e mortali spesso non sono immuni neanche i lavoratori con maggiore esperienza, è necessario rivedere e migliorare non solo le regole di prevenzione, ma anche il loro rispetto effettivo.

 

E’ proprio con questo obiettivo che in Svizzera SUVA, l’Istituto per l’assicurazione e la prevenzione degli infortuni, pubblica e aggiorna costantemente documenti con le “regole vitali” per la prevenzione, correlate alla campagna “Visione 250 vite” (per salvare nella Confederazione elvetica 250 vite nell’arco di dieci anni in tutti i settori professionali).

 

Nel caso delle attività cantieristiche in strada, SUVA (in collaborazione con associazioni professionali e sindacali elvetiche) ha pubblicato un documento dal titolo “Nove regole vitali per chi lavora sulle vie di traffico e nel genio civile”.

Regole che, come sempre, si rivolgono, con un linguaggio semplice e diretto, sia ai lavoratori che ai superiori delle imprese e presentano, nella forma del “vademecum”, precise informazioni su come preparare, per ciascuna regola vitale, una mini-lezione.

Sottolineando anche l’importanza di dire comunque “stop” ai lavori in caso di pericolo, per poterli riprendere solo dopo aver provveduto ad eliminare i pericoli per i lavoratori.

Riportiamo innanzitutto l’elenco delle nove regole, che sono anche nove principi salvavita:

  • pianificazione accurata dei lavori;
  • attenzione al traffico;
  • vedere ed essere visto;
  • contatto visivo;
  • sicurezza nella guida di macchine;
  • movimentazione corretta dei carichi;
  • solo accessi sicuri;
  • messa in sicurezza degli scavi;
  • uso dei DPI.

Vediamole più nel dettaglio.

Prima regola: pianifichiamo con cura ogni intervento

Lavoratore: mi informo dal mio superiore su eventuali pericoli legati all’ambiente circostante (traffico, linee aeree elettriche, ecc.) e sulla presenza di condotte interrate

Superiore: faccio in modo che eventuali pericoli legati all’ambiente circostante siano noti e adeguatamente segnalati, anche nel caso di condotte interrate

Seconda regola: ci proteggiamo dai pericoli legati al traffico

Lavoratore: elimino subito eventuali carenze a livello di segnaletica e sbarramenti oppure avviso il mio superiore

Superiore: in accordo con le autorità locali provvedo affinché il cantiere sia segnalato e sbarrato a norma

Terza regola: vedere ed essere visto

Lavoratore: indosso gli indumenti ad alta visibilità e mi comporto in modo da essere visto dagli altri

Superiore: procuro ai miei dipendenti adeguati indumenti ad alta visibilità e dispositivi di illuminazione

Quarta regola: stabiliamo un contatto visivo con il macchinista

Lavoratore: entro nella zona di pericolo della macchina edile solo se ho stabilito un contatto visivo con il macchinista

Superiore: istruisco i miei dipendenti sul comportamento da tenere nelle vicinanze delle macchine edili e non tollero le imprudenze

Quinta regola: manovriamo le macchine secondo le disposizioni

Lavoratore: manovro le macchine per le quali sono stato istruito

Superiore: impiego solo dipendenti che sono stati istruiti ad utilizzare le macchine edili

Sesta regola: trasportiamo e movimentiamo i carichi in sicurezza

Lavoratore: aggancio i carichi solo se sono stato istruito in materia e mi tengo lontano dalla zona di pericolo dei carichi e delle macchine edili

Superiore: faccio in modo che siano a disposizione accessori di imbracatura adeguati e faccio agganciare, trasportare e movimentare i carichi solo da personale addestrato

Settima regola: realizziamo accessi sicuri per ogni postazione di lavoro

Lavoratore: uso solo accessi sicuri

Superiore: faccio realizzare accessi sicuri e faccio in modo che lo siano sempre

Ottava regola: mettiamo in sicurezza gli scavi a partire da una profondità di 1,5 m

Lavoratore: non entro mai in uno scavo non messo in sicurezza

Superiore: faccio mettere in sicurezza gli scavi prima di farvi entrare qualcuno

Nona regola: utilizziamo i dispositivi di protezione individuale

Lavoratore: sul lavoro utilizzo i dispositivi di protezione individuale

Superiore: faccio in modo che i lavoratori ricevano e utilizzino i dispositivi di protezione individuale e questo vale anche per me

Ci soffermiamo in particolare sulla prima regola, relativa alla pianificazione accurata dei lavori.

Il documento indica che i lavori sulle vie di traffico e nel genio civile devono essere pianificati accuratamente. I pericoli legati all’ambiente circostante (traffico, linee aeree elettriche, impianti industriali, ecc.) e le condotte interrate (gas, acqua e corrente elettrica) devono essere accertati prima di iniziare i lavori. Inoltre, bisogna mettere a disposizione attrezzature di lavoro, macchinari e apparecchi adeguati.

Nelle regole vitali vengono date ulteriori informazioni sulla presenza di linee aeree elettriche, ferrovie e vie di traffico nelle zone circostanti il cantiere, sulla presenza di condotte di servizio interrate e sulle attrezzature, macchinari e apparecchi necessari.

Veniamo invece, per concludere, al dettaglio della terza regola: vedere ed essere visto.

Bisogna fare in modo che tutti i lavoratori abbiano indumenti ad alta visibilità adeguati.

In particolare gli indumenti ad alta visibilità servono a rendere riconoscibili le persone in condizioni di scarsa luminosità. Sono necessari soprattutto nelle vicinanze di macchine edili e fondamentali in condizioni di scarsa visibilità o in caso di buio.

E anche un indumento leggero deve possedere queste caratteristiche. Questi indumenti devono essere sempre indossati, anche quando fa caldo. Senza dimenticare che indumenti sporchi non sono più efficaci, e che pertanto vanno lavati regolarmente.

Il documento si sofferma anche sull’illuminazione dei posti di lavoro. Infatti i posti di lavoro devono essere correttamente illuminati (ricordarsi: vedere ed essere visti!).

Il documento di SUVA “Nove regole vitali per chi lavora sulle vie di traffico e nel genio civile” edizione agosto 2015 è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151002_SUVA_vademecum_stradale.pdf

 

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ESPOSIZIONE E RISCHIO AMIANTO: PROBLEMI NORMATIVI E ANALITICI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

30 novembre 2015

 

Indicazioni sull’esposizione ad amianto, sulle criticità normative e sulle difficoltà e problemi nelle analisi dei materiali.

La relazione richiesta dalla Legge 257/92 e i limiti di rilevabilità delle fibre di amianto.

 

La presenza diffusa di manufatti in cemento-amianto fa supporre che le esposizioni in campo edile possano costituire un reale rischio anche negli anni futuri. In particolare al momento della messa al bando le stime dei quantitativi dei Materiali Contenenti Amianto (MCA) in opera parlavano di circa 30 milioni di tonnellate di materiali compatti fuori terra e della presenza di circa 83.000 km di condotte per acquedotti e in misura minore gasdotti. E dai dati disponibili al ritmo attuale l’ultimo manufatto verrebbe rimosso tra circa 60 anni.

A presentare in questo modo la situazione dei materiali contenenti amianto in Italia è un estratto del rapporto ReNaM ( Registro Nazionale dei Mesoteliomi), in relazione al settore edile. Rapporto citato in un intervento che si è tenuto nel corso di formazione ASUR Marche e SNOP dal titolo “Asbesto, asbestosi e cancro: dal riconoscimento e controllo del rischio alla qualità della sorveglianza sanitaria degli esposti ed ex esposti” (1 ottobre 2015, Civitanova Marche).

 

L’intervento “Attualità dell’esposizione ad amianto” a cura di Stefano Silvestri (Istituto per lo Studio e la Prevenzione Oncologica Firenze), oltre a citare il rapporto ReNaM, affronta diversi aspetti del rischio amianto (livelli di esposizione, normativa, azioni di censimento, stime degli esposti, efficacia delle misure di prevenzione attuate in passato, ecc.).

Ad esempio il relatore si sofferma ampiamente sulla Legge 27 marzo 1992, n. 257 recante “Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”, entrata in vigore il 28 aprile 1992.

 

E in particolare sulla relazione indicata all’articolo 9 (Controllo sulle dispersioni causate dai processi di lavorazione e sulle operazioni dismaltimento e bonifica) che dispone:

“1. Le imprese che utilizzano amianto, direttamente o indirettamente, nei processi produttivi, o che svolgono attività di smaltimento o di bonifica dell’amianto, inviano annualmente alle regioni, alle province autonome di Trento e di Bolzano e alle unità sanitarie locali nel cui ambito di competenza sono situati gli stabilimenti o si svolgono le attività dell’impresa, una relazione che indichi:

  1. a) i tipi e i quantitativi di amianto utilizzati e dei rifiuti di amianto che sono oggetto dell’attività di smaltimento o di bonifica;
  2. b) le attività svolte, i procedimenti applicati, il numero e i dati anagrafici degli addetti, il carattere e la durata delle loro attività e le esposizioni dell’amianto alle quali sono stati sottoposti;
  3. c) le caratteristiche degli eventuali prodotti contenenti amianto;
  4. d) le misure adottate o in via di adozione ai fini della tutela della salute dei lavoratori e della tutela dell’ambiente.
  5. Le unità sanitarie locali vigilano sul rispetto dei limiti di concentrazione di cui all’articolo 3, comma 1, e predispongono relazioni annuali sulle condizioni dei lavoratori esposti, che trasmettono alle competenti regioni e province autonome di Trento e di Bolzano ed al Ministero della sanità.
  6. Nella prima attuazione della presente legge la relazione di cui al comma 1 deve riferirsi anche alle attività dell’impresa svolte nell’ultimo quinquennio ed essere articolata per ciascun anno”.

L’intervento si sofferma anche sulla lettura e interpretazione del contenuto dell’articolo 9 della Legge 257/92, ad esempio con riferimento a quanto indicato dall’Ufficio Legislativo del Ministero della Salute.

Un’altro intervento al corso che si è soffermato sugli aspetti normativi si intitola “Igiene industriale e amianto oggi: problemi e criticità nelle analisi dei materiali e nelle misure di esposizione” ed è a cura di Cavariani della ASL di Viterbo.

Riportiamo alcune indicazioni relative al quadro normativo, un quadro che è caratterizzato dall’esistenza di fatto di un regime parallelo dovuto alla presenza contemporanea di norme comunitarie e nazionali (non sempre compatibili).

In particolare le norme sull’amianto trattano in modo abbastanza esauriente, anche per la parte analitica:

  • esposizione professionale ad amianto;
  • cessazione dell’impiego di amianto;
  • limiti per scarichi in ambiente;
  • omologazione e/o classificazione di materiali fibrosi sostitutivi dell’amianto;
  • idoneità dei laboratori pubblici e privati per l’esecuzione di analisi di amianto;
  • gestione dei rifiuti di amianto: classificazione, collocazione in discarica, recupero.

Mentre su altre questioni la normativa non è ancora perfettamente esauriente e permangono pertanto problemi di valutazione del rischio per assenza di adeguati standard e procedure:

  • gestione cemento-amianto sia coperture, sia a contatto con acqua potabile (tubazioni, serbatoi);
  • qualità dell’aria (valori limiti ambiente);
  • definizione delle esposizioni sporadiche e a debole intensità (ESEDI);
  • gestione dei siti contaminati (naturali e non);
  • definizione di procedure e metodi analitici vari.

E ci sono anche carenze in relazione ai limiti di esposizione professionale a fibre minerali artificiali: fibre ceramiche refrattarie (classificate cancerogene) e vetrose.

Un altro problema su cui si sofferma la relazione è quello tecnico, con riferimento alle problematiche analitiche dei limiti intrinseci di rilevabilità delle fibre di amianto.

Infatti la prima difficoltà è intrinseca ed è dovuta al fatto che l’amianto è propriamente definito solo attraverso la contemporanea determinazione della sua triplice natura di silicato, cristallo e fibra. Nella determinazione dell’amianto è indispensabile determinarne la chimica, la mineralogia, la morfologia.

Inoltre la criticità della natura fibrosa come causa degli effetti dannosi si è manifestata dai numerosi studi clinici ed epidemiologici e ha portato i medici del lavoro a basare la valutazione di rischio di esposizione a fibre secondo il loro numero e la dimensione.

 

Tuttavia per le dimensioni delle fibre non vi sono modelli di respirabilità come per le polveri tali da mettere a punto dispositivi per la selezione aerodinamica (ad esempio cicloni o simili) già in fase di campionamento. Per le fibre si utilizza un criterio puramente geometrico che il microscopista applicherà ad ogni fibra.

Si segnala poi che non in tutte le circostanze le norme prevedono di contare le fibre, ma a seconda della matrice (e del contesto normativo) si devono adottare metodiche analitiche diverse (nell’intervento sono indicate diverse metodologie).

E per ottenere campioni finali leggibili allo strumento (ad esempio microscopio o diffrattometro), è necessario ridurli in polvere il che comporta la macinazione del campione di partenza. Macinare significa alterare il parametro “liberabilità” delle fibre e le loro dimensioni, inoltre lo stress da macinazione influenza fortemente la risposta strumentale.

Il problema analitico è pertanto complesso e, anche il legislatore nell’introduzione ai metodi analitici dell’Allegato I del D.M.06/09/94 indica che a tutt’oggi non è stata data una soluzione soddisfacente.

Tuttavia in particolari condizioni e per determinati intervalli di significatività (che non necessariamente coincidono con gli intervalli di applicazione delle norme) le analisi possono essere effettuate e possono essere forniti dati riproducibili. Con queste premesse è possibile affrontare il panorama delle determinazioni analitiche più importanti per amianto (e fibre minerali) e i relativi limiti.

Il documento “Attualità dell’esposizione ad amianto” a cura di Stefano Silvestri (Istituto per lo Studio e la Prevenzione Oncologica Firenze) è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151116_amianto_attualita_esposizione.pdf

 

Il documento “Igiene industriale e amianto oggi: problemi e criticità nelle analisi dei materiali e nelle misure di esposizione” a cura di Cavariani (ASL Viterbo) è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151116_amianto_analisi_esposizione.pdf

 

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RADIAZIONI OTTICHE ARTIFICIALI: COSA DEVONO FARE LE AZIENDE?

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

04 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Un intervento riporta alcuni concetti base delle radiazioni ottiche e indica cosa devono fare le aziende se sono presenti sorgenti di ROA.

In quali casi si può ritenere giustificato il non procedere ad una valutazione dettagliata?

 

Non è mai facile parlare delle radiazioni elettromagnetiche e dei rischi correlati per i lavoratori esposti. E’ un tema tecnico, che presuppone alcune conoscenze di base per poter comprendere, ad esempio, le differenze tra le tipologie di radiazioni e i possibili effetti sulla salute dei lavoratori.

Per questo motivo ci soffermiamo oggi sui concetti base relativi a quelle particolari radiazioni elettromagnetiche che chiamiamo “Radiazioni Ottiche Artificiali” (ROA). E lo facciamo attraverso il contenuto di un intervento che si è tenuto al seminario “Campi elettromagnetici negli ambienti di lavoro”, promosso da Assoservizi e Unindustria Rimini, in collaborazione con Elettroprogetti (19 Maggio 2015, Rimini).

 

L’intervento “Radiazioni Ottiche Artificiali”, a cura dello Studio Tecnico Elettroprogetti, riporta infatti alcuni concetti base che possono essere utili alle aziende per sapere come comportarsi con le sorgenti di ROA.

L’intervento ricorda innanzitutto che per radiazioni ottiche si intendono tutte le radiazioni elettromagnetiche nella gamma di lunghezza d’onda compresa tra 100 nm (nanometri) e 1 mm e lo spettro delle radiazioni ottiche si suddivide in radiazioni ultraviolette, radiazioni visibili e radiazioni infrarosse:

  • radiazioni ultraviolette: radiazioni ottiche di lunghezza d’onda compresa tra 100 e 400 nm; la banda degli ultravioletti è suddivisa in UVA (315-400 nm), UVB (280-315 nm) e UVC (100-280 nm);
  • radiazioni visibili: radiazioni ottiche di lunghezza d’onda compresa tra 380 e 780 nm;
  • radiazioni infrarosse: radiazioni ottiche di lunghezza d’onda compresa tra 780 nm e 1 mm; la regione degli infrarossi è suddivisa in IRA (780-1.400 nm), IRB (1.400-3.000 nm) e IRC (3000 nm-1 mm).

Inoltre le sorgenti di radiazioni ottiche sono classificate in coerenti e non coerenti.

Le prime emettono radiazioni in fase fra di loro (i minimi e i massimi delle radiazioni coincidono), e sono generate da laser, mentre le seconde emettono radiazioni sfasate e sono generate da tutte le altre sorgenti non laser e dal sole.

Inoltre tutte le radiazioni ottiche non generate dal sole (radiazioni ottiche naturali) sono di origine artificiale, cioè sono generate artificialmente da apparati.

L’intervento si sofferma ampiamente sui principali effetti dannosi per la salute del lavoratore della radiazione ottica.

Ad esempio riguardo ai principali effetti dannosi sull’occhio e la pelle si indica che la tipologia di effetti associati all’esposizione a ROA dipende dalla lunghezza d’onda della radiazione incidente, mentre dall’intensità dipendono sia la possibilità che questi effetti si verifichino che la loro gravità.

Nelle slide dell’intervento è presente una tabella contenente i possibili effetti dannosi in relazione alla lunghezza d’onda.

E oltre ai rischi per la salute dovuti all’esposizione diretta alle radiazioni ottiche artificiali esistono ulteriori rischi indiretti da prendere in esame quali:

  • sovraesposizione a luce visibile: disturbi temporanei visivi, quali abbagliamento, accecamento temporaneo;
  • rischi di incendio e di esplosione innescati dalle sorgenti stesse e/o dal fascio di radiazione;
  • ulteriori rischi associati alle apparecchiature/lavorazioni che utilizzano ROA quali stress termico, contatti con superfici calde, rischi di natura elettrica, di esplosioni od incendi come nel caso di impiego di laser di elevata potenza.

E la qualità degli effetti, la loro gravità, o la probabilità che alcuni di essi si verifichino dipendono dalla esposizione radiante, dalla lunghezza d’onda della radiazione e, per quanto riguarda alcuni effetti sulla pelle, dalla fotosensibilità individuale che è una caratteristica geneticamente determinata.

Il documento si sofferma nel dettaglio dei possibili effetti sugli occhi.

Veniamo ora agli aspetti normativi e alla valutazione dei rischi.

L’intervento segnala il Titolo VIII (Agenti Fisici), Capo V (Protezione dei lavoratori dai rischi di esposizione a radiazioni ottiche artificiali) del Decreto Legislativo 9 Aprile 2008 n. 81 e i vari articoli presenti (articolo da 213 a218).

 

Vengono ricordate anche alcune grandezze fisiche e unità di misura:

  • irradianza (E) o densità: la potenza radiante incidente per unità di area su una superficie espressa in W/m2;
  • esposizione radiante (H): integrale nel tempo dell’irradianza espressa in J/m2;
  • radianza (L): il flusso radiante o la potenza per unità di angolo solido per unità di superficie;
  • livello: la combinazione di irradianza, esposizione radiante e radianza alle quali è esposto un lavoratore.

L’intervento si sofferma poi sullo spettro di una sorgente (la radiazione ottica artificiale è sempre prodotta da una sorgente e le sorgenti possono avere uno spettro di emissione diverso) e sui limiti di esposizione. Il rispetto dei limiti di esposizione garantisce i lavoratori esposti a ROA dagli effetti nocivi sugli occhi e sulla cute.

Si segnala che in data 26 aprile 2010 è entrato in vigore il Capo V del titolo VIII del D.Lgs.81/08 sulla protezione dei lavoratori dai rischi fisici associati all’esposizione alle Radiazioni Ottiche Artificiali (ROA).

Ma quali sono i rischi per la salute e la sicurezza che si vogliono prevenire?

In generale i rischi che il legislatore intende prevenire sono quelli per la salute e la sicurezza che possono derivare dall’esposizione o dal loro impiego durante il lavoro, con particolare riguardo agli effetti nocivi sugli occhi e sulla cute, inoltre non bisogna dimenticare il rischio di incendio e di esplosione, stress termico, contatti con superfici calde, rischi di natura elettrica.

Dato poi che l’articolo 28 del Testo Unico impone la valutazione di “tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori” si comprende dunque come il Datore di lavoro debba intervenire in azienda per verificare la necessità o meno di svolgere studi approfonditi.

In particolare cosa deve fare l’azienda?

Innanzitutto è necessario fare il censimento delle sorgenti di emissione.

Nelle slide dell’intervento sono indicati vari esempi di radiazioni ottiche artificiali nelle attività lavorative.

Inoltre è necessario verificare la disponibilità in azienda di:

  • dati forniti dai fabbricanti;
  • documenti tecnici/dati di letteratura che trattano analoghe sorgenti;
  • norme tecniche specifiche riguardanti la classificazione delle sorgenti.

 

E si deve passare poi alla identificazione delle modalità espositive:

  • le modalità di impiego (ad esempio ciclo chiuso);
  • i locali in cui sono adoperati;
  • i tempi di esposizione dei lavoratori.

E in quali casi si può ritenere giustificato il non procedere a una valutazione dettagliata (che non significa non fare la valutazione).

Il relatore indica che costituisce esperienza condivisa che talune sorgenti di radiazioni ottiche, nelle corrette condizioni di impiego, non danno luogo ad esposizioni tali da presentare rischi per la salute e la sicurezza; in questi casi è giustificato non dover procedere a una valutazione del rischio più dettagliata. Sono giustificabili tutte le apparecchiature che emettono radiazione ottica non coerente classificate nella categoria 0 secondo lo standard UNI EN 12198:2009 così come le lampade anche a led classificate nel gruppo “Esente” dalla norma CEI EN 62471:2009 (esempi di sorgenti di gruppo esente sono l’illuminazione standard per uso domestico e di ufficio, i monitor dei computer, i display, le fotocopiatrici, le lampade e i cartelli di segnalazione luminosa); tutte la sorgenti laser classificate nelle classi 1 e 2 secondo Io standard IEC 60825.

E per le sorgenti di ROA classificate come “giustificabili” non è necessario effettuare la valutazione del rischio, ma è obbligatoria la redazione del documento che attesti il censimento e la classificazione delle stesse.

E in quali casi si deve procedere ad una valutazione dettagliata?

Il relatore indica che l’approfondimento della valutazione del rischio dovrà essere comunque realizzato nei seguenti casi:

  • laser di categoria 1M, 2M 3R, 3B e 4 (nella nuova classificazione) o nelle classi 3A, 3B e 4 nella vecchia classificazione;
  • saldatura elettrica ad arco;
  • utilizzo di plasma per il taglio e la saldatura;
  • lampade germicide;
  • sistemi LED per fototerapia;
  • lampade abbronzanti;
  • lampade ad alogenuri metallici;
  • corpi incandescenti (metalli o vetro liquido);
  • apparecchi con sorgenti IPL per uso medico od estetico.

E quando è necessario attivare la sorveglianza sanitaria?

Sicuramente per quei lavoratori che sulla base della valutazione del rischio, debbano indossare DPI degli occhi o della pelle in quanto potrebbero risultare esposti a livelli superiori ai valori limite.

Concludiamo ricapitolando i passi da seguire indicati nella relazione:

  • censire le proprie attrezzature identificando quelle che possono emettere ROA;
  • se presenti, recuperare la documentazione del costruttore;
  • nel caso siano sorgenti ROA giustificabili non e’ necessario eseguire una valutazione di dettaglio, ma andrà comunque integrato il documento di valutazione dei rischi, per cui assieme al consulente si provvederà ad aggiornare celermente la documentazione essendo un adempimento già in vigore (26 aprile 2010);
  • nel caso siano sorgenti ROA non giustificabili è quindi necessario procedere a una valutazione di dettaglio, forse di tipo strumentale; in tal caso si suggerisce una riunione ad hoc con il consulente per valutare i passi da seguire sempre considerato il fatto che parliamo di un adempimento già in vigore.

Il documento “Radiazioni Ottiche Artificiali”, a cura dello Studio tecnico Associato Elettroprogetti è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/150526_CEM_concetti_base_ROA.pdf

 

 

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.236 DEL 07/12/15 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.235 DEL 02/12/15

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.235 DEL 02/12/15

 

INDICE

  • I pareri della Commissione degli Interpelli – n.3
  • Lo sfruttamento sul posto di lavoro peggiora vita e salute
  • Mobbing: il danno esistenziale va risarcito solo se è provato il peggioramento di vita del lavoratore
  • Presente e futuro della normativa: Jobs Act, Accordi RSPP e SINP
  • Lgs.151/15: i compiti di primo soccorso e prevenzione incendi
  • Il fumo passivo negli ambienti di lavoro

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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I PARERI DELLA COMMISSIONE DEGLI INTERPELLI – N.3

 

L’articolo 12 del D.Lgs.81/08 (Testo Unico sulla sicurezza) ha previsto la costituzione della Commissione degli Interpelli, composta da rappresentanti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del Ministero della salute, della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome con lo scopo di rispondere a “quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro” posti da Organismi associativi, Enti pubblici, Organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, Consigli nazionali degli ordini.

La Commissione degli Interpelli è stata effettivamente costituita con Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 28 settembre 2011.

Secondo il comma 3 dell’articolo 12 del D.Lgs.81/08 “Le indicazioni fornite nelle risposte ai quesiti di cui al comma 1 [quelli posti alla Commissione] costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza”.

Riporto pertanto in una nuova rubrica della mia newsletter tali pareri con il link per scaricare il testo completo del quesito e del parere della Commissione.

Marco Spezia

 

 

OBBLIGO VISITA MEDICA PREVENTIVA PER STAGISTA MINORENNE

Interpello in materia di sicurezza n.1 del 2 maggio 2013

 

RICHIEDENTE

Federcasse e Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro

 

QUESITO

L’interpello è relativo alla corretta interpretazione della norma di cui all’articolo 41 del D.Lgs.81/08, con particolare riferimento all’obbligo di effettuare la visita medica preventiva nei confronti dei soggetti minori di età, i quali, in veste di partecipanti ai corsi di istruzione/formazione scolastica (stage), siano coinvolti in momenti di alternanza scuola/lavoro ovvero effettuino un periodo di tirocinio formativo e di orientamento presso le aziende.

In particolare l’interpello pone i seguenti quesiti alla Commissione:

  • se una banca che impegni in stage o tirocini formativi, i soggetti minori di età sia tenuta a sottoporre tali soggetti a visita medica preventiva ai sensi dell’articolo 41 del D.Lgs.81/08;
  • se agli allievi che seguono corsi di formazione professionale nei quali si fa uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici e fisici, ivi comprese le apparecchiature fornite di videoterminali (dato che ai sensi dell’articolo 2 comma 1, lettera a), del D.Lgs.81/08, limitatamente ai periodi in cui gli allievi sono effettivamente applicati alla strumentazione o ai laboratori in questione, essi sono equiparati ai lavoratori) sia applicabile la normativa sul lavoro minorile (Legge 977/67) in particolar modo l’articolo 8;
  • se, anche alla luce del D.Lgs.81/08, lo stagista minorenne deve essere sottoposto a visita medica preventiva, premesso che ai sensi e per gli effetti della Legge 977/67, lo studente minorenne di un istituto scolastico in nessun caso acquista la qualifica giuridica di “lavoratore minore”, tanto è che nel campo di applicazione di tale normativa rientrano esclusivamente “i minori di diciotto anni che hanno un contratto o un rapporto di lavoro, anche speciale, disciplinato dalle norme vigenti”; contemplandosi, quindi, tutti i rapporti di lavoro, anche di natura autonoma, inclusi quelli speciali dell’apprendistato, il lavoro a domicilio, ecc., ma non i rapporti didattici che coinvolgono gli studenti quand’anche partecipanti a stage formativi presso imprese terze rispetto all’Istituto scolastico.

 

CHIARIMENTO

Riguardo agli interpelli posti la Commissione ha ritenuto formulare un’unica risposta in considerazione della circostanza che le questioni poste hanno caratteristiche analoghe.

Lo stage, o tirocinio formativo e di orientamento, rappresenta una forma d’inserimento temporaneo all’interno dell’azienda, non costituente rapporto di lavoro, finalizzato a consentire ai soggetti coinvolti di conoscere e di sperimentare in modo concreto il mondo del lavoro, attraverso una formazione e un addestramento pratico direttamente in azienda.

Il rapporto, regolato da un’apposita convenzione, coinvolge tre soggetti:

  • il soggetto promotore che procede all’attivazione dello stage;
  • il tirocinante che, di fatto, è il soggetto beneficiario dell’esperienza di stage;
  • azienda ospitante.

La Legge 977/67 si applica ai minori di 18 anni che hanno un contratto o un rapporto di lavoro, anche speciale (come ad esempio, l’apprendistato e il lavoro a domicilio).

Ai sensi dell’articolo 8 della Legge 977/67, gli adolescenti possono essere ammessi al lavoro a condizione che venga riconosciuta, mediante una visita medica preassuntiva, l’idoneità degli stessi all’attività lavorativa cui saranno adibiti. Tale idoneità deve essere accertata, in seguito, con visite periodiche da effettuare almeno una volta l’anno. I minori che sono inidonei a un determinato lavoro non possono esser ulteriormente adibiti allo stesso.

Ai sensi dell’articolo 2 del D.Lgs.81/08, i soggetti beneficiari delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento, nonché gli allievi degli istituti di istruzione e universitari e i partecipanti ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi comprese le apparecchiature fornite di videoterminali limitatamente ai periodi in cui l’allievo sia effettivamente applicato alla strumentazioni o ai laboratori in questione, sono equiparati ai lavoratori ai fini e agli effetti delle disposizioni di cui al D.Lgs.81/08.

L’equiparazione fatta dall’articolo 2 del D.Lgs.81/08, tra i soggetti anzidetti e i lavoratori che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolgono un’attività lavorativa, ha valenza solo e unicamente per le misure di salute e sicurezza previste dal D.Lgs.81/08, misure che devono pertanto essere attuate anche nei confronti di coloro che sono equiparati ai lavoratori.

Al riguardo si osserva che, a norma dell’articolo 41 del D.Lgs.81/08, l’obbligo di attivazione della sorveglianza sanitaria sussiste, nei casi previsti dalla normativa vigente, anche nei riguardi dei soggetti equiparati ai lavoratori quali i tirocinanti, di cui all’articolo 18 della Legge 196/97, gli allievi degli istituti di istruzione e universitari e i partecipanti ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi comprese le apparecchiature fornite di videoterminali limitatamente ai periodi in cui l’allievo sia effettivamente applicato alla strumentazioni o ai laboratori in questione.

Da quanto richiamato si evince che l’obbligatorietà della visita di cui all’articolo 8 della legge 977/67 vige solo nei casi in cui vi sia un rapporto di lavoro, anche speciale, circostanza che non sussiste per “l’adolescente stagista” e “lo studente minorenne” che dovranno pertanto essere sottoposti a sorveglianza sanitaria solo nei casi previsti dalla normativa vigente.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.1 del 2 maggio 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.01.pdf

 

 

REQUISITI PROFESSIONALI DEL COORDINATORE PER LA PROGETTAZIONE E PER L’ESECUZIONE DEI LAVORI

Interpello in materia di sicurezza n.2 del 2 maggio 2013

 

RICHIEDENTE

Consiglio Nazionale degli Ingegneri

 

QUESITO

Il Consiglio Nazionale degli Ingegneri ha avanzato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito alla documentazione che il coordinatore per la progettazione o l’esecuzione dei lavori deve possedere per comprovare il periodo di attività lavorativa nel settore delle costruzioni, ai sensi dell’articolo 98, comma 1, lettere a), b) e c) del D.Lgs.81/08.

In particolare l’interpellante ha prodotto un elenco esemplificativo e non esaustivo delle attività svolte con riferimento a cantieri temporanei o mobili, come definiti dall’articolo 89, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08, atte a integrare il requisito in questione.

L’elenco è il seguente:

  • attività di direttore di cantiere;
  • attività di capo cantiere;
  • attività di capo squadra;
  • attività di direttore dei lavori;
  • attività di direttore operativo di cantiere;
  • attività di assistente ai soggetti di cui ai punti precedenti con mansioni che comportino precipuamente la frequentazione del cantiere;
  • attività di responsabile d’azienda per la sicurezza in lavorazioni di cantiere anche specifiche;
  • attività di responsabile dei lavori;
  • attività di datore di lavoro di impresa operante nel settore delle costruzioni;
  • attività di progettazione nel settore delle costruzioni, in aggiunta ad altre attività di cui ai punti precedenti.

 

CHIARIMENTO

L’articolo 98, comma 1, lettere a), b) e c), del D.Lgs.81/08 definisce i requisiti professionali del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione dei lavori.

In particolare questi soggetti devono essere in possesso di una laurea magistrale o specialistica o di una laurea, conseguite in una delle classi indicate nel citato articolo 98, oppure di un diploma di geometra o perito industriale o perito agrario o agrotecnico, nonché documentare l’espletamento di attività lavorativa nel settore delle costruzioni.

Ai fini della individuazione delle attività lavorative, nel settore delle costruzioni, atte a soddisfare il requisito previsto dall’articolo 98, comma 1, si ritiene che tutte le attività indicate nell’elenco presentato dall’interpellante, pur non esaustivo, siano coerenti con le finalità normative.

Le attività svolte devono fare riferimento ai cantieri temporanei e mobili, cosi come definiti dell’articolo 89, comma 1, lettera a), del D.Lgs.81/08.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.2 del 2 maggio 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.02.pdf

 

 

OBBLIGO DI REDAZIONE DEL PSC E LAVORAZIONI URGENTI

Interpello in materia di sicurezza n.3 del 2 maggio 2013

 

RICHIEDENTE

Federazione delle Imprese Energetiche e Idriche

 

QUESITO

La Federazione delle Imprese Energetiche e Idriche ha chiesto alla Commissione di pronunciarsi riguardo alla corretta interpretazione dell’articolo 100, comma 6, del D.Lgs.81/08, laddove prevede che le disposizioni sul Piano di Sicurezza e Coordinamento (di seguito, PSC), ove previsto, “non si applicano ai lavori la cui esecuzione immediata è necessaria per prevenire incidenti imminenti o per organizzare urgenti misure di salvataggio o per garantire la continuità in condizioni di emergenza nell’erogazione di servizi essenziali per la popolazione quali corrente elettrica, acqua, gas, reti di comunicazione”.

Al riguardo, la richiedente ha evidenziato che:

  • le aziende “multiutility” (aziende di servizi pubblici locali che operano nei settori dell’energia elettrica, del gas, dell’acqua e dei servizi funerari) che si occupano della erogazione di servizi “a rete” sul territorio, provvedono anche al pronto intervento per garantire la continuità nell’erogazione dei servizi e per garantire la sicurezza delle persone;
  • in territori anche ampi (si pensi ad una Provincia) a possibile che simili interventi siano anche migliaia in un anno;
  • i lavori di pronto intervento sono caratterizzati da una grande ripetitività consistendo spesso in attività di poche ore e di limitata entità (anche in termini di uomini-giorno);
  • a titolo esemplificativo, i lavori di pronto intervento sono relativi ai seguenti servizi: acqua potabile; acque reflue; gas (metano e GPL); teleriscaldamento; energia elettrica; telecomunicazioni; reti informatiche;
  • i suddetti lavori di pronto intervento tesi a garantire la continuità dei servizi essenziali per la popolazione si compongono di attività sequenziali quali: ricerca e individuazione del guasto; apertura e/o sezionamento tratto guasto; alimentazione di emergenza; accesso e scavo; riparazione e sostituzione del tratto di rete; ripristino normale configurazione di rete ripristino e collaudo di reti di comunicazione;
  • in relazione a tali lavori le aziende “multiutility” sono solite predisporre singole procedure operative per ogni tipologia di lavori, che comprendono la redazione di PSC per ogni singola tipologia di attività, e applicano tutte le disposizioni di cui al Titolo IV del D.Lgs.81/08 (quali, ad esempio, quelle relative alla notifica preliminare di cui all’articolo 99 e alla verifica della redazione del Piano Operativo di Sicurezza di cui all’articolo 89, comma 1, lettera h) da parte dei datori di lavoro delle imprese affidatarie ed esecutrici).

 

CHIARIMENTO

Al riguardo, va evidenziato che l’articolo 100, comma 6 del D.Lgs.81/08 dispone che: “Le disposizioni del presente articolo non si applicano ai lavori la cui esecuzione immediata è necessaria per prevenire incidenti imminenti o per organizzare urgenti misure di salvataggio o per garantire la continuità in condizioni di emergenza dell’erogazione dei servizi pubblici essenziali per la popolazione quali corrente elettrica, gas, reti di comunicazione”.

Tale disposizione è quella risultante all’esito della modifica introdotta dal D.Lgs.106/09, in ordine alla quale, in sede di Relazione illustrativa del provvedimento è dato leggere quanto segue: “L’articolo 100 viene modificato in modo che non sia necessaria la redazione del Piano di Sicurezza e Coordinamento quando sia necessario garantire la continuità essenziali per la popolazione”.

La Commissione ritiene opportuno rimarcare come la previsione del comma 6 dell’articolo 100 del D.Lgs.n.81/08 si riferisca anche a ipotesi nelle quali è necessario contemperare tra loro esigenze di livello costituzionale, quali la tutela della salute e sicurezza sul lavoro e l’erogazione (o la continuità nella erogazione) di servizi pubblici essenziali per la popolazione.

In simili situazioni, il Legislatore ha ritenuto opportuno favorire la rapidità nello svolgimento dei lavori prevedendo che i medesimi lavori si possano svolgere anche senza la redazione di un PSC.

Ciò, beninteso, ferma restando la necessità di applicare, senza altre eccezioni, ogni altra disposizione del D.Lgs.81/08 in particolare, del Titolo IV, che regolamenta i lavori nei “cantieri temporanei e mobili” del medesimo Decreto.

In relazione a tale regolamentazione legislativa, la Commissione ritiene che i lavori necessari a garantire la continuità nell’erogazione di servizi essenziali per la popolazione (quali, ad esempio, quelli relativi alla erogazione di acqua, energia elettrica, gas o alla funzionalità delle reti informatiche) possano essere effettuati senza necessità di redazione del PSC a condizione che essi siano lavori necessari a fronteggiare una emergenza nella erogazione o comunque garantire la continuità della erogazione dei servizi essenziali per la popolazione, la cui interruzione determina in ogni caso l’insorgere di un’emergenza. In questo senso l’articolo 100, comma 6 del predetto D.Lgs.81/08 prevede che il PSC possa non essere redatto per quei lavori la cui esecuzione immediata è necessaria per prevenire incidenti imminenti.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.3 del 2 maggio 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.03.pdf

 

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LO SFRUTTAMENTO SUL POSTO DI LAVORO PEGGIORA VITA E SALUTE

 

Da Cortocircuito

http://www.inventati.org/cortocircuito

 

LO SFRUTTAMENTO SUL POSTO DI LAVORO PEGGIORA VITA E SALUTE: UN INTERVENTO DEI DELEGATI FIOM AL CONGRESSO NAZIONALE DI MEDICINA DEMOCRATICA

 

Sono una delegata RSU e RLS in Piaggio, azienda con circa 3.000 dipendenti di cui 2.000 operai.

Insieme ad altri lavoratori e delegati (della RSU FIOM) provo a dare il mio contributo a una linea sindacale, nata in Piaggio a metà anni ‘90, di contrasto alle pretese aziendali, ma anche a quella pratica sindacale, che ha una maggioranza praticamente assoluta nelle dirigenze sindacali, e che ha contribuito fortemente al nostro indebolimento di operai.

Accordi che hanno accettato lavoro precario, aumento della produttività e flessibilità, sono stati passaggi determinanti che hanno peggiorato notevolmente la nostra vita e la nostra salute, e segnato un distacco tra sindacato e lavoratori.

 

Spesso, anche all’interno della CGIL ci accusano di non firmare gli accordi.

Sì in questi anni non abbiamo firmato questi tipi di accordi e lo rivendichiamo, lo consideriamo l’unica cosa da fare per tenere aperta una prospettiva che porti verso accordi migliorativi, una resistenza necessaria da parte dei delegati di fabbrica che negli ultimi anni sono riusciti a metterla a tacere in tante realtà, spingendo queste forze essenziali nello scoraggiamento.

Pensiamo sia quindi utile tenere un rapporto di confronto e sostegno soprattutto con chi svolge tutti i giorni questa attività di resistenza e verità nei posti di lavoro per ristabilire una vera contrattazione tra padroni e lavoratori rispettando alcuni punti fermi consolidati dalle lotte di chi ci ha preceduto.

 

In questo senso diventa dirimente rendere veramente partecipi i lavoratori delle piattaforme rivendicative da presentare alla controparte e renderli protagonisti delle vertenze con la discussione e la lotta. Solo per questa via è possibile ritrovare un rapporto di forza più favorevole.

 

Oggi, invece il sindacato viene di fatto utilizzato, dalle aziende per ottenere, da un lato ammortizzatori sociali e licenziamenti mascherati e, dall’altro, aumento della flessibilità e della produttività. Questo fino a prima della crisi avveniva con uno scambio a perdere per il lavoratore, ora invece questi accordi si basano solamente sulla paura della perdita del lavoro.

Anche sugli aspetti specifici della sicurezza abbiamo imparato sulle nostre braccia che non possiamo affidarci a una legge, buona o cattiva che sia, perché un’azienda medio grande è in grado di organizzarsi e far apparire migliorata una situazione che migliorata non è.

 

Ad esempio sui rischi da movimenti ripetitivi in catena, di fronte alle nostre denuncie, la Piaggio ha pensato di mettersi al sicuro pagando dei consulenti che attraverso l’applicazione di un metodo riconosciuto, l’OCRA, sono riusciti a far diventare sicure, a costo 0, postazioni di lavoro senza interventi significativi.

Questo è stato possibile, nonostante l’alto numero di malattie professionali e di operai che hanno conseguito, per il lavoro che fanno, ridotte capacità lavorative, grazie al fatto che queste valutazioni non sono verificabili da noi e spesso gli organi di sorveglianza si accontentano di una valutazione del rischio solamente formale senza andare a fondo dei problemi.

 

Anche il metodo per la valutazione dello stress-termico, dopo una denuncia che facemmo alla USL, la USL inviò la denuncia alla Procura della Repubblica e la Procura della Repubblica incaricò un tecnico che impose all’azienda la valutazione del rischio caldo con un calcolo WGBT che non ha portato nessun risultato ai lavoratori che operano in reparti non climatizzati, anzi con questo sistema di calcolo l’azienda risulta in regola ed è stata anche premiata per buona prassi e i lavoratori continuano a lavorare in reparti dove la temperatura in estate supera anche 40° in alcune ore giornaliere.

 

Ci chiediamo spesso a chi sono utili questi metodi utilizzati da alcune aziende per le valutazioni dei rischi? Se in questi anni con una valutazione OCRA, o NIOSH o WBGT le condizioni di lavoro dei lavoratori sono peggiorate!

 

Per questo siamo convinti che il cambiamento possa ripartire solamente dai lavoratori e dalla loro ritrovata consapevolezza.

 

Adriana Tecce RLS e RSU FIOM

con la condivisione di:

Massimo Cappellini RSU FIOM

Massimiliano Malventi RSU FIOM

Rossella Porticati RSU FIOM

Giorgio Guezze RSU FIOM

Antonella Bellagamba Direttivo FIOM

 

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MOBBING: IL DANNO ESISTENZIALE VA RISARCITO SOLO SE È PROVATO IL PEGGIORAMENTO DI VITA DEL LAVORATORE

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

30 novembre 2015

di Lucia Izzo

 

Per la Cassazione, non basta l’isolamento, il demansionamento o la forzata inoperosità: deve provarsi l’alterazione dello stile di vita.

 

In caso di condotte persecutorie da parte del datore di lavoro (cosiddetto mobbing) il danno esistenziale al lavoratore non può essere liquidato laddove manchino concreti elementi indicativi di un peggioramento del suo stile di vita.

Il danno esistenziale, infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l’alterazione delle sue abitudini di vita.

 

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, nella sentenza n. 23837/2015 nel decidere una controversia in tema di “mobbing” e circa il risarcimento del cosiddetto danno esistenziale che, nel caso di specie, era stato prima riconosciuto dal giudice di prime cure e poi escluso dalla Corte d’Appello.

 

Palese la condotta “mobbizzante” posta in essere dal datore, per non aver il ricorrente avuto accesso ad alcun corso di qualificazione istituito per i dipendenti, restando così emarginato dal contesto della ristrutturazione e ammodernamento dell’azienda; a ciò si aggiungono le pretestuose iniziative disciplinari di cui il lavoratore è stato oggetto, oltre che le condotte di ferma resistenza alle pronunce giudiziali che ne imponevano il tangibile riconoscimento professionale.

 

Ciò non era bastato ai giudici per accogliere la pretesa attinente al danno cosiddetto esistenziale, stante la mancata allegazione e prova di episodi attestanti l’effettiva mutazione “in peius” del trend di vita.

Dello stesso avviso anche gli Ermellini: non è sufficiente la prova della dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità, dell’assegnazione a mansioni diverse e inferiori a quelle proprie, perché questi elementi integrano l’inadempimento del datore, ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita.

 

Il danno esistenziale, strettamente collegato alla persona, non è passabile di determinazione secondo il sistema tabellare come avviene per il danno biologico, in cui si manifesta l’uniformità dei criteri medico legali applicabili in relazione alla lesione dell’indennità psicofisica.

 

D’altronde, non può escludersi che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, cioè non provochi alcuna conseguenza pregiudizievole nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva.

In pratica, pur esistendo l’inadempimento, non necessariamente emergerebbe un pregiudizio, quindi non vi sarebbe nulla da risarcire.

 

Mancando, nel caso di specie, la necessaria prova della sussistenza del danno cosiddetto esistenziale, il ricorso no può essere accolto.

 

La Sentenza numero 23837/2015 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro è scaricabile (previa registrazione gratuita) all’indirizzo:

http://www.studiocataldi.it/visualizza_allegati_news.asp?id_notizia=20141

 

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PRESENTE E FUTURO DELLA NORMATIVA: JOBS ACT, ACCORDI RSPP E SINP

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

20 novembre 2015

Di Tiziano Menduto

 

Indicazioni e anticipazioni sul presente e futuro della normativa a partire dalle conseguenze delle modifiche sul D.Lgs.81/08.

Ne parliamo con Cinzia Frascheri, Responsabile Nazionale CISL salute e sicurezza sul lavoro.

Le interviste che PuntoSicuro ha fatto in questi anni a Cinzia Frascheri, Responsabile Nazionale CISL di salute e sicurezza sul lavoro e di responsabilità sociale delle imprese, ci hanno sempre permesso di avere informazioni non solo sulle normative in attesa di approvazione, ma anche sui temi in materia di salute e sicurezza in via di discussione nella Commissione Consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro.

Il problema è che la Commissione Consultiva sta affrontando con difficoltà le novità delle modifiche apportate al D.Lgs.81/08 dal D.Lgs.151/15 attuativo del Jobs Act.

Per questo motivo nella nuova intervista a Cinzia Frascheri (raccolta il 15 ottobre scorso durante la 16a edizione della manifestazione “Ambiente Lavoro” che si è tenuta a Bologna) partiamo proprio dalle difficoltà della Commissione.

 

Cosa sta accadendo in Commissione Consultiva Permanente? Le modifiche del D.Lgs. 151/2015 che conseguenza hanno sulle attività attuali della Commissione?

Ricordiamo, a questo proposito, che il 4 novembre scorso si è tenuta una nuova riunione della Commissione Consultiva. Nella riunione si è deciso con il Ministero del Lavoro di andare avanti con il lavori, i compiti della Commissione finché sarà emanato il Decreto richiesto dal comma 5 dell’articolo 6 del Testo Unico, come modificato dal D.Lgs.151/15.

Non potevamo poi non arrivare a parlare delle deleghe in materia di semplificazioni del Jobs Act: di quella “montagna” di anticipazioni e intenti che sembra, in realtà, aver “partorito un topolino”…

Quali sono gli effetti del D.Lgs.151/15 e delle nuove modifiche al Testo Unico?

Parlando poi delle deleghe del Jobs Act, non si può non fare cenno anche al D.Lgs.81/15 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”. Il D.Lgs.81/15 ha o meno un impatto sul mondo della salute e sicurezza sul lavoro?

Secondo Cinzia Frascheri è importante leggere il D.Lgs.81/15 anche sotto l’ottica della salute e sicurezza perché pur trattando di contratti di lavoro e di mansioni ha tutte una serie di ricadute sugli aspetti che attengono alla salute e sicurezza di non poco conto. E’ importante che si legga tra le righe del D.Lgs.81/15 per comprendere quali sono anche i punti di caduta e i maggior rischi che si potrebbero venire a creare con la sua applicazione.

 

Non può mancare una domanda sul tema delle competenze in materia di salute e sicurezza. Quale saranno il futuro e le conseguenze della riforma costituzionale e della cosiddetta “Agenzia unica per le ispezioni”?

E’ atteso, da diversi anni, Decreto per il (Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione (SINP)? Che fine ha fatto il Decreto che dovrebbe rendere operativo il SINP? C’è la possibilità che venga reso operativo una sorta di SINP ridotto?

Infine abbiamo chiesto qualche anticipazione sui testi e le normative sul tavolo della Commissione.

Di cosa si deve parlare in Commissione? Quali sono le possibili normative che potrebbero diventare entrare in vigore nel prossimo futuro?

 

In particolare Cinzia Frascheri si sofferma nelle sue risposte sulla revisione degli Accordi sulla formazione degli RSPP e ASPP del 26 gennaio 2006 e sui testi relativi alla regolamentazione della sorveglianza sanitaria relativa alla assunzione di alcol e droga.

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

CERCHIAMO DI CAPIRE COSA STA ACCADENDO IN COMMISSIONE CONSULTIVA PERMANENTE. MI PARE CHE LE ATTIVITA’ DELLA COMMISSIONE STIANO RISCHIANDO DI FERMARSI…

Prima delle modifiche al Decreto 81, che hanno coinvolto l’articolo 6 che riguarda la Commissione Consultiva, noi eravamo arrivati ad aver varato finalmente il regolamento interno e si era pronti per partire con i Comitati tecnici per affrontare i vari temi. A questo punto è intervenuto il Decreto 151/15. Una delle modifiche riguarda la composizione della Commissione Consultiva Permanente. Composizione, non gli obiettivi.

Potrebbe sembrare un aspetto di poco conto per chi sul territorio opera, ma non è così secondario perché nell’ambito della Commissione Consultiva Permanente andare a modificare l’assetto incide sulla riduzione dei numeri dei componenti. La Commissione Consultiva Permanente aveva effettivamente dei numeri pletorici. Ma questo nuovo assetto incide sulla perdita del cosiddetto tripartitismo perfetto, come indicato anche da una Direttiva Europea. Cosa è successo con la riduzione? Nella riduzione non ci sono più le tre compagini datoriali, sindacali e ministeri e istituzioni con le Regioni, ma si è inserito un quarto polo che non è neanche rappresentativo, perché diversi componenti sono esperti tecnici che nella Commissione Consultiva, seppur tratta di temi tecnici, non hanno quel ruolo di rappresentatività e rappresentanza che invece gli altri hanno.

PARLIAMO DELLE DELEGHE IN MATERIA DI SEMPLIFICAZIONI DEL JOBS ACT…COSA NE PENSA LA CISL DEL DECRETO 151/15?

Concentrandoci sul Decreto 151/15, noi non possiamo che essere contenti del fatto che gli interventi di semplificazione sono stati minimi sul piano della quantità e non hanno potuto essere dirompenti sugli assetti di tutela. D’altra parte gli interventi previsti non sono così leggeri, inefficaci su un piano più strutturale. Per questo motivo noi abbiamo fatto le nostre rimostranze, sia prima dell’approvazione del Decreto che dopo…

Anche se ora bisognerà operare ad assetto dato…

 

FACCIAMO UN BREVE COMMENTO SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE CHE ANDRA’ A RIPORTARE ALLO STATO LE COMPETENZE IN MATERIA DI SALUTE E SICUREZZA.

LEI HA SPESSO DIFESO IL RUOLO DELLE REGIONI IN QUESTA MATERIA.

E COSA NE PENSA DELLA COSIDDETTA AGENZIA UNICA PER LE ISPEZIONI?

Intanto va sottolineato che l’Agenzia comunque non coinvolge le ASL come soggetti. Questa Agenzia collaborerà con il sistema delle ASL.

Ormai è certo che, tra un anno o più tardi, ci sarà la modifica dell’articolo 117 della Costituzione. Modifica che andrà a togliere la materia concorrente della salute e sicurezza e a riportarla allo Stato.

Questo aspetto come CISL noi l’abbiamo considerato un passo indietro proprio perché si va necessariamente a perdere quella che è stata l’esperienza di questi anni. Abbiamo però al contempo sempre ribadito che a oggi il sistema delle Regioni non era più sostenibile. Un intervento era utile e necessario. Bisogna trovare un “fil rouge” che passi tra le due situazioni e che tenga conto e valorizzi la presenza sul territorio di esperienza e compenetrazione con il sistema produttivo, e al contempo che vada ad uniformare il tutto. A oggi le Regioni stanno rappresentando un campo di mille fiori e in questo modo è complicato poter avere uniche regole e sapere quale può essere la risposta degli organi di vigilanza su determinati tipi di prescrizioni.

CERCHIAMO DI SAPERE QUALCOSA SULL’ETERNO ATTESO SINP, IL SISTEMA INFORMATIVO NAZIONALE PER LA PREVENZIONE NEI LUOGHI DI LAVORO.

IN TEORIA UN DECRETO INTERMINISTERIALE DOVEVA ESSERE EMANATO SEI MESI DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DEL D.LGS.81/08.

SONO PASSATI SETTE ANNI…

Intanto vorrei puntualizzare che ancora oggi manca una strategia nazionale di prevenzione. Può sembrare qualcosa di lontano dall’immediatezza delle necessità, delle urgenze delle imprese, del lavoro, ma non è così. Avere una strategia nazionale di prevenzione servirebbe anche per avere un unico percorso di armonizzazione del lavoro che fanno le Regioni in confronto alle istituzioni e alle parti sociali.

Il SINP (questa banca dati che va a mettere in relazione tutta una serie di flussi informativi che provengono dalla ASL, dal sistema produttivo, da diverse fonti informative, creando un terreno fertile per le attività di prevenzione) era una delle novità più importanti del Decreto 81.

E per rimarcare ancor più il ritardo del SINP si può dire che non si hanno a oggi informazioni certe su quando uscirà.

A un convegno di Ambiente Lavoro organizzato dal sistema paritetico nazionale del settore artigiano, avevamo come relatore Giuseppe Monterastelli, che ricordo che oltre ad essere l’espressione della prevenzione in Emilia Romagna, oggi ha preso anche il ruolo di coordinatore, attraverso la Regione Emilia Romagna, del sistema di Coordinamento interregionale.

Monterastelli diceva che non si hanno segnali che il SINP verrà reso operativo, ma parlava di un SINP ridotto su cui però neanche lui ha voluto esprimersi.

C’è poi anche il problema che nelle modifiche si fa riferimento al registro degli infortuni, che in questo caso non è stato messo in collegamento con il SINP. Aspetto che nell’ambito dell’articolato è anche molto confuso nella sua espressione di dettato normativo.

VEDIAMO INFINE DI COMPRENDERE QUALI SONO I TESTI, GLI ACCORDI, LE NUOVE NORMATIVE CHE DOVREBBERO ESSERE DISCUSSE IN COMMISSIONE E CHE POTREBBERO USCIRE A BREVE.

Ad esempio sul tavolo della Commissione c’è il testo relativo alla formazione del RSPP, un testo che poi non andrà a riguardare la sola formazione di RSPP, ma che arriva a modificare anche l’Accordo del 21 dicembre 2011 relativo alla formazione.

Su questo testo come organizzazioni sindacali ci siamo mossi in maniera molto, molto critica. E’ un testo scritto, in realtà, in maniera non chiara, è un testo che va a modificare quello che stava cominciando a diventare consolidato in materia di formazione degli attori principali aziendali. Non sappiamo tuttavia se questo testo (anche nell’eventuale fase di stand-by della Commissione Consultiva) verrà portato avanti da parte del Coordinamento delle Regioni che sono i titolari del testo.

Un altro testo è quello che dovrebbe prendere il posto della regolamentazione che riguarda l’uso e abuso di sostanze psicotrope e stupefacenti e il consumo di alcol. Anche questo testo ha subito, da parte sindacale e datoriale, grosse critiche per come è stato scritto, per come maldestramente incide sulle altre normative.

Segnalo il fatto che abbiamo scritto congiuntamente (Confindustria, CGIL, CISL e UIL) una proposta articolata non solo per criticare, ma anche proporre un articolato autoconsistente e puntuale in grado di suggerire le possibili e concrete vie per intervenire in questo ambito, anche in relazione all’aumento straordinario dell’uso e abuso di sostanze stupefacenti e di alcol.

 

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D.LGS.151/15: I COMPITI DI PRIMO SOCCORSO E PREVENZIONE INCENDI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

24 novembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Una modifica al Testo Unico rende possibile lo svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di primo soccorso, nonché di prevenzione degli incendi e di evacuazione, anche nelle imprese o unità produttive che superano i cinque lavoratori.

 

Riprendiamo ad analizzare le modifiche che, in attuazione delle deleghe del “Jobs Act”, il D.Lgs.151/15 ha apportato al Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs.81/08).

 

Parliamo oggi di una delle modifiche di maggior peso in relazione alle deleghe per la semplificazione e razionalizzazione di procedure e adempimenti in materia di sicurezza e salute: la possibilità di svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di primo soccorso, nonché di prevenzione degli incendi e di evacuazione, anche nelle imprese o unità produttive che superano i cinque lavoratori.

Per parlarne riportiamo innanzitutto il testo dell’articolo 34 del D.Lgs. 81/08 prima delle modifiche del D.Lgs. 151/15, modifiche entrate in vigore lo scorso 24 settembre:

Articolo 34 – Svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di prevenzione e protezione dai rischi

  1. Salvo che nei casi di cui all’articolo 31, comma 6, il datore di lavoro può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché di prevenzione incendi e di evacuazione, nelle ipotesi previste nell’Allegato II dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza ed alle condizioni di cui ai commi successivi.

1- bis. Salvo che nei casi di cui all’articolo 31, comma 6, nelle imprese o unità produttive fino a cinque lavoratori il datore di lavoro può svolgere direttamente i compiti di primo soccorso, nonché di prevenzione degli incendi e di evacuazione, anche in caso di affidamento dell’incarico di responsabile del servizio di prevenzione e protezione a persone interne all’azienda o all’unità produttiva o a servizi esterni così come previsto all’articolo 31, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza ed alle condizioni di cui al comma 2-bis;

  1. Il datore di lavoro che intende svolgere i compiti di cui al comma 1, deve frequentare corsi di formazione, di durata minima di 16 ore e massima di 48 ore, adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative, nel rispetto dei contenuti e delle articolazioni definiti mediante Accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, entro il termine di dodici mesi dall’entrata in vigore del presente decreto legislativo. Fino alla pubblicazione dell’Accordo di cui al periodo precedente, conserva validità la formazione effettuata ai sensi dell’articolo 3 del decreto ministeriale 16 gennaio 1997, il cui contenuto è riconosciuto dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano in sede di definizione dell’Accordo di cui al periodo precedente.

2-bis. Il datore di lavoro che svolge direttamente i compiti di cui al comma 1-bis deve frequentare gli specifici corsi formazione previsti agli articoli 45 e 46.

 

L’articolo era stato già modificato in passato rispetto al testo originale del D.Lgs.81/08: il comma 1-bis e il comma 2-bis erano stato introdotti dal D.Lgs.106/09. Si indicava esplicitamente la possibilità per il datore di lavoro, nelle imprese o unità produttive fino a cinque lavoratori (e dunque non oltre questo limite), di svolgere direttamente i compiti di primo soccorso, nonché di prevenzione degli incendi e di evacuazione, anche in caso di affidamento dell’incarico di responsabile del servizio di prevenzione e protezione a persone interne all’azienda o all’unità produttiva o a servizi esterni.

Limite che ora viene superato con le modifiche operate con il punto g), del comma 1 dell’articolo 20 del D.Lgs. 151/2015:

Articolo 20 – Modificazioni al Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81

  1. Al Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81, sono apportate le seguenti modificazioni:

(…)

  1. g) all’articolo 34 sono apportate le seguenti modificazioni:

1) il comma 1-bis è abrogato;

2) al comma 2-bis le parole “di cui al comma 1-bis” sono sostituite dalle seguenti: “di primo soccorso nonché di prevenzione incendi e di evacuazione”;

(…)

Vediamo come risulta ora l’articolo 34 con le nuove modifiche:

Articolo 34 – Svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di prevenzione e protezione dai rischi

  1. Salvo che nei casi di cui all’articolo 31, comma 6, il datore di lavoro può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché di prevenzione incendi e di evacuazione, nelle ipotesi previste nell’Allegato II dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza ed alle condizioni di cui ai commi successivi.
  2. Il datore di lavoro che intende svolgere i compiti di cui al comma 1, deve frequentare corsi di formazione, di durata minima di 16 ore e massima di 48 ore, adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative, nel rispetto dei contenuti e delle articolazioni definiti mediante Accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, entro il termine di dodici mesi dall’entrata in vigore del presente decreto legislativo. Fino alla pubblicazione dell’Accordo di cui al periodo precedente, conserva validità la formazione effettuata ai sensi dell’articolo 3 del decreto ministeriale 16 gennaio 1997, il cui contenuto è riconosciuto dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano in sede di definizione dell’Accordo di cui al periodo precedente.

2-bis. Il datore di lavoro che svolge direttamente i compiti di primo soccorso nonché di prevenzione incendi e di evacuazione deve frequentare gli specifici corsi formazione previsti agli articoli 45 e 46.

E per comprendere gli obiettivi del legislatore, possiamo fare riferimento alla relazione illustrativa del D.Lgs.151/15: “il comma 1, lettera g) modifica l’articolo 34 del Testo Unico. Si prevede che lo svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di primo soccorso, nonché di prevenzione degli incendi e di evacuazione, viene consentita anche nelle imprese o unità produttive che superano i cinque lavoratori. La formazione specifica per svolgere tali compiti viene comunque assicurata al comma 2-bis”.

Ricordiamo ora alcuni riferimenti normativi dell’articolo 34.

Innanzitutto il contenuto dell’Allegato II del Testo Unico riguarda i casi in cui è consentito lo svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di prevenzione e protezione dei rischi:

Allegato II

Casi in cui e’ consentito lo svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di prevenzione e protezione dei rischi (articolo 34)

  1. Aziende artigiane e industriali fino a 30 lavoratori
  2. Aziende agricole e zootecniche fino a 30 lavoratori
  3. Aziende della pesca fino a 20 lavoratori
  4. Altre aziende fino a 200 lavoratori

 

Questi invece sono i casi (elencati al comma 6 dell’articolo 31 del D.Lgs.81/08) in cui il comma 1 dell’articolo 34 non può essere applicato:

Articolo 31 – Servizio di prevenzione e protezione

(…)

  1. L’istituzione del servizio di prevenzione e protezione all’interno dell’azienda, ovvero dell’unità produttiva, è comunque obbligatoria nei seguenti casi:
  2. a) nelle aziende industriali di cui all’articolo 2 del Decreto Legislativo 17 agosto 1999, n. 334, e successive modificazioni, soggette all’obbligo di notifica o rapporto, ai sensi degli articoli 6 e 8 del medesimo decreto;
  3. b) nelle centrali termoelettriche;
  4. c) negli impianti e installazioni di cui agli articoli 7, 28 e 33 del Decreto Legislativo 17 marzo 1995, n. 230, e successive modificazioni;
  5. d) nelle aziende per la fabbricazione e il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni;
  6. e) nelle aziende industriali con oltre 200 lavoratori;
  7. f) nelle industrie estrattive con oltre 50 lavoratori;
  8. g) nelle strutture di ricovero e cura pubbliche e private con oltre 50 lavoratori.

(…)

Dunque siamo sì di fronte ad una modifica probabilmente rilevante ma che, riguardo perlomeno alla chiarezza e alla sua interpretazione, sconta le difficoltà che si hanno quando si cambia una norma attraverso abrogazioni di articoli e commi.

Per confermare comunque gli obiettivi del Ministero possiamo concludere riprendendo le parole dette ai nostri microfoni da Giuseppe Piegari, del Segretariato Generale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, all’indomani dell’ approvazione da parte del Consiglio dei Ministri in via definitiva del D.Lgs. 151/15 (approvazione avvenuta il 4 settembre scorso).

In relazione alla modifica dell’articolo 34, il dottor Piegari fa presente che inizialmente “l’articolo prevedeva che i datori di lavoro che intendono svolgere i compiti di prevenzione e protezione dei rischi potevano svolgere anche i compiti di primo soccorso e prevenzione incendi soltanto nelle imprese e unità produttive soltanto fino a 5 lavoratori”. Con la modifica “abbiamo eliminato questo limite. E quindi il datore di lavoro potrà svolgere i anche i compiti di primo soccorso e prevenzione incendi senza il limite dei cinque lavoratori, ma dovrà frequentare gli specifici corsi di formazione”.

Il Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 151 “Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.lavoro.gov.it/Strumenti/normativa/Documents/2015/Decreto%20Legislativo%2014%20settembre%202015_151.pdf

 

Il documento “Conferenza Permanente per i Rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano – Accordo del 22 febbraio 2012 concernente l’individuazione delle attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori, nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione, i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di validità della formazione, in attuazione dell’articolo 73, comma 5, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e successive modifiche e integrazioni” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.statoregioni.it/Documenti/DOC_035259_53%20csr%20punto%2012.pdf

 

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IL FUMO PASSIVO NEGLI AMBIENTI DI LAVORO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

24 novembre 2015

 

La valutazione del rischio da fumo passivo negli ambienti di lavoro: classificazione e lavoratori a rischio esposizione.

 

E’ stato stimato che nell’Unione europea circa 7.300 adulti, di cui 2.800 non fumatori, sono deceduti nel 2002 a seguito dell’esposizione al fumo di tabacco presente negli ambienti di lavoro; per i lavoratori del settore della ristorazione che lavoravano in locali in cui era possibile fumare, il rischio di carcinoma polmonare risultava superiore del 50% rispetto ai lavoratori che non erano esposti.

Il fumo passivo è stato classificato come “agente cancerogeno noto per l’uomo” dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti nel 1993, dal Dipartimento della sanità e i servizi sociali degli Stati Uniti nel 2000 e dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’OMS nel 2002. Recentemente, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente della California ha classificato il fumo di tabacco un “inquinante tossico dell’aria”.

Inoltre, è stato classificato come agente cancerogeno sul luogo di lavoro dai governi finlandese (2000) e tedesco (2001).

A livello europeo ancora oggi, però, il fumo passivo (assimilabile a una miscela di più sostanze) non è classificato come preparato cancerogeno, in base alla Direttiva sui preparati pericolosi (1999/45/CE), nonostante il Parlamento Europeo abbia invitato nel 2005 la Commissione delle Comunità Europee a presentare una proposta di modifica del quadro legislativo vigente al fine di classificare il fumo ambientale da tabacco come cancerogeno sui luoghi di lavoro.

Nel Libro Verde della Commissione delle Comunità Europee si asserisce che i locali per fumatori chiusi, con impianti di aerazione separati, riducono solo in misura marginale l’inquinamento da fumo ambientale negli esercizi di ristorazione e in altri ambienti interni.

 

Quindi il solo modo efficace di eliminare i rischi per la salute derivanti dall’esposizione al fumo passivo sarebbe quello di vietare il fumo negli ambienti interni, come affermato dall’OMS e dall’ASHRAE nel 2005 e anche con il documento del 2010. Tra l’altro i locali riservati ai fumatori sono costosi, richiedono una complessa infrastruttura di ispezione e controllo, sono difficilmente realizzabili dai piccoli esercizi e quando sono in funzione spesso non rispondono ai requisiti stabiliti dalla legge, esponendo a sostanze nocive i lavoratori che in essi prestano opera.

Il Datore di Lavoro è tenuto ad assicurare la salubrità degli ambienti di lavoro e a proteggere la salute dei lavoratori prevenendo l’insorgere di patologie da lavoro, quindi la valutazione dei rischi in azienda deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori (articolo 28, comma 1 del D.Lgs.81/08), compresi quelli che non derivano dai soli processi produttivi (in questo caso presenza di fumo di tabacco).

In base all’articolo 15 del D.Lgs.81/08, le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, riguardano innanzitutto:

  • l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico;
  • la riduzione dei rischi alla fonte;
  • la limitazione al minimo del numero dei lavoratori che sono o che possono essere esposti al rischio;
  • la priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale;
  • l’informazione e formazione adeguate per i lavoratori;
  • l’uso di segnali di avvertimento e di sicurezza.

Il fumo passivo è formato da agenti chimici pericolosi e deve essere incluso nella valutazione dei rischi in base al Titolo IX, Capo I “Protezione da agenti chimici” del D.Lgs.81/08 e in particolare al comma 1, lettera b), punto 3 dell’articolo 222.

Appare evidente la necessità di valutare i rischi per la salute dei lavoratori che potrebbero trovarsi, anche per brevi periodi, a operare nei locali riservati ai fumatori, tenendo conto della capacità di abbattimento dei fumi da parte dei sistemi di ventilazione, del numero di fumatori presenti, della quantità di tabacco fumato, del periodo di esposizione del lavoratore, ecc.

Come agente cancerogeno il fumo passivo ancora non rientra nella classificazione europea delle sostanze cancerogene di categoria 1 e 2 (anche se dal 2002 è stato riconosciuto dalla IARC come cancerogeno certo per l’uomo), quindi l’applicazione del Titolo IX Capo II “Protezione da agenti cancerogeni e mutageni” del citato Decreto risulta non obbligatoria non essendo “il fumo passivo” neppure una sostanza prodotta durante un ciclo lavorativo o un preparato o un processo di cui all’Allegato XLII, o una sostanza o un preparato emessi durante un processo previsto dall’Allegato XLII dello stesso Decreto.

 

Tuttavia, è da considerare che dal 2008, sulla base della classificazione IARC, il tumore polmonare da esposizione a fumo passivo è stato incluso nella Lista I delle malattie professionali per le quali è obbligatoria la denuncia (malattie la cui origine è di elevata probabilità Gruppo 6: Tumori professionali) e che oggi è ancora incluso nel Decreto Ministeriale 10/06/14 (Approvazione dell’aggiornamento dell’elenco delle malattie per le quali e’ obbligatoria la denuncia).

 

Quindi il Datore di Lavoro, in modo cautelativo, potrà fare una valutazione mirata e prendere le dovute precauzioni assimilando il fumo passivo a un cancerogeno.

Infine, viste la normativa vigente che impone al Datore di Lavoro di ridurre al minimo l’esposizione ai rischi lavorativi, le evidenze della cancerogenicità del fumo di tabacco, la mancanza di livelli di esposizione sicuri, l’ingente spesa per i locali per fumatori (costruzione e manutenzione) e la politica europea, l’unica soluzione di tutela appare l’adozione di ambienti di lavoro liberi dal fumo al 100%, con il divieto di ingresso dei lavoratori nelle sale per fumatori finché i rischi per la salute non vengano abbattuti o ridotti a livelli irrilevanti per la salute.

Per lavoratori esposti a fumo passivo si intendono coloro che per la propria mansione o per lo svolgimento di un incarico sono costretti a lavorare in ambienti per fumatori a norma del D.P.C.M.23/12/03 dove sono presenti i prodotti della combustione di tabacco fumato da altri.

Un parere interpretativo del Ministero della Salute – Dipartimento della Prevenzione e della Comunicazione riguardo la sua Circolare del 17/12/04 in tema di disposizioni in materia di tutela dal fumo passivo nei luoghi di lavoro (locali chiusi pubblici e privati dove è possibile adibire sale per fumatori e dove possono prestare servizio i lavoratori) indica che “nei locali per fumatori, anche nelle situazioni sopra descritte che vedano la presenza temporanea di lavoratori, non possono in nessun caso essere previste attività che comportino la presenza continuativa di lavoratori, né che obblighino i clienti non fumatori all’accesso al fine di usufruire dei servizi offerti dalla struttura; la presenza di questi lavoratori deve essere temporanea e supportata dalla valutazione di tutti i rischi (in particolare di quello chimico) in base al D.Lgs.81/08, anche se i locali rispondono ai requisiti di legge”.

 

Il documento INAIL “La gestione del fumo di tabacco in azienda” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/intranet/documents/document/ucm_201604.pdf

 

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