SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.255 DEL 23/05/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.255 DEL 23/05/16

 

INDICE

  • Oneri e costi per la necessità di DPI specifici per motivi di salute
  • Thyssen-Krupp: la Cassazione conferma le condanne per i sei imputati
  • Rifiuto od omissione d’atti di ufficio: le differenze
  • Voucher lavoro: opportunità o nuova frontiera dello sfruttamento?
  • Le regole vitali per chi lavora su tetti e facciate
  • Sul principio della massima sicurezza tecnologica fattibile

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica – Movimento di lotta per la salute onlus

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

 

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ONERI E COSTI PER LA NECESSITA’ DI DPI SPECIFICI PER MOTIVI DI SALUTE

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.75

 

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti dei lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

 

 

QUESITO

 

Caro Marco,

la cooperativa dove lavoro ha fornito scarpe antiscivolo e antinfortunistiche agli operatori di una struttura per disabili, ma alcuni operatori hanno difficoltà a calzarle per problemi di conformazione del piede e di salute e hanno chiesto di poter avere altri modelli che possano tollerare.

La cooperativa ha fatto una circolare che dice che le persone che hanno rifiutato la fornitura delle scarpe antiscivolo devono presentare una certificazione medica da parte di uno specialista ortopedico che motivi la non utilizzabilità delle scarpe normalmente fornite.

In tal caso l’operatore potrà acquistare personalmente le scarpe adatte alle sue esigenze, purché nel rispetto della normativa UNI EN 347 e con marcatura CE.

La cooperativa rimborserà l’equivalente del costo delle scarpe antiscivolo normalmente acquistate per il servizio (circa 20 euro) al lavoratore che, a sua volta, dovrà presentare documentazione dell’avvenuto acquisto con fattura intestata al lavoratore delle scarpe per lui adatte.

Ti pare normale che per avere le scarpe adatte al costo di 20 euro il lavoratore debba spendere per la visita ortopedica molto di più del costo delle scarpe?

Vorremmo rispondere alla cooperativa che per la dotazione di DPI si deve tener conto delle problematiche individuali, ci dai qualche suggerimento normativo?

Grazie
 

RISPOSTA

 

Ciao,

la cooperativa sta sbagliando tutto, evidentemente in cattiva fede e in maniera strumentale, per risparmiare soldi.

La normativa (il solito D.Lgs. 81/08, “Decreto”) dice tutt’altre cose.

 

Prima di entrare nel merito della domanda, mi permetto un’osservazione che dimostra anche l’incompetenza del RSPP della cooperativa o dei suoi consulenti.

La norma tecnica citata dalla cooperativa, la UNI EN 347, è stata ritirata, quindi non è più valida, dall’Ente Italiano di Normazione (UNI) addirittura nel 2008 e sostituita dalla norma UNI EN ISO 20347 “Dispositivi di protezione individuale – Calzature da lavoro” edizione del 2004. Quindi è materialmente impossibile oggi comprare scarpe che rispettino la normativa UNI EN 347, a meno che queste… non siano fondi di magazzino del 2008 (come forse quelle che fornisce la cooperativa…).

Vengo al merito della questione.

 

MISURE GENERALI DI TUTELA

 

Prima di entrare nell’ambito specifico della parte del Decreto che tratta di DPI, mi preme ricordare un principio fondamentale, che sta alla base di tutti i disposti legislativi del Decreto.

L’articolo 15, comma 2 del Decreto stabilisce tra le “Misure generali di tutela” che

Le misure relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori”.

E mi preme mettere in evidenza che in questo disposto il legislatore ha inserito, per darne particolare enfasi, l’inciso “in nessun caso”.

 

Quindi, qualunque sia l’evenienza o la causa che comporta oneri economici per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, questi oneri non possono essere mai a carico dei lavoratori stessi, ma sempre e soltanto dell’azienda.

 

CARATTERISTICHE ERGONOMICHE DEI DPI

 

In merito all’obbligo di fornire ai lavoratori i Dispositivi di Protezione Individuali (DPI), si applica quanto stabilito dall’articolo 77, comma 3 del Decreto:

Il datore di lavoro […] fornisce ai lavoratori DPI conformi ai requisiti previsti dall’articolo 76”.

Il mancato adempimento di tale obbligo da parte del datore di lavoro o del dirigente è sanzionato dall’articolo 87, comma 2 del Decreto con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.500 a 6.400.

 

L’articolo 77, comma 3 non impone solo che il datore di lavoro debba fornire i DPI ai lavoratori (a titolo gratuito, come deriva dal citato articolo 15, comma 2 del Decreto), ma anche che questi debbano essere conformi all’articolo 76 del Decreto.

L’articolo 76 (che in forza di quello che stabilisce l’articolo 77, comma 3 costituisce un obbligo) stabilisce al comma 2, lettera c) che:

I DPI […] devono inoltre tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore”.

E’ indicativo che il legislatore abbia utilizzato il termine “del lavoratore” anziché quello “dei lavoratori”, in quanto ha voluto specificare che qualunque DPI deve tenere conto delle esigenze ergonomiche di ogni singolo lavoratore e non, in generale, della media o della maggior parte dei lavoratori.

Inoltre l’articolo 76, comma 2, lettera c) non specifica quali origini debbano avere le “esigenze ergonomiche” di cui devono tenere conto i DPI.

 

Pertanto i DPI da fornire a ogni singolo lavoratore devono tenere conto delle esigenze ergonomiche peculiari di ogni singolo lavoratore, sia che derivino da caratteristiche personali (ad esempio, in questo caso, il numero di scarpa o la forma del piede), sia che derivino da patologie professionali o meno.

 

Quindi secondo quanto sopra, è a totale carico dell’azienda (in quanto obbligo a lei imposto e in virtù del principio generale di cui all’articolo 15, comma 2 del Decreto) scegliere nella gamma di quelli disponibili sul mercato, quei DPI che si adattino alle esigenze ergonomiche del singolo lavoratore, qualunque siano i motivi che richiedono specifiche esigenze ergonomiche.

 

E’ ancora a totale carico dell’azienda, stabilire quali siano i motivi che creano tali esigenze e quali calzature devono essere adottate. E ciò deve essere fatto dall’unica figura aziendale a cui il Decreto dà ogni onere e responsabilità in merito alla verifica dell’idoneità fisica del lavoratore a svolgere una mansione lavorativa (che, in questo caso comporta l’uso di DPI): il medico competente.

 

LA SORVEGLIANZA SANITARIA SULL’UTILIZZO DEI DPI

 

Nell’ambito della sorveglianza sanitaria di idoneità alla mansione è obbligo del medico competente verificare se ogni lavoratore è idoneo a svolgere la mansione specifica alla quale è destinato. Tale verifica deve comprendere tutti i rischi specifici della mansione lavorativa ai fini di tutelare la salute del lavoratore. Nell’analisi dei rischi specifici della mansione rientrano anche la necessità di utilizzo di ogni tipologia di DPI.

 

A tale proposito vale quanto disposto come obbligo per il medico competente dall’articolo 25, comma 1, lettera b):

Il medico competente programma ed effettua la sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41 attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati”.

Il mancato adempimento di tale obbligo da parte del medico competente è sanzionato dall’articolo 58, comma 1, lettera b) del Decreto con l’arresto fino a due mesi o con l’ammenda da 300 a 1.200 euro.

 

Tra i rischi specifici della mansione devono essere tenuti in considerazione anche quelli aggiuntivi a quelli della mansione derivanti dall’utilizzo dei DPI.

L’individuazione di quali siano tali fattori di rischio aggiuntivi derivanti dall’utilizzo dei DPI, è un obbligo a carico del datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 77, comma 1, lettera b) del Decreto che impone che:

Il datore di lavoro ai fini della scelta dei DPI, individua le caratteristiche dei DPI necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi […] tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi DPI”.

Anche in questo caso è indicativo che il legislatore abbia aggiunto il periodo “tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi DPI”, in quanto è noto, da letteratura tecnica e scientifica, che alcuni DPI possono comportare fattori aggiuntivi di rischio a seguito del loro utilizzo (rischi che ovviamente devono essere inferiori a quelli da cui i DPI proteggono i lavoratori).

 

Pertanto, nell’ambito dell’obbligo generale di cui agli articoli 17, comma 1, lettera a), 28 e 29, il datore di lavoro deve inserire all’interno della valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza, anche quelli aggiuntivi derivanti dall’uso dei DPI.

A seguito dell’analisi di cui all’articolo 77, comma 1, lettera b) del Decreto, il datore di lavoro deve comunicare al medico competente quali siano i rischi aggiuntivi causati dai DPI da utilizzare, in maniera tale che il medico competente possa effettuare la sorveglianza sanitaria del lavoratore, anche in funzione di tali rischi aggiuntivi.

 

La sorveglianza sanitaria, eseguita dal medico competente secondo l’obbligo di cui all’articolo 25, comma 1, lettera b), deve essere effettuata dal medico stesso secondo quanto stabilito dall’articolo 41 del Decreto.

In particolare l’articolo 41, comma 4 del Decreto stabilisce che:

Le visite mediche […], a cura e spese del datore di lavoro, comprendono gli esami clinici e biologici e indagini diagnostiche mirati al rischio ritenuti necessari dal medico competente […]”.

E’ evidente da questo disposto che le visite mediche eseguite nell’ambito della sorveglianza sanitaria sono “a cura e spese del datore di lavoro” e che queste possono comprendere “esami clinici e biologici e indagini diagnostiche mirati al rischio ritenuti necessari dal medico competente”.

 

Pertanto, in merito alla sorveglianza sanitaria relativa ai rischi aggiuntivi derivanti dall’uso del DPI, il medico competente stabilirà quali accertamenti fare eseguire, compresi “indagini diagnostiche” (quali ad esempio visite ortopediche). Tali accertamenti non possono essere a carico del lavoratore, ma solo ed esclusivamente dell’azienda, come chiaramente specificato dall’articolo 41, comma 4.

 

IL GIUDIZIO DI IDONEITA’ ALLA MANSIONE E LE PRESCRIZIONI

 

In esito alla sorveglianza sanitaria eseguita dal medico competente, anche in merito ai rischi aggiuntivi derivanti dall’utilizzo dei DPI, egli dovrà esprimere il giudizio di idoneità alla mansione per ogni singolo lavoratore, compreso il giudizio in merito alla possibilità di utilizzo dei DPI messi a disposizione dell’azienda, secondo quanto stabilito dall’articolo 41, comma 6:

Il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche […], esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:

  1. a) idoneità;
  2. b) idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
  3. c) inidoneità temporanea;
  4. d) inidoneità permanente”.

 

Se il lavoratore, per motivi di natura patologica (temporanea o permanente) o di altra natura ha necessità di DPI specifici che siano compatibili alla patologia o alle caratteristiche fisiche accertate dal medico competente, anche sulla base di indagini diagnostiche mirate, il medico competente stesso dovrà esprimere un giudizio di idoneità con prescrizioni, le quali prescrizioni riguarderanno il tipo più idoneo di DPI da utilizzare, in funzione della patologia o delle caratteristiche accertate.

Il medico competente dovrà comunicare per iscritto al lavoratore e al datore di lavoro tale giudizio di idoneità con le prescrizioni del caso (ma non ovviamente l’eventuale patologia che le hanno definite), ai sensi dell’articolo 41, comma 6-bis del Decreto:

Nei casi di cui alle lettere a), b), c) e d) del comma 6 il medico competente esprime il proprio giudizio per iscritto dando copia del giudizio medesimo al lavoratore e al datore di lavoro”.

Il mancato adempimento di tale obbligo da parte del medico competente è sanzionato dall’articolo 58, comma 1, lettera e) del Decreto con la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 4.000 euro.

 

A sua volta il datore di lavoro o il dirigente dovrà innanzitutto farsi carico, ai sensi dell’articolo 18, comma 1, lettera bb) di:

vigilare affinché i lavoratori per i quali vige l’obbligo di sorveglianza sanitaria non siano adibiti alla mansione lavorativa specifica senza il prescritto giudizio di idoneità”.

Pertanto prima di adibire il lavoratore alla mansione che prevede l’utilizzo di DPI potenzialmente dannosi per la sua salute, il datore di lavoro o il dirigente lo dovrà sottoporre a specifica sorveglianza sanitaria da parte del medico competente, per accertarne la possibilità senza danni di uso dei DPI necessari alla sua mansione.

 

Inoltre il datore di lavoro o il dirigente dovrà adottare le misure indicate dal medico competente in esito alla sorveglianza sanitaria (e quindi anche le relative prescrizioni), ai sensi di quanto disposto dall’articolo 42 del Decreto:

Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68 [Norme per il diritto al lavoro dei disabili], in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente […]”.

Pertanto, ove l’esito della sorveglianza sanitaria preveda una prescrizione relativa all’utilizzo dei DPI con richiesta di utilizzo di DPI specifici e adeguati alle caratteristiche e alle patologie del lavoratore, il datore di lavoro o il dirigente si dovrà fare carico, a onere totale della azienda, di fornire al lavoratore i DPI adeguati, come da prescrizione del medico competente.

 

Come stabilito dall’articolo 15, comma 2, precedentemente citato, il costo degli specifici DPI necessari al lavoratore a fronte delle prescrizioni del medico competente conseguenti a caratteristiche o patologie particolari, dovranno essere a carico totale dell’azienda e non comportare nessun esborso da parte del lavoratore, nemmeno come differenza rispetto ai DPI di uso comune.

 

Se il medico competente nel suo giudizio di idoneità non tiene conto dei rischi aggiuntivi per la salute derivante dall’utilizzo dei DPI, oppure se dall’ultima visita di sorveglianza sanitaria subentrano situazioni (cambio del tipo di DPI, insorgenza di patologie) che ne possono modificare l’esito (e quindi il giudizio sulla possibilità o meno di utilizzare i DPI), il lavoratore ha la facoltà di richiedere specifica visita di sorveglianza sanitaria, relativa alla sua incompatibilità fisica con i DPI, ai sensi dell’articolo 41, comma 1, lettera a) del Decreto:

La sorveglianza sanitaria è effettuata dal medico competente qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi”.

E’ evidente che una incompatibilità per motivi di salute all’utilizzo di un DPI da parte di un lavoratore è sicuramente “correlata ai rischi lavorativi”.

 

CONCLUSIONI

 

In conclusione:

  • i rischi aggiuntivi derivanti dalla necessità di utilizzo dei DPI da parte dei lavoratori, devono essere valutati dal datore di lavoro, anche in funzione delle possibili caratteristiche o patologie di ogni singolo lavoratore;
  • il datore di lavoro deve comunicare il tipo e l’entità di tali rischi al medico competente, al fine di potergli permettere di eseguire la sorveglianza sanitaria per esprimere il giudizio di idoneità alla mansione, anche relativamente alla necessità di utilizzo dei DPI;
  • il medico competente deve esprimere a seguito di visita medica e, se necessario, di accertamenti specialistici, il giudizio sulla idoneità o meno all’utilizzo dei DPI necessari allo svolgimento della mansione lavorativa da parte del singolo lavoratore e, se necessario, specificare prescrizioni in merito sul DPI più adeguato al lavoratore;
  • la visita medica e, se necessario, gli accertamenti specialistici sono a totale carico dell’azienda;
  • se la prescrizione impartita dal medico competente, comporta la necessità di acquisto di specifici DPI, adeguati alle caratteristiche o allo stato di salute del lavoratore, l’onere dell’acquisto è a totale carico dell’azienda;
  • nel caso in particolare quindi, visita medica, accertamenti diagnostici e specialistici per definire l’idoneità o meno all’utilizzo di un DPI sono a totale carico dell’azienda;
  • nel caso in particolare poi, l’azienda non dovrà farsi carico del costo solo del DPI “base”, ma anche della differenza tra il costo del DPI prescritto dal medico e quello “base”.

 

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THYSSEN-KRUPP: LA CASSAZIONE CONFERMA LE CONDANNE PER I SEI IMPUTATI

 

17 maggio 2016

di Rolando Dubini, avvocato in Milano

 

Si spalancano le porte del carcere per datori di lavori, dirigenti, Responsabili del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) per il tragico rogo di Torino.

L’incidente, la vicenda giudiziaria, la reazione dei parenti delle vittime e dell’ex Pubblico Ministero Raffaele Guariniello.

 

La Corte di Cassazione ha confermato in via definitiva le condanne nel ricorso bis nei confronti dei sei imputati per il rogo alla Thyssen-Krupp nel quale, nel dicembre 2007, morirono 7 operai.

Le vittime del rogo sono Antonio Schiavone (il primo a morire alle 4 del mattino per le ferite riportate durante l’incidente), Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino (spirati lentamente dal 7 al 30 dicembre del 2007 per le gravissime ustioni riportate).

 

La pena più alta, 9 anni e 8 mesi, è quella inflitta all’ex amministratore delegato e datore di lavoro Harald Espenhahn. Condannati poi Daniele Moroni, responsabile investimenti antincendio dell’azienda, a 7 anni e 6 mesi; Raffaele Salerno, ex direttore dello stabilimento, a 7 anni e 2 mesi; il RSPP Cosimo Cafueri a 6 anni e 8 mesi.

Pene di 6 anni e 3 mesi per i manager Marco Pucci (responsabile commerciale e datore di lavoro, oggi responsabile delle partecipate del gruppo ILVA che si è sospeso dal proprio incarico) e Gerald Priegnitz responsabile amministrativo e datore di lavoro.

 

E’ stato così confermato il verdetto della Corte d’Assise d’Appello di Torino del 29 maggio 2015. La sentenza del maggio scorso era arrivata dopo l’intervento della Cassazione.

I giudici della Suprema Corte, dopo la prima condanna in appello, avevano rimandato a Torino gli atti e avevano chiesto di rimodulare le pene per i reati considerati.

 

Nei due gradi di processo celebrati a Torino, gli inquirenti hanno ricostruito minuziosamente i minuti dell’incidente, la sequenza di eventi che provocarono le fiamme e poi il “flash fire”, la nuvola di fuoco generata dalle particelle di olio presenti nell’aria dopo lo scoppio di un flessibile.

Un’ondata di fuoco che non lasciò scampo a Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino e Antonio Schiavone.

Al centro delle inchieste, prima, e delle sentenze, dopo, ci sono state le gravi carenze in tema di sicurezza nello stabilimento di Torino, polo che il Gruppo dell’acciaio aveva deciso di chiudere da lì a qualche mese.

 

Sono stati ritenuti responsabili di omicidio colposo, omissioni di cautele antinfortunistiche e incendio colposo aggravato.

Ora per gli italiani Pucci, Moroni, Salerno e Cafueri si apriranno le porte in carcere. Giusto il tempo necessario per il Sostituto Procuratore generale di Torino Vittorio Corsi di ricevere la sentenza dalla Cassazione e firmare il provvedimento di esecuzione, anche se pare che i quattro italiani si presenteranno spontaneamente nei commissariati di polizia o nelle caserme dei carabinieri per evitare di essere prelevati a casa.

Per i due manager tedeschi, Harald Espenhahn e Priegnitz, i tempi saranno più lunghi, ma favorevoli: l’Italia dovrà emettere un mandato di cattura europeo e poi, in base alle norme di cooperazione giudiziaria, i due tedeschi verranno incarcerati nella loro nazione, ma solo per un massimo di cinque anni, il massimo della pena prevista per l’omicidio colposo aggravato. In sostanza, la pena per l’Amministratore Delegato della Thyssen-Krupp Krupp sarà quasi dimezzata, vista la condanna a nove anni e dieci mesi.

 

Il collegio presieduto da Fausto Izzo hanno quindi respinto la richiesta del Sostituto Procuratore Generale Paola Filippi che in mattinata aveva chiesto di annullare la sentenza del 29 maggio 2015 per rimandare gli atti alla Corte d’Assise d’Appello di Torino affinché i giudici possano rivalutare la pena base dell’omicidio colposo aggravato e bilanciare le attenuanti.

 

LA RICOSTRUZIONE DELLA TRAGEDIA

 

Si chiude dunque con le condanne definitive una vicenda lunga 9 anni.

Nella notte a cavallo tra il 5 e il 6 dicembre 2007 otto operai al lavoro sulla linea 5 della fabbrica siderurgica Thyssen-Krupp di Torino vengono investiti da una fuoriuscita di olio bollente che prende fuoco. L’incendio si sviluppa all’altezza della linea di ricottura e decapaggio. L’intervento dei Vigili del Fuoco è immediato: i feriti vengono trasportati in ospedale, ma le loro condizioni sono gravissime. In sette non ce la fanno: il primo operaio, Antonio Schiavone, muore poche ore dopo. Tra il 7 e il 30 dicembre le altre sei vittime: Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rocco Marzo, Rosario Rodinò e Bruno Santino, tra i 26 e i 54 anni. Si salva Antonio Boccuzzi, unico superstite, che ha seguito il processo accanto ai familiari delle vittime.

 

Quella notte di fine 2007 allo scoppio del rogo i sette operai insieme al collega Antonio Boccuzzi, l’unico sopravvissuto e ora deputato del PD, avevano tentato di spegnere le fiamme, ma ogni loro sforzo era stato inutile: nonostante i frequenti incendi sulla linea 5, gli estintori erano quasi vuoti, le manichette di acqua inutili, l’impianto non era adeguato perché il management sapeva che lo stabilimento sarebbe stato chiuso.

Una città di tradizione operaia che viveva già la stagione della crisi FIAT era scesa in piazza per protestare contro le morti bianche e la risposta della magistratura era stata rapida.

Dall’indagine dei Pubblici Ministeri Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso emerse che quella di limitare le spese nella prevenzione era stata una scelta aziendale, definita dai giudici della corte d’assise come “sciagurata”, ma consapevole, motivo per cui avevano condannato gli imputati a pene tra i dieci anni e i sedici per omicidio volontario con dolo eventuale.

Per i colleghi della Corte d’Assise d’Appello, invece, non ci fu “dolo”, ma soltanto imprudenza, un impianto inadeguato dal punto di vista della prevenzione e protezione antincendio che non ha retto. Un’imprudenza inescusabile dei dirigenti pagata a carissimo prezzo dai lavoratori.

 

LA VICENDA GIUDIZIARIA

 

Era la seconda volta che il processo Thyssen-Krupp arrivava in Cassazione, che in precedenza aveva ordinato alla Corte d’Appello di Torino di ricalcolare il trattamento sanzionatorio.

Nel processo d’appello bis le pene erano state lievemente ridotte. In primo grado il Pubblico Ministero Raffaele Guariniello aveva contestato l’accusa di omicidio volontario con dolo eventuale e le condanne erano state molto pesanti.

In appello le pene furono mitigate, con l’esclusione del dolo, e l’ultima riduzione c’è stata dopo il primo ricorso degli imputati in Cassazione. L’ultimo verdetto di condanna ha confermato l’omicidio colposo aggravato e violazione delle norme di sicurezza. In caso di conferma della Sentenza, quattro imputati si costituiranno subito.

 

La vicenda giudiziaria era partita il 15 gennaio 2009, quando si è aperto a Torino il primo grado di giudizio, che si sarebbe prolungato fino al 15 aprile 2011, giorno della prima sentenza, arrivata dopo 100 udienze celebrate e la condanna severa inflitta a sei imputati. Tra loro l’Amministratore Delegato dell’azienda siderurgica, Harald Espenhahan, condannato in primo grado a 16 anni e mezzo di reclusione per omicidio volontario. Per i manager Thyssen-Krupp le pene erano state in primo grado di 13 anni e mezzo per omicidio e incendio colposi (con colpa cosciente) e omissione di cautele antinfortunistiche.

Le parti civili avevano avuto 13 milioni di euro su un totale di 17 milioni di risarcimento. Il 1 luglio 2008 la Thyssen-Krupp, che nel frattempo nel marzo 2008 aveva chiuso i battenti dello stabilimento torinese, ha versato la cifra alle famiglie dei 7 operai morti nel rogo per non costituirsi parte civile.

 

Secondo i giudici di primo grado, fu una “scelta sciagurata” dell’Amministratore Delegato “di azzerare” – si legge nella motivazione – “ogni scelta di prevenzione”.

Le pene erano state lievemente ridotte durante il secondo grado di giudizio, celebrato tra il 28 novembre 2012 e il 28 febbraio 2013, presso la Corte d’Assise d’Appello di Torino, presieduta da Giangiacomo Sandrelli, con la clamorosa esclusione per l’Amministratore Delegato Espenhahan, del dolo.

Dunque la Corte d’Assise d’Appello di Torino, nel 2013, aveva però attenuato le pene per tutti gli imputati riqualificando in omicidio colposo aggravato il reato contestato a Espenhahn la cui condanna venne ridotta a 10 anni. All’appello è seguito il ricorso in Cassazione presentato da Raffaele Guariniello, affiancato dai Pubblici Ministeri Laura Longo e Francesca Traverso, nonché il Procuratore Generale Ennio Tomaselli, contro la sentenza d’appello, lo stesso fanno le difese degli imputati con altre motivazioni.

Erano state poi le Sezioni unite della Cassazione ad annullare con rinvio quella sentenza, ordinando un nuovo processo di appello e il ricalcolo delle pene, al termine del quale le pene per gli imputati sono state ulteriormente ridotte con caduta dell’aggravante per il reato di omicidio colposo plurimo.

 

PER I PARENTI DELLE VITTIME, FINALMENTE GIUSTIZIA

 

“E’ una vittoria, una vittoria per noi e per tutte le vittime morte sul lavoro”. Così le mamme, le sorelle e le mogli dei sette operai morti a causa del rogo dello stabilimento Thyssen-Krupp di Torino, hanno accolto il verdetto della Cassazione. “Oggi ascoltando le richieste del procuratore Generale abbiamo pianto di rabbia”.

“Ora” – dicono tutte insieme – “possiamo andare dai nostri ragazzi al cimitero e dire che finalmente c’è stata giustizia e ci sono pene severe, anche se il nostro dolore è per sempre”.

 

PARENTI DELLE VITTIME E IMPUTATI

 

Da una parte, in aula, c’erano i familiari delle vittime, che hanno indossato le magliette con le foto dei loro cari, dall’altra alcuni degli avvocati degli imputati. Tra questi ultimi anche Marco Pucci, nominato appena quattro mesi fa direttore generale dell’ILVA per decisione dei tre commissari straordinari del gruppo siderurgico, Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba.

Nel giro di poche ore, però, i sindacati erano insorti e Pucci (che all’epoca della tragedia Thyssen-Krupp ricopriva un ruolo di primo piano in quella società siderurgica degli acciai speciali) aveva rinunciato all’incarico, con una lettera agli stessi commissari, continuando però a svolgere altri compiti dirigenziali di rilievo.

Dopo la sentenza definitiva emessa dalla Cassazione, Pucci, attuale Direttore Centrale dell’ILVA e responsabile delle partecipate, si è sospeso dalla funzione e dalla retribuzione. Lo ha comunicato lui stesso ai tre commissari.

 

Parenti delle vittime e legali degli imputati, a cinquanta metri di distanza gli uni dagli altri, hanno consumato i minuti davanti all’aula della quarta sezione penale chiusa a chiave in cui si è tenuta per quasi quattro ore la camera di consiglio. Più defilati, ma presenti al secondo piano dell’immenso palazzo della Cassazione, una decina tra carabinieri e agenti di polizia. E’ racchiusa in questa immagine l’attesa per la sentenza che ha messo la parola fine al processo per il rogo alla Thyssen-Krupp.

 

LE RICHIESTE DELLA PROCURA GENERALE E LE REAZIONI DEI PARENTI DELLE VITTIME

 

Il Sostituto Procuratore Generale della Cassazione, Paola Filippi, aveva chiesto di annullare le condanne per tutti e sei gli imputati del processo Thyssen-Krupp, rinviare di nuovo il procedimento in Corte d’Appello, per rideterminare le pene per i reati di omicidio colposo plurimo e per rivalutare il “no” alle attenuanti per quattro degli imputati, richiedendo un processo ter.

 

Una richiesta che aveva fatto infuriare i familiari delle vittime, e in aula subito era scoppiato il caos: molti familiari delle vittime hanno urlato ai giudici “venduti, bastardi, vergogna” e abbandonato l’aula della quarta Sezione Penale della Corte.

I parenti delle vittime ancora a Roma, ancora in Cassazione, dunque delusi per quella richiesta del Procuratore Generale che ritengono assurda: un nuovo processo, ancora pene ulteriormente ridotte.

 

“Le richieste della Procura sono per noi tutti un fulmine a ciel sereno e lo stesso vale per il rischio che i due imputati tedeschi, i principali responsabili del rogo alla Thyssen-Krupp, possano scontare in Germania una pena dimezzata”, ha sottolineato Antonio Boccuzzi, l’unico superstite del rogo del 2007.

Arrabbiati, tanto che quando è chiaro dove vuole andare a parare il Procuratore Generale escono dall’aula. Poi qualcuno rientra e urla piangendo: “Siete tutti morti, siete tutti morti”. La madre di Antonio Schiavone non si trattiene: “Mio figlio è bruciato vivo, spero che muoia bruciata anche la sua famiglia”, grida rivolgendosi all’ex manager dell’azienda siderurgica, Daniele Moroni.

Laura è la sorella, di “Saro”, Rosario Rodinò, morto a 26 anni. “Hanno fatto una fine bruttissima, nemmeno gli animali in un bosco. Mio fratello è al cimitero da 8 anni e mezzo, loro sono fuori e le hanno studiate tutte per pagare il meno possibile. In tutti i gradi di giudizio gli hanno tolto un pezzo”. “La richiesta del Procuratore Generale ci aveva buttato giù in un modo indescrivibile, ma fortunatamente i giudici delle Cassazione hanno fatto i giudici”, dice.

“Li ringrazio e ringrazio anche i Pubblici Ministeri di Torino Guariniello, Longo e Traverso. Va bene così, anche se noi continuiamo a ritenere molto di più attendibili le conclusioni della Sentenza di primo grado che aveva riconosciuto il dolo eventuale (escluso dai verdetti successivi) a carico dei vertici della Thyssen-Krupp”.

Poco prima della lettura del verdetto, Laura Rodinò (che nel rogo della Thyssen-Krupp ha perso il fratello) ha parlato al telefono con l’ex Pubblico Ministero Raffaele Guariniello, ora andato in pensione, che ha rassicurato lei e tutti i familiari delle vittime sul fatto che “non c’erano elementi per ribaltare le pene dal momento che le condanne dei sei imputati erano già state diminuite”. Lo ha detto la stessa Laura Rodinò al termine dell’udienza.

 

“Dovete avere fiducia nei giudici della Cassazione, ci ha detto Guariniello” – ha detto Rodinò – “e ci ha consigliato bene, ci ha detto che non c’era nessun elemento per tornare ad abbassare le pene dal momento che le condanne dei sei imputati erano già state diminuite”.

Rosina De Masi è la mamma di Giuseppe, sulla maglietta il volto del figlio, arrivata a Roma immaginando ancora una salita. “Non ce la facciamo più”, diceva nell’attesa. La conferma delle condanne non ha cancellato il dolore, ma lo ha reso più sopportabile. La sentenza della Cassazione ha scritto l’ultimo capitolo di “una vicenda che, per anni, abbiamo vissuto come un calvario senza fine ma che, come tutti speravamo, si è finalmente concluso”, spiega Rosina. “Certo, il nostro dolore non si spegnerà con questo verdetto” – prosegue – “ma almeno potrò andare sulla tomba di mio figlio e dirgli: Giuseppe, mamma ce l’ha messa tutta e, alla fine, giustizia è stata fatta. E’ la prima cosa che farò una volta tornata a Torino”.

Poi una critica al sistema giudiziario. “Dicevano che sarebbe stato un processo breve, invece è durato quasi 9 anni, dicevano che sarebbe stato un processo epocale e, vista la durata, ha rischiato di diventarlo. E’ una liberazione: non potrò essere mai più felice, ma giustizia è stata fatta”.

“Non potevano fare diversamente” – ha invece detto Laura Rodinò, sorella di Rosario, morto a soli 26 anni – “viva Guariniello. Ringrazio i Giudici di Torino”, ha aggiunto la donna. Un altro dei familiari all’uscita del palazzo mostra la maglietta con le foto delle vittime e urla al cielo: “Ce l’avete fatta ragazzi”.

All’uscita dal palazzo della Cassazione i familiari delle vittime del rogo hanno esultato mostrando le magliette con le foto degli operai. “Giustizia è stata fatta, anche se è un peccato che non gli abbiano dato il dolo” – ha esclamato Rosina De Masi, madre di Giuseppe – “ringrazio i Giudici che hanno avuto cuore”.

La fine di un incubo anche per Antonio Boccuzzi, l’unico operaio scampato alla tragedia. “Quando ho sentito la requisitoria del Procuratore Generale mi sono sentito svuotato, ma poi mi sono detto: la Sentenza non la scrive un Procuratore, ma i Giudici. E il mio ottimismo alla fine è stato premiato. Questo cielo nero un po’ si è aperto” – ha detto – “oggi abbiamo avuto tanta paura perché le parole del Procuratore Generale erano inaspettate. Ma la giustizia, quando vuole, sa dare le risposte giuste, come è avvenuto stasera. Abbiamo ottenuto quello che volevamo: un verdetto che per la prima volta in Italia manda in carcere i responsabili di morti sul lavoro. Lo considero non solo un atto di giustizia per le vittime della Thyssen-Krupp ma un segnale per il futuro. Un avvertimento per certi imprenditori senza scrupolo che sacrificano la sicurezza della propria impresa a favore del profitto”.

 

THYSSEN-KRUPP KRUPP: RISPETTIAMO LA SENTENZA, NON ACCADRA’ PIU’

 

“Prendiamo atto con rispetto del dispositivo della sentenza” si legge in una nota della Thyssen-Krupp che ore dopo la condanna definitiva da parte della Cassazione ha fatto sapere la sua posizione con una nota.

“I Tribunali italiani hanno dovuto affrontare il difficile compito di valutare penalmente il tragico incidente di Torino e le sue terribili conseguenze” recita ancora il messaggio della società che conclude ribadendo la vicinanza alle famiglie delle vittime: “Esprimiamo nuovamente il nostro cordoglio alle vittime e alle loro famiglie. Thyssen-Krupp è profondamente addolorata che in uno dei suoi stabilimenti si sia verificato un incidente così tragico. Faremo il possibile affinché tale disgrazia non accada mai più”.

 

L’EX PUBBLICO MINISTERO RAFFAELE GUARINIELLO

“Una splendida notizia”: Sono le parole con cui ha salutato la condanna definitiva l’ex Magistrato Raffaele Guariniello che, da Procuratore Aggiunto, guidò il pool che svolse le prime indagini sul caso Thyssen-Krupp. “Sono le condanne più alte mai inflitte per un incidente sul lavoro”, dice.

“Dalla notte dell’incendio sono passati nove anni. Un pezzo di vita. La lunghezza del processo non è dipesa da noi della Procura di Torino. Ma voglio sottolineare che gli avvocati non c’entrano. E’ giusto che presentino i ricorsi. Fa parte del gioco. Solo che il gioco dura troppo. Noi” – spiega – “chiudemmo le indagini in due mesi e 19 giorni. A tempo di record. Eppure il processo è andato avanti a lungo”.

“Al di là di quello che sarà l’esito mi viene da dare ragione a Matteo Renzi: lui dice che aspetta le sentenze, ma anche noi le aspettiamo”. Così Raffaele Guariniello in merito al caso Thyssen-Krupp. Da procuratore aggiunto a Torino, Guariniello chiuse le indagini sull’incendio in due mesi e 19 giorni. “Sono i processi” – commenta – “ad essere lunghi. In questo Renzi coglie un aspetto di verità”.

Poi un ultimo sassolino dalla scarpa: “Ma la Procura Generale non dovrebbe sostenere le ragioni dell’accusa? I Giudici sono andati oltre le richieste del Procuratore Generale. Ed è già capitato in un altro mio processo. Io sostengo che il Pubblico Ministero di primo grado dovrebbe essere applicato anche in appello e in Cassazione. Oggi nel caso Thyssen-Krupp è come se si fossero invertiti i ruoli. Non lo trovate imbarazzante?”.

 

IL SINDACO DI TORINO

 

Il sindaco di Torino, Pietro Fassino, ha commentato la sentenza a margine di un evento elettorale con il ministro di Grazia e Giustizia Andrea Orlando: “La sicurezza sul lavoro è parte di una più generale situazione: garantire al lavoro dignità. Il lavoro, qualunque esso sia, ha bisogno di essere riconosciuto nella sua dignità, e in primo luogo ha dignità se è sicuro. Non si deve morire per lavorare”.

 

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RIFIUTO OD OMISSIONE D’ATTI DI UFFICIO: LE DIFFERENZE

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

16 marzo 2016

 

Riporto a seguire l’articolo della newsletter dello Studio Castaldi relativa ai reati di rifiuto o omissione d’atti di ufficio.

 

Ricordo che quanto riportato nell’articolo si applica anche agli Ispettori ASL dei Servivi di prevenzione della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, in quanto gli Ispettori risultano, ai sensi dell’articolo 21 della Legge 23 dicembre 1978, n.833, Ufficiali di Polizia Giudiziaria e quindi Pubblici Ufficiali.

 

Gli Ispettori ASL, ai quali è stato formalmente comunicato da un RLS o anche da un singolo lavoratore, da un sindacato o da un’associazione, un reato relativo alla mancata tutela di salute e sicurezza sul lavoro, devono intervenire obbligatoriamente ai sensi dell’articolo 55, comma 1 del Codice di Procedura Penale:

La polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale”;

al fine di impartire al datore di lavoro la prescrizione per l’adempimento dell’obbligo di tutela, secondo la procedura fissata dall’articolo 20 del D.Lgs.758/94.

 

Pertanto, anche nel caso di loro mancato intervento, a seguito di denuncia formale effettuata da RLS, lavoratori, sindacati, si configura, a seconda dei casi il reato di rifiuto od omissione di atti di uffizio, come riportato nell’articolo.

 

Marco Spezia

 

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L’articolo 328 del Codice Penale regola il sanzionamento dei reati di rifiuto e omissione di atti di ufficio, scissi in due reati distinti:

Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.

Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa”.

 

Il primo comma dell’articolo regola, appunto, il reato di rifiuto d’atto di ufficio e ne definisce le sanzioni.

Il secondo comma invece, si occupa di definire il reato di omissione d’atto di ufficio e regolarne le sanzioni relative.

L’articolo 328 mira a sanzionare l’inerzia dei pubblici uffici, nel momento in cui essi non rispondono alle richieste effettuate dai cittadini o altri pubblici uffici. La normativa in oggetto è applicabile sia ai Pubblici Ufficiali che a ogni pubblico dipendente, che si rifiuti o ometta di esercitare le sue mansioni.

Vediamo di seguito le specifiche di ogni reato.

 

Il rifiuto d’atto di ufficio è un reato che si verifica se un Pubblico Ufficiale o un dipendente pubblico rifiuta in maniera diretta di esercitare una sua mansione, sia a seguito di un ordine di un proprio superiore, che a fronte di una situazione che richiede, per legge, un’immediata reazione.

Il reato è tale solo a fronte di un rifiuto non adeguatamente motivato. Il rifiuto d’atti di ufficio è un reato che si verifica contro gli stessi pubblici uffici.

Ad esempio, un Ufficiale di Polizia che si rifiuti di eseguire un ordine diretto di un suo superiore incorre nel reato di rifiuto d’atti di ufficio, così come un geologo che, conscio della situazione di pericolo strutturale di una particolare zona o edificio, non prenda i dovuti provvedimenti. La sanzione prevista per questo particolare reato varia da un minimo di 6 mesi sino a 2 anni di detenzione, e sono previste anche sanzioni pecuniarie fino a 1000 euro, oltre a sanzioni disciplinari sino all’interdizione completa dai pubblici uffici, in base alla gravità del fatto.

Nel caso in cui il rifiuto non sia evidente e diretto, il Tribunale provvederà a valutare le azioni e la condotta dell’imputato, per definire la presenza di reato.

 

L’omissione d’atto di ufficio si configura invece a fronte di una mancata risposta, e non a fronte di un esplicito e diretto diniego.

Questo reato è imputabile se, una volta trascorsi 30 giorni da una richiesta, non si abbia ancora ottenuto alcuna risposta, né delle giustificazioni per il ritardo. In sostanza, il silenzio è omissione.

La richiesta di cui sopra deve essere formulata sotto forma di diffida formale: se ignorata, avrà dunque luogo l’omissione. Questo reato è sia verso altri pubblici uffici che verso privati cittadini, ed è punibile con reclusione fino ad un anno e una multa non oltre i 1.032 euro, oltre a sanzioni disciplinari.

 

La denuncia di un’eventuale rifiuto od omissione d’atti di ufficio va presentata alle Forze dell’Ordine, tra cui Carabinieri, Polizia o Guardia di Finanza.

Le denunce relative al rifiuto o all’omissione d’atto di ufficio possono essere presentate direttamente anche alla Procura della Repubblica.

 

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VOUCHER LAVORO: OPPORTUNITA’ O NUOVA FRONTIERA DELLO SFRUTTAMENTO?

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

16 marzo 2016

di Dario La Marchesina

dario.lamarchesina@gmail.com

 

VOUCHER LAVORO: OPPORTUNITA’ O NUOVA FRONTIERA DELLO SFRUTTAMENTO?

GUIDA LEGALE AL CAPO VI DEL D.LGS. 81/15 CONCERNENTE IL LAVORO ACCESSORIO

 

L’attuale Esecutivo si è occupato di riformare alcuni punti nevralgici della materia del diritto del lavoro con una serie di atti normativi che rientrano nel cosiddetto Jobs Act.

Nello specifico in questa sede ci interessa il contenuto del D.Lgs. 81/15, e più precisamente il Capo VI concernente il lavoro accessorio, istituto in origine introdotto dalla legge Biagi (D.Lgs. 276/03).

 

Secondo l’articolo 48, comma 1 del D.Lgs. 81/15 per lavoro accessorio si intendono quelle prestazioni lavorative che non possono eccedere i 7.000 euro annui, con riferimento alla totalità dei committenti (imprenditori o professionisti); in precedenza la Legge 92/12 (Riforma Fornero) fissava il tetto massimo delle prestazioni di lavoro accessorio a 5.000 euro annui.

 

Tuttavia il lavoratore non può svolgere, nei confronti di ciascun singolo committente, attività per compensi superiori a 2.000 euro annui; ciò significa che una volta raggiunta tale soglia, il prestatore potrà svolgere lavoro accessorio solo presso committenti diversi rispetto al precedente.

 

Inoltre qualora il lavoratore accessorio dovesse percepire una qualche prestazione integrativa del salario o una forma di sostegno al reddito, il suo compenso annuo ha un limite totale di 3.000 euro (articolo 48, comma 2 del D.Lgs. 81/15).

 

L’articolo 49 del D.Lgs. 81/15 si occupa della disciplina del lavoro accessorio.

Il primo comma evidenzia come i committenti imprenditori o professionisti interessati a ricorrere a prestazioni di lavoro accessorio debbano acquistare esclusivamente attraverso modalità telematiche uno o più carnet di buoni orari, numerati progressivamente e datati, il cui valore nominale è fissato con Decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Per quanto riguarda invece i committenti non imprenditori l’acquisto dei buoni può avvenire anche presso le rivendite autorizzate.

 

I voucher lavoro sono disponibili in tagli diversi: 10 euro, 20 euro, 50 euro; tuttavia quello che il lavoratore accessorio incasserà realmente sono 7,50 euro, 15 euro, 37,50 euro in quanto vengono detratti un 13% di contributi INPS, un 7% di assicurazione INAIL (copertura tragitto casa-lavoro, lavoro-casa) e un 5% sempre all’INPS per il servizio fornito.

 

Il terzo comma stabilisce che prima dell’inizio della prestazione occasionale, i committenti sono tenuti a comunicare alla Direzione Territoriale del Lavoro competente entro trenta giorni, attraverso modalità telematiche, i dati anagrafici e il codice fiscale del lavoratore e indicando anche il luogo della prestazione.

 

Infine il quarto comma evidenzia come il lavoratore accessorio percepisca il proprio compenso dal concessionario autorizzato di cui al comma 7, in seguito all’accredito dei buoni da parte del beneficiario della prestazione; occorre poi precisare che il compenso è esente da imposizioni fiscali e non influisce sullo stato di disoccupato o inoccupato del lavoratore accessorio.

 

Attualmente in Italia questa tipologia di lavoro è in aumento soprattutto nel settore secondario (industrie) ma anche nel commercio e nel turismo, secondo quanto risulta da report ufficiali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali; in genere la maggior parte dei prestatori ai quali viene prospettata la soluzione dei voucher sono giovani in cerca di occupazione o che hanno già svolto un periodo di tirocinio di 6 mesi presso un certo datore, al quale spesso però non segue un rinnovo dello stesso.

 

La ragione per cui oggi i voucher lavoro vengono utilizzati così frequentemente risiede nel fatto che economicamente e giuridicamente costituiscono una soluzione molto meno vincolante per i committenti rispetto alla stipulazione dei contratti.

 

Tuttavia nonostante si tratti pur sempre di un’opportunità per coloro che necessitano di percepire un qualche compenso, dall’altra parte un eccessivo aumento nell’utilizzo di questo strumento senza adeguate limitazioni, potrebbe portare a un vero e proprio sfruttamento della forza lavoro con conseguente aumento del fenomeno del precariato, ponendo in secondo piano le fattispecie contrattuali che garantiscono maggiormente il rispetto del diritto al lavoro previsto dall’articolo 4 della nostra Costituzione.

 

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LE REGOLE VITALI PER CHI LAVORA SU TETTI E FACCIATE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

13 maggio 2016

 

Raccolte da Suva (principale assicuratore in Svizzera nel campo dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni) le nove regole vitali per eseguire in sicurezza i lavori in quota su tetti e facciate. L’elenco delle regole, la realizzazione di accessi sicuri, il pericolo delle aperture nel tetto scoperte e la resistenza delle superfici di copertura.

 

Uno degli infortuni più presenti è sicuramente la caduta dall’alto da opere provvisionali e coperture. E di conseguenza in questi anni abbiamo cercato di presentare tutti i validi documenti, anche di non recentissima pubblicazione, che possono suggerire agli attori della sicurezza e alle aziende utili elementi di prevenzione per evitare o ridurre le cadute dall’alto.

 

Ad esempio Suva (Istituto elvetico per l’assicurazione e la prevenzione degli infortuni) ha pubblicato nel 2012 un documento, correlato alla campagna “Visione 250 vite”, dal titolo “Nove regole vitali per chi lavora su tetti e facciate”. Un documento che benché sconti alcune differenze normative in materia di sicurezza tra Svizzera e Italia, può ancora fornire utili spunti per la prevenzione.

E’ stato pubblicato anche un Vademecum che raccoglie, oltre alle nove regole, approfondimenti e informazioni su come preparare, per ciascuna regola vitale, una mini-lezione. Chiaramente l’obiettivo è quello di favorire la conoscenza e il rispetto delle regole e delle buone prassi per eseguire in sicurezza i lavori su tetti e facciate.

 

Riportiamo brevemente l’elenco delle nove regole:

  • Regola1: Realizzare accessi sicuri;
  • Regola 2: Mettere in sicurezza le zone con rischio caduta;
  • Regola 3: Impedire le cadute verso l’interno dell’edificio;
  • Regola 4: Mettere in sicurezza le aperture nel tetto;
  • Regola 5: Garantire superfici di copertura resistenti alla rottura;
  • Regola 6: Lavorare sulle facciate solo con attrezzature sicure;
  • Regola 7: Ispezionare i ponteggi;
  • Regola 8: Utilizzare correttamente le imbracature anticaduta;
  • Regola 9: Proteggersi dalle polveri di amianto.

 

Rimandando a una lettura integrale del documento, ci soffermiamo in particolare su alcuni approfondimenti correlati a tre diverse regole.

 

La prima regola sottolinea l’importanza di realizzare accessi sicuri.

Secondo il documento elvetico per tutti gli accessi ai ponteggi per facciate si impongono le seguenti regole:

  • tutti i livelli del ponteggio devono essere facilmente accessibili in condizioni di sicurezza: questo vale anche per gli accessi sul lato frontone;
  • gli accessi devono essere realizzati sotto forma di scale fisse;
  • in casi eccezionali (fino a un’altezza di caduta di 5 m) è possibile usare delle scale a pioli.

 

Inoltre le postazioni di lavoro sui tetti possono essere raggiunte mediante i seguenti accessi:

  • ponteggi per facciate;
  • corpi scala;
  • accesso dall’interno dell’edificio;
  • montacarichi per persone.

E si segnala che le scale a gradini sono più sicure delle scale a pioli e più facili da usare. Per questo, se possibile, è bene evitare di usare le scale a pioli.

 

Nella quarta regola il documento di Suva indica che le aperture nel tetto scoperte sono trappole mortali.

Bisogna dunque ricordare ai lavoratori che è necessario controllare sempre se tutte le aperture sono state messe in sicurezza come si deve.

 

Sono riportate alcune misure di sicurezza:

  • priorità all’installazione dal basso di reti di sicurezza portanti: queste reti possono essere montate prima di ogni altra cosa e offrono sicurezza in ogni fase di lavoro;
  • griglie di protezione fisse come protezione permanente per i lucernari;
  • ponteggi di ritenuta;
  • assiti di chiusura montati dal basso o dall’alto, portanti, non smontabili;
  • protezione laterale a tre elementi lungo tutto il perimetro dell’apertura.

E se il dispositivo anticaduta deve essere eccezionalmente rimosso, tutti gli addetti ai lavori devono dotarsi di un’imbracatura di sicurezza.

 

La quinta regola ricorda che è necessario lavorare solo su superfici di copertura resistenti alla rottura.

La scheda, che fa riferimento ad un Ordinanza elvetica sui lavori di costruzione, indica che è vietato lavorare su superfici di copertura non resistenti alla rottura. Si può lavorare solo se è stato accertato con sicurezza che si tratta di coperture resistenti alla rottura. Se la copertura non è totalmente resistente alla rottura, è necessario adottare adeguate misure di sicurezza.

In particolare i seguenti materiali non sono considerati resistenti alla rottura:

  • lastre ondulate in fibrocemento;
  • lucernari “Shed” o a pannelli in materiale plastico (ad esempio policarbonato);
  • lucernari a cupola in materiale plastico (ad esempio policarbonato);
  • pannelli in fibra di legno e pannelli in legno-cemento usati spesso nella sottocopertura del tetto.

 

Si ricordano, infine, anche le misure antisfondamento che possono essere applicate, ad esempio:

  • montaggio di reti di sicurezza al di sotto della copertura;
  • realizzazione di un piano di calpestio portante sulla superficie del tetto con una protezione laterale totale;
  • passerelle portanti con parapetto su entrambi i lati.

 

Il documento di Suva “Nove regole vitali per chi lavora su tetti e facciate – Vademecum” edizione maggio 2012 è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.it/_resources/files/Nove%20regole%20vitali%20per%20chi%20lavora%20su%20tetti%20e%20facciate.pdf

 

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SUL PRINCIPIO DELLA MASSIMA SICUREZZA TECNOLOGICA FATTIBILE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

16 maggio 2016

di Gerardo Porreca

 

Se lo sviluppo delle conoscenze porta all’individuazione di tecnologie più idonee a garantire la sicurezza è possibile pretendere che l’imprenditore proceda a una sostituzione di quelle precedentemente adottate.

 

Torna la Corte di Cassazione in questa Sentenza a occuparsi del principio della migliore tecnologia fattibile in base al quale l’imprenditore, al fine di garantire la sicurezza dei lavoratori dipendenti, deve procedere a una sostituzione delle tecnologie precedentemente adottate con quelle più innovative.

Non può però pretendersi, ha aggiunto la Suprema Corte, che lo stesso proceda a una sostituzione immediata delle tecniche precedentemente adottate con quelle più innovative, dovendosi pur sempre procedere a una complessiva valutazione dei tempi, delle modalità e dei costi dell’innovazione purché ovviamente i sistemi già adottati siano comunque idonei ad assicurare un livello elevato di sicurezza.

Nel caso di cui alla Sentenza, la Corte di Cassazione ha confermata la condanna inflitta dai precedenti gradi di giudizio a un amministratore unico di una società perché al momento dell’evento infortunistico occorso a un lavoratore dipendente era disponibile un sistema di sicurezza, rispetto a quello già utilizzato, più idoneo a prevenire la situazione di pericolo che ha portato all’infortunio, sistema che il datore di lavoro avrebbe quindi dovuto adottare per la tutela della sicurezza del lavoratore.

 

La Corte di Appello ha confermata la Sentenza di condanna emessa dal Tribunale nei confronti dell’amministratore unico di una società per il delitto previsto e punito dall’ articolo 589, primo, secondo e terzo comma del Codice Penale, per avere per colpa specifica, consistita nella violazione della disciplina antinfortunistica, cagionato l’esplosione di un compressore a causa della quale un operaio dipendente della stessa società, che stava provvedendo a operazioni di carico delle autocisterne aziendali con GPL, ha riportato lesioni personali che lo hanno portato alla morte e un altro dipendente della stessa società ha riportato lesioni personali guarite oltre il quarantesimo giorno, con indebolimento permanente dell’organo dell’udito, nonché del reato previsto e punito dal combinato disposto degli articoli 4, comma 5, lettera h), 3, comma q, lettera b), 89, comma 3, lettera a) del D.Lgs. 626/94, per avere omesso di adottare le misure di prevenzione essenziali per garantire la sicurezza dei lavoratori e più precisamente per non avere aggiornato le misure preventive in relazione al grado di evoluzione delle tecnica della prevenzione e della protezione, non avendo provveduto alla predisposizione di dispositivi per evitare l’ingresso della fase liquida all’interno del compressore che così esplodeva cagionando gli eventi citati.

L’imputato è stato, pertanto, dichiarato responsabile del reato ascrittogli e, concessegli le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle aggravanti contestate, veniva condannato alla pena di mesi 6 di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali con pena sospesa, nonché al risarcimento del danno in favore delle parti civili, da liquidarsi in separata sede, con una provvisionale immediatamente esecutiva, pari ad 50.000 euro, per ciascuna parte.

Avverso il provvedimento della Corte di Appello l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia adducendo diverse motivazioni.

Lo stesso ha fatto rilevare che la sentenza impugnata aveva dichiarata la sua responsabilità per aver omesso di adottare le necessarie misure di prevenzione e per non aver aggiornato le misure preventive, mediante l’adozione di dispositivi atti ad evitare l’ingresso della fase liquida all’interno del compressore.

Sarebbe stata più precisamente valutata negativamente per l’imputato l’omessa adozione di un meccanismo di sicurezza chiamato “barilotto trappola”, utilizzato in altre aziende, come accertato dalla ASL nel corso delle indagini e il cui uso avrebbe impedito l’accaduto.

L’affermazione della Corte di Appello sull’obbligatorietà di munire il compressore del GPL del citato dispositivo di sicurezza “barilotto trappola” sarebbe stata, secondo il ricorrente, priva di qualsiasi valore scientifico e sarebbe derivata unicamente da una ricerca empirica condotta dalla ASL, che ne avrebbe appurato l’uso in altre aziende.

 

Il ricorrente ha richiamato la Sentenza della Corte di Cassazione Sezione IV n. 41944 del 19/10/06 riferita alla massima sicurezza tecnologica esigibile dal datore di lavoro.

L’esatta applicazione delle prescrizioni tecniche non esimerebbe il datore di lavoro da responsabilità laddove l’evoluzione tecnologica le abbia di fatto superate.

Nel caso di specie, però, ha sostenuto l’imputato, il compressore in uso era perfettamente funzionante, così come il dispositivo di sicurezza, sistema della stessa natura del “barilotto trappola”, per cui nessun addebito sarebbe stato configurabile a suo carico in quanto il macchinario era munito di un sistema di sicurezza del tutto idoneo.

Non poteva venirgli contestato di non aver adottato un sistema di sicurezza diverso, ma del tutto analogo nei fini a quello di cui era effettivamente munito il macchinario oggetto dell’incidente.

Il ricorrente ha aggiunto, inoltre, che il comportamento del lavoratore, anche qualora non potesse essere ritenuto abnorme e tale da interrompere il nesso di causalità e da porsi come causa sufficiente a determinare l’evento, sarebbe stato nel caso in esame esorbitante e quindi assolutamente imprevedibile per il datore di lavoro.

 

Secondo poi quanto sostenuto dalle parti civili è risultato indubbio nel caso in esame che il datore di lavoro, sebbene in possesso delle certificazioni di regolarità, avrebbe dovuto informarsi dei sistemi di sicurezza esistenti sul mercato e adeguare il proprio impianto con una spesa estremamente contenuta e ancora che l’applicazione del barilotto avrebbe certamente impedito l’accaduto.

La condotta del lavoratore, altresì, non poteva essere considerata abnorme e tale da esonerare il datore di lavoro da responsabilità penali.

 

La Corte di Cassazione ha ritenute infondate le motivazioni del ricorso che è stato pertanto rigettato. La stessa ha messo in evidenza che é vero che il compressore era dotato di un sistema di sicurezza funzionante, ma è vero anche che dalle dichiarazioni rese dai periti era emerso chiaramente che lo stesso non era sufficientemente idoneo per cui il Tribunale prima e poi Corte territoriale avevano maturato il convincimento secondo il quale la presenza del “barilotto trappola” avrebbe impedito la causazione dell’infortunio.

 

A proposito della “massima sicurezza tecnologica” esigibile dal datore di lavoro, la Corte di Cassazione ha ribadito che, in materia di infortuni sul lavoro, è onere dell’imprenditore adottare nell’impresa tutti i più moderni strumenti che offre la tecnologia per garantire la sicurezza dei lavoratori e però anche che “qualora la ricerca e lo sviluppo delle conoscenze portino alla individuazione di tecnologie più idonee a garantire la sicurezza, non è possibile pretendere che l’imprenditore proceda a un’immediata sostituzione delle tecniche precedentemente adottate con quelle più recenti e innovative, dovendosi pur sempre procedere a una complessiva valutazione sui tempi, modalità e costi dell’innovazione, purché, ovviamente, i sistemi già adottati siano comunque idonei a garantire un livello elevato di sicurezza”.

 

Con riferimento però al caso in esame la Corte territoriale aveva posto in evidenza che il sistema di sicurezza costituito dal così detto “barilotto trappola” non costituiva una novità, essendo in uso in aziende analoghe secondo il perito e almeno dagli anni 1990 secondo uno dei testi dedotti dalla parte civile, e quindi avrebbe potuto essere utilizzato.

Il datore di lavoro in definitiva, sebbene in possesso delle certificazioni di regolarità dell’impianto, era tenuto ad aggiornarsi circa i sistemi di sicurezza esistenti sul mercato e ad adeguare l’impianto stesso con una spesa tra l’altro estremamente contenuta.

 

In merito, infine, alla tesi sostenuta dal ricorrente della interruzione del nesso di causalità tra l’accertata carenza del sistema di sicurezza e la morte del lavoratore, dovendo la stessa attribuirsi al comportamento abnorme dei lavoratori ed essendo l’evento stesso imprevedibile e inevitabile, la Corte di Cassazione ha ribadito quanto più volte sostenuto e cioè che il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione ad un evento, quando questo sia da ricondurre comunque all’insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente, non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro.

 

La Sentenza n. 3616 del 27 gennaio 2016 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14620:cassazione-penale-sez-4-27-gennaio-2016-n-3616-esplosione-di-un-compressore-durante-le-operazioni-di-carico-delle-autocisterne-aziendali-con-gpl-massima-sicurezza-tecnologica-esigibile-dal-datore-di-lavoro&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.255 DEL 23/05/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.252 DEL 22/04/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.252 DEL 22/04/16

 

INDICE

  • Camera di medicazione aziendale e personale sanitario
  • L’infortunio in itinere: il risarcimento dei danni subiti nel tragitto casa-lavoro
  • Il tempo per indossare la divisa da lavoro va retribuito
  • Lo stress lavoro correlato questo sconosciuto…in Italia
  • Immagini e indicazioni per l’utilizzo in sicurezza dei trabattelli
  • Un nuovo supporto per utilizzare scale portatili più sicure
  • Sette regole vitali per chi lavora sulle linee elettriche

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

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CAMERA DI MEDICAZIONE AZIENDALE E PERSONALE SANITARIO

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.74

 

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti dei lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

 

 

QUESITO

 

Ciao Marco,

l’azienda in cui lavoro (azienda chimica-farmaceutica), con circa 380 dipendenti che lavorano su 3 turni settimanali, ha nel proprio sito una camera di medicazione con un presidio infermieristico giornaliero con una infermiera professionale, dalle ore 8.00 alle ore 16.00. Fino a qualche anno fa il presidio infermieristico era di 2 persone dalle ore 6.00 alle ore 22.00 che è stato ridotto.

Oggi l’azienda sulla scorta della decisione di vendere il sito a terzi ha cominciato a ridurre i costi e quindi a fare tagli al servizio di infermeria, in cui vuole ulteriormente ridurre le ore di presidio infermieristico giornaliero della camera di medicazione.

Ho visto che il punto 5.6 “Camera di medicazione” dell’Allegato IV “Requisiti dei luoghi di lavoro” del D.Lgs. 81/08 prevede che le aziende industriali che occupano più di 50 dipendenti soggetti all’obbligo delle visite mediche preventive e periodiche a norma dell’articolo 40 del Decreto, sono obbligate a tenere e allestire adeguatamente la camera di medicazione.

Inoltre, il punto 5.8 “Personale sanitario” sempre del suddetto Allegato prevede che tale tipo di aziende debbano avere un presidio con un infermiere o, in difetto, con una persona pratica dei servizi di infermeria, incaricato di curare la buona conservazione dei locali, degli arredi e dei materiali destinati al pronto soccorso.

Secondo le procedure aziendali, quando avviene un infortunio e un incidente occorre chiamare il pronto soccorso pubblico di zona.

Abbiamo inoltre una squadra di primo soccorso, preparata ad allertare i soccorsi del personale sanitario e intervenire per adottare le prime misure basi di salvaguardia dell’infortunato.

Ma tutto ciò non può sostituire le capacità di un presidio infermieristico o personale sanitario che è professionalmente preparato a un trattamento tempestivo e appropriato di un individuo ferito, il cui intervento primario di primo soccorso che riceve fin dall’inizio può essere determinante riguardo alla possibilità di sopravvivenza e di guarigione dello stesso infortunato.

La domanda che ti pongo è: cosa si può fare sotto l’aspetto della norma?

Sicuramente possiamo esercitare una protesta sindacale per questa riduzione della sicurezza quando gli sprechi sono altrove.

Ti ringrazio per l’attenzione, saluti.

 

 

RISPOSTA

 

Ciao,

tieni conto che il tuo quesito non è di facile risposta, in quanto la normativa è abbastanza vaga in merito.

 

Faccio prima di tutto una necessaria e indispensabile precisazione.

Tutto il punto 5 dell’Allegato IV del D.Lgs. 81/08, relativo alla struttura di primo soccorso aziendale (al cui interno erano contenuti i punti 5.6 e 5.8 da te citati) è stato integralmente eliminato dal famigerato Decreto cosiddetto “correttivo” del Governo Berlusconi (il Decreto Legislativo n. 106 del 3 agosto 2009).

 

Ad oggi quindi il D.Lgs. 81/08 non dispone nessuna prescrizione per i locali di primo soccorso, se non quelle che riporterò nel seguito.

In merito alla organizzazione del servizio di primo soccorso il D.Lgs. 81/08 è di fatto abbastanza vago, lasciando alla responsabilità del datore di lavoro l’organizzazione del servizio, ma rimandando anche, per alcuni dettagli della organizzazione, al Decreto Ministeriale n. 388 del 15 luglio 2003 (D.M. 388/03).

 

In merito al servizio di primo soccorso (e in generale ai servizi di gestione dell’emergenza) il D.Lgs. 81/08 impone genericamente come obbligo al datore di lavoro o al dirigente quanto disposto dall’articolo 18, comma 1 alle lettere b), h), t):

Il datore di lavoro […] e i dirigenti […] devono:

[…]

  1. b) designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza;

[…]

  1. h) adottare le misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato ed inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa;

[…]

  1. t) adottare le misure necessarie ai fini della prevenzione incendi e dell’evacuazione dei luoghi di lavoro, nonché per il caso di pericolo grave e immediato, secondo le disposizioni di cui all’articolo 43. Tali misure devono essere adeguate alla natura dell’attività, alle dimensioni dell’azienda o dell’unità produttiva, e al numero delle persone presenti;

[…] “

L’articolo 43 definisce poi in generale gli obblighi relativi alla gestione delle emergenze, specificando al comma 1, lettera a) che:

Ai fini degli adempimenti di cui all’articolo 18, comma 1, lettera t), il datore di lavoro organizza i necessari rapporti con i servizi pubblici competenti in materia di primo soccorso, salvataggio, lotta antincendio e gestione dell’emergenza”.

 

Pertanto un primo obbligo definito in dettaglio dal D.Lgs. 81/08 è quello di garantire la possibilità di contattare i servizi pubblici di emergenza, con particolare riferimento al servizio di pronto soccorso.

La successiva lettera b) richiama poi l’obbligo di designazione degli addetti al servizio di primo soccorso:

“[il datore di lavoro] designa preventivamente i lavoratori di cui all’articolo 18, comma 1, lettera b)”.

L’articolo 43 non specifica però quale deve essere il numero minimo degli addetti al servizio di emergenza (e quindi di primo soccorso) limitandosi ad affermare genericamente al comma 2 che:

Ai fini delle designazioni di cui al comma 1, lettera b), il datore di lavoro tiene conto delle dimensioni dell’azienda e dei rischi specifici dell’azienda o della unità produttiva secondo i criteri previsti nei decreti di cui all’articolo 46”.

In realtà i “decreti di cui all’articolo 46” relativamente al primo soccorso non sono mai stati emanati, per cui la decisione in merito al numero degli addetti al primo soccorso è lasciata alla decisione del datore di lavoro.

 

L’articolo 45 del D.Lgs. 81/08 tratta più in dettaglio dell’organizzazione del primo soccorso, specificando al comma 1 che:

Il datore di lavoro, tenendo conto della natura dell’attività e delle dimensioni dell’azienda o della unità produttiva, sentito il medico competente ove nominato, prende i provvedimenti necessari in materia di primo soccorso e di assistenza medica di emergenza, tenendo conto delle altre eventuali persone presenti sui luoghi di lavoro e stabilendo i necessari rapporti con i servizi esterni, anche per il trasporto dei lavoratori infortunati”.

Pertanto tale dettato lascia al datore di lavoro la responsabilità di organizzare il servizio di primo soccorso, in termini di numero di persone, di presenza eventuale di sala medica e di modalità di contattare i servizi esterni.

 

Il successivo comma 2 rimanda al D.M. 388/03 la definizione delle attrezzature minime di primo soccorso e di qualificazione professionale dei componenti della squadra di primo soccorso:

Le caratteristiche minime delle attrezzature di primo soccorso, i requisiti del personale addetto e la sua formazione, individuati in relazione alla natura dell’attività, al numero dei lavoratori occupati ed ai fattori di rischio sono individuati dal Decreto Ministeriale 15 luglio 2003, n. 388 e dai successivi Decreti Ministeriali di adeguamento acquisito il parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano”.

 

Va osservato che i “successivi Decreti Ministeriali di adeguamento” non sono mai stati emanati, per cui, ad oggi, si applica solo quanto stabilito dal D.M. 388/03.

 

I dettati del D.M. 388/03 variano in funzione della tipologia di azienda, secondo la classificazione di cui all’articolo 1, comma 1:

Gruppo A:

  1. I) aziende o unità produttive con attività industriali, soggette all’obbligo di dichiarazione o notifica, di cui all’articolo 2, del Decreto Legislativo 17 agosto 1999, n. 334, centrali termoelettriche, impianti e laboratori nucleari di cui agli articoli 7, 28 e 33 del Decreto Legislativo 17 marzo 1995, n. 230, aziende estrattive ed altre attività minerarie definite dal Decreto Legislativo 25 novembre 1996, n. 624, lavori in sotterraneo di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 1956, n. 320, aziende per la fabbricazione di esplosivi, polveri e munizioni;
  2. II) aziende o unità produttive con oltre cinque lavoratori appartenenti o riconducibili ai gruppi tariffari INAIL con indice infortunistico di inabilità permanente superiore a quattro, quali desumibili dalle statistiche nazionali INAIL relative al triennio precedente ed aggiornate al 31 dicembre di ciascun anno;

III) Aziende o unità produttive con oltre cinque lavoratori a tempo indeterminato del comparto dell’agricoltura.

Gruppo B:

aziende o unità produttive con tre o più lavoratori che non rientrano nel gruppo A.

Gruppo C:

aziende o unità produttive con meno di tre lavoratori che non rientrano nel gruppo A”.

Nel tuo caso (azienda chimica con più di tre lavoratori con indice infortunistico inferiore a 4) l’azienda appartiene al gruppo B.

 

Le attrezzature di primo soccorso per le aziende sono definite dall’articolo 2 del D.M. 388/03:

1. Nelle aziende o unità produttive di gruppo A e di gruppo B, il datore di lavoro deve garantire le seguenti attrezzature:

  1. a) cassetta di pronto soccorso, tenuta presso ciascun luogo di lavoro, adeguatamente custodita in un luogo facilmente accessibile ed individuabile con segnaletica appropriata, contenente la dotazione minima indicata nell’Allegato 1, che fa parte del presente Decreto, da integrare sulla base dei rischi presenti nei luoghi di lavoro e su indicazione del medico competente, ove previsto, e del sistema di emergenza sanitaria del Servizio Sanitario Nazionale, e della quale sia costantemente assicurata, la completezza ed il corretto stato d’uso dei presidi ivi contenuti;
  2. b) un mezzo di comunicazione idoneo ad attivare rapidamente il sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale.
  3. Nelle aziende o unità produttive di gruppo C, il datore di lavoro deve garantire le seguenti attrezzature:
  4. a) pacchetto di medicazione, tenuto presso ciascun luogo di lavoro, adeguatamente custodito e facilmente individuabile, contenente la dotazione minima indicata nell’allegato 2, che fa parte del presente decreto, da integrare sulla base dei rischi presenti nei luoghi di lavoro, della quale sia costantemente assicurata, in collaborazione con il medico competente, ove previsto, la completezza ed il corretto stato d’uso dei presidi ivi contenuti;
  5. b) un mezzo di comunicazione idoneo ad attivare rapidamente il sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale.
  6. Il contenuto minimo della cassetta di pronto soccorso e del pacchetto di medicazione, di cui agli Allegati 1 e 2, è aggiornato con Decreto dei Ministri della salute e del lavoro e delle politiche sociali tenendo conto dell’evoluzione tecnico-scientifica.

[…]”

Come vedi, il D.M. 388/03 non parla più di locale di primo soccorso, ritenendo sufficiente la cassetta di primo soccorso.

Per il dettaglio degli Allegati ti rimando al D.M. 388/03 che puoi scaricare al link

https://www.unipa.it/strutture/spp/.content/documenti/DM-_388_03.pdf.

 

I requisiti e la formazione degli addetti al primo soccorso sono infine definiti all’articolo 3 del D.M. 388/03:

1. Gli addetti al pronto soccorso, designati ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera b), del Decreto Legislativo 19 settembre 1994, n. 626 [ora articolo 43, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 81/08], sono formati con istruzione teorica e pratica per l’attuazione delle misure di primo intervento interno e per l’attivazione degli interventi di pronto soccorso.

  1. La formazione dei lavoratori designati è svolta da personale medico, in collaborazione, ove possibile, con il sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale. Nello svolgimento della parte pratica della formazione il medico può avvalersi della collaborazione di personale infermieristico o di altro personale specializzato.
  2. Per le aziende o unità produttive di gruppo A i contenuti e i tempi minimi del corso di formazione sono riportati nell’Allegato 3, che fa parte del presente decreto e devono prevedere anche la trattazione dei rischi specifici dell’attività svolta.
  3. Per le aziende o unità produttive di gruppo B e di gruppo C i contenuti ed i tempi minimi del corso di formazione sono riportati nell’Allegato 4, che fa parte del presente Decreto.
  4. Sono validi i corsi di formazione per gli addetti al pronto soccorso ultimati entro la data di entrata in vigore del presente Decreto. La formazione dei lavoratori designati andrà ripetuta con cadenza triennale almeno per quanto attiene alla capacità di intervento pratico”.

Per il dettaglio degli Allegati relativamente alla durata e ai contenuti dei corsi di formazione per gli addetti al primo soccorso ti rimando sempre al D.M. 388/03.

Metto però in evidenza che tali Allegati non richiedono una preparazione o una formazione scolastica di base, né titoli professionali, ma soltanto un corso di formazione (che nel caso delle aziende del gruppo B è di sole 12 ore).

 

Infine l’articolo 4 del D.M. 388/03 impone al datore di lavoro di disporre in azienda le attrezzature minime per il primo soccorso, da definire in collaborazione col medico competente:

1. Il datore di lavoro, in collaborazione con il medico competente, ove previsto, sulla base dei rischi specifici presenti nell’azienda o unità produttiva, individua e rende disponibili le attrezzature minime di equipaggiamento e i dispositivi di protezione individuale per gli addetti al primo intervento interno ed al pronto soccorso.

  1. Le attrezzature e i dispositivi di cui al comma 1 devono essere appropriati rispetto ai rischi specifici connessi all’attività lavorativa dell’azienda e devono essere mantenuti in condizioni di efficienza e di pronto impiego e custoditi in luogo idoneo e facilmente accessibile”.

Anche tale articolo però rimane del tutto nel vago nella definizione di tali attrezzature, specificando solo in modo del tutto generale che esse “devono essere appropriati rispetto ai rischi specifici connessi all’attività lavorativa dell’azienda”.

Per quanto sopra detto quindi, gli obblighi a carico dell’azienda relativamente al primo soccorso sono:

  • designare gli addetti aziendali al servizio di primo soccorso, che devono essere in numero sufficiente in funzione delle dimensioni e dei rischi specifici della azienda e devono essere adeguatamente informati, formati e addestrati, secondo i contenuti minimi riportati nel D.M. 388/03;
  • garantire la possibilità di comunicazione con i servizi esterni di pronto soccorso (118);
  • garantire la presenza di cassette di medicazione come definite, in funzione della tipologia di azienda dagli allegati del D.M. 388/03,
  • garantire la presenza di attrezzature di primo soccorso, senza però che queste siano definite da atti normativi.

Nulla però viene detto relativamente alla necessità della presenza di un medico laureato e specializzato in primo soccorso, o di un infermiere professionista, tanto che per gli addetti al servizio di primo soccorso non è previsto, né nel D.Lgs. 81/08, né nel D.M. 388/03, nessuna pregressa istruzione o formazione e sono sufficienti le poche ore di formazione previste dagli Allegati del D.M 388/03.

 

E’ comunque vero che il datore di lavoro si assume la responsabilità (assieme, per quanto richiamato dagli atti citati, al medico competente) di come viene organizzato il primo soccorso in termini di risorse umane e strumentali.

La definizione dell’organizzazione del primo soccorso (come di tutte le misure di prevenzione e protezione) deve essere contenuta in maniera formale all’interno del Documento di Valutazione dei Rischi, di cui agli articoli 17, comma 1, lettera a), 28 e 29 del D.Lgs.81/08, in virtù di quanto disposto dall’articolo 28, comma 2, lettera b) del decreto che stabilisce che tale Documento deve contenere:

l’indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati”.

Tale documento è consultabile dal Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza che può esprimere le sue opinioni sull’adeguatezza del servizio di primo soccorso e fare osservazioni e proposte in merito (articolo 50 del D.Lgs. 81/08).

 

Inoltre, in riferimento al tuo caso, in cui era presente una struttura per la gestione delle emergenze di primo soccorso già definita (e molto ben strutturata), vale comunque il concetto (richiamato dal D.Lgs. 81/08) che, in ogni caso, le misure di prevenzione (come in questo caso) e di protezione per tutelare la salute dei lavoratori non possano essere mai diminuite, ma solo migliorate.

Infatti l’articolo 15, comma 1, lettera specifica che:

Le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono:

[…]

la programmazione delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza, anche attraverso l’adozione di codici di condotta e di buone prassi

[…]”

E in maniera più cogente (trattandosi di obbligo) l’articolo 28, comma 1, lettera c) specifica che il “documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a) [Documento di Valutazione dei Rischi]” deve contenere tra l’altro “il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza”.

Pertanto la legge italiana prevede che ogni azienda debba programmare e attuare misure di miglioramento della sicurezza e, di conseguenza, non possa diminuire quelle già esistenti.

In questo senso il programma aziendale di limitare il servizio di primo soccorso, in assenza di interventi di compensazione (che devono essere comunque specificati nel Documento di Valutazione dei Rischi) che garantiscano un medesimo livello di efficacia ed efficienza non è legalmente attuabile.

 

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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L’INFORTUNIO IN ITINERE: IL RISARCIMENTO DEI DANNI SUBITI NEL TRAGITTO CASA-LAVORO

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

11 aprile 2016

avvocato Pino Cupito

 

Analisi di un particolare tipo di danno risarcibile alla luce della recente attività giurisprudenziale: la caduta dalla bicicletta.

 

L’infortunio in itinere rappresenta quel danno risarcibile patito dal lavoratore durante il “normale tragitto” che quest’ultimo compie, all’andata e al ritorno, dal luogo della propria abitazione a quello di lavoro. Tale infortunio inoltre, in assenza di un servizio di mensa aziendale, potrà eventualmente ricomprendere anche il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di abituale consumazione dei pasti.

 

In via del tutto esemplificativa, per “normale percorso” deve chiaramente intendersi quello più breve e diretto rispetto alla propria sede lavorativa nonché quello perimetrato entro un ragionevole arco temporale.

 

Tuttavia, preme da subito precisare che la tutela risarcitoria prevista per tale tipologia di danno, potrà comunque essere invocata dal lavoratore qualora si verifichino circostanze atte oggettivamente a impedire a quest’ultimo di seguire detto “normale tragitto” e che lo costringano a un percorso alternativo. Basti pensare al riguardo alle ipotesi di interruzione o deviazione di percorso effettuate su ordine del datore di lavoro o dovute a forza maggiore.

 

Il risarcimento dei danni scatterà inoltre anche qualora il lavoratore utilizzi, per raggiungere il proprio luogo di impiego, un mezzo di trasporto privato, sempre che tale scelta sia all’uopo necessitata. Frequenti infatti sono i casi in cui il luogo di lavoro risulti ubicato in una zona non sufficientemente servita o del tutto sprovvista di mezzi pubblici.

 

Chiarificatore sul punto è stato inoltre l’intervento della Cassazione, la quale ha in più occasioni sancito la possibilità di utilizzo del mezzo di trasporto privato:

  • in totale assenza di mezzi pubblici;
  • in presenza mezzi pubblici che non consentano il puntuale raggiungimento del luogo di lavoro;
  • in caso di eccessivo disagio procurato dallo stato in cui versano i mezzi pubblici presenti sulla zona interessata.

Certamente, nell’ipotesi soprindicata, imprescindibile sarà, ai fini risarcitori, il rispetto da parte del lavoratore delle norme del Codice della Strada in occasione del sinistro.

 

Infine il recente sviluppo giurisprudenziale, allargando le maglie delle fattispecie analizzata, ha ricompreso nell’infortunio in itinere sia l’ipotesi di lesioni conseguenti a una rapina subita dal lavoratore durante il percorso casa-lavoro, sia i casi di infortunio avvenuti durante il cammino a piedi o addirittura durante il trasporto su mezzi pubblici.

 

Alla luce delle considerazioni esposte, pare dunque evidente a giudizio di chi scrive come, salvo i cennati casi eccezionali, debbano escludersi dalla fattispecie esaminata gli incidenti che, per contro, si verificano in occasione di anomale interruzioni e/o deviazioni del nomale tragitto casa-lavoro.

 

Si suole parlare al riguardo del cosiddetto “rischio elettivo”, riferendosi con tale locuzione all’ipotesi in cui la situazione di pericolo sia causata unicamente dal lavoratore, il quale, assumendo un comportamento abnorme ed arbitrario dettato esclusivamente da scelte personali, interrompe il nesso di causalità tra l’evento e il danno subito.

 

Singolare sul punto è stata infatti la recente vicenda, portata all’attenzione del Supremo Collegio, di un lavoratore che, in occasione di un sinistro stradale occorso durante il tragitto casa-lavoro, si è visto negare dal giudice il risarcimento dei danni in quanto abitando in prossimità del luogo di lavoro e in zona ben servita da mezzi pubblici, si recava ugualmente in servizio con la propria autovettura. (Sentenza n. 22154 del 20/10/14 Cassazione Civile).

 

Orbene, sotto un profilo eminentemente pratico, deve precisarsi che il risarcimento delle lesioni subite costituisce un onere pecuniario sia della compagnia assicurativa che dell’INAIL e a entrambi dovrà consequenzialmente inoltrarsi la formale denuncia.

Tuttavia è bene ricordare che mentre, da un lato, l’indennizzo offerto dall’INAIL non coprirà l’intero danno subito dal lavoratore non risarcendo infatti l’Istituto anche il danno morale, dall’altro lato, il lavoratore danneggiato non potrà cumulare l’indennizzo INAIL con quello già ricevuto dalla compagnia assicurativa.

 

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IL TEMPO PER INDOSSARE LA DIVISA DA LAVORO VA RETRIBUITO

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

18 aprile 2016

avvocato Barbara Pirelli

 

Per il Tribunale di Ascoli (sentenza n. 583/2015), se è il datore di lavoro a indicare il tempo e il luogo dell’esecuzione della prestazione, questa è connessa allo svolgimento dell’attività lavorativa

 

Alice nel Paese delle Meraviglie chiedeva al Bianconiglio: “Per quanto tempo è per sempre?” Il Bianconiglio rispondeva: “A volte solo un secondo”.

Certamente non ha chiesto un secondo ma dieci minuti di tempo il personale turnista infermieristico e ostetrico dell’ASUR Marche per poter indossare e dismettere la divisa di lavoro. Questa attività di vestizione, all’ingresso e svestizione all’uscita dal luogo di lavoro non veniva retribuita, per questa ragione il personale infermieristico ha agito in giudizio, dinanzi al Tribunale di Ascoli Piceno, per vedersi riconosciuto il pagamento di quei dieci minuti necessari per cambiarsi d’abito ed indossare la divisa oppure togliere la stessa alla fine del turno.

 

Ovviamente la ASUR Marche, convenuta in giudizio, riteneva assolutamente infondata la richiesta avanzata dal personale infermieristico; di diverso avviso è stato il Giudice, nella persona del Giudice Onorario Tiziana D’Ecclesia, che con la Sentenza n. 583 del 18/12/15, ha accolto le richieste avanzate dal personale infermieristico e ostetrico chiarendo in maniera puntuale le ragioni per le quali il tempo di vestizione e svestizione andava retribuito.

 

Come ricordato dal Regio Decreto n.692 del 5 marzo 1923 all’articolo 3, va considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa, inoltre, secondo la giurisprudenza comunitaria (Corte di Giurisprudenza della Commissione Europea con Sentenza del 09/09/03) per comprendere se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro bisogna stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato a essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e a disposizione del datore di lavoro.

La Corte di Cassazione ha, altresì, precisato che le attività preparatorie vanno distinte in “remote e dirette”: le prime ad esempio riguardano il tragitto per recarsi sul posto di lavoro mentre, per le seconde va valutata la disciplina contrattuale.

 

In parole semplici, se il lavoratore ha la possibilità di scegliere liberamente dove cambiarsi, ad esempio a casa, questa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa e in considerazione di ciò questa attività non va retribuita.

Al contrario se è il datore di lavoro a indicare il tempo e il luogo dell’esecuzione allora il lasso di tempo che occorre per svolgere questa attività deve essere retribuito.

 

Nel caso in questione il personale infermieristico e ostetrico dell’ASUR Marche, per questioni igieniche, è tenuto ad indossare la divisa negli stessi ambienti dell’azienda mentre non possono arrivare in divisa sul posto di lavoro, indossando la stessa a casa.

 

Di conseguenza indipendentemente dall’orario di timbratura la retribuzione viene corrisposta a decorrere dall’inizio formale del turno. Questo significa che i lavoratori sono tenuti ad arrivare in anticipo sul posto di lavoro proprio per effettuare le attività di vestizione. Tale attività è quindi connessa allo svolgimento della prestazione lavorativa e dunque riferibile al tempo di effettiva prestazione di lavoro, che va retribuita.

 

In buona sostanza, il lavoratore dedica una parte del proprio tempo, nel rispetto delle direttive datoriali, per indossare la divisa, tempo che va retribuito. Con riferimento, poi, al tempo necessario per effettuare queste operazioni il giudice ha riconosciuto un tempo di 10 minuti per la vestizione in entrata e altri 10 minuti per la vestizione in uscita, il tutto nei limiti della prescrizione quinquennale decorrente a ritroso dalla data di notifica del ricorso introduttivo all’azienda convenuta.

 

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LO STRESS LAVORO CORRELATO QUESTO SCONOSCIUTO…IN ITALIA

 

Da FILCAMS CGIL Lombardia

http://www.rlsfilcams-lombardia.org

 

Quando cinque anni fa la legislazione italiana recepì le Direttive europee su stress lavoro correlato, ci fu una certa attenzione al tema, attenzione che però fu più mediatica che reale.

Si parlo molto degli effetti e delle possibili incidenze dello stress lavoro correlato sulla salute dei lavoratori, innumerevoli furono i convegni e le pubblicazioni sul tema.

Le aziende, quasi tutte, si diedero da fare e aggiunsero un altro fascicolo al documento di valutazione del rischio.

Essendo l’argomento non semplice e avendo dirette conseguenze sull’organizzazione dell’attività lavorativa la gran parte dei datori di lavoro con il supporto dei Medici Competenti e dei Responsabili del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) assolsero gli obblighi di legge in modo poco più che formale.

I Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) furono coinvolti in modo marginale nel processo che avrebbe dovuto portare alla valutazione del rischio stress lavoro correlato.

 

In Italia il risultato di tutto quel dibattito pubblico, di tutte quelle dotte valutazioni è che nelle aziende italiane lo stress lavoro correlato è un problema irrilevante.

Questo mentre secondo l’Agenzia Europea per la Salute e Sicurezza del Lavoro le percentuali dei lavoratori esposti a rischio stress lavoro correlato nei ventisette stati membri dell’Unione Europea si aggira sul 27-30% ovvero 54 milioni di lavoratori.

Ergo se in Europa il problema esiste in modo considerevole e in Italia è irrilevante è chiaro che c’è del marcio…non in Danimarca, come dice Marcello nell’Amleto, ma in Italia.

 

Le ragioni di una tale situazione possono essere molteplici:

  • l’acquisto di pacchetti di valutazioni di stress lavoro correlato preconfezionati, così come di Documenti di Valutazione dei Rischi;
  • la non validità dei sistemi di valutazione adottati dalle aziende;
  • la validità dei sistemi di valutazione adottati, ma un loro utilizzo parziale e finalizzato a raggiungere un determinato obiettivo (l’irrilevanza del problema) e non a fotografare la realtà;
  • il mancato coinvolgimento dei RLS e dei lavoratori nel processo di valutazione.

 

E’ proprio dal punto dal corretto coinvolgimento nel processo di valutazione dei RLS e dei lavoratori che dobbiamo ripartire, se non vogliamo essere corresponsabili di chi nasconde la polvere sotto il tappeto o la tenda.

La legge ci dà una grossa mano in quanto prevede che la valutazione del rischio stress lavoro correlato vada aggiornata ogni 2/3 anni.

 

Nel link riportato trovate un utilissimo documento del Comitato Tecnico interregionale della prevenzione nei luoghi di lavoro.

Le pagine da 7 a 30 sono un bigino su cos’è lo stress lavoro correlato e come effettuarne la valutazione.

Pagine semplici che consentono anche a chi è digiuno della materia di orientarsi.

 

Da pagina 31 a pagina 34, trovate, invece, quelle che sono le indicazioni alle quali per gli organi di vigilanza dovrebbero attenersi per verificare o meno il corretto adempimento da parte del datore di lavoro degli obblighi connessi alla valutazione del rischio stress lavoro correlato.

 

Basta che i RLS o anche RSA verifichino se le indicazioni lì riportate siano state più o meno osservate nella stesura della valutazione del rischio da stress lavoro correlato della propria azienda per poter rimettere in discussione la valutazione fatta e qualora l’azienda non fosse disposta a rivederla nel rispetto della normativa richiedere ai sensi articolo 50 del D.Lgs. 81/08 l’intervento degli organi di vigilanza.

 

Un caso concreto, ma purtroppo non il solo.

C’è un grande multinazionale che predispone la valutazione del rischio stress e del suo aggiornamento come prevede la legge.

Nel farlo, però, l’azienda divide sì i lavoratori in gruppi omogenei, ricerca gli eventi sentinella (ma ai RLS non consegna i dati, né lo storico degli stessi), dispone quindi un questionario per la valutazione dei fattori di contesto e contenuto, ma lo stesso viene fatto compilare non ai lavoratori dei gruppi omogenei, ma ai responsabili operativi degli stessi unitamente a Medico Competente e RSPP.

E’ chiaro che ci troviamo, in questo caso, di fronte all’utilizzo distorto di una procedura corretta al fine di raggiungere il risultato atteso, l’irrilevanza dello stress lavoro correlato in quell’azienda.

 

Sappiamo benissimo che non è semplice anche solo tentare di richiedere, nella riunione periodica o in altri momenti di consultazione, il rispetto della legge di fronte a chi ha il potere (Datore di Lavoro), la conoscenza/competenza e capacita nell’argomentare (Medico Competente e RSPP), ma dobbiamo farlo se vogliamo svolgere a pieno il ruolo di RLS.

 

Per questo vi sollecito nuovamente ad un’attenta lettura del documento sullo stress lavoro correlato scaricabile al link sotto riportato.

 

Cordiali saluti

Giorgio Ortolani

 

Il documento “Indicazioni per la corretta gestione del rischio stress lavoro correlato” edizione gennaio 2012 è scaricabile all’indirizzo:

http://www.rlsfilcams-lombardia.org/app/download/6034801951/Indicazioni+per+la+corretta+gestione+del+rischio+SLC+-+gennaio+2012.pdf?t=1457277074

 

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IMMAGINI E INDICAZIONI PER L’UTILIZZO IN SICUREZZA DEI TRABATTELLI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

08 aprile 2016

 

Un quaderno per immagini dell’INAIL è dedicato ai trabattelli. La scelta dei trabattelli, il manuale di istruzioni, i controlli prima dell’uso e le immagini per migliorare la comunicazione della sicurezza nei cantieri edili.

 

Una delle attrezzature di lavoro molto utilizzate nei lavori edili, specialmente laddove ci si debba spostare rapidamente e si debbano eseguire lavori a quote non elevate, è il trabattello. E i trabattelli, se non scelti e utilizzati correttamente, possono essere correlati a gravi incidenti di lavoro.

 

Per migliorare la prevenzione degli infortuni e superare le difficoltà di comunicazione in materia di sicurezza dovute alla presenza di lavoratori stranieri nei cantieri, riprendiamo la presentazione degli otto opuscoli che compongono la collana “Quaderni per immagini”, realizzati dalla sinergia di due strutture INAIL, il Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti e insediamenti antropici (DIT) e la Direzione centrale pianificazione e comunicazione. Pubblicazioni che veicolano le informazioni attraverso disegni con funzione didascalica (il breve testo di presentazione è scritto in cinque lingue: italiano, inglese, francese, albanese e rumeno) e che sono correlate alla collana di “Quaderni Tecnici per i cantieri temporanei o mobili”, già edita dall’INAIL in riferimento agli stessi temi dei “Quaderni per immagini” (scale portatili, trabattelli, parapetti provvisori, ancoraggi, reti di sicurezza, ponteggi fissi, sistemi di protezione degli scavi a cielo aperto e sistemi di protezione individuale dalle cadute).

 

Dopo aver già presentato nei giorni scorsi i quaderni relativi ai sistemi di protezione individuale dalle cadute e ai ponteggi fissi, ci soffermiamo oggi sul “Quaderno per immagini” dal titolo “Trabattelli”, quaderno che sottolinea l’importanza di scegliere trabattelli sicuri.

 

In particolare si indica che datore di lavoro deve scegliere il trabattello più idoneo alla natura dei lavori da eseguire ed alle sollecitazioni prevedibili considerando:

  • le dimensioni dell’impalcato;
  • l’altezza massima in base alla presenza o all’assenza di vento;
  • la classe di carico;
  • il tipo di accesso agli impalcati: scala a rampa, scala a gradini scala a pioli inclinata, scala a pioli verticale;
  • i carichi orizzontali e verticali che possono contribuire a rovesciarlo;
  • le condizioni del terreno;
  • l’uso di stabilizzatori, sporgenze esterne e/o zavorre;
  • la necessità degli ancoraggi.

 

Per avere ulteriori informazioni sulla sicurezza dei trabattelli possiamo fare riferimento anche al Quaderno Tecnico “Trabattelli” realizzato dal Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti e insediamenti antropici (DIT) dell’INAIL.

 

Ad esempio nel manuale di istruzioni che il fabbricante deve produrre a corredo di ogni trabattello (deve essere disponibile nel luogo di utilizzo e nella lingua del Paese di utilizzo), il Quaderno Tecnico indica che devono essere specificati tutti quei fattori che influiscono sulla stabilità dell’attrezzatura.

In particolare:

  • le condizioni del vento e gli interventi da effettuare nel caso in cui esse non permettano di lavorare sul trabattello e quando lo stesso deve essere smontato o fissato;
  • le istruzioni per l’uso di stabilizzatori, sporgenze esterne e/o zavorra per tutte le condizioni previste nell’uso sul trabattello;
  • gli avvertimenti relativi ai carichi orizzontali e verticali che contribuiscono a rovesciare il trabattello, quali: carichi orizzontali causati dall’uso, per esempio per effetto del lavoro in corso su una struttura adiacente; carichi aggiuntivi del vento (effetto galleria di edifici aperti verso l’alto, edifici non rivestiti e sugli angoli di edifici);
  • le raccomandazioni per il fissaggio dei trabattelli lasciati incustoditi.

E il manuale deve contenere l’avvertimento: “Stabilizzatori o sporgenze esterne e zavorra devono essere sempre applicati quando ciò è specificato”.

 

Riguardo all’uso del trabattello il Quaderno Tecnico indica poi che nel manuale di istruzioni il fabbricante deve specificare i seguenti controlli prima di ogni uso del trabattello, in aggiunta a quelli eseguiti durante la fase di montaggio:

  • verificare che il trabattello sia verticale o richieda un riposizionamento;
  • verificare che il montaggio strutturale sia sempre corretto e completo;
  • verificare che nessuna modifica ambientale influisca sulla sicurezza di utilizzo del trabattello.

Il manuale deve inoltre:

  • fornire indicazioni per l’uso in sicurezza nel rispetto dei regolamenti nazionali;
  • precisare che non è consentito aumentare l’altezza dell’impalcato mediante l’uso di scale, casse o altri dispositivi;
  • fornire indicazioni riguardo al sollevamento di utensili e materiali fino agli impalcati di lavoro del trabattello, nei limiti dei carichi ammissibili e della stabilità.

 

Torniamo ora al nuovo “Quaderno per Immagini” ricordando brevemente tutte le immagini contenute nel nuovo documento INAIL:

  • Figura 1: Trabattello con scala a gradini (inclinazione da 35° a 55°);
  • Figura 2: Trabattello con scala a pioli inclinata (inclinazione da 60° a 75°);
  • Figura 3: Trabattello con scala a pioli verticale;
  • Figura 4: Trabattello con montaggio dal basso;
  • Figura 5: Utilizzo di un trabattello multiplo (se previsto dal fabbricante);
  • Figura 6: Utilizzo di due trabattelli con scala a pioli verticale;
  • Figura 7: Trabattello con telaio parapetto (montaggio dal basso);
  • Figura 8: Montaggio di un trabattello;
  • Figura 9: Trabattello per altezze elevate;
  • Figura 10: Trabattello per utilizzo su scale.

 

Il documento “Trabattelli”, collana Quaderni per Immagini, INAIL, è scaricabile all’indirizzo:

https://www.inail.it/cs/internet/docs/allegato_trabattelli.pdf

 

Il documento “Trabattelli”, collana Quaderni Tecnici per i cantieri temporanei o mobili, INAIL, è scaricabile all’indirizzo:

https://www.inail.it/cs/internet/docs/trabattelli_new-pdf.pdf

 

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UN NUOVO SUPPORTO PER UTILIZZARE SCALE PORTATILI PIU’ SICURE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

11 aprile 2016

 

Un quaderno per immagini dell’INAIL è dedicato alle scale portatili.

I limiti dell’uso delle scale, la scelta delle scale da utilizzare, le buone prassi e le immagini per migliorare la comunicazione della sicurezza nei cantieri edili.

 

Probabilmente uno dei rischi più sottovalutati di caduta dall’alto, nei luoghi di lavoro e di vita, è quello relativo alla caduta da scale portatili. E, come rilevato dal Sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi, il 17,3% degli infortuni mortali per caduta dall’alto è correlato proprio all’uso e alle condizioni delle scale portatili che utilizziamo.

 

Per cercare di ridurre l’incidenza di questi infortuni e migliorare le difficoltà di comunicazione in materia di sicurezza dovute alla presenza di lavoratori stranieri, riprendiamo la presentazione degli otto opuscoli che compongono la nuova collana “Quaderni per immagini”, realizzati dalla sinergia di due strutture INAIL, il Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti e insediamenti antropici (DIT) e la Direzione centrale pianificazione e comunicazione.

 

Ricordiamo che queste pubblicazioni veicolano le informazioni attraverso semplici disegni e, per migliorare la comprensibilità tra i lavoratori stranieri, il brevissimo testo di presentazione delle immagini è scritto in cinque lingue diverse (italiano, inglese, francese, albanese e rumeno). Le pubblicazioni sono poi correlate alla collana di “Quaderni Tecnici per i cantieri temporanei o mobili”, già edita dall’INAIL in riferimento agli stessi temi dei “Quaderni per immagini” (scale portatili, trabattelli, parapetti provvisori, ancoraggi, reti di sicurezza, ponteggi fissi, sistemi di protezione degli scavi a cielo aperto e sistemi di protezione individuale dalle cadute).

 

Ci soffermiamo oggi sul “Quaderno per immagini” dal titolo “Scale portatili”, quaderno che ricorda come le scale portatili siano adottate, quale mezzo di accesso e lavoro, in molteplici attività effettuate nei cantieri temporanei o mobili.

 

E si sottolinea che vanno utilizzate, come posto di lavoro in quota, solo nei casi in cui l’uso di altre attrezzature di lavoro, considerate più sicure, non sia giustificato a causa del basso livello di rischio e della breve durata di impiego oppure delle caratteristiche esistenti dei siti che non possono essere modificate.

 

Per raccogliere ulteriori indicazioni sull’uso in sicurezza delle scale portatili possiamo fare riferimento anche al Quaderno Tecnico “Scale portatili”, a cura di Luca Rossi, Luigi Cortis, Francesca Maria Fabiani e Davide Geoffrey Svampa (DIT) con la collaborazione di Carlo Ratti e Calogero Vitale (DIT).

 

Un elemento importante su cui il Quaderno Tecnico si sofferma è la scelta della tipologia di scala portatile da utilizzare. Scelta che dipende dai rischi da eliminare e/o ridurre, preventivamente individuati nell’attività di valutazione dei rischi.

 

Sono riportate, a questo proposito, alcune considerazioni:

  • la scala doppia: non è idonea come sistema di accesso ad altro luogo, non deve superare l’altezza di 5 m;
  • la scala in appoggio: è idonea come sistema di accesso ad altro luogo, usata per l’accesso dovrà essere tale da sporgere a sufficienza (ad esempio, per almeno 1 metro) oltre il livello di accesso, a meno che altri dispositivi garantiscano una presa sicura, non deve superare l’altezza di 15 m;
  • la scala trasformabile: nelle sue possibili configurazioni deve essere usata con una altezza massima di 5 metri per la configurazione doppia e con una altezza massima di 15 metri per la configurazione in appoggio; in configurazione di scala doppia non è idonea come sistema di accesso ad altro luogo, in configurazione di scala in appoggio è idonea come sistema di accesso ad altro luogo, in configurazione di scala in appoggio, usata per l’accesso, dovrà essere tale da sporgere a sufficienza (ad esempio, per almeno 1 metro) oltre il livello di accesso, a meno che altri dispositivi garantiscano una presa sicura.

 

In ogni caso per tutte le tipologie di scale portatili la scelta deve avvenire dopo aver considerato che:

  • si dovrà salire sulla scala fino a un’altezza tale da consentire al lavoratore di disporre in qualsiasi momento di un appoggio e di una presa sicura;
  • non ci si dovrà esporre lateralmente per effettuare il lavoro;
  • non si dovrà salire/scendere su/dalla scala portando materiali pesanti o ingombranti che pregiudichino la presa sicura;
  • una scala a pioli permette un breve posizionamento in altezza della persona;
  • una scala a gradini permette un breve posizionamento in altezza della persona, con un confort maggiore rispetto a quella a pioli;
  • occorre verificare la conformità della scala al D.Lgs. 81/08 che riconosce la norma tecnica UNI EN 131 e la presenza di un foglio o libretto recante: una breve descrizione con l’indicazione degli elementi costituenti, le indicazioni per un corretto impiego, le istruzioni per la manutenzione e la conservazione, gli estremi dei certificati delle prove previste dalla norma tecnica UNI EN 131-1 e 2, una dichiarazione del costruttore di conformità alla norma tecnica UNI EN 131-1 e 2;
  • ogni scala deve essere accompagnata dalle istruzioni di base, nella lingua del paese in cui la scala è venduta; il testo delle istruzioni può essere accompagnato da schemi o figure; il produttore deve fornire l’elenco dei punti da ispezionare e verificare, unitamente ai criteri di valutazione “passa/non passa”; le istruzioni per ottenere l’elenco devono essere comprese nelle istruzioni per il lavoratore o riportate sulla scala; le istruzioni possono essere presentate anche nel sito web del fabbricante.

 

Concludiamo ricordando brevemente tutte le immagini contenute nel nuovo documento INAIL:

  • Figura 1: Scala trasformabile in posizione di scala doppia con tronco a sbalzo all’estremità superiore;
  • Figura 2: Scala movibile con piattaforma ai sensi della UNI EN 131-7;
  • Figura 3: Scala movibile con piattaforma ai sensi della UNI EN 131-7;
  • Figura 4: Scala doppia con piattaforma;
  • Figura 5: Scala trasformabile a tre tronchi in posizione di appoggio;
  • Figura 6: Scala telescopica;
  • Figura 7: Scala movibile con piattaforma ai sensi della UNI EN 131-7;
  • Figura 8: Scala a sfilo con meccanismo;
  • Figura 9: Scala trasformabile in posizione di scala doppia con tronco a sbalzo all’estremità superiore;
  • Figura 10: Scala semplice di appoggio.

 

Il documento dell’INAIL Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti “Scale portatili” collana “Quaderni per immagini” è scaricabile all’indirizzo:

https://www.INAIL.it/cs/internet/docs/allegato_scale_portatili.pdf

 

Il documento dell’INAIL Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti “Scale portatili” collana “Quaderno Tecnico per i cantieri temporanei o mobili” è scaricabile all’indirizzo:

https://www.INAIL.it/cs/internet/docs/scale_portatili-pdf.pdf

 

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SETTE REGOLE VITALI PER CHI LAVORA SULLE LINEE ELETTRICHE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

18 aprile 2016

 

I principi salvavita di Suva per chi lavora sulle linee elettriche.

La chiarezza degli incarichi, la protezione dai rischi, l’importanza di non lavorare da soli, le cadute dall’alto, le attrezzature pericolose e il soccorso agli infortunati.

 

Quando si parla delle regole, delle procedure di lavoro, relative a chi lavora con le linee elettriche, presenti nella Confederazione elvetica, bisogna tener conto non solo della diversità dei riferimenti legislativi tra la Svizzera e l’Italia, ma anche delle differenze nella distribuzione di energia elettrica tra i due paesi.

 

Tuttavia non solo molti dei suggerimenti prospettati dai documenti di Suva, l’Istituto elvetico per l’assicurazione e la prevenzione degli infortuni, sono adatti anche ai nostri lavoratori, ma spesso l’approccio elvetico a questi temi (con la sottolineatura del diritto di sospensione dei lavori laddove il rischio non sia stato eliminato o ridotto) è comunque uno stimolo al miglioramento delle nostre strategie di prevenzione.

 

Ci soffermiamo in particolare oggi su un documento di Suva, collegato alla campagna “Visione 250 vite”, dal titolo “Sette regole vitali per chi lavora sulle linee elettriche ordinarie”. E, in particolare, sul Vademecum correlato che raccoglie, oltre alle regole, approfondimenti e informazioni su come preparare, per ciascuna regola vitale, una mini-lezione.

 

Prima di entrare nel dettaglio di alcuni suggerimenti, di alcune regole, riportiamo brevemente l’elenco delle sette regole, dei sette principi salvavita:

  • Regola 1: Incarichi chiari e precisi
  • Regola 2: Mai lavorare da soli
  • Regola 3: Mettere in sicurezza i piloni di legno
  • Regola 4: Proteggersi dalle cadute dall’alto.
  • Regola 5: Installare la messa a terra
  • Regola 6: Uso corretto delle attrezzature
  • Regola 7: Garantire il salvataggio.

 

Entriamo nel dettaglio delle sette regole.

 

REGOLA 1: LAVORIAMO CON UN INCARICO CHIARO E PRECISO E SAPPIAMO CHI E’ IL RESPONSABILE

Lavoratore: “Inizio il lavoro solo quando ho capito bene l’incarico e so chi è il responsabile. In caso di imprevisti (temporale, attrezzature inappropriate, ecc.) sospendo i lavori e avviso il superiore”.

Superiore: “Pianifico i lavori con cura, assegno gli incarichi in modo chiaro e impiego solo personale addestrato. Non tollero le improvvisazioni”.

Il documento sottolinea che per essere chiaro un incarico di lavoro deve essere pianificato accuratamente e prevedere una valutazione dei rischi preliminare. In questo modo si evitano i malintesi a tutto vantaggio della sicurezza e dell’efficienza.

Inoltre i seguenti punti rientrano in ogni incarico e devono essere chiari prima di iniziare i lavori:

  • persona responsabile delle misure di protezione necessarie e dell’esecuzione sicura dei lavori in loco;
  • lavori da eseguire;
  • metodo di lavoro (lavori elettrici);
  • luogo di lavoro (posizione di ogni parte dell’impianto, ad esempio con mappa);
  • attrezzature di lavoro per raggiungere i punti sopraelevati (piattaforme elevabili, scale, DPI anticaduta);
  • documentazione scritta dei lavori (lista di controllo, istruzioni di lavoro);
  • formazione richiesta (competenze) per ogni addetto ai lavori;
  • DPI (chi, cosa, quando); procedura in caso di infortunio.

E durante lo svolgimento del compito bisogna prestare particolare attenzione ai seguenti aspetti:

  • non correre rischi inutili; prima di iniziare i lavori mettere in sicurezza il luogo di lavoro (materiale elettrico, ambiente, ecc.);
  • se si usa una ricetrasmittente, i dipendenti devono sapere come farla funzionare;
  • se l’incarico non è chiaro o manca della documentazione, bisogna sospendere i lavori e informare il superiore;
  • documentare le fasi di lavoro concluse (spuntare le voci della lista di controllo, mettere la firma);
  • informare gli addetti ai lavori sull’avanzamento dei lavori e sul da farsi;
  • eseguire i controlli prescritti e documentarli (ad es. con liste di controllo e verbali).

 

REGOLA 2: SULLE LINEE ELETTRICHE ORDINARIE NON LAVORIAMO MAI DA SOLI

Lavoratore: “Faccio in modo che almeno un collega possa vedermi o sentirmi per dare l’allarme e soccorrermi in caso di emergenza”.

Superiore: “Faccio in modo che i miei dipendenti non lavorino mai da soli e metto a punto un piano per le emergenze”.

Bisogna mettere in chiaro che i lavoratori non devono mai lavorare da soli sulle linee elettriche ordinarie. In caso di lavori di routine è necessario garantire la reperibilità della persona tramite telefono cellulare o ricetrasmittente.

Non si può lavorare da soli perché:

  • in caso di infortunio (elettrocuzione, arco elettrico, caduta, ecc.) è fondamentale il soccorso immediato: questo è possibile solo se l’addetto ai lavori è sorvegliato a distanza da una seconda persona;
  • in caso di operazioni complesse e delicate è possibile consultarsi e, se necessario, la seconda persona può mettere in guardia l’altro da manovre errate.

 

REGOLA 3: SALIAMO SUI PILONI DI LEGNO SOLO SE ABBIAMO VERIFICATO LA LORO STABILITA’

Lavoratore: “Prima di salire su un pilone di legno verifico se è stabile. Deve essere sostenuto dai cavi elettrici o deve essere messo in sicurezza da chiodi, ancoraggi ausiliari o gru mobili”.

Superiore: “Faccio in modo che i miei dipendenti siano in grado di valutare correttamente la stabilità dei piloni di legno e salgano su di essi solo se sono stabili. La stabilità del pilone di legno deve essere garantita, altrimenti non si deve salire per nessuna ragione”.

Prima di salire su un pilone di legno è necessario verificare le condizioni del materiale tramite:

  • un controllo visivo (ricerca di difetti evidenti);
  • colpendo il palo con un martello partendo da terra sino a un’altezza di 2 metri: se il suono è sordo e cupo, significa che il legno è marcio, un suono chiaro e cristallino è sinonimo di legno sano.

E’ consentito salire sul pilone solo se la parte sommitale (ultimo terzo) è trattenuto con dispositivi meccanici.

 

REGOLA 4: – PROTEGGIAMO NOI STESSI E IL MATERIALE DALLE CADUTE DALL’ALTO.

Lavoratore: “Sui piloni che sorreggono le linee elettriche ordinarie uso i DPI anticaduta (ad esempio cintura di posizionamento con 2 funi). Porto il casco di protezione e faccio in modo che non cada del materiale”.

Superiore: “Istruisco i dipendenti sull’uso delle imbracature anticaduta. Faccio in modo che utilizzino sempre l’imbracatura di ritenuta e posizionamento e la seconda fune di posizionamento in base alla situazione”.

E’ importante verificare l’equipaggiamento e salire con l’attrezzatura giusta.

Il documento riporta un esempio di equipaggiamento base:

  • un paio di ramponi per pali;
  • una cintura combinata di arresto caduta e posizionamento (EN 361, EN 358);
  • due funi di posizionamento con dispositivo di regolazione della lunghezza (EN 358);
  • casco (con cinturino sottogola);
  • scarpe da lavoro robuste, idonee ai ramponi (sopra la caviglia, suola robusta, si raccomandano le calzature di sicurezza);
  • borsa da cintura portautensili;
  • guanti idonei.

Se sul pilone di legno ci sono degli ostacoli da superare (incastri, tiranti, funi di ancoraggio, segnaletica stradale, ecc.), è necessaria un’ulteriore fune di sicurezza.

E una volta raggiunta la postazione, l’operaio deve proteggersi dalle cadute dall’alto, ad esempio mettendo una fune di sicurezza supplementare (un’altra possibilità per evitare le cadute è usare una fune bypass o una fune bloccante).

 

REGOLA 5: LAVORIAMO SOLO SE E’ PRESENTE LA MESSA A TERRA

Lavoratore: “Prima di iniziare i lavori la linea deve essere verificata e messa a terra. In caso di dubbio dico stop e chiedo al mio superiore”.

Superiore: “Faccio in modo che i dipendenti inizino a lavorare solo se ho ricevuto il «via libera» e se è stata installata la messa a terra”.

Il documento specifica che è necessario spiegare quali effetti hanno sul corpo umano una scossa elettrica, un arco elettrico o una scarica atmosferica. Spiegare anche quali sono le regole di sicurezza e comportamento da adottare.

Le linee devono essere messe a terra solo da personale autorizzato e competente. Tutti gli addetti ai lavori devono sapere chi sono.

Regola generale: è consentito iniziare a lavorare solo dopo aver ottenuto l’autorizzazione e solo se dalla postazione di lavoro è visibile come minimo un dispositivo di messa a terra e cortocircuito

 

REGOLA 6: UTILIZZIAMO ATTREZZATURE POTENZIALMENTE PERICOLOSE SOLO SE ABBIAMO RICEVUTO PRECISE ISTRUZIONI IN MERITO.

Lavoratore: “Impiego le attrezzature di lavoro (motoseghe, autogru o piattaforme elevabili) solo se sono stato autorizzato e istruito a farlo. Rispetto sempre le regole”.

Superiore: “Mi assicuro che le attrezzature di lavoro (motoseghe, autogru o piattaforme elevabili) siano utilizzate solo da personale addestrato e competente. Verifico se si rispettano le regole”.

Si sottolinea che l’uso di motoseghe, autogru, piattaforme elevabili, verricelli a fune e catena è particolarmente pericoloso e che queste attrezzature devono essere utilizzate solo da personale qualificato e competente.

 

REGOLA 7: PREDISPONIAMO TUTTO QUANTO E’ NECESSARIO PER SOCCORRERE IMMEDIATAMENTE LE VITTIME DI UN INFORTUNIO.

Lavoratore: “So come comportarmi in caso di emergenza (dare l’allarme, ecc.) e so usare correttamente i mezzi di soccorso”.

Superiore: “Faccio in modo che sia sempre garantito il salvataggio in tempi rapidi. Stabilisco il piano di emergenza in base al luogo di lavoro e lo metto per iscritto. Faccio in modo che i dipendenti si esercitino periodicamente con i mezzi di soccorso”.

Il documento consiglia, infine, di svolgere delle esercitazioni, applicando la procedura per i soccorsi basandosi su una situazione realistica. Ed è utile far comprendere ai lavoratori le conseguenze nel caso si chiamino in ritardo i soccorsi.

 

Nota Bene

I riferimenti legislativi contenuti nel documento originale e i dati relativi agli incidenti riguardano la realtà elvetica, i suggerimenti indicati sono comunque utili per tutti i lavoratori tenendo conto, tuttavia, delle differenze nella distribuzione di energia tra Svizzera e Italia.

 

Il documento di Suva, “Sette regole vitali per chi lavora sulle linee elettriche ordinarie”, edizione ottobre 2014 è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/150317_SUVA_7_regole_lavori_linee_elettriche.pdf

 

Il documento di Suva, “Sette regole vitali per chi lavora sulle linee elettriche ordinarie. Vademecum”, edizione ottobre 2014 è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/150317_SUVA_7_regole_lavori_linee_elettriche_vademecum.pdf

 

 

 

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.252 DEL 22/04/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.251 DEL 12/04/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.251 DEL 12/04/16

 

INDICE

  • Le “Frequently Asked Questions” di Sicurezza Sul Lavoro – Know Your Rights! – N.12
  • Infortunio e malattia professionale: quali differenze?
  • Infortuni sul lavoro: l’abnormità della condotta del lavoratore come causa di esclusione della responsabilità del datore
  • La gestione di sicurezza e salute per la forza lavoro in età avanzata
  • Indicazioni tecniche sui sistemi di protezione individuale dalle cadute
  • Il nuovo Regolamento europeo sui DPI

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO – KNOW YOUR RIGHTS! – N.12

 

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.

In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.

Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.

Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

 

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Buonasera Marco,

ho bisogno di un tuo consiglio.

L’azienda metalmeccanica dove lavoro sta modificando le postazioni di autocontrollo per la validazione dei particolari prodotti nel reparto torneria, e precisamente vuole abolire i tavoli dove i dipendenti eseguono l’autocontrollo per circa 15 minuti ogni 2 ore, a volte se ci sono problemi anche più frequentemente.

La Direzione Aziendale, siccome ha notato che alcuni si dilungano con il cellulare, ha deciso di togliere le sedie, alzando i tavolini per costringere il dipendente a stare in piedi (io personalmente ne ho provato uno ed essendo alto 164 cm mi costringe a lavorare scomodo perché troppo alto).

Considera che il lavoro di tornitore è comunque abbastanza pesante, se poi non ci si può sedere neanche per fare i controlli, mi sembra esagerato. Secondo me l’azienda dovrebbe vigilare sui dipendenti che usano il telefono in modo improprio, ed eventualmente richiamarli.

Se non ricordo male un articolo sulla sicurezza dice che dove è possibile eseguire delle mansioni da seduto, bisogna permetterlo.

Scusa ancora per il disturbo, grazie 1000 per la disponibilità.

 

Ciao,

da un punto di vista legislativo, quindi secondo il D.Lgs. 81/08 (Decreto) o norme giuridiche ad esso collegate, non esiste una prescrizione specifica circa il lavoro seduto rispetto al lavoro in piedi.

Solo relativamente ai locali di riposo o refezione, il Punto 1.11.1.3 dell’Allegato IV del Decreto specifica che (obbligo sanzionabile) “I locali di riposo devono avere dimensioni sufficienti ed essere dotati di un numero di tavoli e sedili con schienale in funzione del numero dei lavoratori”.

Per quanto riguarda le postazioni di lavoro il Decreto fa genericamente riferimento alla necessità che le postazioni di lavoro rispettino i requisiti dell’ergonomia.

Già nell’ambito delle misure generali di tutela di cui all’articolo 15 (che però non è un articolo sanzionabile) il Decreto specifica al comma 1, lettera d) che:

Le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono […] il rispetto dei principi ergonomici nell’organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione […]”.

Sempre a livello generale, l’articolo 71, comma 6 (sanzionabile) relativamente alle attrezzature di lavoro, stabilisce che:

Il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché il posto di lavoro e la posizione dei lavoratori durante l’uso delle attrezzature presentino requisiti di sicurezza e rispondano ai principi dell’ergonomia”.

Inoltre il Punto 1.2.6 dell’Allegato IV del Decreto (anch’esso sanzionabile), stabilisce che:

Lo spazio destinato al lavoratore nel posto di lavoro deve essere tale da consentire il normale movimento della persona in relazione al lavoro da compiere”.

Nell’ambito di tali obblighi legislativi di carattere generale, il datore di lavoro deve adottare misure di prevenzione per ottimizzare l’ergonomia dei posti di lavoro facendo riferimento a norme tecniche, buone prassi o linee guida.

Per quanto riguarda l’ergonomia nel settore metalmeccanico trovano applicazione le buone prassi definite dal “Manuale di raccomandazioni ergonomiche per le postazioni di lavoro metalmeccaniche INAIL”, scaricabile all’indirizzo:

http://sicurezzasullavoro.inail.it/PortalePrevenzioneWeb/wcm/idc/groups/catalogoprodotti/documents/document/cp_170009.pdf.

Occorre considerare che le “buone prassi” sono definite dall’articolo 2, comma 1, lettera v) del Decreto come:

soluzioni organizzative o procedurali coerenti con la normativa vigente e con le norme di buona tecnica, adottate volontariamente e finalizzate a promuovere la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro attraverso la riduzione dei rischi e il miglioramento delle condizioni di lavoro, elaborate e raccolte dalle regioni, dall’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPESL), dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) e dagli organismi paritetici”.

Esse non hanno perciò carattere vincolante (sono “adottate volontariamente”), ma sono “coerenti con la normativa vigente”.

Pertanto la loro applicazione dà presunzione di conformità agli obblighi legislativi sopra richiamati.

In particolare il Manuale citato non specifica se la postazione di lavoro debba essere in piedi o seduta, ma fornisce delle indicazioni valide per entrambe le posture.

Con particolare riferimento al problema da te lamentato, trovano applicazione (tra le altre) le seguenti “Raccomandazioni e soluzioni tecniche applicabili per il miglioramento delle condizioni ergonomiche delle postazioni di lavoro metalmeccaniche” (Capitolo terzo del manuale):

  • nella scelta fra possibilità alternative preferire l’opzione che riduce le distanze che devono essere colmate mediante l’estensione delle braccia;
  • nella scelta fra possibilità alternative preferire l’opzione che riduce le distanze che devono essere colmate mediante la flessione del busto;
  • nella scelta fra possibilità alternative preferire l’opzione che riduce le distanze che devono essere colmate mediante la rotazione del busto;
  • minimizzare la distanza orizzontale e verticale degli spostamenti manuali dei carichi;
  • assicurare spazi sufficienti per consentire all’operatore di assumere la postura più naturale e neutra nelle azioni di movimentazione manuale dei carichi;
  • organizzare il layout verticale e orizzontale della postazione evitando la necessità di portare le mani lontano dal corpo;
  • organizzare il layout della postazione in modo che l’operatore si trovi al centro della sua area di lavoro;
  • configurare la postazione in modo da offrire l’appoggio delle mani e degli avambracci (ad esempio con sporgenze del piano di lavoro).

Inoltre nella figura a pagina 26 del Manuale sono riportate le dimensioni ottimali del piano di lavoro in funzione dei principi ergonomici (sia per posizione in piedi, che seduta).

Pertanto i tavoli delle postazioni di lavoro in piedi per l’autocontrollo devono essere dimensionati in modo da rispettare i requisiti generali (obbligatori) del Decreto e, di conseguenza, le raccomandazioni e le soluzioni tecniche del Manuale INAIL.

Tieni inoltre conto che, in generale, qualunque intervento attuato nell’ambito di un’azienda non può portare a un peggioramento delle condizioni di salute e sicurezza, ma solo a un miglioramento.

Ciò discende dal principio generale di cui all’articolo 15, comma 1, lettera t) (non sanzionabile), per il quale:

Le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono […] la programmazione delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza, anche attraverso l’adozione di codici di condotta e di buone prassi”;

e dall’obbligo a carico del datore di lavoro (sanzionabile) stabilito dall’articolo 28, comma 2, lettera c) che stabilisce che il documento di valutazione dei rischi (di piena responsabilità del datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera a) del Decreto) deve (tra l’altro) contenere:

il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza”.

Quindi la decisione della direzione aziendale di togliere le sedie ai tavoli di controllo non solo è contraria alle disposizioni tecniche di ottimizzazione dell’ergonomia delle postazioni di lavoro, ma, comportando un peggioramento delle condizioni lavorative per la salute dei lavoratori, è contraria a specifiche (e sanzionabili) disposizioni legislative.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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Ciao Marco,

lavoro in un azienda laziale e sono RLS.

Avrei bisogno di alcuni tuoi suggerimenti per poter portare avanti una denuncia relativa allo stato di degrado di alcuni capannoni della nostra azienda, con rischi conseguenti per la sicurezza.

Ti chiedo, quindi, cortesemente di farmi sapere a chi sarebbe meglio e giusto inviare i nostri esposti: ASL, Vigili del fuoco, e chi altro ancora.

Ti ringrazio in anticipo per la tua sempre preziosa assistenza.

Saluti.

 

Ciao,

premetto quanto disposto dal D.Lgs. 81/08 relativamente a quali siano gli organismi di vigilanza sull’applicazione della normativa su salute e sicurezza sul lavoro e, in particolare, del Decreto stesso.

L’articolo 13, comma 1 del Decreto stabilisce che:

La vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è svolta dalla Azienda Sanitaria Locale competente per territorio e, per quanto di specifica competenza, dal Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco […]”.

Pertanto la denuncia che intendi portare avanti, trattando di inadempienze relative alla salubrità e alla sicurezza dei capannoni, non entrando nel merito della sicurezza antincendio, vanno inviati alla ASL SPreSAL (Servizi di Prevenzione Sicurezza Ambienti di Lavoro), competente per territorio.

Per quanto riguarda la regione Lazio gli indirizzi di riferimento li trovi al l ink:

http://www.aslrmc.it/attachments/article/284/indirizzario%20SPRESAL%20%20LAZIO%20ott.%202015.pdf

Tutti le non conformità rilevate, risultando mancati adempimenti al D.Lgs. 81/08, costituiscono reato penale.

Pertanto inviando la denuncia alla ASL Servizio PreSAL, i cui ispettori sono Ufficiali di Polizia Giudiziaria, si configurano come denuncia di reato, ai sensi dell’articolo 333, commi 1 e 2 del Codice di Procedura Penale:

Ogni persona che ha notizia di un reato perseguibile di ufficio può farne denuncia. La legge determina i casi in cui la denuncia è obbligatoria. La denuncia è presentata oralmente o per iscritto, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, al Pubblico Ministero o a un Ufficiale di Polizia Giudiziaria; se è presentata per iscritto, è sottoscritta dal denunciante o da un suo procuratore speciale”.

Pertanto, se non avete risposta dalla ASL o preferite comunque estendere la denuncia, potete inviare le denunce anche alla Procura della Repubblica territorialmente competente, in via Mario Amato 13/152 (Piazzale Clodio) 00195 Roma.

Come sempre in questi casi le denunce vanno inviate con Raccomandata con Ricevuta di Ritorno, oppure con Posta Elettronica Certificata (PEC) per avere valenza legale.

Fammi sapere come procedono le cose.

Un caro saluto.

 

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Buongiorno,

ti volevo esporre (in poche righe) un mio caso personale.

Mi sono fatto male sul lavoro caricando a mano sull’Ape un fusto vuoto dell’olio (tara 13,5 kg).

Il mio movimento era corretto, ma, dopo averne caricati parecchi, ho subito una lesione del tendine del bicipite brachiale.

La mia azienda mi ha mandato a casa (durante l’infortunio) una lettera dove scarica la responsabilità su un mio presunto comportamento sbagliato.

Sono andato a parlare con chi mi ha scritto la lettera e, nonostante anche il mio responsabile abbia confermato in mia presenza che il lavoro lo avevo eseguito nella giusta modalità, mi hanno spiegato che la legge dice che in caso di infortunio, quest’ultimo può essere “tecnico” o “comportamentale”.

Loro non hanno valutato se il mio movimento era corretto, ma semplicemente hanno valutato che non era legato a un motivo tecnico. E quindi automaticamente doveva essere di tipo comportamentale (verbalmente questa la loro spiegazione).

Siamo rimasti d’accordo che mi richiameranno per farmi vedere la legge.

Aggiungo che dopo aver fatto corsi sulla sicurezza, ci hanno fatto firmare che abbiamo l’obbligo di prendersi cura della nostra salute…

In poche parole ti dicono di fare un lavoro e nel caso ti fai male ti dicono che ti dovevi opporre a farlo!

Ma hanno ragione a dare la colpa a me dell’infortunio?

 

Ciao,

in realtà l’infortunio nel tuo caso è soprattutto di natura tecnica e solo in piccolissima parte comportamentale.

L’infortunio è prevalentemente di natura tecnica perché l’azienda ti mette nelle condizioni di caricare a mano, e senza quindi l’ausilio di attrezzature di sollevamento meccaniche, dei carichi da 13,5 kg in maniera continuativa (ne hai caricati parecchi…), con una dislocazione (spostamento) verticale importante (da pavimento a pianale dell’Ape) e probabilmente con torsione del tronco e allungamento delle braccia.

Tieni conto che la legge (il D.Lgs. 81/08 “Decreto”) pone dei precisi obblighi a carico delle aziende, nella persona del loro datore di lavoro o dei dirigenti, in merito alla movimentazione manuale dei carichi (nel tuo caso sollevamento di oggetti pesanti). Tali obblighi sono contenuti nel Titolo VI del Decreto “Movimentazione manuale dei carichi”.

In particolare l’articolo 168, comma 1 del Decreto impone come obbligo a carico del datore di lavoro quanto segue:

Il datore di lavoro adotta le misure organizzative necessarie e ricorre ai mezzi appropriati, in particolare attrezzature meccaniche, per evitare la necessità di una movimentazione manuale dei carichi da parte dei lavoratori”.

L’inadempienza a tale obbligo è di natura penale ed è punita dall’articolo 170, comma 1, lettera a) del Decreto con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.500 a 6.400 euro.

Quindi la tua azienda, prima di parlare di causa comportamentale, avrebbe dovuto eliminare tecnicamente, come imposto dal Decreto, la necessità di caricare a mano i fusti vuoti di olio da terra sull’Ape, provvedendo attrezzature meccaniche di facile reperibilità e di costo limitato (carrello elevatore, transpallet, sollevatori a pantografo, ecc.).

Inoltre, ma solo nel caso in cui la movimentazione dei carichi mediante attrezzature non fosse stata tecnicamente possibile, la tua azienda avrebbe dovuto comunque adempiere agli obblighi di cui all’articolo 168, comma 2 del Decreto, che impone che:

Qualora non sia possibile evitare la movimentazione manuale dei carichi ad opera dei lavoratori, il datore di lavoro adotta le misure organizzative necessarie, ricorre ai mezzi appropriati e fornisce ai lavoratori stessi i mezzi adeguati, allo scopo di ridurre il rischio che comporta la movimentazione manuale di detti carichi, tenendo conto dell’allegato XXXIII, ed in particolare:

  1. a) organizza i posti di lavoro in modo che detta movimentazione assicuri condizioni di sicurezza e salute;
  2. b) valuta, se possibile anche in fase di progettazione, le condizioni di sicurezza e di salute connesse al lavoro in questione tenendo conto dell’allegato XXXIII;
  3. c) evita o riduce i rischi, particolarmente di patologie dorso-lombari, adottando le misure adeguate, tenendo conto in particolare dei fattori individuali di rischio, delle caratteristiche dell’ambiente di lavoro e delle esigenze che tale attività comporta, in base all’allegato XXXIII;
  4. d) sottopone i lavoratori alla sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41, sulla base della valutazione del rischio e dei fattori individuali di rischio di cui all’allegato XXXIII”.

Anche tale il mancato adempimento di tale obbligo è sanzionato penalmente dall’articolo 170, comma 1, lettera a) del Decreto con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.500 a 6.400 euro.

Quindi anche in tal caso la tua azienda avrebbe dovuto agire tecnicamente mediante azioni organizzative (riduzione degli spazi di movimentazione, utilizzo di due persone per sollevare i carichi, ecc.) per ridurre l’entità dello sforzo fisico legato alla movimentazione manuale dei carichi.

A tale proposito la tua azienda avrebbe dovuto eseguire una specifica valutazione del rischio da movimentazione manuale dei carichi, individuando i fattori di rischio e predisponendo, preliminarmente misure tecniche di prevenzione per ridurre tali fattori di rischio.

Tale obbligo è sancito dall’articolo 29, comma 1 del Decreto, che recita:

Il datore di lavoro effettua la valutazione ed elabora il documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a) [documento di valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza], in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente […]”.

Il mancato adempimento di tale obbligo è sanzionato penalmente dall’articolo 55, comma 1, lettera a) con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.500 a 6.400 euro.

Inoltre la tua azienda avrebbe dovuto sottoporti a sorveglianza sanitaria specifica (visita medica alla colonna vertebrale e agli arti superiori ed eventualmente accertamenti diagnostici, quali radiografie), per verificare la tua idoneità fisica a sollevare carichi pesanti.

Solo dopo aver adempiuto a tali obblighi tecnici, la tua azienda avrebbe potuto richiedere un corretto comportamento da parte tua, ma solo dopo averti informato, formato e addestrato, relativamente alle attività di movimentazione manuale dei carichi, come richiesto dall’articolo 169, commi 1 e 2:

1. Tenendo conto dell’allegato XXXIII, il datore di lavoro:

  1. a) fornisce ai lavoratori le informazioni adeguate relativamente al peso ed alle altre caratteristiche del carico movimentato;
  2. b) assicura ad essi la formazione adeguata in relazione ai rischi lavorativi ed alle modalità di corretta esecuzione delle attività.
  3. Il datore di lavoro fornisce ai lavoratori l’addestramento adeguato in merito alle corrette manovre e procedure da adottare nella movimentazione manuale dei carichi”.

Il mancato adempimento degli obblighi di cui al comma 1 (ma, stranamente, non del comma 2) è punito dall’articolo 170, comma 1m lettera b) con l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 750 a 4.000 euro.

In conclusione e per i motivi sopra esposti, il tuo infortunio ha avuto origine da cause prettamente tecniche, causate dal mancato rispetto da parte della tua azienda degli obblighi sanciti dal Decreto che ti ho sopra esposti

Eventuali e residuali cause di natura comportamentale ti potrebbero essere addebitate solo dopo che la tu azienda abbia ottemperato a tali obblighi e comunque solo dopo essa ti abbia informato, formato e addestrato in maniera specifica, e non generale, sui comportamenti da adottare in caso di movimentazione manuale dei carichi.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

A presto.

Marco

 

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Buongiorno Marco,

dalle tue Newsletter mi pare‎ di capire che il Jobs Act abbia di fatto annullato il registro degli infortuni.

Me lo confermi oppure ho interpretato male qualche tuo scritto?

Grazie buona giornata

 

Ciao,

effettivamente il D.Lgs. 151/15 (uno dei Decreti attuativi della Legge 10 dicembre 2014, n. 183, il cosiddetto e famigerato “Jobs Act”) ha abolito l’obbligo di tenuta del registro infortuni.

Infatti tale Decreto ha cancellato il periodo “al registro infortuni” dal comma 6 dell’articolo 53 del D.Lgs.81/08 che ora recita:

Fino ai sei mesi successivi all’adozione del Decreto interministeriale di cui all’articolo 8 comma 4, del presente Decreto restano in vigore le disposizioni relative ai registri degli esposti ad agenti cancerogeni e biologici”.

Tale modifica comporta la soppressione dell’obbligo di tenuta e compilazione del registro infortuni, introdotto dal D.M. 12/09/58, nel quale andavano annotati cronologicamente tutti gli infortuni occorsi durante l’attività lavorativa, che avessero comportato un’assenza dal lavoro di almeno un giorno escluso quello dell’evento.

In tal modo viene a mancare uno strumento di monitoraggio del fenomeno infortunistico, sia a livello di singola azienda (ove aveva anche l’intento di ausilio al processo di valutazione dei rischi, individuando le lavorazioni statisticamente più pericolose), sia a livello nazionale.

La giustificazione della abolizione del registro infortuni risiede, negli intenti del legislatore, nella creazione del Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP), che almeno ad oggi è però ben lungi dall’essere operativo.

Va osservato che l’abolizione del registro infortuni non esime il datore di lavoro e i dirigenti delle aziende di dotarsi di uno strumento di monitoraggio del fenomeno infortunistico, in quanto rimangono invariati l’articolo 18, comma 1, lettera r) (comunicazione in via telematica all’INAIL delle informazioni sugli infortuni che comportano l’assenza di almeno un giorno escluso quello dell’infortunio) e 35, comma 2, lettera b) (esame nell’ambito della riunione annuale del fenomeno infortunistico) del D.Lgs.81/08.

Marco

 

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NOTA

Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:

ASL = Azienda Sanitaria Locale

CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro

DPI = Dispositivi di Protezione Individuali

DVR = Documento di Valutazione dei Rischi

DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto

RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione

RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza

D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)

 

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INFORTUNIO E MALATTIA PROFESSIONALE: QUALI DIFFERENZE?

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

04/04/16

Avvocato Luisa Camboni

 

Infortunio e malattia professionale: quali differenze?

Guida alle due nozioni, alle differenze e alle sanzioni

 

Con questo breve contributo si intende spiegare, in modo semplice e chiaro, quando si è in presenza di infortunio e quando in presenza di malattia professionale.

 

Il nostro legislatore riconosce che si è in presenza di “infortunio sul lavoro” se il lavoratore, a causa dell’attività lavorativa che sta svolgendo e per una causa violenta riporta danni fisici e/o psichici tali da impedirgli di continuare a lavorare per un periodo più o meno lungo che deve essere certificato da un medico (certificato medico di infortunio).

Per tutelare i lavoratori vittime di infortunio la legge ha previsto (con il Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965) una specifica assicurazione obbligatoria che consente di beneficiare di prestazioni sanitarie specifiche e di ottenere un indennizzo rapportato all’evento traumatico subito e alle conseguenze che ne sono derivate.

 

Si sente parlare anche di “infortunio in itinere”.

Cosa si intende con tale espressione?

Con tale espressione si indica l’infortunio accaduto durante il normale percorso di andata e ritorno che il lavoratore percorre, quotidianamente, per recarsi da casa sul luogo di lavoro e viceversa. Il legislatore ha espressamente previsto che l’infortunio “in itinere” sia compreso nella copertura assicurativa che viene fornita dalla assicurazione obbligatoria contro gli infortuni.

In questa ipotesi, perché il lavoratore possa ottenere l’indennizzo, è necessario che l’infortunio si sia verificato nell’ambito del consueto percorso di andata e di ritorno, effettuato per recarsi sul posto di lavoro. Per questo motivo se il lavoratore effettua delle interruzioni del percorso o delle deviazioni che non sono necessarie l’assicurazione obbligatoria non coprirà l’evento lesivo che si sarà verificato.

Attenzione!!!! Si considerano necessarie le interruzioni e le deviazioni quando sono dovute a cause di forza maggiore, ad esigenze essenziali e improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti, cioè obblighi la cui mancata osservanza costituisce reato e viene punita dalla legge penale.

 

L’assicurazione copre anche l’infortunio quando il lavoratore non utilizza i mezzi pubblici e si avvale di un mezzo privato a condizione che questo utilizzo sia necessario.

L’utilizzo del mezzo privato è consentito quando mancano mezzi pubblici che servono il percorso oppure, pur essendovi linee pubbliche di collocamento, non consentono al lavoratore di raggiungere puntualmente il posto di lavoro.

 

Anche nell’ipotesi di infortunio “in itinere” per certificare l’accaduto è necessario rivolgersi al medico perché rilasci il certificato medico di infortunio.

 

Con l’espressione “malattia professionale” si intende invece una malattia contratta durante l’attività lavorativa a causa delle lavorazioni effettuate (ad esempio: sordità da rumori, tumori causati dall’uso di particolari vernici o coloranti, malattie respiratorie…)

Anche la malattia professionale deve essere certificata da un medico su apposito documento detto certificato medico di malattia professionale.

 

Definiti i concetti di infortunio e malattia professionale vediamo che cosa il lavoratore deve fare per tutelare i propri diritti.

 

In caso di infortunio sul lavoro o “in itinere” il lavoratore deve:

  • avvisare o, quando non è possibile, far avvisare immediatamente il proprio datore di lavoro, o la persona da lui incaricata;
  • rivolgersi al medico dell’azienda per cui lavora, se è presente nel luogo di lavoro;
  • recarsi o farsi accompagnare al “Pronto Soccorso” dell’ospedale più vicino
  • se necessario chiamare o far chiamare l’ambulanza;
  • rivolgersi al proprio medico curante.

 

Al medico occorre spiegare le modalità e il luogo in cui si è verificato l’infortunio. Il medico provvede, così, a rilasciare un primo certificato nel quale indica la diagnosi ed il numero dei giorni di assenza dal lavoro. Tale certificato viene rilasciato in duplice copia:

  • una copia va consegnata immediatamente al datore di lavoro;
  • l’altra deve essere conservata dal lavoratore.

Chi scrive ritiene necessario precisare che le fotocopie del certificato medico non sono considerate valide.

 

In caso di ricovero ospedaliero come ci si comporta?

In questo caso sarà cura dell’ospedale provvedere a trasmettere copia dei certificati all’INAIL e al datore di lavoro.

 

Il datore di lavoro una volta ricevuto il certificato che deve fare?

Il datore di lavoro, se il medico ha certificato che il lavoratore non potrà lavorare per più di tre giorni, dovrà provvedere immediatamente ad informare l’INAIL trasmettendo agli uffici competenti copia del certificato medico unitamente ad un apposito modulo detto “denuncia di infortunio”.

Se il datore di lavoro non provvede a denunciare all’INAIL l’infortunio, il lavoratore potrà informare direttamente l’INAIL presentando presso gli uffici dell’Istituto il certificato medico.

 

Quali sanzioni il nostro ordinamento prevede in caso di infortunio sul lavoro?

L’infortunio sul lavoro, come abbiamo in precedenza evidenziato, comporta sempre una lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore. Tali ipotesi sono punite dalla legge penale attraverso i reati di lesioni colpose (articolo 590 del Codice Penale) e di omicidio colposo (articolo 589 del Codice Penale).

Va osservato che in questi casi la colpa del datore di lavoro o di coloro che sono tenuti alla sicurezza sul luogo di lavoro va ravvisata nella mancata osservanza delle regole che impongono l’adozione di efficaci misure di sicurezza per la tutela della salute sul luogo di lavoro.

 

Nel caso di omicidio colposo, l’azione penale viene esercitata d’ufficio dal Procuratore della Repubblica non appena questi viene a conoscenza dell’accaduto.

Le lesioni colpose, invece, per essere perseguite necessitano, in linea di massima, di una querela da parte del lavoratore infortunato.

 

Tuttavia, la legge prevede che nei casi di infortunio più gravi, se la prognosi porta a ritenere che la malattia avrà una durata superiore a 40 giorni, il Procuratore della Repubblica, che deve essere comunque informato dall’INAIL, è tenuto a esercitare l’azione penale d’ufficio senza una querela da parte dell’infortunato.

 

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INFORTUNI SUL LAVORO: L’ABNORMITA’ DELLA CONDOTTA DEL LAVORATORE COME CAUSA DI ESCLUSIONE DELLA RESPONSABILITÀ DEL DATORE

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

04/04/16

Avvocato Daniele Paolanti

 

Un’analisi sulle ipotesi in cui la colpa del lavoratore diventa l’unica causa efficiente del danno.

 

La sicurezza sul lavoro rappresenta da sempre uno dei temi più delicati e controversi sui quali dottrina e giurisprudenza si sono reiteratamente pronunciate al fine di individuare la linea di demarcazione che separa la responsabilità del datore di lavoro rispetto a quella del lavoratore.

 

Come opportunamente evidenziato nel Testo Unico per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/08) il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire che dall’esercizio dell’attività (da lui stesso organizzata) non scaturiscano dei danni ai lavoratori, ovvero all’insieme delle persone preposte alla conduzione dell’attività stessa.

 

Il datore di lavoro, pertanto, organizza l’attività di impresa al fine di specificare quali adempimenti dovranno essere svolti dai dipendenti che, di conseguenza, dovranno attenersi a quanto loro richiesto, fermo restando l’obbligo del datore di lavoro di salvaguardare l’integrità psicofisica dei lavoratori eliminando o cercando di ridurre al massimo i rischi che possono procurare dei danni alla salute. In questo contesto si inserisce la responsabilità del datore di lavoro che sorge ogni qual volta le predette norme atte a garantire determinati standard di sicurezza non vengano rispettate.

 

La giurisprudenza, tuttavia, ha escluso la responsabilità del datore di lavoro laddove si dovesse determinare un infortunio causato da una condotta “abnorme” del lavoratore il quale, scostandosi dalle direttive ricevute, assume un comportamento per sua natura imprevedibile e tale comunque da non poter essere in alcun modo impedito dal datore di lavoro.

 

Come si legge in una nota pronuncia della Suprema Corte, infatti, “la colpa del lavoratore, eventualmente concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica addebitata ai soggetti tenuti ad osservarne le disposizioni, non esime questi ultimi dalle proprie responsabilità, poiché l’esistenza del rapporto di causalità tra la violazione e l’evento morte o lesioni del lavoratore che ne sia conseguito può essere esclusa unicamente nei casi in cui sia provato che il comportamento del lavoratore fu abnorme e che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento; abnormità che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori delle possibilità di controllo dei garanti” (Sentenza del 14/03/14 della Cassazione Penale).

 

Dalla pronuncia citata si apprende come pertanto una condotta abnorme, e come tale idonea a escludere la responsabilità del datore di lavoro nonché degli organi preposti al controllo dell’osservanza delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sia quella che si contraddistingua per la sua stranezza ed imprevedibilità e come tale, pertanto, “ex se” idonea a causare l’infortunio o l’evento morte. E’ sempre la Corte di Cassazione ad ammettere, con apodittica chiarezza, che “[…] soltanto al verificarsi di comportamenti di tale gravità che per le loro caratteristiche non siano più in alcun modo riconducibili al potere/dovere di controllo dell’imprenditore sulla sicurezza nelle condizioni di lavoro, si interrompe il nesso causale tra la responsabilità del datore e l’evento lesivo verificatosi a carico del lavoratore, con esclusione del rapporto concausale, ed esenzione del datore di lavoro dalla gravosa prova liberatoria e di un giudizio di accertamento in concreto delle rispettive percentuali di responsabilità. In questo caso infatti si considera il comportamento del tutto fuori dagli schemi del lavoratore unica causa efficiente del danno che lo stesso si è provocato” (Sentenza n. 12046 del 29/05/14, della Cassazione Civile).

 

Tuttavia giova ricordare come sempre la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto, a più riprese, che la condotta del lavoratore non sia idonea a esimere da responsabilità il datore di lavoro quando questa sia caratterizzata da imprudenza, imperizia o negligenza, ma soltanto quando la condotta sia per sua natura abnorme, divenendo unico elemento causale del fatto, arrivando ad individuare quali elementi connotativi di detto comportamento l’inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo (“ex multis” vedi Sentenza n. 27127 del 2013 della Corte di Cassazione). Anche la dottrina si è espressa al riguardo, rilevando come non sia tenuto ad alcun obbligo risarcitorio il datore di lavoro che fornisca la prova del comportamento abnorme del lavoratore, ovvero in grado di escludere il nesso di causalità tra negligenza datoriale ed evento infortunistico (sul punto vedi Feola, Di Corato, Castrica “Infortuni in itinere. Aspetti medico-legali: norma, giurisprudenza e dottrina” Giuffrè Editore, 2010). Altri autori, sempre in argomento, hanno invece rilevato come il comportamento abnorme sia quello posto in essere autonomamente e come tale svoltosi in ambito estraneo alle mansioni affidate al lavoratore o, laddove dovesse rientrare in tali mansioni, consista in qualcosa di radicalmente e ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e quindi imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (vedi Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa “Trattato di Diritto Penale. I delitti contro la vita e l’incolumità personale” 2011).

 

In conclusione si può quindi pacificamente ritenere che la responsabilità del datore di lavoro e degli organi preposti alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro sussista anche nell’eventualità in cui lo stesso lavoratore compia scelte imprudenti, potendosi escludere la responsabilità e il conseguente obbligo risarcitorio nella sola ipotesi in cui il comportamento del lavoratore sia assolutamente imprevedibile e radicalmente lontano dalle scelte del datore di lavoro il quale, con un ragionevole sforzo, non avrebbe in alcun modo potuto prevederlo.

 

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LA GESTIONE DI SICUREZZA E SALUTE PER LA FORZA LAVORO IN ETA’ AVANZATA

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

05 aprile 2016

 

L’importanza di una valutazione dei rischi sensibile all’età, della promozione della capacità lavorativa e della salute sul posto di lavoro e dell’adeguamento dei compiti lavorativi e dell’ambiente di lavoro.

 

I lavoratori anziani sono una parte crescente della forza lavoro. Dal momento che si lavora più a lungo, la gestione della SSL per una forza lavoro in età avanzata è divenuta una priorità.

 

Aumentare i livelli di occupazione e prolungare la vita lavorativa sono importanti obiettivi delle politiche europee e nazionali dalla fine degli anni ‘90. Il tasso di occupazione dell’UE-28 per le persone di età compresa tra 55 e 64 anni è aumentato dal 39,9 % nel 2003 al 50,1 % nel 2013. Si tratta di un tasso di occupazione ancora inferiore a quello del gruppo di età compreso tra 22 e 64 anni. E’ aumentata anche l’età media di uscita dal mercato del lavoro, che è passata da 59,9 anni nel 2001 a 61,5 anni nel 2010.

La strategia Europa 2020 si propone di aumentare il tasso di occupazione della popolazione in età compresa tra 20 e 64 anni al 75 %. Ciò significa che i cittadini europei dovranno lavorare più a lungo.

 

I normali cambiamenti dovuti all’età possono essere sia positivi che negativi.

Molti attributi, come la saggezza, il pensiero strategico, la percezione olistica e la capacità di giudizio, si sviluppano o si manifestano per la prima volta con l’avanzare dell’età. Con l’età si accumulano anche esperienze lavorative e competenze.

Tuttavia, alcune capacità funzionali, principalmente fisiche e sensoriali, diminuiscono per effetto del naturale processo di invecchiamento. I possibili cambiamenti delle capacità funzionali devono essere presi in considerazione nella valutazione dei rischi e per far fronte a tali cambiamenti devono essere modificati l’ambiente di lavoro e i compiti lavorativi.

I cambiamenti delle capacità funzionali dovuti all’età non sono uniformi in quanto esistono differenze individuali in termini di stile di vita, alimentazione, forma fisica, predisposizione genetica alle malattie, livello di istruzione e lavoro e altri ambienti.

I lavoratori più anziani non costituiscono un gruppo omogeneo; possono sussistere differenze considerevoli tra persone della stessa età.

 

Il declino dovuto all’età influisce soprattutto sulle capacità fisiche e sensoriali, che sono le più importanti per i lavori fisici pesanti. Il passaggio dall’industria estrattiva e manifatturiera al settore dei servizi e all’industria basata sulle conoscenze, una maggiore automazione e meccanizzazione dei compiti e l’uso di apparecchiature motorizzate hanno ridotto la necessità di un lavoro fisico pesante.

In tale nuovo contesto, molte capacità e competenze associate alle persone più anziane, come le buone capacità relazionali, i servizi alla clientela e la consapevolezza della qualità, sono sempre più valorizzate.

Inoltre, molti cambiamenti delle capacità funzionali dovuti all’età sono più rilevanti in alcune attività professionali rispetto ad altre. Per esempio, i cambiamenti dell’equilibrio hanno implicazioni per i vigili del fuoco e il personale di soccorso che lavorano in condizioni estreme, indossando equipaggiamenti pesanti e sollevando e trasportando le persone; una riduzione della capacità di valutare le distanze e la velocità degli oggetti in movimento ha implicazioni per la guida notturna, ma non ha alcuna influenza su chi lavora in un ufficio.

 

L’età è solo un aspetto della diversità della forza lavoro. Una valutazione dei rischi sensibile all’età tiene conto delle caratteristiche delle varie fasce di età quando si valutano i rischi, fra cui i possibili cambiamenti delle capacità funzionali e dello stato di salute.

I rischi riguardanti i lavoratori più anziani comprendono in particolare:

  • lavoro fisico pesante;
  • pericoli connessi al lavoro a turnazione;
  • lavoro in ambienti rumorosi o in condizioni di temperatura bassa o elevata.

 

Poiché le differenze individuali aumentano con l’età, non devono essere effettuate considerazioni esclusivamente sulla base dell’età. La valutazione dei rischi deve tenere conto dei requisiti del lavoro in relazione alle capacità e allo stato di salute individuali.

 

La capacità lavorativa è l’equilibrio tra lavoro e risorse individuali; quando lavoro e risorse individuali sono compatibili, la capacità lavorativa è adeguata.

I fattori fondamentali che influiscono sulla capacità lavorativa sono:

  • salute e capacità funzionali;
  • istruzione e competenza;
  • valori, atteggiamenti e motivazione;
  • ambiente di lavoro e comunità lavorativa;
  • il contenuto, i requisiti e l’organizzazione del lavoro.

 

La capacità lavorativa può essere valutata mediante il Work Ability Index. Il concetto di capacità lavorativa presuppone che le azioni di promozione della capacità lavorativa sul luogo di lavoro comprendano tutti questi fattori.

Sulla salute in età più avanzata influiscono i comportamenti in materia di salute tenuti in precedenza. La riduzione delle capacità funzionali può essere ritardata e limitata al minimo grazie ad abitudini e stili di vita sani, come un’attività fisica regolare e una corretta alimentazione. L’ambiente di lavoro svolge un ruolo fondamentale nella promozione di uno stile di vita sano e di attività che servono a prevenire il declino fisico, contribuendo quindi a mantenere la capacità lavorativa. La promozione della salute nei luoghi di lavoro riguarda molti aspetti diversi tra cui dieta e alimentazione, consumo di alcolici, abbandono del fumo, quantità di attività fisica, recupero e sonno.

 

Da un sondaggio di opinione condotto dall’EU-OSHA nel 2012 è emerso che una grande maggioranza di cittadini dell’UE ritiene che le buone prassi in materia di salute e sicurezza svolgano un ruolo importante in quanto consentono di lavorare più a lungo.

Una buona progettazione del luogo di lavoro è vantaggiosa per tutte le fasce d’età, compresi i lavoratori più anziani.

Quando le capacità cambiano, anche il lavoro deve subire delle modifiche compensative, quali ad esempio:

  • una riprogettazione o una rotazione del lavoro;
  • brevi pause più frequenti;
  • una migliore organizzazione dei turni lavorativi, per esempio con un sistema di turnazione a rotazione rapida (2-3 giorni);
  • un buon controllo dell’illuminazione e dei rumori;
  • una buona ergonomia dei macchinari.

 

Congedi di malattia di lunga durata possono avere come conseguenza problemi di salute mentale, esclusione sociale e uscita anticipata dal mercato del lavoro. Facilitare il rientro al lavoro dopo un congedo per malattia è determinante per sostenere la forza lavoro in età avanzata. Tra gli esempi di iniziative intraprese nei paesi europei per promuovere il rientro al lavoro si annoverano l’istituzione del “certificato di idoneità” che ha sostituito il certificato di malattia nel Regno Unito e un progetto di intervento per il rientro al lavoro in Danimarca.

 

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INDICAZIONI TECNICHE SUI SISTEMI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE DALLE CADUTE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

06 aprile 2016

 

Un nuovo quaderno per immagini dell’INAIL è dedicato ai sistemi di protezione individuale dalle cadute: le tipologie di sistemi di protezione, il sistema di posizionamento e numerose immagini per informare in modo efficace e semplice.

 

Un ostacolo alle strategie di prevenzione degli infortuni nei cantieri edili è costituito dalle difficoltà comunicative, dalle barriere linguistiche dovute alla cospicua presenza di lavoratori stranieri.

Per superare questo ostacolo e favorire una comunicazione nei cantieri che consenta l’acquisizione rapida degli elementi di base indispensabili alla sicurezza del singolo lavoratore e a quella degli altri, l’INAIL ha realizzato una nuova serie di pubblicazioni che veicolano ogni informazione attraverso dei disegni che assumono funzione didascalica e forniscono il maggior numero possibile di indicazioni per il corretto utilizzo di dispositivi, attrezzature e opere provvisionali.

Il breve testo che presenta ogni pubblicazione e accompagna ogni immagine è scritto in cinque diverse lingue: italiano, inglese, francese, albanese e rumeno.

 

Gli otto opuscoli che compongono la collana “Quaderni per immagini”, realizzati dalla sinergia di due strutture INAIL (Dipartimento per le Innovazioni Tecnologiche – DIT e Direzione centrale pianificazione e comunicazione), nascono dunque dall’esigenza di sperimentare una tipologia di comunicazione che si possa esprimere attraverso le immagini.

E gli opuscoli sono correlati alla collana di “Quaderni Tecnici per i cantieri temporanei o mobili”, già edita dall’INAIL in riferimento agli stessi temi dei “Quaderni per immagini” (scale portatili, trabattelli, parapetti provvisori, ancoraggi, reti di sicurezza, ponteggi fissi, sistemi di protezione degli scavi a cielo aperto e sistemi di protezione individuale dalle cadute).

 

Ci soffermiamo oggi brevemente sull’opuscolo della collana “Quaderni per Immagini”, dal titolo “Sistemi di protezione individuale dalle cadute”. Opuscolo che ricorda come i sistemi di protezione individuale dalle cadute vengano frequentemente impiegati nei cantieri temporanei o mobili durante le attività in quota. Sistemi che vanno utilizzati nei casi in cui, a seguito della valutazione dei rischi, le caratteristiche intrinseche dei luoghi di lavoro, le procedure di lavoro della azienda che effettua l’attività e l’adozione di dispositivi di protezione collettivi non permettono di ridurre a livello accettabile i rischi specifici. Solo in questi casi diventa obbligatorio adottare tali sistemi di protezione individuale dalle cadute.

 

Prima di ricordare le immagini presenti nell’opuscolo, riportiamo alcune informazioni sui sistemi di protezione individuale dalle cadute tratte dall’omonimo Quaderno Tecnico per i cantieri temporanei o mobili realizzato dal Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti e insediamenti antropici (DIT) dell’INAIL.

 

Il Quaderno tecnico “Sistemi di protezione individuale dalle cadute” sottolinea che i sistemi di protezione individuale dalle cadute vengono raggruppati secondo la norma UNI EN 363:2008. E tali sistemi comprendono:

  • sistema di trattenuta: è un sistema di protezione individuale dalle cadute che evita le cadute dall’alto limitando lo spostamento del lavoratore, cioè impedisce al lavoratore di raggiungere le zone dove esiste il rischio di caduta dall’alto; il sistema ha le seguenti caratteristiche: limita il movimento del lavoratore in modo che questi non possa raggiungere le zone dove potrebbe verificarsi una caduta dall’alto; non è destinato ad arrestare una caduta dall’alto; non è destinato a situazioni di lavoro in cui il lavoratore necessiti di essere sostenuto dal dispositivo di tenuta del corpo (occorre evitare scivolamenti o cadute);
  • sistema di posizionamento sul lavoro: è un sistema di protezione individuale dalle cadute che permette alla persona di lavorare sostenuta, in tensione/trattenuta, in modo tale da evitare la caduta; ha le seguenti caratteristiche: evita la caduta del lavoratore; permette al lavoratore di posizionarsi nel luogo di lavoro, sostenuto in tensione/trattenuta; il quaderno ricorda che qualora esista il rischio di caduta dall’alto in aggiunta al sistema di posizionamento sul lavoro deve essere utilizzato un sistema di arresto caduta;
  • sistema di accesso su fune: è un sistema di protezione individuale dalle cadute che permette al lavoratore di raggiungere e lasciare il luogo di lavoro in tensione o in sospensione, in modo tale da evitare o arrestare la caduta; ha le seguenti caratteristiche: consente l’accesso al luogo di lavoro in tensione o in sospensione; evita o arresta la caduta del lavoratore; permette al lavoratore di muoversi tra posizioni più alte e più basse e può permettere lo spostamento laterale; utilizza un punto di attacco basso sull’imbracatura per il collegamento alla fune di lavoro; comprende una fune di lavoro e una fune di sicurezza che sono attaccate separatamente alla struttura a punti di ancoraggio sicuri; può essere utilizzato per il posizionamento sul lavoro dopo che è stato raggiunto il luogo di lavoro;
  • sistema di arresto caduta: è un sistema di protezione individuale dalle cadute che arresta la caduta e limita la forza d’urto sul corpo del lavoratore durante l’arresto della caduta; ha le seguenti caratteristiche: non evita la caduta; limita la lunghezza della caduta; permette al lavoratore di raggiungere zone o posizioni in cui esiste il rischio di caduta e, quando si verifica la caduta, l’arresta; fornisce la sospensione dopo l’arresto della caduta;
  • sistema di salvataggio: è un sistema di protezione individuale dalle cadute per mezzo del quale una persona può salvare se stessa o altri e che evita la caduta; ha le seguenti caratteristiche: evita la caduta sia della persona soccorsa sia del soccorritore durante l’operazione di salvataggio; permette di sollevare o abbassare la persona soccorsa in un posto sicuro.

 

Tornando al “Quaderno per Immagini”, elenchiamo le immagini (corredate da testo didascalico contenute:

  • Figura 1: Sistema di trattenuta collegato a un ancoraggio lineare;
  • Figura 2: Sistema di posizionamento sul lavoro;
  • Figura 3: Sistema di posizionamento sul lavoro che include un sistema di arresto caduta collegati ad un sistema di ancoraggio lineare;
  • Figura 4: Sistema di accesso su fune;
  • Figura 5: Sistema di arresto caduta che include un cordino ed un assorbitore di energia su linea di ancoraggio flessibile;
  • Figura 6: Sistema di arresto caduta collegato ad un sistema di ancoraggio lineare;
  • Figura 7: Sistema di arresto caduta collegato ad un sistema di ancoraggio lineare;
  • Figura 8: Sistema di arresto caduta collegato ad un sistema di ancoraggio puntuale;
  • Figura 9: Sistema di trattenuta collegato ad un sistema di ancoraggio lineare/accesso al tetto;
  • Figura 10: Sistema di arresto caduta che include un cordino ed un assorbitore di energia su linea di ancoraggio flessibile.

 

Il documento “Sistemi di protezione individuale dalle cadute”, collana Quaderni per Immagini, INAIL, è scaricabile all’indirizzo:

https://www.inail.it/cs/internet/docs/allegato_protezione_cadute_quaderni_per_immagini.pdf

 

Il documento “Sistemi di protezione individuale dalle cadute”, collana Quaderno Tecnici per i cantieri temporanei o mobili, INAIL, è scaricabile all’indirizzo:

https://www.inail.it/cs/internet/docs/sistema_protezione_cadute-pdf.pdf

 

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IL NUOVO REGOLAMENTO EUROPEO SUI DPI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

07 aprile 2016 – Cat: DPI

Di Tiziano Menduto

 

Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della UE il Regolamento (UE) 2016/425 sui Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) che abroga la Direttiva 89/686/CEE.

La forma giuridica, i considerando, il campo di applicazione e gli obblighi degli operatori economici.

 

Il 31 marzo è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della UE (GUUE) il nuovo Regolamento (UE) 2016/425 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sui DPI e che abroga la Direttiva 89/686/CEE del 21 dicembre 1989, Direttiva concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative ai DPI.

 

Era uno dei Regolamenti dell’Unione Europea più attesi (prima ancora della pubblicazione erano già circolate alcune bozze del documento finale) sia per i contenuti che per la forma scelta.

L’atto della UE ha sempre l’obiettivo di stabilire requisiti per la progettazione e la fabbricazione dei DPI che devono essere messi a disposizione sul mercato, al fine di garantire la protezione della salute e della sicurezza degli utilizzatori, ma ora la forma giuridica è cambiata. Non più la “Direttiva”, ma il “Regolamento”, una forma che rende le “regole” obbligatorie per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea senza necessità di un recepimento.

 

Il Regolamento entra in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione in GUUE, ma si applica a decorrere dal 21 aprile 2018 (è a decorrere da questa data che è abrogata la Direttiva 89/686/CEE) con alcune eccezioni:

  • gli articoli da 20 a 36 e l’articolo 44 si applicano a decorrere dal 21 ottobre 2016;
  • l’articolo 45, paragrafo 1, si applica a decorrere dal 21 marzo 2018.

 

Per comprendere la necessità di questo nuovo atto in materia di DPI e la scelta di un “Regolamento” e non di una “Direttiva”, è sufficiente leggere alcuni “considerando” presenti nella norma.

 

Nei “considerando” si indica che “l’esperienza acquisita nell’applicazione della Direttiva 89/686/CEE ha evidenziato carenze e incongruenze nella copertura dei prodotti e nelle procedure di valutazione della conformità”. E per questo motivo, “al fine di tener conto di tale esperienza e di fornire chiarimenti in merito al quadro nel quale i prodotti oggetto del presente Regolamento possono essere resi disponibili sul mercato”, con il Regolamento 2016/425 è “opportuno rivedere e migliorare alcuni aspetti della Direttiva 89/686/CEE”.

Inoltre poiché l’ambito di applicazione, i requisiti essenziali di salute e di sicurezza e le procedure di valutazione della conformità “devono essere identici in tutti gli Stati membri” è opportuno “sostituire la Direttiva 89/686/CEE con un Regolamento, che è lo strumento giuridico adeguato per imporre norme chiare e dettagliate, che non lascino spazio a differenze di recepimento da parte degli Stati membri”.

 

Prima di passare ad una breve analisi degli articoli del Regolamento, ricordiamo altri “considerando” che ci permettono di chiarire alcuni aspetti preliminari.

 

Intanto si indica che il Regolamento disciplina i DPI che “sono nuovi sul mercato dell’Unione al momento di tale immissione sul mercato, vale a dire i DPI nuovi di un fabbricante stabilito nell’Unione oppure i DPI, nuovi o usati, importati da un paese terzo”. E il Regolamento “dovrebbe applicarsi a tutte le forme di fornitura, compresa la vendita a distanza”.

 

Gli operatori economici “dovrebbero essere responsabili della conformità dei DPI alle prescrizioni del presente Regolamento, in funzione del ruolo che rivestono nella catena di fornitura, in modo da garantire un elevato livello di salvaguardia di interessi pubblici, quali la salute e la sicurezza, la protezione degli utilizzatori, nonché una concorrenza leale sul mercato dell’Unione”.

E “tutti gli operatori economici che intervengono nella catena di fornitura e distribuzione dovrebbero adottare misure atte a garantire che siano messi a disposizione sul mercato solo DPI conformi al presente Regolamento. Il presente Regolamento dovrebbe stabilire una ripartizione chiara e proporzionata degli obblighi corrispondenti al ruolo di ogni operatore economico nella catena di fornitura e distribuzione”.

Tuttavia il fabbricante, che conosce dettagliatamente il processo di progettazione e di produzione, “è nella posizione migliore per eseguire la procedura di valutazione della conformità. La valutazione della conformità dovrebbe quindi rimanere obbligo esclusivo del fabbricante”.

 

Ed è poi necessario garantire che i DPI provenienti da paesi terzi che entrano nel mercato dell’Unione “siano conformi ai requisiti di cui al presente Regolamento e in particolare che i fabbricanti abbiano applicato adeguate procedure di valutazione della conformità. E’ pertanto opportuno prevedere una disposizione che obblighi gli importatori ad assicurarsi che i DPI immessi sul mercato siano conformi ai requisiti del presente Regolamento, evitando l’immissione sul mercato di DPI non conformi o che presentano un rischio. E’ inoltre opportuno prevedere che gli importatori si assicurino che siano state svolte le procedure di valutazione della conformità e che la marcatura CE e la documentazione tecnica redatta dai fabbricanti siano a disposizione delle autorità nazionali competenti a fini di controllo”.

 

Ci soffermiamo ora sull’ambito di applicazione.

 

Il Regolamento si applica ai dispositivi di protezione individuale (DPI) definiti (articolo 3) come:

  1. a) “dispositivi progettati e fabbricati per essere indossati o tenuti da una persona per proteggersi da uno o più rischi per la sua salute o sicurezza;
  2. b) componenti intercambiabili dei dispositivi di cui alla lettera a), essenziali per la loro funzione protettiva;
  3. c) sistemi di collegamento per i dispositivi di cui alla lettera a) che non sono tenuti o indossati da una persona, che sono progettati per collegare tali dispositivi a un dispositivo esterno o a un punto di ancoraggio sicuro, che non sono progettati per essere collegati in modo fisso e che non richiedono fissaggio prima dell’uso”.

 

Inoltre (articolo 2) il Regolamento non si applica ai DPI:

  1. a) “progettati specificamente per essere usati dalle forze armate o nel mantenimento dell’ordine pubblico;
  2. b) progettati per essere utilizzati per l’autodifesa, ad eccezione dei DPI destinati ad attività sportive;
  3. c) progettati per l’uso privato per proteggersi da:
  4. i) condizioni atmosferiche non estreme;
  5. ii) umidità e acqua durante la rigovernatura;
  6. d) da utilizzare esclusivamente su navi marittime o aeromobili oggetto dei pertinenti trattati internazionali applicabili negli Stati membri;
  7. e) per la protezione della testa, del viso o degli occhi degli utilizzatori, oggetto del Regolamento n. 22 della Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite concernente prescrizioni uniformi relative all’omologazione dei caschi e delle relative visiere per conducenti e passeggeri di motocicli e ciclomotori”.

 

Concludiamo questa breve presentazione ricordando che, riguardo alla presunzione di conformità del DPI, “un DPI conforme alle norme armonizzate o alle parti di esse i cui riferimenti sono stati pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea è considerato conforme ai requisiti essenziali di salute e di sicurezza di cui all’allegato II [del Regolamento], contemplati da tali norme o parti di esse”.

 

E tale dichiarazione di conformità UE (la struttura della dichiarazione è riportata nell’allegato IX del Regolamento) “attesta il rispetto dei requisiti essenziali di salute e di sicurezza applicabili di cui all’allegato II”. Con la dichiarazione il fabbricante “si assume la responsabilità della conformità del DPI” ai requisiti stabiliti dal Regolamento.

 

I capi e gli allegati del Regolamento 2016/425 sono i seguenti:

  • Capo I – Disposizioni Generali (Articoli 1/7)
  • Capo II – Obblighi degli operatori economici (Articoli 8/13)
  • Capo III – Conformità del DPI (Articoli 14/17)
  • Capo IV – Valutazione della conformità (Articoli 18/19)
  • Capo V – Notifica degli organismi di valutazione della conformità (Articoli 20/36)
  • Capo VI – Vigilanza del mercato dell’unione, controlli sui DPI che entrano nel mercato dell’Unione e procedura di salvaguardia dell’Unione (Articoli 37/41)
  • Capo VII – Atti delegati e atti di esecuzione (Articoli 42/44)
  • Capo VIII – Disposizioni transitorie e finali (Articoli 45/48)
  • Allegato I – Categorie di rischio dei DPI
  • Allegato II – Requisiti essenziali di salute e di sicurezza
  • Allegato III – Documentazione tecnica per i DPI
  • Allegato IV – Controllo interno della produzione
  • Allegato V – Esame UE del tipo
  • Allegato VI – Conformità al tipo basata sul controllo interno della produzione
  • Allegato VII – Conformità al tipo basata sul controllo interno della produzione unito a prove del prodotto sotto controllo ufficiale effettuate a intervalli casuali
  • Allegato VIII – Conformità al tipo basata sulla garanzia di qualità del processo di produzione
  • Allegato IX – Dichiarazione di conformità UE
  • Allegato X – Tavola di concordanza

 

Il Regolamento (UE) 2016/425 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sui Dispositivi di Protezione Individuale e che abroga la Direttiva 89/686/CEE del Consiglio è scaricabile allindirizzo:

http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32016R0425&from=IT

 

La Direttiva 89/686/CEE del Consiglio delle Comunità Europee del 21 dicembre 1989, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative ai Dispositivi di Protezione Individuale è scaricabile all’indirizzo:

http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:31989L0686&from=it

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.251 DEL 12/04/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.250 DEL 05/04/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.250 DEL 05/04/16

INDICE

  • Definizione di unità produttiva e decadenza dei RLS per le cooperative
  • Bicicletta: infortunio in itinere sempre indennizzato, anche su strada e per colpa
  • Responsabilità del datore in caso di infortunio e alta professionalità del dipendente
  • Cassazione: infarto da superlavoro? Il datore è sempre “colpevole”
  • Nuova modalità per le denunce di infortunio e malattia professionale
  • Le richieste degli RLS per migliorare la prevenzione in Italia
  • La valutazione dell’esposizione professionale a silice libera cristallina

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

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DEFINIZIONE DI UNITA’ PRODUTTIVA E DECADENZA DEI RLS PER LE COOPERATIVE

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.73

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti dei lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

QUESITO

Ciao Marco,

lavoro in una cooperativa che ha una sede centrale nazionale, ma diverse sedi dislocate su tutto il territorio italiano, ma che dipendono comunque dalla sede centrale.

Ho chiesto chi fosse l’RLS aziendale della sede in cui lavoro per proporgli i problemi che abbiamo per la sicurezza, ma la cooperativa mi ha risposto che devo fare riferimento all’RLS della sede centrale.

Risulta tra l’altro che tale RLS sia decaduto dall’incarico.

Mi risulta che l’RLS, secondo il Testo Unico, debba essere eletto per ogni unità produttiva di una azienda e quindi la prima domanda che ti pongo è se le nostre sedi distaccate sono unità produttive o meno e quindi se hanno la facoltà di eleggere un RLS o se dobbiamo invece fare riferimento all’RLS della sede centrale.

La seconda domanda è relativa a cosa prevede il Testo Unico sulla decadenza dei RLS.

Secondo la cooperativa, l’attuale RLS non decade, noi vorremmo invece vedere di rieleggerne uno in ogni sede che potrebbe essere considerata un’unità produttiva autonoma, se mi mandi meglio la definizione.

Il CCNL in vigore è il CCNL Cooperative sociali, triennio 2010-2012, firmato il 16 dicembre 2011, non rinnovato

Se puoi dammi un parere.

Grazie.

RISPOSTA

Ciao,

premetto che il termine “unità produttiva” non è di facile definizione.

A tale proposito ti riporto a seguire un articolo del quotidiano on-line PuntoSicuro con un’analisi di dettaglio del termine.

Innanzitutto la definizione di unità produttiva secondo l’articolo 2, comma 1, lettera t) del D.Lgs. 81/08 è la seguente:

stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale”.

Se la struttura, pur facendo parte di una azienda più ampia, possiede questi requisiti è unità produttiva.

L’autonomia finanziaria e tecnico-funzionale va intesa relativamente alla gestione di tutte le attività legate alla tutela della salute e della sicurezza e deve essere posta in capo a un datore di lavoro, come definito dalla lettera d) dell’articolo citato:

il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”.

Per semplificare l’unità produttiva è quella parte di un’azienda al capo della quale è posto un datore di lavoro che ha pieni poteri decisionali e di spesa e che non deve rispondere ad altri, se non, eventualmente, al consiglio di amministrazione della intera società.

Tali poteri devono essere formalizzati all’interno dall’atto costitutivo dell’intera società che specifichi in maniera chiara l’indipendenza finanziaria e tecnico-funzionale della unità produttiva.

In pratica, come si evince anche dalla lettura dell’articolo di PuntoSicuro, l’unità produttiva si caratterizza dall’avere un proprio bilancio e, aggiungo io, un proprio documento di valutazione dei rischi a firma del datore di lavoro.

Inoltre, secondo le interpretazioni riportate nell’articolo, l’unità produttiva non si configura solo a seguito di autonomia finanziaria e organizzativa, ma anche in funzione della capacità di assolvere un intero ciclo produttivo di un bene o di un servizio.

Nel tuo caso quindi, per poter definire che la sede distaccata della cooperativa sia unità produttiva, secondo definizione di legge, è necessario che:

  • la sede abbia autonomia finanziaria e tecnico-funzionale, come definito all’interno della visura camerale della intera società;
  • la sede sia sotto la piena responsabilità di un datore di lavoro che, da statuto e da visura camerale, abbia pieni poteri decisionali e di spesa;
  • la sede abbia un proprio bilancio;
  • la sede abbia un proprio documento di valutazione dei rischi.

Relativamente a quanto disposto per la durata degli RLS, ti riporto la risposta a una domanda rivolta alla Commissione degli interpelli (ex articolo 12, comma 2 del D.Lgs. 81/08) in merito a un caso simile.

La Commissione specifica che “le modalità di elezione o designazione del RLS dovranno essere oggetto di regolamentazione della contrattazione collettiva di riferimento per l’azienda”.

In caso di scadenza e mancato rinnovo della contrattazione (come nel tuo caso) la Commissione ritiene che “continui ad operare la precedente disciplina contrattuale, in regime di ultrattività”.

Pertanto per individuare le regole dell’elezione del RLS e la durata della loro carica occorre partire dal CCNL Cooperative sociali, triennio 2010-2012, del 16/12/11, ancorché scaduto e non rinnovato.

Tale Contratto esaurisce quanto di competenza a tutela della salute e della sicurezza all’interno dell’articolo 74 “Tutela della salute e ambiente di lavoro”, che si limita ad affermare che

In materia di sicurezza sul lavoro, fermo restando quanto previsto nel protocollo d’intesa sottoscritto tra le Organizzazioni Sindacali CGIL, CISL, UIL e le centrali cooperative Legacoop, Confcooperative, AGCI in data 05/10/95 si fa riferimento al D.Lgs. 81/08 […]”.

Ora, poiché il D.Lgs. 81/08 nulla dice in merito alla durata in carica del RLS, occorre fare riferimento al citato Protocollo d’intesa tra Legacoop, Confcooperative, AGCI e CGIL, CISL, UIL per l’applicazione del D.Lgs. 626/94 del 05/10/65.

Tale Protocollo riporta al punto 4.10 “Procedure per l’elezione o individuazione dei RLS” quanto segue:

Per le imprese cooperative o unità produttive delle stesse, le Associazioni cooperative e le Organizzazioni Sindacali dei lavoratori competenti concorderanno le iniziative idonee allo svolgimento delle elezioni dei RLS.

[…]

Il/i RLS così eletto/i dura/no nell’incarico per il tempo previsto dall’Accordo 13/09/94 sulle RSU o comunque fino alla decadenza della RSU”.

A sua volta il Protocollo di intesa per la costituzione delle Rappresentanza Sindacali Unitarie del 13 settembre 1994 riporta all’articolo 6 “Durata e sostituzione nell’incarico”, che:

I componenti della RSU restano in carica per 3 anni, al termine dei quali decadono automaticamente. In caso di dimissioni di componente elettivo, lo stesso sarà sostituito dal 1° dei non eletti appartenente alla medesima lista”.

Quindi e in conclusione il RLS eletto o designato all’interno della RSU rimane in carica 3 anni o fino alla decadenza della RSU.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

* * * * *

UNITA’ PRODUTTIVA: LA DEFINIZIONE AI FINI DELLA SICUREZZA SUL LAVORO

Definire l’unità produttiva consente di determinare il numero di RSPP, dirigenti, preposti, RLS e di individuare uno o più datori di lavoro: i requisiti per identificarla presenti nei riferimenti legislativi e nella giurisprudenza.

Definire ed individuare una unità produttiva è tema assai rilevante in materia di sicurezza sul lavoro. In particolare troviamo ricadute dirette nella individuazione del datore di lavoro, nella istituzione di un unico o più Servizi di prevenzione e protezione con conseguente presenza di più RSPP, nella organizzazione delle rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza.

Infatti in una unica società/persona giuridica è possibile come è noto il frazionamento datoriale, ovvero la presenza di più datori di lavori per un unico soggetto giuridico quando questo si articola in più unità produttive.

Come chiaramente indica l’articolo 2 del D.Lgs. 81/08 il datore di lavoro è non solo quello che ha la titolarità del rapporto di lavoro, ma anche eventualmente colui che “ha la responsabilità della organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività o della unità produttiva”, purché ovviamente eserciti “i poteri decisionali e di spesa”.

Quindi il definire la unità produttiva determina la possibilità e la fattualità di un frazionamento datoriale o alternativamente la presenza di un solo datore di lavoro con più dirigenti o preposti nelle articolazioni aziendali.

E ancora troviamo, in relazione al Servizio di prevenzione e protezione, che l’articolo 31 del D.Lgs. 81/08 afferma che il datore di lavoro “organizza il servizio di prevenzione e protezione all’interno della azienda o della unità produttiva”, aggiungendo al comma 8 che “nei casi di aziende con più unità produttive nonché nei casi di gruppi di imprese, può essere istituito un unico servizio di prevenzione e protezione”.

Quindi chiarendo che tale opzione è quindi una scelta organizzativa dei datori di lavoro che a quel punto saranno più di uno perché presenti più unità produttive. Infatti il comma 8 aggiunge che “i datori di lavoro [al plurale] possono rivolgersi a tale struttura per la istituzione del servizio e per la designazione degli addetti e del responsabile”.

Quindi tali norme rendono possibile la presenza di più datori di lavoro e di un unico servizio di prevenzione protezione e quindi di un unico Responsabile del servizio stesso. Unico accorgimento è che tale servizio sia “adeguato a garantire la effettività dello svolgimento dei compiti previsti” (articolo 33 del D.Lgs. 81/08).

Quali siano i requisiti per definire una unità produttiva ad oggi si evincono da qualche riferimento legislativo e da alcuni indirizzi di natura giurisprudenziale.

LA UNITA’ PRODUTTIVA NELLA DEFINIZIONE DEL D.LGS. 81/08

Il testo Unico in materia di sicurezza definisce la unità produttiva come “lo stabilimento o la struttura finalizzata alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale”.

Ora è bene quindi capire cosa sia la autonomia finanziaria e l’autonomia tecnico-funzionale.

LA GIURISPRUDENZA DAL D.LGS. 626/94 AL D.LGS. N. 81/2008

La Giurisprudenza ci offre qualche chiave di lettura, basti ricordare la Sentenza della Corte di Cassazione n. 45068 del 22/11/04.

In questo pronunciamento si afferma che l’organismo, pur restando una emanazione di una stessa impresa, deve avere “una fisionomia distinta, presenti un proprio bilancio” e abbia in condizioni di indipendenza “un proprio riparto di risorse disponibili” così da permettere in piena autonomia le scelte organizzative più confacenti alle caratteristiche funzionali e produttive della unità.

Addirittura la Cassazione afferma che la “rilevante autonomia” di cui è deve essere dotata la unità produttiva “deve anche essere espressamente prevista negli atti della impresa o della società”.

LA UNITA’ PRODUTTIVA E LO STATUTO DEI LAVORATORI

Un altro parametro ci viene offerto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e dalla giurisprudenza che ne è seguita.

La Legge n. 300/70 si trova ad affrontare tale tema incidentalmente trattando la tutela del lavoratore da licenziamento senza giusta causa ed afferma che:

Il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti e alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro”.

Vi è quindi in questo caso per definire la unità produttiva un riferimento a parametri quantitativi legato al numero dei dipendenti o dei prestatori di lavoro della singola unità. Vi è peraltro da aggiungere che tale riferimento quantitativo deve essere preso non rigorosamente in materia di sicurezza sul lavoro, ma semmai come elemento che sottolinea la dimensione autonoma della unità produttiva stessa.

Peraltro la giurisprudenza in applicazione della stessa Legge 300/70  ha affermato anche che “Agli effetti della tutela reintegratoria del lavoratore ingiustamente licenziato, per unità produttiva deve intendersi non ogni sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto dell’impresa, ma soltanto la più consistente e vasta entità aziendale eventualmente articolata in organismi minori, anche non ubicati tutti nel territorio del medesimo comune, purché  caratterizzati per condizioni imprenditoriali da indipendenza tecnica e amministrativa tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell’attività produttiva aziendale.

Ne consegue che deve escludersi la configurabilità di un’unità produttiva in relazione alle articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una certa autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a funzioni ausiliarie sia rispetto ai generali fini dell’impresa, sia rispetto ad una frazione dell’attività produttiva della stessa. (Sentenze della Cassazione Civile n. 19837 del 4 ottobre 2004, n. 5892 del 14 giugno 1999, n. 7848 del 19 luglio 1995).

LA UNITA’ PRODUTTIVA E L’ARTICOLO 2103 DEL CODICE CIVILE

Un altro parametro di riferimento lo troviamo nell’articolo 2103 del Codice Civile, come sostituito dall’articolo 13 della Legge n. 300/70: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto […]. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.

L’assegnazione a una nuova posizione di lavoro all’interno della stessa unità produttiva, non costituisce quindi trasferimento. Ora esattamente in relazione a tale categoria concettuale, la giurisprudenza ha elaborato una indicazione utile a definire la unità produttiva.

A questo riguardo la giurisprudenza considera una unità produttiva “ogni articolazione autonoma dell’azienda, avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l’attività dell’impresa medesima, della quale costituisca una componente organizzativa, connotata da indipendenza tecnica ed amministrativa tali che in essa si possa concludere una frazione dell’attività produttiva aziendale” (Sentenza della Cassazione Civile n. 11660 del 29 luglio 2003).

L’unità produttiva va quindi individuata “in ogni articolazione autonoma dell’impresa, avente sotto il profilo funzionale e finalistico idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l’attività di produzione di beni o servizi dell’impresa medesima, della quale costituisce elemento organizzativo, restando invece esclusi quegli organismi minori che, se pur dotati di una certa autonomia, siano destinati a scopi meramente strumentali rispetto ai fini produttivi dell’impresa” (Sentenze della Cassazione Civile n. 9636 del 21 luglio 2000 e n. 5892 del 14 giugno 1999).

LA UNITA’ PRODUTTIVA E L’INQUADRAMENTO INAIL

Da ultimo anche per ciò che riguarda la denuncia di iscrizione all’INAIL la Circolare dell’Ente stesso del 18 giugno 2001 ha affermato che la impresa deve fare una sola denuncia intendendosi la sede, quella dove “si svolge la produzione dei beni e dei servizi oggetto dell’attività aziendale”, salvo l’azienda svolga la propria attività in più luoghi di lavoro “purché dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale”.

In mancanza di questa autonomia “l’eventuale diversa struttura dell’azienda anche se fisicamente separata dalla struttura principale non va considerata quale autonoma e distinta sede di lavoro e deve essere ricondotta a fini assicurativi alla sede dalla quale dipende” (Circolare n. 9 del 2002 e Nota del 18 giugno 2007).

Anche l’unico inquadramento o la pluralità di denunce di iscrizione all’INAIL si rileva quindi elemento determinante per stabilire sotto il profilo dell’applicazione del D.Lgs. 81/08 se vi sia o meno una unità produttiva.

CONCLUSIONI

In conclusione quindi per dichiarare l’esistenza di una unità produttiva sono necessari requisiti di autonomia assai stringenti che rendono l’ipotesi della sua esistenza non certo frequente ed è quindi auspicabile non darne una superficiale e distorsiva interpretazione estensiva.

Emilio Del Bono

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BICICLETTA: INFORTUNIO IN ITINERE SEMPRE INDENNIZZATO, ANCHE SU STRADA E PER COLPA

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

29/03/16

Di Marina Crisafi

Le linee guida dell’INAIL sulla nuova disciplina a seguito della norma introdotta dal collegato ambientale.

Chi si fa male andando al lavoro in bicicletta sarà indennizzato in ogni caso, perché la Legge n. 221/2015, il cosiddetto “collegato ambientale”, ha introdotto il principio secondo il quale l’uso del velocipede deve intendersi “sempre necessitato” (cioè sempre indennizzato per chi si fa male mentre va al lavoro in bici).

Ora, l’INAIL con la Circolare n. 14 del 25 marzo 2016 provvede a riassumere la disciplina giuridica dell’infortunio in itinere, dettando le linee guida da seguire alla luce delle ulteriori novità normative.

USO “NECESSITATO” ANCHE SU STRADA

Nella circolare si premette che l’INAIL, considerata la sempre maggiore attenzione a livello ambientale e sociale orientata a favore di una mobilità sostenibile, sin dal 2011 ha riconosciuto l’infortunio occorso al lavoratore che si recava al lavoro in bicicletta, ma soltanto se l’evento lesivo si verificava su pista ciclabile o zona interdetta al traffico e non invece su strada aperta al traffico di veicoli a motore. In tal caso, infatti, l’indennizzo veniva riconosciuto solo se l’utilizzo della bici si considerava necessario, altrimenti si ricadeva nell’ambito del cosiddetto “rischio elettivo” non protetto. D’ora in poi, tale valutazione è superflua, perché dopo il collegato ambientale l’infortunio a bordo del velocipede è indennizzato a prescindere dal tratto stradale in cui l’evento si verifica, giacché il suo utilizzo è considerato sempre necessitato.

LA NORMALITA’ DEL PERCORSO

Quanto alla disciplina giuridica dell’infortunio, l’INAIL ricorda che l’articolo 12 del D.Lgs. 38/00 sancisce che l’assicurazione opera nell’ipotesi di infortunio occorso a lavoratore assicurato durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro.

Per normalità del percorso, l’istituto ribadisce che il concetto riguarda il tragitto dal luogo di abitazione a quello di lavoro e viceversa, affrontato “per esigenze e finalità lavorative e, ovviamente, in orari confacenti con quelli lavorativi in modo tale che il lavoratore non abbia possibilità di una scelta diversa, né in ordine al tragitto, né in ordine all’orario”. Ad essere indennizzato, in buona sostanza, è il percorso normalmente compiuto dal lavoratore, anche se non coincide con quello più breve, purché sia giustificato dalla concreta situazione della viabilità (come, ad esempio, per via del traffico più scorrevole).

LE INTERRUZIONI O DEVIAZIONI

Anche con riferimento all’infortunio occorso in bici, ricorda l’INAIL, la tutela assicurativa non opera nell’ipotesi di interruzioni e deviazioni del normale percorso, laddove le stesse siano “del tutto indipendenti dal lavoro o comunque non necessitate”. In presenza di “brevi soste” che non espongano l’assicurato a un rischio diverso da quello che avrebbe dovuto affrontare se il normale percorso casa-lavoro fosse stato compiuto senza soluzione di continuità, non valgono invece ad interrompere il nesso causale tra lavoro e infortunio e, quindi, non escludono l’indennizzo.

BICICLETTA EQUIPARATA AL MEZZO PUBBLICO

Mentre ai fini dell’applicabilità della tutela assicurativa, la scelta del mezzo privato da parte del lavoratore deve essere valutata, caso per caso, al fine di vagliarne la “necessità” (ad esempio, quando non esistono mezzi pubblici di trasporto o gli stessi non coprono l’intero percorso, ovvero quando non c’è coincidenza di orari, ecc.), per la bicicletta tale valutazione risulta superata, afferma l’INAIL, ad opera dell’articolo 5 della Legge 221/15, poiché “il suo utilizzo è considerato dalla norma sempre necessitato e, quindi, equiparato a quello del mezzo pubblico o al percorso a piedi”.

INFORTUNIO ANCHE SE C’E’ COLPA

Rimane, inoltre, confermato ribadisce l’Istituto nella circolare, che ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio non assumono rilevanza gli aspetti soggettivi della condotta dell’assicurato. In altre parole, se l’infortunio avviene per colpa del lavoratore (negligenza, imperizia, violazione di norme, ecc.) non è interrotto il nesso causale tra rischio lavorativo e sinistro, per cui l’indennizzo è dovuto, salvo che non si tratti di comportamenti “così abnormi da sfociare nel rischio elettivo”.

Richiamando la giurisprudenza della Cassazione in materia, che esclude l’indennizzo dell’infortunio, laddove “l’elemento psicologico del lavoratore, anche solo colposo, nella causazione dell’infortunio risulta particolarmente qualificato per la sua abnorme deviazione dalla corretta esecuzione del lavoro, comportando un aggravamento del rischio tutelato talmente esorbitante dalle finalità di tutela, da escluderla”, la Circolare specifica che anche l’infortunio occorso a bordo della bici dovrà ritenersi escluso da tutela ogni qualvolta “esaminate le circostanze nelle quali l’incidente si sia verificato (ad esempio avere imboccato una strada interdetta alla circolazione del velocipede o essersi messo alla guida in stato di ubriachezza) la qualificazione dell’elemento soggettivo del lavoratore debba essere definito in termini di rischio elettivo e non di colpa”.

La Circolare INAIL n. 14/2016 è scaricabile all’indirizzo:

https://www.inail.it/cs/internet/docs/allegato_alla_circolare_14_del_25_marzo_2016.pdf

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RESPONSABILITA’ DEL DATORE IN CASO DI INFORTUNIO E ALTA PROFESSIONALITA’ DEL DIPENDENTE

Da Portale Consulenti

http://www.portaleconsulenti.it

24/03/16

Con la sentenza n. 5233 del 16 marzo 2016, La Corte di Cassazione ha affermato come la messa a disposizione, da parte del datore di lavoro, dei DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) e la successiva formazione sulla sicurezza, non esime quest’ultimo dalla responsabilità in caso di infortunio accorso al lavoratore, qualora non abbia vigilato sull’utilizzo effettivo, da parte dei dipendenti, degli stessi DPI messi a disposizione.

Si riporta a seguire il testo della sentenza.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 09/11/06 il Tribunale di Napoli condannava (…) SpA a pagare a (…), a titolo risarcitorio dei danni derivatigli da un infortunio sul lavoro occorso il 09/01/98, la somma di euro 105.000,00 per danno esistenziale e biologico e quella di euro 23.000,00 per danno morale, il tutto oltre interessi.

Con sentenza depositata il 10/01/12 la Corte d’Appello di Napoli riduceva a complessivi euro 105.000,00 il risarcimento dovuto al lavoratore, confermando nel resto le statuizioni di prime cure.

Accertavano i Giudici di merito che il (…) nell’eseguire le operazioni di revisione del gruppo leveraggio cambio di un automezzo aziendale, era stato colpito da un bullone che si accingeva a estrarre, riportando una cecità assoluta all’occhio sinistro e uno stress cronico moderato post-traumatico, con conseguente inabilità permanente del 37%.

Per la Cassazione della sentenza della Corte Territoriale ricorre (…) SpA affidandosi a due motivi.

(…) resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 2087 del Codice Civile per avere la sentenza impugnata ravvisato la responsabilità della società pur essendosi accertato che l’infortunio si era verificato sol perché il lavoratore (operaio tecnico) non aveva inforcato gli occhiali protettivi regolarmente fornitigli dall’azienda: obietta in proposito la ricorrente di aver adottato tutte le dovute cautele e cioè di aver formato professionalmente il lavoratore e di averlo informato circa i rischi del lavoro svolto, munendolo di occhiali protettivi e di lampade mobili, così rispettando sotto ogni aspetto il debito di sicurezza di cui all’articolo 2087 del Codice Civile; né (conclude il motivo) era necessaria una particolare vigilanza del lavoratore durante l’operazione svolta (lo svitamento d’un bullone), di estrema semplicità.

Analoga doglianza viene sostanzialmente fatta valere con il secondo mezzo, sotto forma di denuncia di vizio di motivazione circa l’asserito superamento della soglia di sicurezza, nonché circa l’obbligo di concreta vigilanza dell’operazione espletata dal dipendente infortunato e dell’uso, da parte sua, degli occhiali protettivi.

I due motivi, da esaminarsi congiuntamente perché connessi, sono infondati.

I Giudici di merito hanno ravvisato a carico della società una violazione dell’articolo 2087 del Codice Civile perché l’ambiente di lavoro era scarsamente illuminato e perché l’azienda non aveva vigilato affinché i dipendenti utilizzassero gli occhiali protettivi e i sistemi di illuminazione mobili messi a loro disposizione.

La società ricorrente contesta l’asserita necessità di vigilanza, in considerazione del livello di esperienza dell’infortunato e della semplicità dell’operazione che stava eseguendo.

Osserva questa Corte che è pur vero che in tema di responsabilità del datore di lavoro circa il mancato uso di mezzi personali di sicurezza la violazione dell’articolo 4 lettera c) del D.P.R. 547/55 (vigente all’epoca dell’infortunio per cui è causa), che obbliga datori di lavoro, dirigenti e preposti a “disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza e usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione”, postula un accertamento che abbia riguardo alle peculiari caratteristiche dell’impresa, ai tipi di lavorazione ivi effettuati, all’entità del personale e ai diversi gradi di rischio (confronta, per tutte, Sentenza di Cassazione n. 10066/94).

La sorveglianza dovuta da datori di lavoro, dirigenti e preposti non deve essere ininterrotta e con costante presenza fisica del controllore accanto al lavoratore, ma può anche sostanziarsi in una discreta, seppure continua ed efficace, vigilanza generica, intesa ad assicurarsi, nei limiti dell’umana efficienza, che i lavoratori seguano le disposizioni di sicurezza impartite e utilizzino gli strumenti di protezione prescritti.

Tale obbligo di vigilanza subisce un’ulteriore attenuazione, in base ad un principio di ragionevole affidamento nelle accertate qualità del dipendente, in ipotesi di provetta specializzazione dell’operaio munito di approfondita conoscenza d’una determinata lavorazione cui sia addetto da lungo tempo (vedi, ancora, Sentenza di Cassazione n. 10066/94 citata).

Nondimeno tale mera attenuazione (che, giova ribadire, è configurabile solo in ipotesi di lavoratore esperto, già adeguatamente formato professionalmente e informato dei rischi connessi alle mansioni assegnategli) non si identifica con la totale omissione di controllo, ravvisata nel caso di specie dai giudici di merito, circa l’uso di lampade mobili e occhiali protettivi, controllo ancor più necessario viste le condizioni di insufficiente illuminazione dell’ambiente di lavoro.

Né esime da tale obbligo la semplicità dell’operazione lavorativa, atteso che il grado maggiore o minore di complessità del lavoro da espletare non è in rapporto di proporzionalità diretta con il rischio protetto, ben potendosi dare lavorazioni complesse, ma non pericolose e, per converso, altre anche semplici, ma con elevato livello di pericolosità.

Infine, quanto al superamento della soglia di rischio, si consideri che il fatto (l’avvenuto infortunio) vince l’ipotesi ventilata dalla ricorrente (l’inesistenza del superamento d’una soglia di rischio), di guisa che la Sentenza impugnata non doveva motivare ulteriormente a riguardo.

Ove, poi, il senso della doglianza fosse quello per cui, vista la natura dell’operazione affidata al lavoratore, sarebbe stato da escludere a monte, in virtù di una cosiddetta prognosi postuma, qualsivoglia obbligo di uso di mezzi personali di protezione e, quindi, di vigilanza datoriale sul loro concreto impiego, è appena il caso di notare che sì tratterebbe di congettura nuova e contraddittoria rispetto a tutta l’impostazione del ricorso, che insiste sull’avvenuta messa a disposizione degli occhiali protettivi, così riconoscendo la pericolosità della manovra eseguita dall’infortunato.

SENTENZA

In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza e si distraggono ex articolo 93 del Codice di Procedura Civile in favore del difensore, dichiaratosi antistatario.

la Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avvocato (…), dichiaratosi antistatario.

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CASSAZIONE: INFARTO DA SUPERLAVORO? IL DATORE E’ SEMPRE “COLPEVOLE”

Da: LavoroFisco

http://www.lavorofisco.it

12 maggio 2014

Di Andrea Rosana

L’attitudine del lavoratore a lavorare con grande impegno e al suo coinvolgimento intellettuale ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi aziendali non escludono in alcun modo la responsabilità del datore di lavoro ove le condizioni lavorative abbiano svolto un ruolo comunque concausale nella produzione dell’evento lesivo.

E’ quanto stabilito dalla Corte di Cassazione Civile con la Sentenza n. 9945 dell’8 maggio 2014.

Lavorava senza tregua, portandosi anche il lavoro a casa, pur di raggiungere gli obiettivi che il suo datore, una grossa società di telecomunicazioni, gli aveva assegnato. Stefano S., funzionario della Ericsson, non si era mai lamentato per questo stress continuo. Ma un carico di undici ore di lavoro al giorno alla fine lo ha portato all’infarto. Ora la Cassazione ha stabilito che una morte del genere deve essere risarcita dal datore che non può ignorare “le modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro”.

Alla moglie e alla figlia del dipendente morto per infarto dovuto ai “ritmi insostenibili” dell’attività lavorativa, la società deve corrispondere, rispettivamente, 434.000 euro e 425.000 euro, oltre agli oneri accessori.

Senza successo, la Ericsson è ricorsa in Cassazione contro la decisione della Corte di Appello di Roma che, nel 2011, aveva accolto la richiesta di risarcimento danni patrimoniali e materiali avanzati dalla vedova di Stefano S. anche in nome della loro unica figlia, ancora minorenne. In primo grado, invece, il Tribunale aveva negato la responsabilità del datore.

Ad avviso della Suprema Corte, “con motivazione logicamente argomentata e giuridicamente corretta”, il verdetto di appello ha ritenuto che “la responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro fa carico alla società, la quale non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti lesivi della integrità fisica e morale dei lavoratori che possano derivare dalla inadeguatezza del modello adducendo l’assenza di doglianze mosse dai dipendenti”.

Inoltre, secondo gli “ermellini” il datore non può sostenere “di ignorare le particolari condizioni di lavoro in cui le mansioni affidate ai lavoratori vengano in concreto svolte”.

Per la Cassazione, “deve infatti presumersi, salvo prova contraria, la conoscenza, in capo all’azienda, delle modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro, in quanto espressione ed attuazione concreta dell’assetto organizzativo adottato dall’imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne”.

Nel caso in questione era emerso che Stefano S. “per evadere il proprio lavoro, era costretto, ancorché non per sollecitazione diretta, a conformare i propri ritmi di lavoro all’esigenza di realizzare lo smaltimento nei tempi richiesti dalla natura e molteplicità degli incarichi affidatigli dalla Ericsson”.

In base alla Consulenza Tecnica di Ufficio, l’infarto che lo colpì, un martedì mattina al lavoro, “era correlabile, in via concausale, con indice di probabilità di alto grado, alle trascorse vicende lavorative”. Senza successo la società si è difesa dicendo che i “ritmi serratissimi” adottati da Stefano S. “non erano a lei imputabili ma dipendevano dalla attitudine” del dipendente “a sostenere e a lavorare con grande impegno e al suo coinvolgimento intellettuale ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi”.

In ordine alla responsabilità del datore di lavoro, precedentemente la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 2038 del 29 gennaio 2013, ha sostenuto che l’articolo 2087 del Codice Civile non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.

Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.

La stessa sentenza, peraltro, in una fattispecie di mobbing, ha rilevato che la riconosciuta dipendenza delle malattie da una “causa di servizio” non implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall’ambito dell’articolo 2087 del Codice Civile, che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici.

Nel medesimo senso, la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 18626 del 05 agosto 2013, ha affermato il principio generale in materia secondo il quale la responsabilità dell’imprenditore ex articolo 2087 Codice Civile non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo sanzionata dalla norma l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.

Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia.

In ordine alla rilevanza dell’infarto sul piano infortunistico sul lavoro, la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 12685 del 29 agosto 2003, ha precisato che, nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, la causa violenta consiste in un evento che con forza concentrata e straordinaria agisca, in occasione di lavoro, dall’esterno verso l’interno dell’organismo del lavoratore, dando luogo ad alterazioni lesive. Con riguardo a un infarto cardiaco, che di per sé non integra la causa violenta, va accertato se la rottura dell’equilibrio nell’organismo del lavoratore sia da collegare causalmente a specifiche condizioni ambientali e di lavoro improvvisamente eccedenti la normale adattabilità e tollerabilità, sì da poter essere considerate, sia pure in termini di mera probabilità, fattori concorrenti e da far escludere che si sia trattato del semplice effetto logorante esercitato sull’organismo da gravose condizioni di lavoro.

Nel medesimo senso, la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 19682 del 23 dicembre 2003, ha affermato che, in tema di infortuni sul lavoro, lo sforzo fisico, al quale possono essere equiparati stress emotivi e ambientali, costituisce la causa violenta, ex articolo 2 del D.P.R. del 30 giugno 1965, n. 1124, che determina con azione rapida e intensa la lesione. La predisposizione morbosa del lavoratore non esclude il nesso causale tra lo stress emotivo e ambientale e l’evento infortunistico, in relazione anche al principio della equivalenza causale di cui all’articolo 41 del Codice Penale, che trova applicazione nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, dovendosi riconoscere un ruolo di concausa anche ad una minima accelerazione di una pregressa malattia (nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla Suprema Corte, ha ritenuto sussistente l’occasione di lavoro in relazione al decesso del responsabile di uno stabilimento, già affetto da patologia cardiaca, avvenuto a causa di un infarto determinato da stress emotivo, conseguente all’attivazione dell’allarme antincendio dello stabilimento e alla necessità di un suo intervento, e da stress ambientale, riconducibile alla rigida temperatura esistente all’esterno).

In precedenza, la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 13982 del 24 ottobre 2000 aveva affermato che, nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, al fine di determinare se a un infarto cardiaco (che di per sé rappresenta una rottura dell’equilibrio nell’organismo del lavoratore concentrata in una minima misura temporale e quindi integra una “causa violenta”) è riconoscibile un’eziologia lavorativa, va accertato se gli atti lavorativi compiuti, ancorché non caratterizzati da particolari sforzi e non esulanti dalla normale attività lavorativa esercitata dall’assicurato, abbiano avuto l’efficienza di un contributo causale nella verificazione dell’infarto.

La Sentenza n. 9945 dell’8 maggio 2014 della Corte di Cassazione Civile è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=11243:2014-05-13-07-13-45&catid=16:cassazione-civile&Itemid=60

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NUOVA MODALITA’ PER LE DENUNCE DI INFORTUNIO E MALATTIA PROFESSIONALE

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

24 marzo 2016

Con Circolare 21 marzo 2016, n. 10, l’INAIL ha fornito le istruzioni per l’applicazione delle novità procedurali di invio telematico, a cura dei medici e delle strutture sanitarie, dei certificati di infortunio e malattia professionale, nonché di trasmissione delle relative denunce a cura del datore di lavoro.

Le novità conseguono alle modifiche normative introdotte dal Jobs Act (D.Lgs.151/15) e sono operative dal 22 marzo 2016.

Pertanto, da questa data le varie figure coinvolte dovranno procedere come segue.

I medici e le strutture sanitarie:

  • trasmettono direttamente all’INAIL, per via telematica, i certificati di infortunio e malattia professionale, attraverso l’apposito servizio reso disponibile sul portale dell’Istituto;
  • forniscono al lavoratore il certificato medico con l’indicazione del numero identificativo del certificato, della data di rilascio e dei giorni di prognosi;
  • in fase di avvio del nuovo regime, nel caso in cui non risulti possibile effettuare la trasmissione telematica, inviano il certificato tramite Posta Elettronica Certificata alla sede INAIL competente in base al domicilio del lavoratore, e consegnano il certificato al lavoratore stesso per il successivo inoltro al datore di lavoro.

Il lavoratore:

  • fornisce al datore di lavoro il numero identificativo del certificato, la data di rilascio e i giorni di prognosi;
  • in fase di avvio del nuovo regime, qualora non disponga del numero identificativo del certificato, continua a consegnare al datore di lavoro il certificato medico in forma cartacea.

Il datore di lavoro:

  • dal 22 marzo 2016 è esonerato dal trasmettere all’INAIL il certificato medico di infortunio e malattia professionale;
  • dalla medesima data è esonerato dal trasmettere all’Autorità Locale di Pubblica Sicurezza le denunce relative agli infortuni mortali o con prognosi superiore a 30 giorni: queste denunce sono rese disponibili direttamente dall’INAIL;
  • acquisisce il certificato di infortunio o malattia professionale, tramite PIN, attraverso la funzione “Ricerca certificati medici” disponibile all’interno dei Servizi Denunce di Infortunio, Malattia professionale e Silicosi/Asbestosi, sul portale dell’INAIL (la ricerca del certificato avviene inserendo obbligatoriamente i seguenti dati: codice fiscale del lavoratore; numero identificativo del certificato; data di rilascio);
  • invia telematicamente la denuncia all’INAIL entro i termini previsti, che restano invariati: tali termini decorrono dalla data in cui il datore di lavoro ha ricevuto i riferimento del certificato medico dal lavoratore (o il certificato cartaceo, in fase di avvio del nuovo regime, nel caso in cui il lavoratore non disponga del numero identificativo); nella denuncia deve indicare obbligatoriamente il numero identificativo e la data di rilascio del certificato medico; nel caso in cui il lavoratore non abbia fornito il numero del codice identificativo del certificato medico, nella denuncia il datore di lavoro deve indicare un codice fittizio di 12 caratteri alfa-numerici.

La Circolare 21 marzo 2016, n. 10 dell’INAIL è scaricabile all’indirizzo:

https://www.inail.it/cs/internet/atti-e-documenti/note-e-provvedimenti/circolari/circolare-n-10-del-21-marzo-2016.html

Il Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 151 è scaricabile all’indirizzo:

http://www.cliclavoro.gov.it/Normative/Decreto_Legislativo_14_settembre_2015_n.151.pdf

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LE RICHIESTE DEGLI RLS PER MIGLIORARE LA PREVENZIONE IN ITALIA

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

30 marzo 2016

Di Tiziano Menduto

Le questioni sollevate dall’Assemblea nazionale unitaria degli RLS/RLST di CGIL, CISL e UIL. La mancanza di strategie, i ritardi del SINP e dei decreti attuativi del Testo Unico, il rafforzamento del ruolo degli RLS e il piano nazionale amianto.

E’ indiscutibile l’importanza del ruolo dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) per un’effettiva ed efficace tutela della salute e sicurezza nelle aziende. E partendo dall’importanza di questa funzione normata dal D.Lgs. 81/08, è interessante comprendere il parere degli RLS su alcuni dei temi più rilevanti e delicati in materia di politiche di prevenzione.

Abbiamo l’occasione di testare il polso di molti RLS italiani attraverso la recente Assemblea nazionale unitaria degli RLS/RLST di CGIL, CISL e UIL che si è tenuta a Napoli l’11 febbraio scorso.

Nell’assemblea nazionale di Napoli, a cui hanno partecipato quasi 400 RLS e diversi rappresentanti istituzionali, sono stati affrontati diversi temi.

Il documento/piattaforma relativo al convegno riporta in particolare alcune “priorità indifferibili” per le quali non vengono solo rilevate le criticità, ma anche avanzate possibili proposte di lavoro e/o soluzione.

Il primo punto prioritario è relativo all’assetto istituzionale e di governo della prevenzione e ricorda quanto già rilevato anche in un analoga assemblea del 2013: la supposta “mancanza di un quadro complessivo di politiche nazionali italiane in tema di salute e sicurezza sul lavoro che, non determinando le linee comuni strategiche sulla base delle quali perseguire obiettivi e programmi specifici di prevenzione, non ha favorito la corretta applicazione del dettato legislativo e la capitalizzazione degli sforzi messi in campo, disperdendo risorse umane e economiche impiegate e non raggiungendo gli obiettivi che ci si proponeva”.

E “nell’assenza protratta negli anni di una strategia nazionale di prevenzione, il ruolo dell’INAIL, cresciuto nel tempo (avendo anche assorbito l’ISPESL, quale soggetto di ricerca e focal point degli interventi comunitari), non ha trovato quella collocazione chiara, così come quegli specifici ambiti e filoni di intervento, tali da creare una sinergia costante e costruttiva con i ministeri competenti, ma non meno con le parti sociali”.

E, continua il documento degli RLS, “alla vigilia di una importante riforma costituzionale che interesserà l’intero assetto istituzionale del nostro paese e la ripartizione dei poteri”, queste sono le principali questioni aperte:

  • a quando una strategia nazionale di prevenzione?
  • quale modello di sistema per gli organi di prevenzione e controllo?
  • quale il ruolo delle parti sociali nel futuro della prevenzione in Italia?

Il secondo tema affrontato era invece relativo alla “rappresentanza, pariteticità e applicazione dell’articolo 52 del D.Lgs. 81/08”. Ricordiamo che l’articolo 52 del Testo Unico è relativo al “Sostegno alla piccola e media impresa, ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriali e alla pariteticità”.

Queste in particolare le principali questioni aperte:

  • quando ed in che modo agire per il rafforzamento e la diffusione degli RLS/RLST?
  • organismi paritetici: riconoscimento e implementazione;
  • sigla ed implementazione degli accordi interconfederali.

Non poteva mancare poi un cenno anche alla “decretazione attuativa ancora mancante, ma prevista dal D.Lgs. 81/08”.

Secondo il documento la stratificazione di interventi normativi nel settore della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, dopo l’approvazione del D.Lgs. 81/08, “non è stata quasi mai improntata a caratteri di organicità, rilevanza e positività. Questo perché a volte essa ha inteso rispondere a volontà di semplificazione non correttamente intesa, o in altri casi poiché ha cercato di introdurre cambiamenti nell’impianto e nella filosofia complessiva della legislazione previgente, non rispettando alcuni indirizzi di fondo”.

E il documento ribadisce il giudizio negativo delle parti sociali sindacali riguardo agli interventi del Jobs Act.

Infatti con il Jobs Act si sarebbe “persa l’occasione di introdurre alcune modifiche positive e rilevanti, e ancora una volta non si è affrontato il tema dell’applicazione piena delle norme e del completamento della decretazione demandata”.

E anche “un’ambiziosa operazione come quella della costruzione del SINP (il Sistema Iinformativo Nazionale di Prevenzione: un utile strumento informativo che superasse i gap e i ritardi della totalità degli istituti e delle istituzioni preposti alla vigilanza ed al controllo), è ancora in una situazione di stallo che non dovrebbe essere perpetuata a lungo”.

Queste le principali questioni aperte:

  • con che tempi, modi e con quali priorità avverrà l’emanazione della decretazione demandata?
  • a quando l’istituzione e l’effettivo funzionamento del SINP?

Parzialmente a queste domande risponde uno dei rappresentanti istituzionali presenti all’assemblea, Romolo De Camillis, il nuovo Direttore della Direzione Generale della tutela delle condizioni di lavoro e delle relazioni industriali del Ministero del Lavoro.

De Camillis ha ammesso i ritardi, “soprattutto sul completamento della decretazione relativa al Testo Unico e sugli organismi paritetici”. Ma ha ribadito l’impegno massimo del Ministero anche per “rendere le norme sempre più chiare, proporre un’azione culturale di diffusione della sicurezza sul lavoro e comporre le posizioni divergenti che spesso si manifestano sui singoli provvedimenti, perché senza convergenza di tutti gli attori nessuna buona legge può funzionare”. E ha anche fatto due anticipazioni:

  • il Decreto attuativo sul SINP, che sarebbe “pronto e chiuso”, è che è “sul tavolo della Presidenza del Consiglio” per un varo “ormai imminente”;
  • il Piano Nazionale Amianto (PNA), per il quale è previsto “il varo del tavolo tecnico, su iniziativa del ministero della Salute, che dovrebbe avviare il percorso per la sua realizzazione”.

E di “amianto” parla anche il documento degli RLS/RLST di CGIL, CISL e UIL.

Si ricorda infatti che il tema amianto, “per la gravità della situazione e per le rilevanti conseguenze sulla salute pubblica e sull’ambiente, è purtroppo sempre attuale e deve essere affrontato dalle Istituzioni preposte e da tutti gli attori della prevenzione e della salute collettiva con la massima attenzione e responsabilità”.

E gli RLS ritengono che “non sia più rinviabile lo sblocco del PNA, attualmente fermo al Tavolo della Conferenza Stato Regioni” che deve essere reso operativo al più presto, mettendo in atto “un coordinamento funzionale ed istituzionale di tutte le attività da parte della Presidenza del Consiglio”. E servono risorse per la ricerca e per la prevenzione, “ma anche per completare i censimenti a livello regionale dei siti contenenti amianto e per il corretto smaltimento”.

Queste, in conclusione, le principali questioni aperte in materia di amianto:

  • il PNA, a che punto siamo?
  • serve una regia unica, a quando la scelta?
  • il Fondo Vittime Amianto: come renderlo più equo nei confronti di tutti i malati e delle famiglie delle vittime?

Il “Documento dell’Assemblea unitaria degli RLS/RLST CGIL CISL e UIL”, relativo all’assemblea dell’11 febbraio 2016 a Napoli è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.it/_resources/files/160211_Documento_Assemblea_RSLT_Napoli.pdf

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LA VALUTAZIONE DELL’ESPOSIZIONE PROFESSIONALE A SILICE LIBERA CRISTALLINA

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

30 marzo 2016

Una pubblicazione dell’INAIL presenta indicazioni per la valutazione dell’esposizione professionale alla Silice Libera Cristallina (SLC), un agente di rischio con livelli di esposizione che persistono elevati in molti settori produttivi.

E’ disponibile sul sito INAIL il volume “Network Italiano Silice. La valutazione dell’esposizione professionale a silice libera cristallina”.

Dal 2003 il Network Italiano Silice (NIS), di cui l’INAIL è uno dei fondatori, è costantemente impegnato a stimolare e promuovere iniziative mirate al contenimento delle esposizioni, divulgando documenti tecnici utili a gestire tale rischio in tutti i suoi aspetti. Il volume rappresenta la versione aggiornata al 2015 dei documenti tecnico-scientifici pubblicati dal NIS nel 2005 in tema di epidemiologia, normativa, sorveglianza sanitaria e metodi di campionamento e analisi.

Il problema dell’esposizione a SLC nei luoghi di lavoro è particolarmente rilevante, essendo tale agente di rischio presente in numerose attività lavorative. La SLC è infatti estremamente comune in natura e utilizzata in una vasta gamma di prodotti di uso civile e industriale. La pericolosità di tale agente, già nota da tempo, è stata rivalutata dalla International Agency for Research on Cancer (IARC) che, nella monografia 100C/2010, sulla base di una nuova revisione della letteratura di merito, ha confermato che la silice è un cancerogeno di categoria 1, nelle sue forme di cristobalite e quarzo.

La valutazione del rischio di esposizione a SLC presenta molteplici criticità connesse sia ad aspetti tecnico-operativi, sia a questioni di carattere normativo e organizzativo ancora irrisolte, anche per la mancanza di Valori Limite di Esposizione (VLE) nazionali per le diverse forme di SLC. A tal proposito va puntualizzato che in Italia, mentre in sede giudiziale e in alcuni contratti di lavoro collettivi è prassi riferirsi al Threshold Limit Value – Time-Weighted Average (TLV – TWA) proposto dalla American Conference of Governmental Industrial Hygienists (ACGIH), il limite di esposizione oltre il quale decorre l’obbligo per le aziende di essere assicurate contro il rischio silicosi è stabilito dal Ministero del Lavoro.

Il documento propone le prassi operative che il Gruppo “Igiene Industriale” del NIS ha elaborato in tema di accertamento del rischio di esposizione a SLC, allo scopo di fornire utili indicazioni a tutti gli operatori pubblici e privati impegnati in tale attività.

Seguendo per quanto possibile le indicazioni delle norme europee e nazionali vigenti, il documento fornisce suggerimenti pratici sui temi della strategia di campionamento, dei sistemi di prelievo delle frazioni dimensionali delle polveri aerodisperse, delle tecniche e dei metodi di analisi applicabili per il dosaggio di tale analita nelle polveri. Vengono infine affrontati gli aspetti della trattazione statistica dei dati e dei sistemi di valutazione della conformità con il VLE.

Nelle lavorazioni in cui è prevista la presenza di SLC respirabile è necessario valutare il rischio e provvedere alla sua gestione, abbattendo o comunque limitando la diffusione in aria delle polveri contenenti tale sostanza per ridurne il suo effetto nocivo.

Tenuto conto dell’attuale classificazione della SLC, le istanze relative alla tutela della salute in ambito lavorativo e agli aspetti di prevenzione, trovano oggi rispondenza nel D.Lgs. 81/08 e s.m.i. agli articoli 224 e 225 del Capo I “Protezione da agenti chimici”, Titolo IX, dove si fa riferimento esplicito alle misure e ai principi generali per la prevenzione dai rischi di esposizione a sostanze pericolose e alle misure specifiche di prevenzione e protezione da adottare per limitare tale rischio (ad esempio sostituzione della sostanza, progettazione di processi produttivi, misure organizzative e di protezione collettiva ed individuale e sorveglianza sanitaria).

Nonostante la classificazione della IARC, non vi è attualmente per la SLC una chiara corrispondenza ai criteri di classificazione per le sostanze cancerogene o mutagene di categoria 1A e 1B previste nell’Allegato I del Regolamento CE 1272/08 CLP (Classification, Labelling and Packaging).

Sul tema, al momento non esiste inoltre una Direttiva europea recepita dallo Stato Italiano o una Normativa Nazionale o Regionale che identifichi, per la silice, una modalità di esposizione cancerogena come sostanza, preparato o processo di cui all’Allegato XLII del D.Lgs. 81/08.

In estrema sintesi, si può affermare che la normativa nazionale in tema di salute e sicurezza sul lavoro, di derivazione europea, non può trattare la SLC alla stregua di sostanza cancerogena in assenza di una classificazione armonizzata.

Il recepimento delle Direttive comunitarie riguardanti gli agenti chimici pericolosi e gli agenti cancerogeni e mutageni definisce anche i limiti al di sopra dei quali è vietata l’esposizione lavorativa, alimentando anche gli Allegati XXXVIII e XLII del D.Lgs. 81/08 contenenti, rispettivamente, un elenco di valori limite di esposizione professionale per agenti chimici e un elenco di sostanze, preparati e processi cancerogeni e mutageni. Allo stato attuale la silice non è ricompresa nell’elenco di cui agli Allegati.

Il quadro normativo di riferimento per l’attuazione delle misure di tutela della salute per l’esposizione a polveri contenenti varie forme di silice è oggi estremamente complesso.

Infatti, come descritto, la classificazione delle forme di silice non è compresa nell’allegato VI del Regolamento CE 1272/08 oggi vigente ai fini della classificazione armonizzata europea. Per tale motivo la silice, nelle sue forme di quarzo e cristobalite, è notificata obbligatoriamente all’ECHA (European CHemical Agency), secondo una autoclassificazione curata dalla azienda che produce o immette sul mercato la sostanza.

Sul versante della normativa su salute e sicurezza sul lavoro, sia in ambito europeo (Direttive agenti chimici e Direttiva su agenti cancerogeni e mutageni 98/24 e 37/04 EC) sia in ambito nazionale (D.Lgs. 81/08) non esistono misure speciali in funzione della ben nota pericolosità delle polveri respirabili contenenti silice cristallina. Le esposizioni a SLC ricadono quindi nel Titolo IX, capo I “Protezione da agenti chimici” dello stesso Decreto.

Nonostante da tempo la IARC ha definito, sulla base delle evidenze epidemiologiche, la SLC, nelle sue forme di quarzo (CAS n. 14808-60-7 e CE n. 238-878-4) e cristobalite (CAS n. 14464-46-1, CE n. 238-455-4), cancerogena certa per l’uomo Categoria 1, tale evidenza non può essere però utilizzata in ambito normativo a causa della mancata classificazione armonizzata europea (Allegato VI del Regolamento CE 1272/08). Infatti il D.Lgs. 81/08 al Titolo IX, Capo II “Protezione da agenti cancerogeni e mutageni” definisce agenti cancerogeni quelli che sono classificati come cancerogeni di Categoria 1A e 1B contenuti nell’allegato VI del Regolamento CE 1272/08 CE.

Anche l’obbligo di fornire informazioni lungo la catena di approvvigionamento per mezzo della Schede Di Sicurezza (SDS) non sempre è obbligatoriamente prescritta in assenza di una classificazione armonizzata. Al riguardo si fa riferimento al caso delle pietre artificiali descritte in allegato, che nella loro qualità di “articoli” sono esentate dagli obblighi di SDS. Allo scopo di garantire una protezione dei lavoratori esposti alla SLC nei diversi comparti lavorativi, il gruppo di lavoro ha verificato la possibilità di procedere ad una richiesta di classificazione armonizzata per la SLC, sia essa quarzo o cristobalite, per le quali esistono ad oggi il maggior numero di informazioni scientifiche.

Dopo attente analisi delle risultanze scientifiche si è ritenuto più attinente appoggiare la posizione proposta dalla Unione Europea nelle ultime riunioni dell’Advisory Committee of Safety and Health per l’individuazione di un aggiornamento della Direttiva sugli agenti cancerogeni e mutageni contenente un valore limite occupazionale da recepire obbligatoriamente da parte degli Stati membri.

Il documento del Network Italiano Silice di INAIL “La valutazione dell’esposizione professionale a silice libera cristallina” Edizione 2015 è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.it/_resources/files/valutazione%20dell%E2%80%99esposizione%20professionale%20a%20silice%20libera%20cristallina%20.pdf

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.250 DEL 05/04/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.249 DEL 29/03/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.249 DEL 29/03/16

 

INDICE

  • Le “Frequently Asked Questions” di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights! – N.11
  • Sorveglianza sanitaria e valutazione dei rischi in edilizia
  • Responsabilità e posizione di garanzia del direttore di stabilimento
  • Linee guida: valore giuridico e vincolatività

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO – KNOW YOUR RIGHTS! – N.11

 

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.

In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.

Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.

Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

 

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Ciao Marco,

scusa se ti disturbo nuovamente.

Ho fatto la visita dal medico del lavoro aziendale e stavolta mi hanno dato un mansionario dove c’è scritto “Si raccomanda l’uso dei DPI specifici durante le diverse attività lavorative come da procedure aziendali”.

So cosa vuol dire, ma documentandomi ho riscontrato che per la mia mansione ci sono scarpe e giubbotti adeguati.

Ho fatto presente all’azienda che io le scarpe le ho comprate da solo perchè quelle che mi hanno dato loro non proteggono le caviglie e il giubbotto o le bretelline non le ho.

La risposta è stata che non esiste nessuna legge che stabilisce tutto ciò e loro hanno deciso che le scarpe antinfortunistiche sono adeguate anche per il trasporto con movimentazione carichi e, che per il giubbotto, posso adoperare il gilet posto nel furgone.

Non so se sono cambiate le regole o le leggi, ma io sapevo che per le scarpe ci vuole una protezione adeguata per le caviglie.

Ti ringrazio fin da adesso anche per la tua pazienza.

Cosa mi consigli?

A presto.

 

Ciao,

la definizione delle caratteristiche dei DPI è un obbligo a carico del datore di lavoro che li deve scegliere in funzione dei rischi che non possono essere eliminati in altro modo.

A tale proposito vale quanto disposto dall’articolo 77, commi 1 e 2 del D.Lgs.81/08:

Il datore di lavoro ai fini della scelta dei DPI:

  1. a) effettua l’analisi e la valutazione dei rischi che non possono essere evitati con altri mezzi;
  2. b) individua le caratteristiche dei DPI necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi di cui alla lettera a), tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi DPI;
  3. c) valuta, sulla base delle informazioni e delle norme d’uso fornite dal fabbricante a corredo dei DPI, le caratteristiche dei DPI disponibili sul mercato e le raffronta con quelle individuate alla lettera b);
  4. d) aggiorna la scelta ogni qualvolta intervenga una variazione significativa negli elementi di valutazione.
  5. Il datore di lavoro, anche sulla base delle norme d’uso fornite dal fabbricante, individua le condizioni in cui un DPI deve essere usato, specie per quanto riguarda la durata dell’uso, in funzione di:
  6. a) entità del rischio;
  7. b) frequenza dell’esposizione al rischio;
  8. c) caratteristiche del posto di lavoro di ciascun lavoratore;
  9. d) prestazioni del DPI”.

L’analisi dei rischi e la scelta dei DPI (basata su precisi criteri tecnici) deve essere formalizzata dal datore di lavoro all’interno del Documento di Valutazione dei Rischi e quindi può essere consultata dai RLS.

Per quanto riguarda le scarpe, se nella tua mansione è presente un rischio di urto per le caviglie e non solo per la punta dei piedi, la conseguente valutazione porta a concludere che le scarpe devono essere completamente chiuse anche posteriormente.

Se così non è vuol dire che l’analisi e la valutazione non è stata fatta correttamente e ciò comporta un reato penale a carico del datore di lavoro che è il solo responsabile della valutazione dei rischi e della definizione delle misure di prevenzione e protezione (articolo 17, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08).

Tieni conto poi che le scarpe devono essere certificate CE ai sensi della Direttiva 89/686/CEE (recepita in Italia dal D.Lgs.475/92) ed essere conformi alla norma tecnica UNI EN ISO 20345:2012 “Dispositivi di protezione individuale – Calzature di sicurezza” (questo deve essere specificato nell’etichetta).

Per quanto riguarda il giubbotto, se la sua funzione è solo quella di garantire una migliore visibilità in area con traffico di carrelli o transpallet, esso può essere sostituito dal gilet o dalle bretelle ad alta visibilità.

Si tratta sempre di DPI e devono essere quindi marcati CE secondo quanto detto sopra.

La norma di riferimento è la UNI EN ISO 20471:2013 “Indumenti ad alta visibilità – Metodi di prova e requisiti” che prevede ampiezza delle zone colorate e delle bande rifrangenti in funzione del fattore di rischio legato alla circolazione di mezzi meccanici e di persone.

Quindi anche in questo caso la definizione delle caratteristiche del DPI (relativamente all’ampiezza delle zone colorate e rifrangenti) deve essere fatta dal datore di lavoro in funzione dei rischi effettivamente presenti e deve essere formalizzata nel Documento di Valutazione dei Rischi consultabile dal RLS.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Un caro saluto.

Marco

 

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Buonasera Marco,

vorrei un consiglio per quanto riguarda alcune mansioni svolte nella azienda metalmeccanica dove lavoro.

In particolare, ci sono alcune figure come i magazzinieri e gli addetti al controllo qualità che per motivi di lavoro devono recarsi durante il turno all’esterno dell’azienda (i magazzinieri per acquistare dei ricambi, il controllo qualità per fare delle verifiche dai fornitori esterni).

L’ufficio del personale ha detto loro che devono timbrare l’uscita e il rientro, loro hanno solo un foglio generico che firmano quando escono, che rimane in azienda e dovrebbe essere archiviato da qualche responsabile.

Mi viene chiesto: se durante l’uscita succede un incidente sia per colpa mia oppure subìto da me, e il foglio fatto in azienda non si “trova”, io non ho niente per dimostrare che ero uscito per lavoro, dato che ho timbrato l’uscita e non ho nessuna ricevuta che mi rimane.

Secondo me non devono timbrare l’uscita, perché comunque sono in servizio, farsi la fotocopia del foglio firmato e tenersene una copia.

Grazie.

Saluti.

 

Ciao,

da un punto di vista normativo, non mi risulta che la gestione delle uscite e degli ingressi dal luogo di lavoro per trasferte sia regolamentata in qualche modo (almeno sicuramente non li sono regolamentati nel Testo Unico sulla sicurezza D.Lgs. 81/08, né nella normativa sull’orario di lavoro D.Lgs. 66/03, né nello Statuto dei Lavoratori L. 300/70).

Pertanto la “tracciabilità” del lavoratore è demandata a decisioni dell’azienda che devono tenere conto anche della tutela della salute e della sicurezza del lavoratore e che dovrebbero essere concordate con le Rappresentanze Sindacali e con i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza.

Vale comunque il principio che il lavoratore deve essere tutelato dal proprio datore di lavoro sia che lavori all’interno della sede aziendale, sia che lavori all’esterno.

Per tale motivo devono essere adottate delle procedure all’interno del Documento di Valutazione dei Rischi, sotto la piena responsabilità del datore di lavoro (articoli 17, comma 1, lettera a) e 28 del D.Lgs. 81/08) per garantire tale tutela.

Il criterio di fare timbrare in uscita e in ingresso in occasioni di trasferte al di fuori dell’azienda può essere necessario proprio per garantire la sicurezza ed è applicato da molte aziende.

Tale procedura discende dalla necessità di sapere, in qualunque momento dell’orario lavorativo, chi è all’interno dell’azienda e chi invece è fuori. Ciò è fondamentale in caso di emergenza in cui sia necessario evacuare la sede di lavoro dell’azienda (ad esempio per un incendio) per essere sicuri che tutte le persone presenti in azienda al momento dell’emergenza abbiano evacuato e siano presenti al punto di raccolta.

Quindi eliminare tale procedura potrebbe essere contrario alla sicurezza stessa.

Trovo più pratico predisporre il modulo di uscita per motivi di lavoro in duplice copia o fotocopiarlo (una copia per l’azienda, una per il lavoratore) e farlo timbrare e firmare da persona di responsabilità (l’addetto alla reception, un preposto, un dirigente).

Visto lo sviluppo tecnologico ritengo sia poi fattibile eseguire la timbratura tramite badge magnetico predisponendo sul lettore l’opzione tra uscita dall’azienda per fine lavoro oppure per motivi di servizio.

L’importante è che l’azienda sappia in qualunque momento (e il lavoratore possa dimostrarlo) chi è presente in azienda, chi è assente perché ha terminato il lavoro, chi è assente per trasferta di lavoro.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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Buonasera Marco.

Domanda veloce

Quanto tempo deve passare tra la fine di un turno e l’inizio del prossimo per un lavoratore, ovvero di quante ore di riposo questi ha diritto?

Grazie come sempre della disponibilità

 

Buonasera a te.

Risposta veloce.

L’articolo 7 del D.Lgs. 66/03 che trovi al link:

http://www.parlamento.it/parlam/leggi/deleghe/03066dl.htm

prevede: “Ferma restando la durata normale dell’orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore. Il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità”.

Quindi le ore tra fine turno e inizio turno successivo devono essere almeno 11, salvo i casi di lavoro frazionato o di reperibilità.

 

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Ciao Marco.

Avrei bisogno di una lettera da mandare al responsabile sicurezza della mia azienda per il mancato coinvolgimento degli RLS per un incidente.

Ti spiego il fatto: si è staccato un tubo primario dell’aria su una linea di montaggio, dal tubo è partito un pezzo che fortunatamente è rimbalzato su una rulliera e poi ha colpito un lavoratore alla schiena. Poteva scapparci il morto…

Al solito non c’è stato nessun coinvolgimento degli RLS.

Oltre all’incidente in sé, mi preme mettere in evidenza la necessità di controlli e di messa in sicurezza su tutte le linee che hanno il solito sistema.

 

Ciao.

A seguire la lettera da mandare al datore di lavoro della tua azienda (in quanto primo responsabile della sicurezza) e per conoscenza al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (come “consulente” del datore di lavoro) e al Dipartimento Salute e Sicurezza della ASL (come organo di vigilanza per la salute e la sicurezza dei lavoratori).

 

A seguito del grave incidente, avvenuto presso la linea di produzione XXX, in cui un tubo dell’aria compressa si è staccato e ha colpito un lavoratore, che solo per caso non ha avuto conseguenza ben più serie, si comunica quanto segue.

Risulta del tutto incomprensibile l’accaduto, in relazione agli obblighi di tutela della sicurezza dei lavoratori che l’azienda dovrebbe ottemperare.

E’ infatti noto che nell’utilizzo delle attrezzature di lavoro (tra cui anche gli impianti ausiliari alla produzione come la rete di aria compressa), si debbano adottare tutte le misure di salute e sicurezza di cui all’articolo 71 del D.Lgs.81/08 (Decreto), tra cui la corretta progettazione e installazione della rete (secondo norme di buona tecnica) e la sua corretta manutenzione programmata al fine di permettere il mantenimento nel tempo dei requisiti di salute e sicurezza.

Si chiede pertanto all’azienda la revisione del Documento di Valutazione del Rischio, ex articoli 17, comma 1, lettera a), 28 e 29 del Decreto, relativamente alla sicurezza delle attrezzature di lavoro, comprese gli impianti ausiliari alla produzione, con la definizione di adeguate misure di prevenzione e protezione, al fine di tutelare i lavoratori dallo stato delle attrezzature stesse.

In particolare si richiede quali misure di prevenzione e protezione l’azienda intende attuare al fine di evitare nel futuro il ripetersi di incidenti quali quello di cui sopra.

Ai sensi dell’articolo 29, comma 2 del Decreto si richiede che tale revisione della valutazione del rischio, con la definizione di adeguate misure di prevenzione e protezione per le attrezzature, venga realizzata previa consultazione dei RLS.

Si rimane in attesa di riscontro alla presente.

I RLS

 

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Ciao Marco,

nella mia azienda (multinazionale chimica) da qualche tempo hanno introdotto una procedura di stampo americano di gestione degli infortuni definita come RWC (Restricted Work Case).

Si tratta di una procedura per una gestione “particolare” dell’infortunio sul lavoro con limitazione della mansione, che non causa perdita di giorni lavorati, ma che comunque causa impossibilità per l’infortunato di continuare nella sua normale mansione lavorativa per tutto o per parte della sua giornata lavorativa.

In sostanza tale procedura tende ad esercitare una certa “spintaneità” sul lavoratore a svolgere mansioni più leggere anche con l’ausilio del medico competente che, dopo visita medica e colloquio con il lavoratore, ne certifica la idoneità alla mansione ridotta e consente il rientro al lavoro.

Una procedura alquanto perversa tesa a nascondere infortuni o quanto meno a esercitare sui lavoratori a rinunciare all’infortunio.

Una pratica contraria all’articolo 5 dello Statuto dei Lavoratori e al D.P.R. 1124/65.

E mi risulta che ci siano state delle sentenze in merito all’evitare la denuncia di un infortunio.

Cosa ne pensi?

 

Ciao,

ad oggi rimane del tutto applicabile in tutte le realtà lavorative quando disposto dal D.P.R. 1124/65 all’articolo 53:

Il datore di lavoro è tenuto a denunciare all’Istituto assicuratore gli infortuni da cui siano colpiti i dipendenti prestatori d’opera, e che siano prognosticati non guaribili entro tre giorni, indipendentemente da ogni valutazione circa la ricorrenza degli estremi di legge per l’indennizzabilità. La denuncia dell’infortunio deve essere fatta con le modalità di cui all’art. 13 entro due giorni da quello in cui il datore di lavoro ne ha avuto notizia e deve essere corredata da certificato medico.

[…]

La denuncia dell’infortunio ed il certificato medico debbono indicare, oltre alle generalità dell’operaio, il giorno e l’ora in cui è avvenuto l’infortunio, le cause e le circostanze di esso, anche in riferimento ad eventuali deficienze di misure di igiene e di prevenzione, la natura e la precisa sede anatomica della lesione, il rapporto con le cause denunciate, le eventuali alterazioni preesistenti.

[…]

I contravventori alle precedenti disposizioni sono puniti con l’ammenda da lire seimila a lire dodicimila”.

L’articolo 53 non lascia evidentemente alcuna discrezionalità al datore di lavoro sull’obbligo di denuncia di infortunio, tanto che, in caso di omessa denuncia, il datore di lavoro è sanzionato secondo l’ultimo capoverso dell’articolo 53.

L’articolo 53 fa riferimento a infortuni non guaribili entro tre giorni, senza porre alcun discrimine relativamente agli effetti causati dall’infortunio o relativamente alla possibilità di continuare l’attività lavorativa.

Pertanto, anche se l’infortunio permette al lavoratore di continuare la sua attività lavorativa, magari con prescrizioni da parte del medico competente, ex articolo 41 comma 6 del D.Lgs. 81/08, la denuncia va fatta comunque, anche perché lo scopo della stessa, oltre a quella di permettere l’eventuale astensione dal lavoro per l’infortunato, è anche quella di permettere all’INAIL di monitorare il fenomeno infortunistico, anche in relazione a “le cause e le circostanze di esso, anche in riferimento ad eventuali deficienze di misure di igiene e di prevenzione”.

Nulla vieta invece all’azienda, per tramite del medico competente, di verificare la possibilità per il lavoratore di non assentarsi dal lavoro a seguito dell’infortunio e di proseguire l’attività lavorativa, dopo avere comunque adempiuto all’obbligo di cui all’articolo 18, comma 1, lettera c), cioè quello di:

nell’affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza”.

In merito a quanto sopra non ho trovato sentenze che facciano giurisprudenza.

A tale riguardo ha pieno valore però quanto indicato dalla Commissione degli Interpelli con l’Interpello n.20 del 2007 che trovi al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2007.20.pdf

che specifica che:

Al riguardo si rileva che l’articolo 53, comma 5 [del D.P.R. 1124/65] non contempla alcuna ipotesi di esclusione dall’obbligo della denuncia o dall’obbligo del rispetto del relativo termine di inoltro; può pertanto affermarsi che i suddetti adempimenti costituiscono obblighi di carattere generale, aventi sempre natura cogente quali che siano le conseguenze scaturenti dalla tecnopatia contratta dal lavoratore, compresa anche l’eventuale inabilità permanente al lavoro dell’assicurato”.

Ricordo che relativamente ai pareri della Commissione degli Interpelli l’articolo 12, comma 3 del D.Lgs. 81/08 stabilisce che:

Le indicazioni fornite nelle risposte ai quesiti di cui al comma 1 [quelli posti alla Commissione degli Interpelli] costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza”.

Pertanto quanto attuato dalla tua azienda è contrario a quanto disposto dal D.P.R.1124/65, sia a seguito di attenta lettura di tale testo normativo, sia a seguito di parere della Commissione degli Interpelli.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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Ciao Marco,

ti volevamo chiedere un’informazione riguardo la certificazione OHSAS 18001.

La settimana prossima saranno nella nostra azienda i certificatori.

Spero che prenderanno in considerazione anche le nostre segnalazioni che abbiamo fatto nella relazione della riunione annuale.

Per quanto riguarda il metodo OCRA e NIOSH che al momento è la nostra priorità, l’azienda ha presentato un documento che è relativo alla situazione delle linee produttive del 2010, ma che non è stato aggiornato a seguito delle radicali modifiche al ciclo produttivo e alle linee di produzione fatte nel 2014.

Tutto questo, visto la tua esperienza in materia, ti sembra normale?

 

Ciao,

i metodi OCRA e NIOSH (o meglio le norme tecniche della serie ISO 11228) sono i criteri con cui valutare il rischio da movimentazione manuale dei carichi (MMC) rispettivamente per la movimentazione di carichi leggeri ad alta frequenza e per le attività di sollevamento e trasporto di carichi pesanti.

Essi si applicano nella valutazione del rischio da MMC che è un obbligo sanzionabile a carico del datore di lavoro.

Infatti, nell’ambito dell’obbligo generale di valutazione dei rischi di cui agli articoli 17, comma 1, lettera a), 28 e 29 del D.Lgs. 81/08, devono essere valutati anche i fattori di rischio per la salute derivanti da MMC.

Tale valutazione deve essere finalizzata a evitare la necessità di MMC (ad esempio mediante attrezzature di sollevamento o movimentazione) e dove ciò non sia tecnicamente possibile a ridurre i fattori di rischio per la salute secondo le norme tecniche di riferimento (appunto quelle della famiglia ISO 11228).

A carico del datore di lavoro vige infatti inizialmente l’obbligo di cui all’articolo 168, comma 1 del Decreto:

Il datore di lavoro adotta le misure organizzative necessarie e ricorre ai mezzi appropriati, in particolare attrezzature meccaniche, per evitare la necessità di una movimentazione manuale dei carichi da parte dei lavoratori”.

Il mancato adempimento a tale obbligo è sanzionato penalmente dall’articolo 170, comma 1, lettera a) del Decreto con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.500 a 6.400 euro.

Dove tali misure non siano possibili, il datore di lavoro deve adempiere all’obbligo di cui al comma 2 dell’articolo 168:

Qualora non sia possibile evitare la movimentazione manuale dei carichi ad opera dei lavoratori, il datore di lavoro adotta le misure organizzative necessarie, ricorre ai mezzi appropriati e fornisce ai lavoratori stessi i mezzi adeguati, allo scopo di ridurre il rischio che comporta la movimentazione manuale di detti carichi, tenendo conto dell’allegato XXXIII, ed in particolare:

  1. a) organizza i posti di lavoro in modo che detta movimentazione assicuri condizioni di sicurezza e salute;
  2. b) valuta, se possibile anche in fase di progettazione, le condizioni di sicurezza e di salute connesse al lavoro in questione tenendo conto dell’allegato XXXIII;
  3. c) evita o riduce i rischi, particolarmente di patologie dorso-lombari, adottando le misure adeguate, tenendo conto in particolare dei fattori individuali di rischio, delle caratteristiche dell’ambiente di lavoro e delle esigenze che tale attività comporta, in base all’allegato XXXIII;
  4. d) sottopone i lavoratori alla sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41, sulla base della valutazione del rischio e dei fattori individuali di rischio di cui all’allegato XXXIII”.

Anche il mancato adempimento a tale comma è sanzionato penalmente dall’articolo 170, comma 1, lettera a) del Decreto con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.500 a 6.400 euro.

Il datore di lavoro deve quindi eseguire una specifica valutazione del rischio per individuare il livello di rischio da MMC e a seguito di tale valutazione individuare e applicare le misure di prevenzione per ridurre tale livello.

Come enunciato dall’articolo 168, comma 3:

Le norme tecniche costituiscono criteri di riferimento per le finalità del presente articolo e dell’allegato XXXIII, ove applicabili. Negli altri casi si può fare riferimento alle buone prassi e alle linee guida”.

A tale proposito l’allegato XXXIII specifica poi che

Le norme tecniche della serie ISO 11228 (parti 1-2-3) relative alle attività di movimentazione manuale (sollevamento, trasporto, traino, spinta, movimentazione di carichi leggeri ad alta frequenza) sono da considerarsi tra quelle previste all’articolo 168, comma 3”.

Tali norme tecniche sono rispettivamente:

  • ISO 11228-1:2003 “Ergonomics – Manual handling – Part 1: Lifting and carrying”, per le attività di sollevamento e trasporto, che utilizza come criterio di valutazione il metodo NIOSH;
  • ISO 11228-2:2007 “Ergonomics – Manual handling – Part 2: Pushing and pulling” per le attività di traino e spinta, che utilizza come criterio di valutazione il metodo Snook&Ciriello;
  • ISO 11228-3:2007 “Ergonomics – Manual handling – Part 3: Handling of low loads at high frequency”, movimentazione di carichi leggeri ad alta frequenza, che utilizza come criterio di valutazione il metodo OCRA.

Da quello che mi scrivi risulta che la tua azienda abbia effettivamente eseguito tali valutazioni (sarebbe comunque da verificare se i criteri adottati sono coerenti con quelli descritti nelle norme della serie 11228), ma che tali valutazioni siano ormai datate a seguito di modifiche tecniche e organizzative apportate alle attività lavorative.

La tua azienda non risulta in questo caso inadempiente agli obblighi di cui all’articolo 168 del Decreto sopra enunciati, ma è comunque inadempiente relativamente all’obbligo di cui all’articolo 29, comma 3, che impone che:

La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate. Nelle ipotesi di cui ai periodi che precedono il documento di valutazione dei rischi deve essere rielaborato, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, nel termine di trenta giorni dalle rispettive causali. Anche in caso di rielaborazione della valutazione dei rischi, il datore di lavoro deve comunque dare immediata evidenza, attraverso idonea documentazione, dell’aggiornamento delle misure di prevenzione e immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.

Quindi non soltanto la tua azienda avrebbe dovuto aggiornare formalmente la valutazione dei rischi da MMC entro 30 giorni dal momento delle modifiche alle linee di produzione, ma avrebbe dovuto da subito aggiornare le misure di prevenzione e protezione.

Il mancato adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 29, comma 3 del Decreto è sanzionato penalmente dall’articolo 55, comma 3 con l’ammenda 2.000 a 4.000 euro.

Pertanto la mancata applicazione dei metodi OCRA e NIOSH o il mancato aggiornamento della valutazione a seguito di modifiche significative delle linee di produzione, non solo è fonte di non conformità per la certificazione secondo OHSAS 18001, ma si configura come mancato adempimento (e quindi reato penale) della normativa vigente di tutela della salute e della sicurezza.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Un caro saluto.

Marco

 

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NOTA

Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:

ASL = Azienda Sanitaria Locale

CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro

DPI = Dispositivi di Protezione Individuali

DVR = Documento di Valutazione dei Rischi

DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto

RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione

RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza

D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)

 

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SORVEGLIANZA SANITARIA E VALUTAZIONE DEI RISCHI IN EDILIZIA

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

16 marzo 2016

 

Indicazioni sulla sorveglianza sanitaria e sulla collaborazione del medico competente alla valutazione dei rischi e alla prevenzione in edilizia.

La sorveglianza sanitaria deve essere inserita a pieno titolo nel processo di valutazione dei rischi.

 

Con riferimento al sensibile aumento degli anni delle malattie professionali denunciate dai lavoratori edili, il Piano Nazionale Edilizia 2015-2018 prevede che la vigilanza si occupi nello specifico anche della valutazione della sorveglianza sanitaria messa in atto dal Medico Competente. Ed anche della congruenza di tale sorveglianza con la valutazione dei rischi.

 

Per parlare di queste tematiche si è tenuto il 6 novembre 2015 a Capannori (LU) il seminario “Valutazione dei rischi e sorveglianza sanitaria in edilizia” organizzato a cura dell’unità funzionale Prevenzione, Igiene e Sicurezza nei Luoghi di Lavoro dell’Azienda USL 2 di Lucca.

 

Uno degli interventi che si è soffermato sulla sorveglianza sanitaria e sulla valutazione dei rischi, con riferimento al ruolo del medico competente, si intitola “La collaborazione del medico competente alla valutazione dei rischi e alla prevenzione in edilizia” ed è a cura del dottor Carlo Grassi.

 

La relazione, che presenta nel dettaglio il ruolo e i compiti del medico competente, ricorda che la sorveglianza sanitaria corrisponde all’insieme degli atti medici, finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa.

La sorveglianza sanitaria è effettuata, come indicato dal D.Lgs. 81/08, dal medico competente:

  • nei casi previsti dalla normativa vigente, dalle indicazioni fornite dalla commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro;
  • qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi.

Il medico competente programma ed effettua la sorveglianza sanitaria attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati.

 

Questi gli obiettivi, lo scopo della sorveglianza sanitaria:

  • valutare l’idoneità specifica al lavoro;
  • scoprire in tempo utile per un efficace intervento anomalie cliniche o precliniche (diagnosi precoce);
  • prevenire peggioramenti della salute del lavoratore (prevenzione secondaria);
  • valutare l’efficacia delle misure preventive nel luogo di lavoro;
  • rafforzare misure e comportamenti lavorativi tutelanti per sicurezza e salute.

 

La sorveglianza sanitaria, essendo l’unico strumento di rilevazione degli effetti sanitari precoci, deve essere necessariamente inserita a pieno titolo nel processo di valutazione dei rischi.

In questo senso il Medico Competente individua i gruppi di lavoratori da inserire nel programma di sorveglianza sanitaria e ne definisce il protocollo indicando per ogni mansione i fattori di rischio (oggetto della valutazione) per i quali è istituita la sorveglianza sanitaria, la periodicità della visita medica, gli accertamenti strumentali e/o di laboratorio e loro periodicità.

Tale protocollo di sorveglianza sanitaria costituisce parte integrante del Documento di Valutazione dei Rischi redatto ai sensi degli articoli 17, comma 1, lettera a) , 28 e 29 del D.Lgs. 81/08.

Il relatore ricorda, tra l’altro, che lo stesso articolo 29 indica che la valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata anche quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. E a seguito di tale rielaborazione le misure di prevenzione debbono essere aggiornate.

 

Si indica inoltre che sarebbe auspicabile che il protocollo di sorveglianza fosse esposto in forma di tabella, nella quale per ogni fattore di rischio fossero indicati:

  • effetti avversi/organi bersaglio;
  • accertamenti mirati di primo livello;
  • altri eventuali accertamenti di secondo livello;
  • eventuali riferimenti normativi o tecnici (leggi, linee guida);
  • periodicità suggerite (in rapporto alle fasce di intensità di esposizione).

 

Viene riportato un esempio relativo alla movimentazione manuale dei carichi (MMC)

In particolare vengono inclusi in questo rischio i lavoratori che svolgono queste attività in modo non occasionale, sia nel corso del turno di lavoro, che nel complesso dell’attività lavorativa.

Ad esempio un’attività di MMC svolta alcune volte nell’arco del turno di lavoro o qualche volta alla settimana per 1-2 ore è da considerarsi occasionale.

 

In questo caso la tabella relativa alla sorveglianza sanitaria dovrebbe riportare:

  • effetti avversi/organi bersaglio: apparato locomotore, specie rachide lombo sacrale; apparato cardiocircolatorio e respiratorio, se la MMC è accompagnata da sforzo fisico intenso e/o prolungato);
  • accertamenti mirati di primo livello: visita medica con anamnesi mirata e con eventuale utilizzo di questionario specifico; elettrocardiogramma se la MMC è accompagnata da sforzo fisico intenso e/o prolungato;
  • altri eventuali accertamenti di secondo livello (esempi non esaustivi): diagnostica per immagini (radiografia, TAC, risonanza magnetica); visita fisiatrica o di altro specialista; visita cardiologia ed eventuale elettrocardiogramma da sforzo;
  • eventuali riferimenti (leggi, linee guida): D.Lgs. 81/08; Linee Guida Coordinamento Tecnico delle Regioni; Linee guida SIMLII;
  • periodicità suggerite in rapporto alle fasce di intensità di esposizione: se indice di rischio NIOSH maggiore di 1 biennale, se maggiore di 0,75 almeno quadriennale.

 

La relazione si sofferma poi sulle varie visite mediche di cui si compone la sorveglianza sanitaria, sulla cartella sanitaria, sul riscorso all’organo di vigilanza e sul registro per i lavoratori esposti a rischi cancerogeni.

 

Viene riportata anche l’analisi di alcuni dati risultanti dalla vigilanza nelle aziende.

Da questa vigilanza risulta, ad esempio:

  • la presenza del protocollo sanitario (ma non sempre riferito al profilo di rischio);
  • l’assenza di tracce degli incontri, riunioni, contatti con il datore di lavoro, i tecnici consulenti, il RSPP, i RLS, i lavoratori;
  • l’assenza di riferimenti al contributo del medico competente nel corpo del documento di valutazione dei rischi.

Si fa poi riferimento anche alle assenze o carenze relative al verbale di sopralluogo negli ambienti di lavoro, alle attività di promozione della salute, ecc.

 

Sono riportate anche possibili situazioni positive riguardo alla collaborazione del medico competente alla valutazione dei rischi.

Ad esempio:

  • il medico competente ha effettuato il sopralluogo;
  • la sorveglianza sanitaria è stata attivata previa acquisizione del documento di valutazione dei rischi da parte del medico competente e dopo l’effettuazione del sopralluogo;
  • il documento di valutazione dei rischi risulta adeguato, è sottoscritto dal medico competente con/senza ulteriori osservazioni oppure il documento di valutazione dei rischi risulta inadeguato, ma il medico competente, pur avendolo firmato, ha prodotto le sue osservazioni;
  • se il documento di valutazione dei rischi è adeguato i profili di rischio e i protocolli sanitari sono coerenti con il documento e le mansioni specifiche e le eventuali limitazioni/prescrizioni riportate nelle cartelle e nei giudizi di idoneità sono coerenti con il documento di valutazione dei rischi.

 

Ricordando che la gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro è in capo al datore di lavoro, l’intervento si conclude riportando gli obblighi del datore di lavoro nei riguardi del medico competente (con riferimento al D.Lgs. 81/08).

A tale riguardo, il datore di lavoro deve:

  • nominare il medico competente, previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nei casi in cui vige l’obbligo della sorveglianza sanitaria;
  • assicurare al medico competente le condizioni necessarie per lo svolgimento dei compiti garantendone l’autonomia;
  • fornire al medico competente informazioni su: natura dei rischi, risultati della valutazione dell’esposizione dei lavoratori, organizzazione del lavoro, programmazione e attuazione delle misure preventive e protettive, impianti e processi produttivi, infortuni e malattie professionali, provvedimenti adottati dagli organi di vigilanza;
  • richiedere al medico competente l’osservanza degli obblighi a lui demandati;
  • inviare a visita medica i lavoratori entro le scadenze previste dal programma di sorveglianza sanitaria;
  • vigilare affinché i lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria non siano adibiti alla mansione lavorativa specifica senza il prescritto giudizio di idoneità;
  • attuare le misure indicate dal medico competente e, nel caso di inidoneità alla mansione specifica, adibire il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute;
  • comunicare tempestivamente la cessazione del rapporto di lavoro dei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria;
  • in caso di effetti sanitari imputabili all’esposizione segnalati dal medico competente rivedere il documento di valutazione dei rischi e le misure di prevenzione;
  • garantire a propria cura e spese l’esecuzione delle visite mediche, degli esami clinici e biologici e degli accertamenti diagnostici mirati al rischio, ritenuti necessari dal medico competente.

 

Il documento “La collaborazione del medico competente alla valutazione dei rischi e alla prevenzione in edilizia”, a cura del dottor Carlo Grassi, intervento al seminario “Valutazione dei rischi e sorveglianza sanitaria in edilizia” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/160208_USL2_collaborazione_MC_edilizia.ppt

 

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RESPONSABILITA’ E POSIZIONE DI GARANZIA DEL DIRETTORE DI STABILIMENTO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

Di Gerardo Porreca

 

Il direttore di stabilimento è destinatario “iure proprio” al pari del datore di lavoro dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega, in quanto assume nella materia specifica una posizione di garanzia.

 

Fornisce la Corte di Cassazione in questa sentenza un chiarimento sulla posizione di garanzia assunto dal direttore di uno stabilimento in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti.

Il direttore di stabilimento infatti, ha sostenuto la Corte Suprema, è destinatario “iure proprio”, al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega di funzioni, in quanto in virtù della posizione apicale ricoperta in azienda assume una posizione di garanzia in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Lo stesso risponde pertanto della mancata adozione delle misure organizzative e integrative di controllo e di vigilanza demandate a colui che nello stabilimento riveste un ruolo apicale e quindi del tutto differenti da quelle di ordine esecutivo rientranti invece nelle mansioni del capo squadra o del preposto e finalizzate ad evitare il pericolo del verificarsi di infortuni.

Beninteso però, ha aggiunto la Corte di Cassazione, al direttore di stabilimento non possono farsi carico, in ragione della qualifica funzionale rivestita, scelte gestionali generali che sono rimesse invece al datore di lavoro.

 

Il direttore di uno stabilimento e responsabile della sicurezza di una società di gestione dello stesso è stato tratto a giudizio unitamente al preposto, nei cui confronti la sentenza di primo grado è passata in giudicato non essendo stata proposta impugnazione, per rispondere del reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione di norme antinfortunistiche in danno di un lavoratore dipendente.

La Corte d’Appello, successivamente, in parziale riforma della sentenza del Tribunale appellata dall’imputato, concessa all’imputato l’attenuante di cui all’articolo 62 numero 6 del Codice Penale, ritenuta unitamente alle già concesse attenuanti generiche prevalente sulla contestata aggravante, rideterminava la pena in giorni 40 di reclusione, sostituita con la sanzione pecuniaria di € 1.520 di multa, revocando in accoglimento di una specifica istanza difensiva il concesso beneficio della sospensione condizionale della pena.

Avverso tale decisione l’imputato ha ricorso in Cassazione a mezzo del difensore di fiducia lamentando la violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera b) del Codice di Procedura Penale con riferimento all’articolo 40 del Codice Penale nonché agli articoli 18 e 19 del D.Lgs. 81/08, la violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera e) del Codice di Procedura Penale per contraddittorietà e manifesta illogicità intrinseca della motivazione in punto di riconducibilità a lui del ruolo di preposto e per travisamento della prova e omessa motivazione sul punto, rispetto agli atti del processo ed alla sentenza emessa dal Tribunale, sempre in relazione al ruolo del preposto, la violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera c) del Codice di Procedura Penale in relazione agli articoli 516, 521 e 522 del Codice di Procedura Penale e 24 e 111 della Costituzione, essendo il fatto addebitato in sentenza diverso da quello descritto al capo di imputazione e la violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera e) del Codice di Procedura Penale per omessa motivazione in relazione al motivo di appello relativo alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per mancato espletamento dell’esame dell’imputato.

 

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dall’imputato. La stessa ha ricordato che il lavoratore si è infortunato mentre azionava un trapano a colonna privo dello schermo di protezione e che all’imputato, quale direttore dello stabilimento nel quale si era verificato l’infortunio, era stato contestato di aver messo a disposizione dei lavoratori attrezzature non idonee ai fini della salute e della sicurezza nonché adeguate al lavoro da svolgere.

Non è in contestazione, ha aggiunto la stessa Corte, la circostanza che l’infortunio occorso al lavoratore era stato determinato da una manovra dallo stesso operata che era stata resa possibile solo e in quanto il trapano a colonna sul quale operava era sprovvisto di adeguata protezione che consentisse all’operaio stesso di non venire in contatto con le parti in movimento della macchina. Il ricorrente ha sostenuto altresì che la sentenza impugnata sarebbe pervenuta alla sua condanna per un fatto diverso da quello in contestazione (l’aver messo a disposizione dei lavoratori attrezzature non idonee).

La Suprema Corte ha precisato a riguardo che, a prescindere dalla circostanza che non è stato chiarito con sufficiente certezza se i dispositivi di sicurezza, pure in ipotesi acquistati dalla società, fossero stati debitamente e correttamente installati, la gravata sentenza ha chiarito che la violazione della disposizione che prevede l’apposizione di una protezione atta a evitare il contatto delle mani del lavoratore con gli organi della macchina in movimento, è ravvisabile sia nell’ipotesi in cui lo schermo o altro meccanismo di protezione non sia mai stato apposto, come in quella in cui sia stata successivamente rimossa.

Deve peraltro ritenersi legittimamente consentito al giudice, ha così proseguito la Sezione IV, individuare, oltre agli elementi di fatto contestati, altri profili del comportamento colposo dell’imputato emergenti dagli atti processuali in relazione ai quali questi sia stato posto in grado di difendersi.

 

Quanto alla posizione di garanzia del ricorrente va precisato che nel capo di imputazione è stato precisato che lo stesso rivestiva la qualifica di “direttore di stabilimento”, ruolo peraltro pacificamente ammesso dallo stesso imputato. Sul punto quindi la Suprema Corte ha precisato che “in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il direttore dello stabilimento di una società per azioni è destinatario iure proprio, al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega di funzioni, in quanto, in virtù della posizione apicale ricoperta, assume una posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti”.

Se ovviamente all’imputato, ha così proseguito la Sezione IV, “in ragione della qualifica funzionale rivestita, non potevano farsi carico scelte gestionali generali rimesse al datore di lavoro, era peraltro del tutto pacifico che allo stesso, attesa la posizione apicale ricoperta nell’organigramma dello stabilimento, faceva capo una ben precisa e netta posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavori dipendenti in servizio nello stabilimento dallo stesso prevenuto diretto”.

“Appare pertanto corretta”, secondo la Sezione IV, “l’indicazione della Corte di merito alle regole cui si sarebbe dovuto attenere l’imputato nel ruolo di dirigente con funzioni di direttore dello stabilimento, sul rilievo specifico della mancata adozione di misure organizzative e integrative di controllo e di vigilanza (demandate a colui che rivestiva un ruolo apicale nello stabilimento e quindi del tutto differenti da quelle di ordine esecutivo rientranti invece nelle mansioni del capo squadra o del semplice preposto) finalizzate a evitare il pericolo del verificarsi di infortuni quale quello di cui è causa”.

 

La Suprema Corte, in conclusione, ha ritenuto anche privo di fondamento il tentativo dell’imputato di addossare ogni responsabilità al preposto condannato in primo grado essendo peraltro pacifico che in tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l’omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile a ognuno dei titolari di tale posizione.

 

La Sentenza n. 45233 del 12 novembre 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14294:2015-11-16-11-31-43&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

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LINEE GUIDA: VALORE GIURIDICO E VINCOLATIVITA’

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

24 marzo 2016 – Cat: Linee guida e buone prassi

Di Anna Guardavilla

Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro

 

Le Linee Guida in materia di salute e sicurezza tra Decreto 81 e norme generali, il valore giuridico del “sapere scientifico”, la giurisprudenza e il valore delle linee guida nei processi penali.

 

Il Decreto Legislativo 81/08 ha introdotto, all’articolo 2, le definizioni di tre fonti di grande rilevanza in ambito prevenzionistico per gli RSPP, i Medici Competenti, gli RLS, i datori di lavoro e in generale tutti gli operatori della salute e sicurezza sul lavoro, ovvero le “linee guida”, le “norme tecniche” e le “buone prassi”.

 

Con particolare riferimento alle linee guida, queste sono definite dal Testo Unico quali “atti di indirizzo e coordinamento per l’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza predisposti dai Ministeri, dalle Regioni, dall’ISPESL e dall’INAIL e approvati in sede di Conferenza Stato-Regioni” (articolo 2, comma 1 lettera z) del D.Lgs. 81/08).

 

Dunque questa definizione pone alcuni punti fermi, prevedendo che le linee guida:

  • consistano in atti di indirizzo e coordinamento per l’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza;
  • per essere definite e considerate tali, debbano essere predisposte dai Ministeri, dalle Regioni e dall’INAIL (ai sensi della Legge 30 luglio 2010 n. 122 che ha trasferito le competenze dell’ISPESL all’INAIL);
  • debbano essere approvate in sede di Conferenza Stato-Regioni.

 

Una prima conseguenza che possiamo trarre da questa definizione è che non tutti gli atti di indirizzo e coordinamento per l’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza possono essere definiti “linee guida”, ma solo quelli che vengono emanati dai soggetti su indicati e con i requisiti visti.

Per garantire la certezza del diritto, infatti, il legislatore nel 2008 ha previsto che potessero intendersi quali “linee guida” solo gli atti di indirizzo emanati da una rosa di organismi appartenenti al sistema pubblico cui la legge ha riconosciuto l’autorevolezza e la legittimazione istituzionale necessaria ad emanare indirizzi unitari e quindi ad uniformare gli orientamenti applicativi per tutti gli operatori del settore.

 

Le linee guida sono spesso richiamate direttamente dal D.Lgs. 81/08 e più in generale dalla normativa prevenzionistica.

A mero titolo di esempio (perché guardando al Testo Unico e norme correlate gli esempi potrebbero essere molti), in materia di attrezzature di lavoro, la Relazione di accompagnamento al Decreto correttivo 106/09 specificava a suo tempo che “all’articolo 71 [del D.Lgs. 81/08] sono operate una serie di modifiche che evidenziano la rilevanza della informazione, della formazione, dell’addestramento, delle linee guida e delle buone prassi ove si verta in materia di utilizzo di attrezzature di lavoro” e che tale articolo 71, come risulta anche dalla versione attuale, è stato “cambiato imponendo al datore di lavoro di considerare, nell’adempimento dell’obbligo in parola, i documenti indicati o le indicazioni derivanti da norme tecniche, buone prassi o linee guida assicurando un migliore livello di tutela.” (il riferimento è all’attuale comma 8 dell’articolo 71 del D.Lgs. 81/08, cui si rinvia).

 

In questo caso, così come in tutti i casi analoghi, è il legislatore stesso a richiamare espressamente e ad imporre in maniera vincolante al datore di lavoro l’applicazione delle linee guida.

 

Non va però dimenticato che le linee guida assumono un valore giuridico anche quando queste non sono richiamate direttamente dalla normativa prevenzionistica (ad esempio dal D.Lgs.81/08), ai sensi dell’articolo 2087 del Codice Civile che pone il principio della cosiddetta “massima sicurezza tecnologicamente fattibile”, alla luce del quale, come ci ricorda la giurisprudenza, “in materia di sicurezza del lavoro il datore di lavoro è tenuto ad uniformarsi alla migliore scienza ed esperienza del momento storico in quello specifico settore; e, nel caso in cui per i suoi limiti individuali non sia in grado di conoscere la miglior scienza ed esperienza, consapevole di tali limiti, deve avere l’accortezza di far risolvere da altri i problemi tecnici che non è in grado di affrontare personalmente” (vedi Sentenza n. 6944 del 16 giugno 1995 della Cassazione Penale Sezione IV).

 

Oltre a esprimere il principio su ricordato, l’ articolo 2087 del Codice Civile svolge anche un’altra importante funzione che può correlarsi anche alle linee guida, fungendo infatti da “norma di chiusura del sistema antinfortunistico”, nel senso che la giurisprudenza ritiene che il datore di lavoro non abbia assolto i suoi obblighi in materia di salute e sicurezza sul lavoro quando, pur avendo osservato tutte le prescrizioni specifiche in materia, non abbia adottato tutte le misure rese necessarie da particolarità del lavoro, esperienza e tecnica.

Secondo la Cassazione, infatti, “l’eventuale silenzio della legge sulle misure antinfortunistiche da prendere non esime il datore di lavoro da responsabilità se, di volta in volta, la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono in grado di suggerirgli e, quindi, di imporgli idonee misure di sicurezza” (vedi Sentenza n. 2054 del 3 marzo 1993 della Cassazione Penale Sezione IV).

 

Una interessante pronuncia della Cassazione emanata quest’anno (Sentenza n. 34 del 5 gennaio 2016 della Cassazione Civile Sezione Lavoro) sottolinea a tal proposito che con riferimento alle misure cosiddette “innominate” imposte dall’articolo 2087 del Codice Civile, grava sul “datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati oppure trovino riferimento in altre fonti analoghe (si vedano per tutte le Sentenze n. 15082 del 2 luglio 2014 e n. 12445 del 25 maggio 2006 della Cassazione Penale)”.

 

Un riferimento implicito all’ articolo 2087 del Codice Civile e ai principi su illustrati è contenuto peraltro anche nella normativa specifica, laddove il Decreto 81/08 definisce la “prevenzione” come “il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno” (articolo 2, comma 1, lettera n) del D.Lgs.81/08).

 

A questo punto, approfondiamo un po’ più in dettaglio in cosa consistano il valore giuridico e la vincolatività delle linee guida.

 

La giurisprudenza lo illustra in maniera chiara.

Una interessante pronuncia (Tribunale di Asti, 22 ottobre 2010) in tema di malattie professionali ci ricorda, infatti, che “nelle linee guida è normalmente contenuta la più compiuta e particolareggiata indicazione del sapere scientifico di un determinato settore. Da ciò consegue che nei processi per reati colposi (soprattutto quelli in campo medico) le linee guida vengono spesso in rilievo, poiché da esse possono essere tratti sia elementi indispensabili per l’individuazione del comportamento corretto da seguire e sia il “modello di agente”.

Secondo tale sentenza, le linee guida “costituiscono, al contempo, fonte dell’obbligo di adeguamento e metro della diligenza richiesta a chi opera in un determinato settore.”

 

Nel caso di specie oggetto di questa sentenza, in cui si giudicavano le responsabilità connesse all’insorgere (prima del 2008) di varie malattie professionali collegate alla sindrome da sovraccarico biomeccanico, il Tribunale trae (dalla premessa su riportata relativa alla funzione delle linee guida) la conclusione che nella fattispecie “i medici competenti, i datori di lavoro e i consulenti di questi ultimi erano senz’altro tenuti alla conoscenza delle linee guida relative al metodo OCRA per organizzare al meglio il lavoro in strutture imprenditoriali aventi a oggetto lavorazioni a rischio, in quanto estrinsecantesi in movimenti degli arti superiori a elevata ripetitività. Si deve dunque ritenere provato il nesso di causalità tra le omissioni del medico competente e l’insorgenza delle malattie: è ragionevole ritenere che se il medico competente avesse correttamente posto in essere il comportamento doveroso a lui spettante in forza delle norme nonché in forza alle regole di esperienza e se avesse dunque agito con perizia, diligenze e prudenza nello svolgimento del proprio lavoro, le malattie muscolo scheletriche non sarebbero insorte.”

 

Con particolare riferimento al Medico Competente, va anche ricordato che ai sensi del Testo Unico questi è tenuto a programmare ed effettuare la sorveglianza sanitaria “tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati” (articolo 25, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 81/08).

 

Riguardo alla figura del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, inoltre, la giurisprudenza valorizza con sempre maggiore attenzione l’importanza che questi svolga “in autonomia, nel rispetto del sapere scientifico e tecnologico, il compito di informare il datore di lavoro e di dissuaderlo da scelte magari economicamente seducenti ma esiziali per la sicurezza” (Sentenza n. 38343 del 18 settembre 2014, caso Thyssenkrupp, della Cassazione Penale, Sezioni Unite).

 

Al di fuori dell’ambito specifico della salute e sicurezza sul lavoro, poi, ma restando in campo medico in generale, può essere utile fare un brevissimo cenno alla norma contenuta nell’articolo 3 della Legge 8 novembre 2012 n. 189 che disciplina la “responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie” e che prevede che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve […]”.

 

Ma torniamo, per concludere il ragionamento, alle linee guida in materia di salute e sicurezza e alle indicazioni giurisprudenziali.

Se la giurisprudenza, come abbiamo visto, rintraccia l’utilità delle linee guida nei processi per reati colposi per infortuni o malattie professionali nel fatto che in esse possono essere tratti sia elementi indispensabili per l’individuazione del comportamento corretto da seguire e sia il “modello di agente”“, allora dobbiamo domandarci a questo punto cosa sia questo modello di agente, di colui che agisce, e quale funzione svolga ai fini delle responsabilità.

 

Ciò ci viene chiarito, tra le altre, da una importante Sentenza (Sentenza n. 16761 del 3 maggio 2010 della Cassazione Penale Sezione IV), che sottolinea che “la giurisprudenza e la dottrina dominanti si rifanno a criteri che rifiutano i livelli di diligenza ecc. esigibili dal concreto soggetto agente (perché in tal modo verrebbe premiata l’ignoranza di chi non si pone in grado di svolgere adeguatamente un’attività pericolosa) o dall’uomo più esperto (che condurrebbe a convalidare ipotesi di responsabilità oggettiva) o dall’uomo normale (verrebbero privilegiate prassi scorrette) e si rifanno invece a quello del cosiddetto agente modello (homo ejusdem professionis et condicionis), un agente ideale in grado di svolgere al meglio, anche in base all’esperienza collettiva, il compito assunto evitando i rischi prevedibili e le conseguenze evitabili. Ciò sul presupposto che se un soggetto intraprende un’attività, tanto più se pericolosa, ha l’obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla […]. Si parla dunque di misura oggettiva della colpa diversa dal concetto di misura soggettiva della colpa.”

 

Dunque, conclude la Cassazione, “il parametro di riferimento non è quindi ciò che forma oggetto di una ristretta cerchia di specialisti o di ricerche eseguite in laboratori d’avanguardia ma, per converso, neppure ciò che usualmente viene fatto, bensì ciò che dovrebbe essere fatto.

Non può infatti da un lato richiedersi ciò che solo pochi settori di eccellenza possono conoscere e attuare ma, d’altro canto, non possono neppure essere convalidati usi scorretti e pericolosi; questi principi sono ormai patrimonio comune di dottrina e giurisprudenza pressoché unanimi nel sottolineare l’esigenza di non consentire livelli non adeguati di sicurezza sia che siano ricollegabili a trascuratezza sia che il movente economico si ponga alla base delle scelte”.

 

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.249 DEL 29/03/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.248 DEL 18/03/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.248 DEL 18/03/16

 

INDICE

–         Jobs Act: il (magro) bilancio di un anno di interventi renziani, e i loro veri obiettivi

  • Ricerca sul fenomeno infortunistico e le malattie professionali degli agenti di polizia municipale
  • Sicurezza delle macchine: i dispositivi di comando
  • L’obbligo di vigilanza del datore di lavoro o a mezzo del preposto
  • Cosa rischiano le aziende se la formazione erogata non è idonea?

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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JOBS ACT: IL (MAGRO) BILANCIO DI UN ANNO DI INTERVENTI RENZIANI, E I LORO VERI OBIETTIVI

 

Riporto a seguire un interessante, dettagliato e documentato articolo dei compagni Clash City Workers sui mancati effetti positivi del Jobs Act.

Nell’articolo si dimostra che i motivi reali per cui è stato varato il pacchetto “Jobs Act” non è stato certo un aumento dell’occupazione, la crescita del PIL, il miglioramento dell’economia italiana.

Il Jobs Act è servito piuttosto per mantenere o aumentare il profitto per i padroni, per scaricare in parte sulla collettività il costo del lavoro, per cancellare la conflittualità, per estendere la flessibilità del lavoro fino a legalizzare vere e proprie forme di lavoro nero.

Ma cosa c’entra tutto questo con la sicurezza sul lavoro?

Un primo effetto deleterio (diretto) del Jobs Act è stato l’ulteriore riduzione delle tutele previste dalla normativa su salute e sicurezza (D.Lgs. 81/08) a causa delle modifiche peggiorative ad essa apportate, come evidenziato in un mio articolo specifico.

Il secondo (indiretto, ma, secondo me, ben più grave) peggioramento apportato dal Jobs Act è il cancellamento o la riduzione della conflittualità, rendendo così i lavoratori ancora più ricattabili e quindi meno propensi ad avviare vertenze anche sul rispetto del diritto a un lavoro salubre e sicuro.

In conclusione, come ha già avuto modo più volte di scrivere, la crisi la stiamo pagando (e continueremo a pagarla visto l’andamento involutivo dell’economia mondiale) sulla nostra pelle, nel senso letterale del termine.

L’aumento degli indici infortunistici e delle malattie professionali ne è una prima conferma.

Marco Spezia

 

da Clash City Workers

http://clashcityworkers.org

6 marzo 2016

 

PREMESSA

Quello che state per leggere è il nostro quarto o quinto contributo sul Jobs Act. Se la nostra è un’ossessione, lo è in misura speculare a quella del Governo e dei suoi megafoni ambulanti che, nel corso dell’ultimo anno, ci hanno quasi quotidianamente edotto sui prodigiosi effetti delle politiche governative sul lavoro.

Arriviamo buoni ultimi a rivelarvi che, in realtà, di prodigi se ne sono visti pochi: ma l’ansia da prestazione dell’apparato di Governo su questi temi è di per sé rivelatrice del fatto che l’attacco al mondo del lavoro non può essere oggetto di alcuna critica. Il complesso di interventi volti a rendere più incerta la continuità lavorativa, minore e più precario il salario non consentivano critiche di alcun tipo: la realtà, però, è più forte di ogni rappresentazione, anche di quella di chi controlla le leve del potere politico e influenza paurosamente il potere mediatico.

 

NOTA DI METODO

Ascriveremo alla categoria Jobs Act molte cose diverse: gli esoneri contributivi stabiliti dalla legge di stabilità 2015; i decreti che costituiscono il Jobs Act vero e proprio (decreti Poletti del 2014, contratto a tutele crescenti, demansionamento e controllo a distanza); l’estensione della possibilità di utilizzo dei voucher. Faremo questa mescolanza perché, al di là delle differenze tecniche tra i provvedimenti, ci interessa cogliere il nesso politico dietro tutta l’azione governativa sul lavoro, in un contesto, quello italiano, che non sembra proprio intenzionato a voler uscire dalla crisi (ammesso che qualcun altro ci sia effettivamente riuscito).

 

AGGIORNAMENTO 6 MARZO 2016: NOTA SULLE FONTI

I dati che sono stati utilizzati per questo documento sono presi, essenzialmente, dall’Osservatorio sul Precariato dell’INPS e dal database dell’ISTAT. In particolare, quelli relativi all’incremento occupazionale 2015 e alla sua composizione sono tratti dal comunicato stampa ISTAT del 2 Febbraio 2016, reperibile al link:

http://www.istat.it/it/files/2016/02/Occupati-e-disoccupati_dicembre_2015.pdf?title=Occupati+e+disoccupati+%28mensili%29+-+02/feb/2016+-+Testo+integrale+e+nota+metodologica.pdf

L’ISTAT ha, successivamente, aggiornato tutte le serie storiche relative all’occupazione, in seguito ad un’innovazione metodologica relativa alla destagionalizzazione dei dati. I cambiamenti non sono pochi, né di scarso peso: per fare solo un esempio, il dato relativo all’incremento occupazionale 2015, che ammontava a +109.000 unità secondo il vecchio metodo, è “improvvisamente” diventato +163.606. Non avendo la possibilità di verificare di nuovo, e in breve tempo, tutti I dati, ci attestiamo su quelli che l’ISTAT forniva fino al mese scorso. Non possiamo fare a meno di notare, però, che la procedura seguita dal nostro istituto di statistica è poco rigorosa e piuttosto “bizzarra”, quantomeno dal punto di vista comunicativo. Del resto questo improvviso aumento di circa un terzo dei posti di lavoro in più per il 2015 (che ai malpensanti potrebbe far nascere più di un sospetto) è in scia con quanto è accaduto, ad esempio, in Grecia, Spagna e Portogallo negli anni scorsi; o con quanto è accaduto con i dati sulle migrazioni forniti da Frontex; dati che cambiano all’improvviso e che dimostrano, anche presupponendo la buona fede di chi li fornisce, il carattere profondamente politico, e quindi ideologicamente orientato, della raccolta ed elaborazione statistica di dati, sulla quale poi si fanno, o si giustificano, le scelte dei governi.

 

1. SPAZZIAMO IL CAMPO DALLA FALSA PROPAGANDA: IL JOBS ACT È STATO UN FLOP (A CARO PREZZO)

Vi chiediamo un momento di pazienza prima di iniziare. Vi sembrerà di essere sommersi da un mare di numeri contraddittori e incomprensibili, e di perdervi, ma state tranquilli: ne usciremo vivi.

Le fonti utilizzate sono, come abbiamo detto, il bollettino mensile dell’Osservatorio sul Precariato dell’INPS e le rilevazioni statistiche dell’ISTAT.

Qual è la differenza tra le due fonti?

L’INPS analizza i flussi, cioè l’andamento mensile delle attivazioni e delle cessazioni di contratti; l’ISTAT lo stock, cioè il saldo finale degli occupati, il suo incremento o decremento.

Non è la stessa cosa, un nuovo contratto o un nuovo posto di lavoro?

No. Una stessa persona può essere intestataria di più contratti, contemporaneamente (due part-time, per esempio) o successivamente: ad un solo posto di lavoro possono corrispondere più contratti. Un altro esempio (è successo nel 2015) è che un lavoratore, formalmente “autonomo”, diventa dipendente: quel lavoratore già era presente nel mercato del lavoro, quindi al nuovo contratto non corrisponde automaticamente un nuovo posto.

Che cosa ha fatto la propaganda governativa, a partire dall’inizio del 2015? Ha usato sistematicamente i dati INPS, cioè quelli sui contratti, e li ha spacciati per posti di lavoro (con la supina, pigra e colpevole complicità della quasi totalità della stampa nazionale); non solo, per cantare le lodi del Jobs Act il Governo è arrivato addirittura a presentare come “crescita dell’occupazione” il dato lordo sui nuovi contratti attivati, senza calcolare le contemporanee cessazioni. Hanno imbrogliato spudoratamente e goffamente, per un anno intero.

La realtà, ovviamente, è diversa.

Il numero di nuovi contratti a tempo indeterminato attivati, al netto delle cessazioni, nell’anno 2015 è 186.048. Il numero dei nuovi occupati, invece, è 109.000 (secondo ISTAT): questo è il prodotto di un incremento del lavoro dipendente (+247.000) e un forte decremento del lavoro autonomo (-138.000); all’interno del lavoro dipendente prevale, seppur di poco, il tempo indeterminato sul determinato (135.000 contro 113.000) ma sono i posti a tempo determinato che hanno la percentuale di crescita più alta (+4,9% rispetto al +0.9% degli indeterminati), confermandosi la tipologia di lavoro più dinamica e finendo per rappresentare il 14,2% del totale dell’occupazione, cifra record mai registrata (nel 2014 erano il 13,6%).

Ciò che l’ISTAT, purtroppo, non ci dice è la composizione di quei 109.000 nuovi occupati: quanti di loro sono a termine, quanti indeterminati, quanti autonomi.

Non potendo stimarli in alcun modo, postuliamo un assunto palesemente impossibile e falso, cioè che tutti i 109.000 nuovi posti di lavoro siano a tempo indeterminato: in questo modo creiamo lo scenario (ripetiamo, impossibile) più favorevole alla propaganda governativa.

Quindi in sostanza l’occupazione aumenta di molto poco, anche perchè crolla il lavoro autonomo. All’interno del lavoro dipendente il miracolo del Jobs Act consisterebbe invece in quei 135.000 contratti a tempo indeterminato. Come veniamo subito a dimostrare però il costo potenziale, per la collettività, di ogni posto di lavoro è stato altissimo e ingiustificabile.

E’ ormai assodato (lo dice da tempo Marta Fana, lo ha detto finanche Bankitalia) che il “merito” della relativa, modestissima crescita dei contratti a tempo indeterminato è essenzialmente da attribuirsi agli esoneri contributivi. Basta vedere, l’andamento mensile delle accensioni dei nuovi contratti a tempo indeterminate: a Dicembre hanno registrato un enorme incremento, proprio quando era l’ultima occasione per le imprese di accaparrarsi i sopraccitati sgravi. Secondo Bankitalia, inoltre, “la combinazione del contratto a tutele crescenti e degli incentivi spiega solo il 5% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato”.

Vediamo, dunque, di che cifre potenzialmente parliamo, quanto ci potrebbe costare questa manovra. I nuovi contratti che hanno usufruito degli sgravi sono stati 1,44 milioni; l’ammontare massimo degli sgravi previsto dalla legge di stabilità è 8.060 euro annui per tre anni. Il calcolo, dunque, è: (8.060×3)x1.440.000 = 34.819.200.000 euro.

Il costo potenziale di ogni nuovo posto di lavoro (postulando che tutti i contratti godano del massimo degli sgravi per tutti e tre gli anni) è dunque di 319.442 euro: nella realtà è sicuramente maggiore, ma non sappiamo di quanto. Altissimo e ingiustificato, non ci sarebbe neanche bisogno di scriverlo.

A questo punto qualche cantore governativo potrebbe dirci che abbiamo imbrogliato, che il Jobs Act non può essere valutato solo sulla base dei nuovi posti di lavoro e che comunque il calo della disoccupazione e l’aumento degli occupati sono dati positivi, anche se irrisori.

Certo! Peccato che il Jobs Act non c’entri nulla!

La disoccupazione è diminuita dell’1% scendendo dal 12,4% all’11,4%, ma i dati sono sostanzialmente in linea con quelli europei: nell’Eurozona la disoccupazione è al 10,5%, in Francia al 10,1%, in Spagna al 21,4%, in Germania al 4,5%. La curva di crescita è in linea con l’UE, dove da gennaio a novembre la disoccupazione è scesa dello 0,7%.

In sintesi: il Jobs Act è stato ininfluente rispetto alla dinamica del mercato del lavoro, l’andamento è stato in linea con quello del resto dell’UE; quel pochissimo in più ci è costato carissimo!

2. EFFETTI POLITICI DELL’OPERAZIONE

Insomma, il Jobs Act ha prodotto poco in termini lavorativi nonostante le roboanti promesse di Renzi; che cosa ha prodotto, invece, in termini politici?

  1. Contratto a tutele crescenti

Il tempo indeterminato non esiste più, dal momento che è stato di fatto cancellato il reintegro e la sanzione amministrativa in caso di ingiustificato motivo è modesta. Ci sono stati, infatti, già casi di licenziamenti di lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti.

  1. Contratti a tempo determinato.

Abolito ogni obbligo di indicazione delle ragioni tecniche, produttive, organizzative, sostitutive nei primi 36 mesi di ricorso al contratto a termine, fino a un massimo di 5 rinnovi. Considerato che basta cambiare il titolo della mansione per ricominciare daccapo con lo stesso lavoratore, si può dire che non c’è alcun limite di utilizzo ai contratti a termine. L’unica sanzione prevista, per un utilizzo oltre il limite del 20% del totale del personale, è minima: il 20% della retribuzione del 21esimo contratto. Non a caso, nonostante i consistenti sgravi contributivi per i contratti a tutele crescenti e nonostante la libertà di licenziare, i contratti a termine sono la forma di contrattazione più utilizzata nel lavoro subordinato.

  1. Voucher

Non sono contratti, ma sono la forma di organizzazione del lavoro maggiormente cresciuta nel 2015. Ne sono stati venduti 114.921.574 del valore nominale di 10 euro, per un ammontare complessivo dunque di oltre un miliardo di euro. Danno diritto alla maturazione della pensione e all’assicurazione INAIL, ma non a disoccupazione, maternità, malattia, ecc., perché non si certifica, col voucher, la continuità del rapporto di lavoro. Il limite economico di utilizzo annuo è 9.333 euro lordi a lavoratore, più basso nel caso di prestazioni per imprenditori commerciali e liberi professionisti. Ciò significa che, nel corso del 2015, almeno 123.134 lavoratori sono stati pagati con voucher. Molti di più, se si considera che per alcuni settori (pub, ristoranti, ecc.) il limite è più basso, è che molti vengono retribuiti in parte in nero, in parte in voucher. Possiamo stimare senza timore di esagerare che sono stati circa 200.000 i lavoratori pagati in voucher, pari alla totalità dell’incremento del numero degli occupati (nel cui computo comunque non confluiscono).

  1. Controllo a distanza

Senza alcun collegamento con eventuali effetti benefici sul mercato del lavoro, nel Jobs Act è stata inserita la possibilità, per i datori di lavoro, di controllare i lavoratori attraverso telecamere a circuito chiuso, controllo telematico sull’uso dei PC, chip nelle scarpe per il controllo dei movimenti: in pratica è diventato legale il modello organizzativo di Amazon.

  1. Demansionamento

Come dice questo articolo (http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-sanatoria-nascosta-nel-jobs-act/) una pratica, quella del mancato riconoscimento della professionalità, che è anticostituzionale e riconosciuta dalla medicina del lavoro come lesiva dell’integrità psico-fisica dei lavoratori, è stata riconosciuta innocua e consentita sempre e comunque.

 

3. MA INSOMMA, L’ECONOMIA E’ RIPARTITA?

Il 14 Marzo 2015 Renzi era in visita al cantiere dell’Expo. Mancavano 50 giorni all’apertura e il cantiere era pronto al 90%, ma ciò bastava e avanzava, per Renzi e Squinzi, per lanciarsi in ottimistiche previsioni sulla ripresa in Italia. Dall’articolo de laRepubblica on-line di quel giorno leggiamo che Squinzi dichiarava: “Possiamo invertire la rotta e cambiare la condizione del Paese. Expo è il motore che permetterà al Paese di accelerare i consumi interni ed è il trampolino per la crescita del nostro PIL”. Renzi, dal canto suo, non si sottraeva: “Dopo questo non finisce tutto perché finalmente l’economia italiana sta ripartendo e potremo reinvestire nel settore delle infrastrutture anche alla luce delle nuove tecnologie”. Di dichiarazioni come queste, il Governo, i giornalisti al suo seguito, gli esperti che non ne indovinano una da anni ne hanno rilasciate con frequenza più che quotidiana. E’ andata davvero così?

Insomma: il PIL cresce, ma pochissimo (+0,7% al secondo trimestre 2015, gli ultimi dati accessibili); la produzione industriale crolla (-1% a dicembre 2015, era al +0,2% un anno prima; i prezzi al consumo ristagnano allo 0,1%; la disoccupazione segue la tendenza europea e resta comunque alta, mentre sale la quota di inattivi; l’OCSE, infine, ha tagliato le stime di crescita per i prossimi due anni, per praticamente tutto il mondo. E’ evidente che, in un contesto di crisi generalizzata e globale, solo un imbecille o qualcuno in malafede può ritenere che misure come gli esoneri contributivi e il Jobs Act possano rilanciare l’occupazione…

Bene: proveremo a dimostrarvi che tutto ciò che il Governo ha fatto sul lavoro è esattamente il prodotto di imbecilli in malafede!

 

4. QUAL E’ STATO L’OBIETTIVO REALE? DI FATTO, QUALI SONO STATI GLI EFFETTI PIÙ CONSISTENTI DEL JOBS ACT?

Il costo del lavoro per le imprese è stato ridotto, scaricandolo sulla collettività, quindi, in ultima analisi, sul salario.

La conflittualità è stata annichilita dalla cancellazione dell’articolo 18, dal controllo a distanza e dal demansionamento.

La possibilità di ricorrere al lavoro precario, o di “legalizzare” il nero, è aumentata enormemente, col boom dei voucher e la predominanza dei contratti a tempo determinato.

Il Governo, insomma, ha fatto regali immensi ai padroni: ma i padroni, che stanno facendo per il famoso “sistema Paese”? Vediamolo.

 

  1. L’ECONOMIA ITALIANA, OVVERO: IL MORTO INTERROGATO NON RISPOSE

Uno dei cavalli di battaglia del Governo è stato che gli interventi sul lavoro avrebbero rilanciato la produttività; non a caso nell’ultima legge di stabilità lo Stato si fa praticamente carico degli investimenti privati introducendo il cosiddetto “superammortamento”, cioè una valutazione maggiorata del 40% delle spese sostenute per l’acquisto di nuovi macchinari e i canoni di locazione, in maniera tale da avere consistenti sconti su IRES e IRPEF: in parole semplici i padroni pagano meno tasse se investono.

A quanto pare, però, a questo fatto di spendere i soldi i padroni italiani sono piuttosto refrattari: tra il 1995 e il 2014, infatti, la quota di investimenti sul PIL è diminuita del 2,51%! Nonostante ciò, nello stesso arco di tempo la produttività, cioè la quantità di prodotto per unità lavorativa, è costantemente aumentata, tranne che nel 2009 e nel 2012: in totale, nel 2014 era il 47% in più rispetto al 1995!

Chi ha fatto questo vero e proprio miracolo italiano? I lavoratori! Solo aumentando l’intensità di sfruttamento, intesa anche, brutalmente, come pagare di meno per più lavoro, è possibile crescere in produttività riducendo gli investimenti…insomma, avremmo tutto il diritto di decidere noi sulle scelte economiche, visto che sono i numeri stessi a dirci che mandiamo avanti la baracca, ma invece dobbiamo sorbirci le lezioncine di chi ci accusa della mancata crescita perché…guadagniamo troppo!

In un recente documento del proprio Centro Studi, infatti, Confindustria grida allo scandalo, sostenendo esplicitamente che, in uno scenario in cui il valore aggiunto non cresce a sufficienza, la massa salariale assume, rispetto al PIL, proporzioni intollerabili.

E hanno ragione (dal loro punto di vista…)! La curva dei salari, infatti, dall’inizio della crisi del 2008, da quando cioè il PIL è in contrazione, diventa leggermente anticiclica. Dal momento che non esiste ancora (per fortuna) una scala mobile al contrario (anche se c’è da dire che con gli ultimi rinnovi dei CCNL sono quasi riusciti ad imporla), non è stato possibile per i padroni tagliare i salari proporzionalmente al crollo del PIL, quindi questi ultimi sono, in percentuale, aumentati: di pochissimo, +1,20 % la differenza tra il 2014 e il 1995, ma abbastanza per allarmare Confindustria. Non è un caso, infatti, che nei più importanti rinnovi contrattuali del 2015 i padroni abbiano chiesto un ridimensionamento salariale, o in alternativa la corresponsione degli aumenti concordati in forma di premio di risultato.

Ma che cos’è che davvero preoccupa Confindustria? La produttività cresce senza che loro investano più di tanto, e se lo fanno hanno lauti sconti sulle tasse; i salari sono aumentati in proporzione al PIL, sì, ma dello 0,06% medio all’anno; non pagano i contributi per i neoassunti, possono licenziarli quando vogliono, possono usare i voucher in qualunque settore…che cosa ti preoccupa, Squinzi?

Noi lo sappiamo, perché loro non hanno vergogna a dirlo: li preoccupa il cosiddetto MOL, Margine Operativo Lordo, che noi più chiaramente chiamiamo profitto. Rispetto al 1995, nel 2014 la percentuale del MOL sul PIL era diminuita dell’1,40%, e di anno in anno la variazione oscilla tra un + e un – zero virgola…insomma, si può dire che sia leggerissimamente in calo, e che l’unico sforzo dei padroni in questi vent’anni sia stato quello di mantenerlo più o meno costante, non farlo diminuire troppo.

 

6. MA CHE COLPA ABBIAMO NOI?

Ricapitoliamo un po’ il comportamento di questi geni dell’economia e della finanza: scoppia la crisi, e la prima cosa che fanno in Italia è minare alla base le possibilità di una ripresa, diminuendo la percentuale di capitale investito, solo per continuare a mettersi in tasca più o meno gli stessi soldi a fine anno; dopo che hanno fatto questo decidono che è il momento di attaccare frontalmente i salari: il Jobs Act e i rinnovi contrattuali arrivano esattamente a questo punto, e si portano dietro anche una prevedibile riduzione delle imposte sul lavoro, dal momento che ci sarà sempre meno welfare da finanziare.

Il risultato è che siamo di fronte al più grave attacco al salario degli ultimi 30 anni almeno, che: non farà aumentare il PIL; non avrà risultati sulla produttività; servirà a mantenere invariata, almeno per qualche anno, la quantità di soldi che i padroni rubano, fino a trovarci (si parla già del 2017) precipitati in un’altra crisi, peggiore della precedente (l’andamento delle Borse degli ultimi mesi è un indicatore affidabile).

Se ciò non bastasse, per non farsi cogliere di sorpresa il capitale italiano sta tentando disperatamente di svendere al miglior offerente i settori produttivi strategici.

Parliamo di Finmeccanica, che sta svendendo tutto ciò che non è legato alla produzione militare, come l’aeronautica (e lo sanno bene i lavoratori Alenia, Fincantieri. Dema…).

Parliamo dell’ILVA, il più grande impianto siderurgico a ciclo integrale d’Europa finché non è stato regalato dallo Stato ai Riva, che hanno smesso di investirci fino a quando, con l’esplodere dello scandalo ambientale, l’unica prospettiva realistica, per quanto lontana, è diventata una riconversione dello stabilimento in un impianto di lavorazione di semilavorati, non più competitivo, a spese dello Stato.

 

7. CONCLUSIONI

Usiamo l’abusata metafora del Governo, o della società, come una nave, precisamente, per restare ancora di più nel cliché, come il Titanic.

Qualcuno l’ha costruito male, risparmiando su tutto, dai pezzi alla manodopera. Ci ha caricato sopra una quantità di gente, tutta in qualche modo costretta a lavorarci o viverci. Alle prime falle, questo qualcuno ha pensato bene di ripararle prendendo dei pezzi da altre parti della chiglia. Ogni volta che riparava, aumentava la fragilità complessiva, ma al tizio non interessava, l’importante era continuare a navigare, speculando e arricchendosi su tutti, dai marinai ai passeggeri. A un certo punto il Titanic inizia a collassare, il tizio e altri stronzi come lui non solo si buttano sulle scialuppe scacciando gli altri, accusano passeggeri e lavoratori che è colpa loro, sono troppi, è pure un po’ giusto che muoiano e, ciliegina sulla torta, prima di salire sulle scialuppe si affannano anche a sfasciare ulteriori pezzi di chiglia, contando di vendere un po’ di ferraglia a qualcuno, dopo la bufera.

Sperano, gli stronzi, di sopravvivere sempre, di restare sempre a galla rispettando la loro natura; sperano quindi, dopo l’ennesimo naufragio, di trovare ancora qualcuno a cui vendere la loro paccottiglia. Ma un dopo, e un qualcuno, per loro potrebbero non esserci; prima che il naufragio si compia la gente sulla nave potrebbe decidere di buttarli a mare, oppure potrebbero sbarcare in un posto dove sanno benissimo com’è andata e fanno loro pagare tutto, fino all’ultimo centesimo.

Insomma, in questa storia, e nella Storia, come sempre, il futuro non è scritto!

 

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RICERCA SUL FENOMENO INFORTUNISTICO E LE MALATTIE PROFESSIONALI DEGLI AGENTI DI POLIZIA MUNICIPALE

 

DaArticolo 19 (Città Metropolitana)

http://www.cittametropolitana.bo.it

di Beatrice Cocchi, Marcello Crovara, Leopoldo Magelli

 

Tra gli strumenti di cui i RLS dovrebbero poter disporre per svolgere al meglio la loro attività, sia in termini di conoscenza e valutazione dei rischi che in termini di messa a punto di idonee ed efficaci misure preventive e protettive da proporre ai datori di lavoro, la conoscenza corretta e puntuale dell’andamento degli infortuni e delle loro caratteristiche e determinanti, nonché dei casi di malattia professionale costituisce un elemento basilare.

 

Proprio per confermare la validità di questa affermazione, vi proponiamo qui una breve sintesi dei risultati di una recente ricerca (luglio 2014 – luglio 2015) svolta nella nostra regione (coinvolgendo anche altre due regioni limitrofe).

Infatti l’indagine sul fenomeno infortunistico e sulle malattie professionali degli agenti di Polizia Municipale ha riguardato il personale di tre regioni (Emilia Romagna, Liguria, Toscana) e un periodo di osservazione di 5 anni (dal 2009 al 2013). I dati studiati sono quelli rilevabili (come casi definiti per gli infortuni, come casi denunciati per le malattie professionali) dalle statistiche e dai flussi informativi INAIL.

La ricerca è stata promossa dalla Scuola Interregionale di Polizia Locale (di Emilia Romagna, Liguria e Toscana) e si è potuta realizzare grazie alla preziosa collaborazione dell’INAIL: ringraziamo anche SIPL e INAIL per aver acconsentito alla presentazione su Articolo 19 di questo contributo.

La ricerca è stata condotta da Beatrice Cocchi, Marcello Crovara (INAIL) e Leopoldo Magelli, con la collaborazione anche di Michele Cicalini (SIPL).

 

Il primo elemento da evidenziare è che il fenomeno infortunistico appare in calo, sia in termini di numero assoluto di infortuni che in termini di indice di incidenza; in ogni modo, il numero di infortuni è significativo (il che ha permesso un’attenta analisi del fenomeno): si tratta di 4.090 infortuni riconosciuti e definiti nei 5 anni, con un valore assoluto che scende dagli 864 casi del 2009 ai 787 del 2013, e un indice di incidenza, che, nei vari anni e nelle diverse regioni, scende dal 2009 al 2013 da 8,7 a 8,3 per l’Emilia-Romagna, da 8,4 a 7,2 per la Liguria, da 8,7 a 8,0 per la Toscana.

Gli infortuni delle lavoratrici assommano ad un terzo esatto del totale (del resto, le lavoratrici sono circa un terzo del totale degli agenti di Polizia locale nelle tre Regioni).

 

Il trend dell’Indice di Incidenza è perfettamente corrispondente a quello dei numeri assoluti: un calo dal 2009 al 2013, con un notevole calo dell’indice nel 2012, un recupero nel 2013, ma sempre a valori inferiori rispetto all’anno iniziale del periodo di osservazione, il 2009.

 

E’ da notare che il tasso grezzo unificato di infortuni per il personale delle polizie locali delle tre regioni, nell’arco del quinquennio, presenta un valore medio sempre superiore (ad esempio nel 2012 del 28,6%) al valore medio di tutti i lavoratori italiani assicurati all’INAIL (sempre nel 2012, del 18,6%). In altri anni, lo scarto è ancora maggiore (massimo nel 2011: 33,6% versus 20,5%!). Questo dato dimostra che, pur in calo, il fenomeno infortunistico nella polizia locale è un elemento di significativa importanza.

 

Per quel che riguarda la dinamica degli infortuni, il campo è dominato da tre elementi:

  • l’infortunistica stradale, intesa come incidenti stradali (si includendo che escludendo gli infortuni in itinere): 1.048 casi;
  • l’infortunistica legata a cadute e simili durante le attività di spostamento appiedato: 1.052 casi;
  • l’infortunistica legata ad atti di violenza, aggressione, ecc., subiti durante e attività di vigilanza e controllo: 950 casi.

 

Le parti anatomiche più interessate sono:

  • l’arto inferiore dal bacino alla caviglia esclusa (728 casi, il 18,39%);
  • la colonna vertebrale nei segmenti toracico, lombare e sacrale (717 casi, il 18,11%);
  • l’arto inferiore nella sua parte più distale, ovvero caviglia e piede (519 casi, il 13,11%);
  • l’arto superiore inteso come braccio, gomito, avambraccio polso, mano esclusa (480 casi, il 12,12%);
  • la, mano e le dita (445 casi, l’11,24%).

 

Le tipologie di lesione più rappresentate sono le contusioni (42,4%) e le lussazioni/distorsioni (40,0%): assieme totalizzano più dei 4/5 degli eventi.

Per quel che riguarda la durata degli infortuni e le conseguenze in termini di inabilità, si rileva che (a parte i casi mortali che sono stati, in totale, 2) il 21% ha avuto una durata superiore ai 40 giorni (all’interno di questi va ricompreso quel 3,5% del totale infortuni la cui durata ha superato i 120 giorni).

Quanto agli esiti (sempre tenendo presenti i 2 casi mortali) l’83,1% non ha presentato postumi permanenti a fronte di un 16,9% che invece li ha presentati (16,4% sotto il 15% di inabilità permanente, 0,5% oltre tale limite).

Invece, per quel che riguarda le malattie professionali, il numero denunciato è talmente esiguo (37 in totale) da non permettere valutazioni puntuali, anche per l’ampia distribuzione delle stesse su patologie molto diverse.

Le patologie più rappresentate nelle denunce sono quelle a carico del sistema osteo-articolare, dei muscoli e del tessuto connettivo (16 casi in totale, quasi il 50% di tutti i casi), seguite dai tumori (9 casi in totale, circa il 25% del totale delle malattie denunciate), da quelle a carico del sistema nervoso e organi di senso (5 casi, di cui 3 ipoacusie) e dell’apparato respiratorio (4 casi).

Occorre sottolineare che il numero di casi riconosciuti dall’INAIL è molto basso, solamente 4, per cui il dato globale delle malattie riconosciute diventa davvero irrilevante.

 

Dopo l’analisi degli infortuni, vengono sviluppate alcune possibili ipotesi di interventi di prevenzione che, se attuati coerentemente, potrebbero ridurre il fenomeno.

Si tratta di una serie di misure tra loro strettamente integrate, che possono essere ricondotte a tre filoni principali:

  • misure rivolte agli aspetti tecnici/tecnologici;
  • misure relative al fattore umano;
  • misure relative all’ambiente in cui si opera.

 

E’ dall’applicazione combinata di tali misure che può scaturire la riduzione della probabilità del verificarsi dell’evento infortunistico e la limitazione, a fatti avvenuti, degli effetti dannosi; risulta ragionevole individuare nel fattore umano il punto su cui concentrare le misure di miglioramento, formative per gli aspetti relazionali e addestrative per l’applicazione di particolari tecniche operative.

In particolare, le esperienze e le ricerche degli anni precedenti condotte insieme con SIPL ci hanno confermato che l’aggressività può manifestarsi in tutte le situazioni operative per gli operatori della Polizia Locale, a partire dal ricevimento del pubblico presso le sedi.

 

Per quanto riguarda le misure preventive e protettive applicabili all’ambiente delle sedi a cui accede il pubblico, possono risultare utili accorgimenti come sale d’attesa confortevoli e luoghi di colloqui con i cittadini controllabili dall’esterno, pur garantendo la riservatezza delle conversazioni, fino a barriere di separazione tra l’operatore e l’utente.

Su un piano più organizzativo, accessi e parcheggi facili, appuntamenti comodi, attese brevi, segnaletica, avvisi e istruzioni comprensibili anche per stranieri aiutano a non fomentare l’aggressività.

 

Per quanto riguarda le attività all’esterno, alcune misure organizzative, di solito applicate anche per altri scopi, rivestono un evidente valore preventivo e protettivo e possono essere implementate, come ad esempio:

  • non lavorare da soli, prevedere un numero adeguato di operatori per situazioni particolari, disporre di informazioni adeguate, di mezzi di comunicazione funzionanti e di un supporto attivabile in caso di bisogno;
  • scegliere, per quanto possibile, le condizioni più favorevoli per gli interventi: tempi, luoghi, dislocazione, ecc.;
  • cooperare con altri soggetti coinvolti nelle attività, concordare protocolli degli interventi definendo in anticipo i rispettivi compiti e responsabilità, attivare momenti formativi comuni (per esempio nel caso di TSO, ma anche di controlli o interventi congiunti, come cantieri, eventi, partite di calcio).

 

Per quanto riguarda infine gli interventi formativi e addestrativi rivolte agli operatori, finalizzati a migliorare la capacità di relazione allo scopo di non sollecitare l’aggressività, ma anche all’applicazione di specifiche tecniche operative per contenerla o all’uso di particolari attrezzature di lavoro o presidi difensivi, si rimanda al complesso delle attività formative organizzate da SIPL su:

  • prevenzione dei conflitti e mediazione sociale;
  • tecniche operative.

 

Un’ultima notazione riguarda il tema dello stress da lavoro correlato, molto sentito e “raccontato” dai lavoratori. Al contrario, i dati delle malattie professionali denunciate (1) e riconosciute (0) non ci forniscono segnali allarmanti.

D’altra parte soluzioni di prevenzione collettiva, da attivarsi anche in assenza di tali segnali, non devono essere necessariamente e specificamente indirizzate allo stress e possono riguardare:

  • misure tecniche/ergonomiche (ad esempio potenziamento della dotazione, degli automatismi tecnologici, progettazione ergonomica dell’ambiente e dei processi di lavoro, ecc.)
  • misure organizzative/procedurali sull’attività lavorativa (ad esempio orario sostenibile, alternanza di mansioni nei limiti di legge e contratti, riprogrammazione attività, definizione di procedure di lavoro, informazione, formazione e addestramento, ecc.)
  • misure di revisione della politica aziendale (ad esempio azioni di miglioramento della comunicazione interna, della gestione, delle relazioni, della consultazione, ecc.)

 

Le misure preventive e protettive rivolte agli aspetti tecnici/tecnologici, ambientali e umani, non saranno del tutto efficaci se non integrate da altri interventi che chiameremo “trasversali” o “organizzativi”, non limitati agli argomenti approfonditi in precedenza: infortuni stradali, in itinere o meno; cadute; aggressioni e colluttazioni.

Si tratta, ad esempio, delle seguenti azioni:

  • gestione del programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza;
  • gestione delle misure di emergenza sia all’interno che all’esterno;
  • gestione della sorveglianza sanitaria: definizione dei protocolli da parte del Medico Competente, specifiche tutele per le lavoratrici madri, ecc.;
  • gestione delle attrezzature di lavoro (auto, moto, macchine in generale e altre attrezzature): disponibilità, manutenzione, equipaggiamento, ecc;
  • gestione dei Dispositivi di Protezione Individuali (DPI): criteri di scelta e di utilizzo, acquisto, distribuzione, ripristino in caso di usura, addestramento all’uso, controllo sull’uso effettivo;
  • informazione, formazione e addestramento;
  • gestione delle relazioni con le figure previste dal D.Lgs. 81/08 come il Medico Competente e il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza: pareri, consultazioni e riunione annuale di sicurezza ex articolo 35 del D.Lgs. 81/08;
  • gestione delle segnalazioni di lavoratori e preposti.

 

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SICUREZZA DELLE MACCHINE: I DISPOSITIVI DI COMANDO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

11 marzo 2016

 

Un progetto si sofferma sulla sicurezza delle macchine nell’industria metalmeccanica. Focus sui dispositivi di comando: avviamento, azione mantenuta, comando di arresto, arresto di emergenza e selettore modale di funzionamento.

 

Perché le macchine siano sicure per gli operatori è importante, oltre all’eventuale presenza di ripari, di dispositivi di sicurezza e al rispetto di idonee distanze, che i vari sistemi di comando permettano di evitare l’eventuale insorgere di situazioni pericolose.

 

Ci soffermiamo sui dispositivi di comando con riferimento specifico alle macchine utilizzate nel comparto metalmeccanico e al documento “ImpresaSicura Metalmeccanica” correlato a Impresa Sicura, un progetto multimediale (elaborato da Enti Bilaterali Marche, Enti Bilaterali Emilia Romagna, Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e INAIL) che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come buona prassi nella seduta del 27 novembre 2013.

 

Nel documento si ricorda che i dispositivi di comando costituiscono l’elemento attraverso il quale l’operatore attiva o disattiva le funzioni della macchina.

E questi dispositivi sono normalmente costituiti da un organo meccanico che a volte interviene direttamente su organi di trasmissione del moto della macchina (ad esempio leva di innesto rotazione mandrino del tornio) e a volte agisce invece sulla circuitazione elettrica/elettronica, pneumatica o idraulica (ad esempio comando a due mani di pressa idraulica).

 

Il documento riporta le caratteristiche generali dei dispositivi di comando che devono essere:

  • chiaramente visibili e con la chiara indicazione (ad esempio tramite marcatura, descrizione completa, pittogramma) del tipo di azione che si va a comandare;
  • situati fuori dalle zone pericolose;
  • protetti contro il rischio di azionamento accidentale se ciò comporta un rischio (ad esempio pulsante con guardia, pedale con protezione superiore e/o azionamento complesso, leva con movimento articolato);
  • disposti in modo tale che l’operatore addetto al comando sia in grado di verificare l’assenza di persone dalle zone di rischio.

 

Sono riportate poi altre caratteristiche dei dispositivi di comando:

  • disposti in modo da garantire una manovra sicura, univoca e rapida;
  • installati in modo tale che il movimento del dispositivo di comando sia coerente con l’azione del comando;
  • posizionati in modo che la loro manovra non causi rischi supplementari;
  • dotati di grado di protezione IP, contro la penetrazione di polvere o acqua, idoneo e compatibile con le condizioni ambientali;
  • sufficientemente robusti; particolare attenzione deve essere dedicata ai dispositivi di arresto di emergenza che possono essere soggetti a grossi sforzi.

Il documento, con riferimento alla norma CEI EN 60204, si sofferma su vari aspetti e comandi.

 

Riguardo all’avviamento, ossia all’inizio di un ciclo o di una funzione di lavoro, si indica che deve essere possibile soltanto se tutte le funzioni di sicurezza e le misure di protezione sono presenti e funzionanti. Per avviamento si intende anche la rimessa in marcia dopo un qualunque arresto. L’avviamento di una macchina deve essere possibile soltanto agendo volontariamente su un dispositivo di comando appositamente predisposto.

 

E gli organi di comando (pulsanti, pedali, leve, ecc.) dei dispositivi di avviamento devono essere protetti contro il rischio di azionamento accidentale o involontario (ad esempio pulsante con guardia, pedale con protezione superiore e/o azionamento complesso, leva con movimento articolato). Tale requisito non è necessario quando l’avviamento non presenta alcun rischio per le persone. Se la presenza di più dispositivi di comando dell’avviamento può comportare un rischio reciproco per gli operatori addetti, si deve garantire che uno solo di questi sia attivato mediante ad esempio dispositivi di convalida, selettori, ecc. Gli organi di comando dei dispositivi di avviamento devono essere individuabili anche attraverso apposita colorazione (codifica cromatica).

 

Sempre riguardo all’avviamento e con particolare riferimento all’avviamento di macchine complesse, si segnala che dal posto di comando l’operatore deve essere in grado di accertare l’assenza di persone dalle zone di rischio. Se ciò non fosse possibile ogni messa in marcia deve essere preceduta da un segnale di avvertimento sonoro e/o visivo e le persone esposte devono avere il tempo di sottrarsi al pericolo o avere a portata di mano i mezzi, come un arresto di emergenza, per impedire rapidamente l’avviamento della macchina.

 

Il documento si sofferma anche sull’azione mantenuta.

Infatti i dispositivi di comando ad azione mantenuta avviano e mantengono una determinata funzione della macchina solo se azionati continuativamente dall’operatore. Al loro rilascio la funzione comandata si arresta automaticamente.

In particolare per le macchine (per esempio macchine mobili o portatili) sulle quali non è possibile ottenere una completa protezione delle parti pericolose, il comando manuale di azionamento deve avvenire mediante dispositivi ad azione mantenuta. I dispositivi di comando ad azione mantenuta trovano applicazione anche sulle macchine ove per operazioni di messa a punto, manutenzione, cambio lavorazione, ecc, è necessario rimuovere o disabilitare un riparo o un dispositivo di sicurezza. In tal caso la sicurezza dell’operatore deve essere ottenuta adottando oltre al comando ad azione mantenuta, altre misure di sicurezza.

Nel documento di ImpresaSicura sono riportate anche le indicazioni su cosa sia necessario garantire quando il comando ad azione mantenuta è attivato in seguito alla rimozione o disattivazione di funzioni di sicurezza o misure di protezione.

 

Veniamo al comando di arresto, il comando attraverso il quale si ottiene il fermo di una macchina o di una parte di essa.

La pubblicazione segnala che ogni macchina deve essere munita di almeno un dispositivo di comando che consenta l’arresto generale in condizioni di sicurezza. E in presenza di più postazioni di lavoro ognuna di queste deve essere munita di un dispositivo di comando che, in relazione ai rischi presenti sulla macchina, consenta di arrestare l’intera macchina o una parte di essa, mantenendo le condizioni di sicurezza. Inoltre i dispositivi di arresto devono essere collocati accanto a ogni dispositivo di avviamento. L’ordine di arresto della macchina deve essere prioritario rispetto agli ordini di avviamento.

 

Dopo aver elencato tre categorie per le funzioni di arresto e l’arresto per le postazioni di comando mobili senza fili, il documento si sofferma sull’arresto di emergenza.

L’arresto di emergenza è un dispositivo di sicurezza che assicura, una volta azionato, il fermo nel minor tempo possibile degli elementi pericolosi di una macchina. La funzione di arresto d’emergenza è destinata a evitare o ridurre, al loro sorgere, i pericoli per le persone (normale funzionamento, disfunzioni, guasti, errori umani, ecc.), i danni alle macchine o alle lavorazioni in corso.

Ogni macchina deve essere munita di uno o più dispositivi di arresto di emergenza. E ogni dispositivo deve essere attivabile mediante una singola azione umana e deve avere le seguenti caratteristiche:

  • il dispositivo di arresto d’emergenza deve essere chiaramente individuabile, ben visibile e rapidamente accessibile;
  • una volta azionato, l’arresto di emergenza deve restare inserito;
  • deve essere possibile disinserirlo solo mediante una manovra adeguata (riarmo);
  • il riarmo dell’arresto di emergenza non deve avviare nuovamente la macchina, ma solo consentirne il riavvio mediante l’apposito comando;
  • l’azionamento del comando provoca l’arresto del processo pericoloso nel tempo più breve possibile, senza creare rischi ulteriori.

 

Riguardo al suo utilizzo si sottolinea poi che il dispositivo di arresto d’emergenza non può essere utilizzato in alternativa a una protezione (riparo o dispositivo di sicurezza), ma può essere utilizzato solo come misura supplementare. Quando un dispositivo di comando d’arresto d’emergenza può essere facilmente disconnesso (ad esempio pulsantiera portatile collegata mediante presa a spina) o quando una parte di macchina può essere isolata dalle restanti, occorre prendere provvedimenti per evitare la possibilità di confondere i dispositivi di comando d’arresto d’emergenza attivi da quelli inattivi.

Si ricorda che il comando di arresto d’emergenza deve essere mantenuto efficiente e perfettamente funzionante tramite apposita e programmata manutenzione. E la verifica del corretto funzionamento deve essere effettuata all’inizio di ogni turno di lavoro e sempre dopo interventi di manutenzione, regolazione, pulizia, ecc., che coinvolgono la macchina, prima di riprendere il normale ciclo di produzione.

 

Riguardo alla funzione di arresto d’emergenza riprendiamo brevemente le caratteristiche generali del dispositivo:

  • il dispositivo di arresto d’emergenza deve essere in grado di sopportare forti sollecitazioni causate dal suo azionamento in caso di emergenza;
  • deve essere disponibile e operante in qualsiasi momento indipendentemente dal modo operativo (ciclo manuale, ciclo automatico, comando diretto, ecc);
  • deve avere la priorità sugli altri comandi;
  • non deve generare pericoli aggiuntivi;
  • può eventualmente avviare, o permettere di avviare, alcuni movimenti di salvaguardia;
  • l’inversione o la limitazione del moto, la deviazione, la schermatura, la frenatura, il sezionamento, ecc. possono far parte della funzione di arresto d’emergenza (movimenti di salvaguardia);
  • non deve compromettere l’efficacia dei dispositivi di sicurezza o di dispositivi con funzioni condizionanti la sicurezza (dispositivi di frenatura, dispositivi magnetici di trattenuta, ecc.);
  • il dispositivo di comando e il relativo attuatore devono operare secondo il principio dell’azione meccanica positiva;
  • dopo il suo azionamento, il dispositivo di arresto d’emergenza deve operare in modo tale che il pericolo sia evitato o ridotto all’origine automaticamente nel miglior modo possibile (scelta del grado di decelerazione, scelta della categoria di arresto ecc.);
  • l’azione sull’attuatore che provoca l’intervento del comando di arresto d’emergenza deve determinare anche il bloccaggio dell’attuatore stesso in modo che, quando termina l’azione sull’attuatore, il comando di arresto d’emergenza rimanga trattenuto finché non sia intenzionalmente ripristinato (sbloccaggio dell’attuatore);
  • non deve essere possibile avviare il moto pericoloso fino a che tutti gli attuatori di comando azionati non sono stati ripristinati manualmente, singolarmente ed intenzionalmente.

 

Ricordando che il documento si sofferma anche sul posizionamento, forma e colore degli attuatori (pulsanti, pedali, barre, funi, …) e sulle caratteristiche di funzionamento dei dispositivi di arresto d’emergenza, concludiamo questa presentazione dei dispositivi di comando soffermandoci sul selettore modale di funzionamento.

 

Infatti ogni macchina può avere uno o più modi di funzionamento (manuale, automatico, azionamento con pedale, azionamento con comando a due mani, ecc.) determinati dalle caratteristiche della macchina stessa o semplicemente dalle sue applicazioni. Quando la selezione del modo di funzionamento modifica le condizioni di sicurezza della macchina, tale selezione deve avvenire mediante un selettore modale.

 

In particolare il selettore modale può essere azionato mediante una chiave oppure tramite un codice d’accesso. Tuttavia si ricorda che la chiave o il codice di accesso per l’attivazione del selettore modale devono essere disponibili solo per il personale addestrato e autorizzato a modificare i modi di funzionamento della macchina. E durante il normale uso produttivo le chiavi non devono restare inserite nel selettore, bensì conservate dai preposti individuati.

 

L’accesso via internet al sito “Impresa Sicura” è gratuito e avviene tramite una registrazione all’indirizzo:

http://impresasicura.org/ita/pages/home.php

 

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L’OBBLIGO DI VIGILANZA DEL DATORE DI LAVORO O A MEZZO DEL PREPOSTO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

14 marzo 2016

di Gerardo Porreca

 

Secondo una recente Sentenza della Corte di Cassazione, al di là di una eventuale e imprevedibile negligenza o imprudenza dei lavoratori nello svolgimento della loro mansione, il datore di lavoro deve controllare personalmente o a mezzo dei preposti che le lavorazioni avvengano in sicurezza.

 

Una Sentenza questa nella quale la Suprema Corte richiama gli obblighi di vigilanza e di controllo da parte del datore di lavoro e del preposto sul comportamento che il lavoratore tiene nello svolgimento della propria attività nonché l’obbligo da parte dello stesso datore di lavoro di disporre e pretendere che i lavoratori rispettino le disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro.

Nella stessa Sentenza viene ribadito, altresì, il principio ormai consolidato della giurisprudenza in materia di salute e sicurezza sul lavoro in base al quale il sistema prevenzionistico mira a tutelare il lavoratore anche in ordine a incidenti che possono derivare da una sua negligenza, imprudenza e imperizia per cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore stesso sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e quindi al di fuori di ogni prevedibilità o quando il suo comportamento, pur rientrando nelle mansioni che gli sono proprie, sia consistito in qualcosa di radicalmente e ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e quindi prevedibili imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del suo lavoro.

 

La Corte d’Appello ha confermato la Sentenza con la quale il Tribunale ha condannato l’amministratore unico e responsabile tecnico di una ditta esercente l’attività di installazione, ampliamento, trasformazione e manutenzione di impianti di produzione, trasporto, distribuzione ed utilizzazione dell’energia elettrica, alla pena ritenuta di giustizia per il reato di cui all’articolo 590, commi 1 e 3 del Codice Penale per aver, in qualità di datore di lavoro, cagionato a un lavoratore dipendente della ditta stessa lesioni personali gravi consistenti nell’ematoma epidurale traumatico, dalle quali è derivata una malattia della durata di sessantaquattro giorni, per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. In particolare per avere omesso, in relazione all’attività di stesura dei cavi elettrici all’interno di una canalina metallica eseguita presso un cantiere e in violazione dell’articolo 35, comma 4, del D.Lgs. 626/94 e dell’articolo 52, comma 7, del D.P.R. 164/56, di prendere le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro fossero utilizzate correttamente.

La colpa addebitatagli è consistita, nello specifico, nel non avere disposto e preteso che nessun operatore stazionasse sul piano in quota del trabattello, di fatto impiegato per portarsi in quota durante le operazioni di stesura di cavi elettrici suddette, durante gli spostamenti di tale attrezzatura da una postazione a un’altra, stante il rischio di ribaltamento connesso a tale operazione.

Il giorno dell’infortunio, in particolare, era successo che mentre il lavoratore infortunato era rimasto posizionato sul piano in quota del ponteggio su ruote un suo collega aveva spostata l’attrezzatura stessa verso una nuova posizione di lavoro, spingendola manualmente, allorquando improvvisamente, a causa di uno spacco nel pavimento, il trabattello si è ribaltato determinando la caduta a terra del lavoratore su di esso posizionato che ha riportate così le sopradescritte conseguenze lesive.

 

Avverso la predetta decisione della Corte di Appello l’imputato ha ricorso per Cassazione personalmente deducendo una inosservanza e una erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione. Il ricorrente ha messo in evidenza da una parte che il lavoratore era stato preventivamente e perfettamente formato e istruito e dall’altra che il suo comportamento imprudente sarebbe stato tale da interrompere il nesso di causalità.

 

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione. Con riferimento alla motivazione legata alla formazione del lavoratore la Corte suprema ha fatto rilevare che l’omissione formativa non era oggetto di contestazione, essendo stato invece addebitato al datore di lavoro di aver autorizzato l’esecuzione di operazioni lavorative in altezza, senza premurarsi di controllare personalmente o a mezzo del preposto che le stesse avvenissero in sicurezza.

Quanto al comportamento imprudente del lavoratore che, secondo l’imputato, avrebbe dovuto scendere dal trabattello e spostarlo per poi risalirvi in tutta sicurezza, la Sezione IV ha messo in evidenza che la Corte Territoriale aveva ritenuto che l’imputato, in quanto titolare dell’obbligo di protezione dell’incolumità e della vita dei propri dipendenti, avrebbe dovuto comunque inibire quel comportamento e ha ritenuto che la condotta del lavoratore non potesse essere considerata estranea alle mansioni alle quali era stato adibito.

 

La Corte Suprema ha messo in evidenza quindi che la Sentenza impugnata ha fatto buon governo del principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di Legittimità in base al quale “il sistema prevenzionistico mira a tutelare il lavoratore anche in ordine a incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza e imperizia, per cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento imprudente del lavoratore sia stato posto in essere da quest’ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli (e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro) o rientri nelle mansioni che gli sono proprie, ma sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro”.

La Sezione IV ha rimarcato, altresì, come non fosse emersa alcuna estraneità del comportamento del lavoratore rispetto alle mansioni che di fatto gli erano state affidate. Di qui il rigetto del ricorso e la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali.

 

La Sentenza n. 47742 del 2 dicembre 2015 della Corte di Cassazione Penale è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14382:2015-12-03-16-01-54&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

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COSA RISCHIANO LE AZIENDE SE LA FORMAZIONE EROGATA NON E’ IDONEA?

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

15 marzo 2016

di Tiziano Menduto

 

Nelle aule di tribunale si valuta la presenza, la qualità e l’efficacia della formazione alla sicurezza erogata? Cosa rischiano le aziende che si affidano a percorsi formativi inidonei o non conformi alla legge? Ne parliamo con l’avvocato Rolando Dubini.

 

Continua l’inchiesta che PuntoSicuro sta conducendo da qualche mese sulla formazione alla sicurezza in Italia approfondendo con diversi articoli, interviste e contributi, criticità e carenze. Una formazione che è piena di chiaroscuri, di buoni strumenti formativi, ma anche di percorsi inefficaci e, a volte, non conformi alla legge.

 

Una situazione in cui la Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP), come ha sottolineato in un documento presentato a dicembre, rileva “ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla formazione con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non qualificati e la vendita di corsi in formazione a distanza privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti pertinenti”.

 

A tale riguardo abbiamo intervistato uno degli avvocati che in questi anni si sono più occupati di diritto penale del lavoro e dei temi relativi alla responsabilità amministrativa (D.Lgs. 231/01), Rolando Dubini. Un avvocato che i nostri lettori conoscono molto bene non solo per le sue pubblicazioni, ma anche per i suoi numerosi articoli su PuntoSicuro.

 

PUNTO SICURO

Nei processi conseguenti ad eventi infortunistici nei luoghi di lavoro si affronta in aula il tema della formazione? Ad esempio ci si chiede sempre se un comportamento insicuro da parte di un lavoratore non dipenda in realtà da una carenza della formazione?

ROLANDO DUBINI

Si, è una domanda fondamentale che viene posta in sede di indagine preliminare dagli ufficiali di polizia giudiziaria della ASL competente; e che nel dibattimento penale è oggetto di ampia trattazione da parte dell’accusa quando carente, da parte della difesa quando adeguata e sufficiente ai sensi dell’articolo 37, comma 1 del D.Lgs. 81/08.

Quel che pesa davvero è la formazione specifica correlata alla mansione e soprattutto alla lavorazione oggetto dell’infortunio.

In particolare gli elementi rilevanti sono la qualificazione professionale e l’esperienza lavorativa dell’infortunato, la chiarezza e leggibilità delle procedure (a questo proposito consiglio di munirle di fotografie che indicano le modalità corrette e le modalità scorrette vietate), il fatto che siano oggetto di formazione specifica (con verifica dell’apprendimento) e che venga fatta vigilanza sul loro rispetto, e vengano adottate misure disciplinari nei confronti di chi contravviene alle norme aziendali di sicurezza.

Va inoltre documentata la presenza dell’interessato ai corsi di formazione. Attenzione: se manca la firma sul registro la formazione non esiste, ed è meglio adottare modalità di identificazione del partecipante. Ad esempio attraverso l’acquisizione di copia del documento d’identità.

 

P.S.

Possiamo dunque dire che nelle aule di tribunale si valuta non solo la presenza/assenza di un percorso formativo, ma anche la qualità o l’efficacia della formazione erogata?

R.D.

La qualità ed efficacia della formazione sono decisive, la difesa cerca di dimostrare che la formazione era idonea a evitare l’infortunio, ma per far ciò è necessario che l’azienda abbia effettivamente provveduto in tal senso.

L’ideale è quando lo stesso infortunato e/o i suoi colleghi testimoni dichiarino di aver ricevuto la formazione e di conoscere le modalità corrette di lavorazione, che indicano nella loro deposizione.

 

P.S.

Quali sono a suo parere le Sentenze più esemplari in materia di formazione?

R.D.

Fondamentale resta quella che afferma che la verifica dell’apprendimento è obbligatoria anche per i lavoratori, e non solo per dirigenti e preposti: la Sentenza della Cassazione Penale Sezione III, n. 4063 del 28 gennaio 2008, consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&task=view&id=916&Itemid=7

La fattispecie riguardava un datore di lavoro rinviato a giudizio e condannato dal Giudice del Tribunale di Brescia per i reati di cui all’articolo 4, comma 2, del D.Lgs. 626/94 [ora articolo 28 del D.Lgs. 81/08] per avere omesso, quale titolare di un laboratorio di confezioni, di effettuare una idonea valutazione dei rischi reali e specifici presenti nell’ambiente di lavoro e legati alle particolari situazioni lavorative, per aver omesso di adottare una collaborazione fattiva con il medico competente e il Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza per la redazione del documento di valutazione dei rischi, per la mancanza di misure di prevenzione da adottare e di un programma per realizzare le stesse, e, testualmente, per aver violato l’obbligo di cui all’articolo 22, comma 1, dello stesso D.Lgs. 626/94 [ora articolo 37 del D.Lgs. 81/08] per non avere progettato e attuato una adeguata attività formativa per tutti i lavoratori, contenente gli obiettivi specifici, la definizione di moduli didattici e gli strumenti per la verifica di apprendimento.

Richiamando la propria giurisprudenza, la Suprema Corte ha costantemente affermato che “In tema di prevenzione di infortuni, il datore di lavoro deve controllare che siano osservate le disposizioni di legge e quelle (procedure e istruzioni operative, oggetto di formazione adeguata e sufficiente), eventualmente in aggiunta, impartite [al lavoratore]; ne consegue che, nell’esercizio dell’attività lavorativa, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di lesione colposa aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche. È infatti il datore di lavoro che, quale responsabile della sicurezza del lavoro, deve operare un controllo continuo e pressante per imporre che i lavoratori rispettino la normativa e sfuggano alla tentazione, sempre presente, di sottrarvisi anche instaurando prassi di lavoro non corrette”.

Secondo la Cassazione, “tali conclusioni si evincono non solo dallo stesso, richiamato dal ricorrente, articolo 4 del D.Lgs. 626/94 [ora articolo 18 del D.Lgs. 81/08], che non pone a carico del datore di lavoro il solo obbligo di allestire le misure di sicurezza, ma anche una serie di controlli diretti o per interposta persona, atti a garantirne l’applicazione, ma soprattutto dalla norma generale di cui all’articolo 2087 Codice Civile, la quale dispone che l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” [Corte di Cassazione Sezione IV, Sentenza n. 39888 del 23 ottobre 2008,]. Si tratta dell’obbligo della massima sicurezza tecnica, organizzativa e procedurale concretamente attuabile.

In base alla mia esperienza, le aziende che hanno adottato sistemi certificati di gestione della sicurezza sul lavoro (ad esempio le British Standard 18001/2007) sono spesso quelle meglio attrezzate a erogare, anche attraverso enti esterni, e ove consentito con modalità on-line efficaci, formazione adeguata e sufficiente e a controllare affinché detta educazione alla sicurezza non resti inapplicata.

 

P.S.

E più in generale qual è oggi l’orientamento giurisprudenziale riguardo al valore causale della formazione in un evento incidentale?

R.D.

Ad esempio la Sentenza del 2008 che ho in precedenza richiamato chiarisce che l’errata e o insufficiente e incompleta valutazione dei rischi produce una errata percezione del rischio, e in caso di formazione trasferisce informazioni errate e non educa adeguatamente alla sicurezza l’operatore.

E in ogni caso si ribadisce che occorre la verifica dell’apprendimento, la cui miglior dimostrazione è data in dibattimento quando i testimoni, e/o l’interessato, come abbiamo già detto, dichiarano di conoscere le modalità corrette di lavoro, oppure hanno sottoscritto per accettazione l’istruzione operativa pertinente.

 

P.S.

Veniamo ad alcuni aspetti pratici. Quali sono gli elementi che la polizia giudiziaria valuta per comprendere la qualità della formazione erogata in azienda? Sono valutati solo gli aspetti documentali?

R.D.

In realtà viene valutato tutto. Ad esempio si valuta:

  • la qualificazione professionale dell’infortunato;
  • l’esperienza lavorativa;
  • l’avvenuta formazione dell’infortunato, e dei colleghi che svolgono la stessa mansione;
  • la qualità della formazione, il contenuto;
  • i registri di presenza;
  • la verifica dell’apprendimento e in particolare i controlli post formazione sull’applicazione delle regole prevenzionistiche trasmesse.

Chiaramente la documentazione deve essere a posto, e di qualità, per consentire prima la prevenzione e poi la difesa.

 

P.S.

Concludiamo questa breve intervista indicando quali sono oggi, a suo parere, le principali deviazioni dell’offerta formativa in Italia.

R.D.

Esistono significative zone oscure, venditori di certificati, venditori di formazione di bassa qualità, proposte di formazione on-line anche in casi non consentiti dalla legge, fino a vere e proprie truffe formative.

Il datore di lavoro dovrebbe richiedere una dichiarazione scritta dall’ente formatore dove questo dichiari la conformità alle norme vigenti della formazione erogata, e l’assunzione di responsabilità in caso di difformità.

Ed è bene controllare anche le referenze…

 

P.S.

E quali potrebbero essere delle soluzioni per evitare queste deviazioni?

R.D.

Ad esempio una maggior chiarezza degli Accordi Stato-Regioni in materia, con definizione dei modelli di modulistica consentita dalla legge, e l’eliminazione di ogni forma di ambiguità e incertezza in materia: una cosa fattibile… Il non volerla realizzare, come accaduto fino ad oggi, dimostra il disinteresse di chi governa per questa delicata materia che attiene l’integrità psicofisica di tutti coloro che frequentano i luoghi di lavoro.

Includerei, ora come ora, anche l’obbligo di inviare alla ASL competente copia dell’offerta formativa elaborata dagli enti, per conoscenza. Cosa che forse scoraggerebbe le situazioni più truffaldine.

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.247 DEL 11/03/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.247 DEL 11/03/16

 

INDICE

  • Adeguamento di macchine marcate CE alla normativa tecnica di riferimento
  • CGIL Catania: con le modifiche del Jobs Act aumentano i rischi per la sicurezza
  • Ambienti confinati: quali sono i rischi?
  • Il luogo di lavoro e la garanzia delle sue condizioni di sicurezza
  • Prevenzione di molestie e violenze: cosa cambia nei luoghi di lavoro?
  • L’esposizione femminile a stress, violenze e stalking

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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ADEGUAMENTO DI MACCHINE MARCATE CE ALLA NORMATIVA TECNICA DI RIFERIMENTO

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.72

 

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti dei lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

 

 

QUESITO

 

Salve ing.,

volevo chiederle un informazione/parere sulla seguente questione.

 

L’azienda dove lavoro possiede una macchina del 2000 marcata CE (automezzo con compattatore rifiuti a carico posteriore). La parte del compattatore è una macchina conforme alla Direttiva Macchine e conforme alla norma tecnica di riferimento del momento.

Oggi però gli stessi mezzi sono conformi alla Direttiva Macchine e alla norma UNI EN 1501, che prevede come dispositivi di sicurezza per esempio: il limitatore di velocità (a 30 km/h) con l’uomo in pedana, blocco della retromarcia con uomo in pedana (tranne manovre di emergenza), telecamera per l’autista ecc..

Queste predisposizioni non erano obbligatorie nei mezzi più vecchi (comunque marcati CE), per esempio il mezzo di cui parlavo all’inizio era dotato di cintura di trattenuta per l’uomo in pedana, ma non di limitatore di velocità.

 

Ora la mia domanda è la seguente.

La macchina del 2000 marcata CE, conforme alla Direttiva Macchine e alla norma tecnica dell’epoca, deve essere adeguata ai dispositivi di sicurezza previsti oggi (norma UNI EN 1501)?

Oppure essendo marcata CE deve essere usata conformemente al libretto d’uso e manutenzione del costruttore e mantenuta per come è stata realizzata?

Dalla mia esperienza in questo campo, mentre è chiaro che se una macchina è antecedente alla prima Direttiva Macchina (quindi senza marcatura CE) è obbligatorio adeguarla all’allegato V del D.Lgs 81/08 e comunque adeguarla allo stato dell’arte di oggi in termini di dispositivi di sicurezza, non mi era mai capitato il caso di una macchina marcata CE (prima Direttiva Macchine), però non in linea con i requisiti di oggi della norma tecnica di riferimento (UNI EN 1501).

 

In attesa di un suo riscontro, la saluto cordialmente.

 

 

RISPOSTA

 

Prima di ogni altra considerazione andrebbe fatta una verifica sulla data di immissione sul mercato del Veicolo Raccolta Rifiuti (VRR) di cui stai parlando.

Infatti nel 2000 esisteva già la norma armonizzata per VRR EN 1501-1:1998 “Refuse collection vehicles and their associated lifting devices – General requirements and safety requirements – Rear-end loaded refuse collection vehicles” (del marzo 1998) che venne recepita in Italia il 30/01/00 dalla norma UNI EN 1501-1:2000 “Veicoli raccolta rifiuti e relativi dispositivi di sollevamento – Requisiti generali e di sicurezza – Veicoli raccolta rifiuti a caricamento posteriore”.

 

Tale norma prevedeva già la limitazione di velocità a 30 km/h e l’inibizione della retromarcia con pedane occupate.

Infatti il punto 6.6.4.3 della norma (versione italiana) specificava che:

Se qualcuno è presente sulle pedane deve essere automaticamente impedito:

  • viaggiare ad oltre 30 km/h;
  • viaggiare in retromarcia.

Deve essere fornito un comando addizionale che permette di inserire ugualmente la retromarcia in caso di emergenza dovuta al traffico stradale.

Questo comando di emergenza deve essere posizionato in modo tale che l’autista lo possa raggiungere facilmente dalla posizione di guida. Tale comando di emergenza deve inoltre disabilitare sia il meccanismo di compattazione che il dispositivo di sollevamento (alza-voltacontenitori) e richiede di dover essere ripristinato tramite chiave prima che il meccanismo di compattazione o il dispositivo di sollevamento possano essere riavviati. La chiave di ripristino deve essere custodita separatamente da quella del VRR”.

 

Quindi già un VRR del 2000 doveva essere immesso sul mercato con riferimento alla norma armonizzata sopra citata.

Tieni conto però che secondo Direttiva Macchine (sia la 98/37/CE, sia la 2006/42/CE) il costruttore non è obbligato a seguire integralmente le norme armonizzate relative alle macchine che lui vuole immettere sul mercato, non avendo tali norme carattere di cogenza, ma solo di guida.

Il rispetto di tutti i punti di una norma armonizzata, dà infatti automaticamente “presunzione di

conformità” a tutti i requisiti di salute e di sicurezza di cui all’Allegato I della Direttiva Macchine, requisiti questi ultimi che sono invece obbligatori.

 

Infatti l’articolo 3 della Direttiva 98/37/CE impone che:

Le macchine e i componenti di sicurezza ai quali si applica la presente Direttiva devono rispondere ai requisiti essenziali ai fini della sicurezza e della tutela della salute di cui all’allegato I”;

mentre relativamente alle norme armonizzate tale Direttiva specifica, all’articolo 5, comma 2, che:

Se una norma nazionale che traspone una norma armonizzata il cui riferimento sia stato oggetto di una pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee comprende uno o più requisiti essenziali di sicurezza, la macchina o il componente di sicurezza costruito conformemente a detta norma è presunto conforme ai requisiti essenziali di cui trattasi”.

Analogamente l’articolo 5, comma 1, lettera a) della Direttiva 2006/42/CE impone che:

Il fabbricante o il suo mandatario, prima di immettere sul mercato e/o mettere in servizio una macchina si accerta che soddisfi i pertinenti requisiti essenziali di sicurezza e di tutela della salute indicati dall’allegato I”;

mentre l’articolo 7, comma 2 della medesima Direttiva specifica che:

Le macchine costruite in conformità di una norma armonizzata, il cui riferimento è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, sono presunte conformi ai requisiti essenziali di sicurezza e di tutela della salute coperti da tale norma armonizzata”.

 

In sede di procedura di certificazione, che per i VRR (macchina compresa nell’Allegato IV della Direttiva Macchine, in quanto con rischi elevati) prevede il coinvolgimento di un Organismo Notificato che rilasci una Dichiarazione CE di Tipo, il costruttore nel caso non abbia seguito integralmente la norma armonizzata di riferimento deve comunque dimostrare, all’interno della analisi dei rischi contenuta nel Fascicolo Tecnico della macchina, che ha adottato misure di prevenzione e protezione che assicurino requisiti di salute e di sicurezza uguali o maggiori di quelli riportato nella norma armonizzata.

 

In merito al VRR a cui ti riferisci, rimane quindi da capire se esso sia stato immesso sul mercato secondo Direttiva Macchine e/o secondo norma armonizzata EN 1501-1.

In ogni caso, indipendentemente dalla “storia” relativa alla immissione sul mercato di tale attrezzatura, è obbligo per il datore di lavoro, eseguire una specifica valutazione del rischio, relativa al suo utilizzo e a seguito di tale valutazione, definire e applicare adeguate misure di prevenzione e protezione.

Oltre a ciò, se il VRR non è stata immesso sul mercato secondo Direttiva Macchine, il datore di lavoro è obbligato ad adeguarlo almeno ai requisiti di salute e sicurezza di cui all’Allegato V del D.Lgs.81/08.

L’allegato V del D.Lgs,81/08 (come d’altronde l’Allegato I della Direttiva Macchine) è del tutto generico e non entra nel merito delle specifiche soluzioni da adottare, in questo caso, per la sicurezza degli operatori in pedana.

 

In ogni caso, al di là che il VRR sia stato o meno immesso sul mercato secondo Direttiva Macchine e con riferimento alla norma armonizzata EN 1501-1, vale quanto disposto dall’articolo 71, comma 4) lettera a), numero 3) del D.Lgs.81/08, che impone (obbligo sanzionabile per il datore di lavoro):

Il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano assoggettate alle misure di aggiornamento dei requisiti minimi di sicurezza stabilite con specifico provvedimento regolamentare adottato in relazione alle prescrizioni di cui all’articolo 18, comma 1, lettera z)”;

dove l’articolo 18, comma 1, lettera z) del D.Lgs.81/08 impone sempre al datore di lavoro di:

aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione”.

Pur non essendo stato promulgato il “provvedimento regolamentare” citato, vale comunque l’obbligo per il datore di lavoro di adeguare le attrezzature messe a disposizione dei lavoratori all’evolversi della tecnica.

 

L’evoluzione della tecnica ha come riferimento anche le norme armonizzate per le macchine.

Una norma armonizzata risponde infatti alla definizione di “norma tecnica” data dall’articolo 2, comma 1, lettera u) del D.Lgs.81/08:

specifica tecnica, approvata e pubblicata da un’organizzazione internazionale, da un organismo europeo o da un organismo nazionale di normalizzazione, la cui osservanza non sia obbligatoria”.

Tale norma non è cogente, ma fornisce comunque presunzione di adeguatezza al “grado di evoluzione della tecnica”.

Pertanto per il VRR citato, il datore di lavoro dovrà adeguare i dispositivi di sicurezza per gli operatori in pedana, secondo l’attuale norma armonizzata EN 1501-1:2011+A1:2015 oppure mediante soluzioni tecniche e organizzative di pari efficacia.

Ricordo che i requisiti per le pedane stabilite dalla norma citata sono:

  • riconoscimento automatico della presenza di operatore in pedana mediante rilevamento del peso, dello spazio occupato o della posizione della pedana;
  • limitazione della velocità del VRR a 30 km/h con pedane occupate;
  • inibizione della retromarcia del VRR a 30 km/h con pedane occupate;
  • inibizione della movimentazione automatica o semiautomatica del dispositivo di compattazione e di quello per il sollevamento dei contenitori;
  • presenza di sistema di esclusione dei dispositivi di sicurezza di cui sopra in condizioni di emergenza e procedura di reset della durata di 5 minuti dopo la fine dell’esclusione;
  • procedura di inizializzazione del sistema di riconoscimento all’accensione del VRR che senza esito positivo consideri il VRR come se avesse le pedane occupate;
  • presenza in cabina di segnalazione di pedana occupata;
  • presenza di telecamera e di video in cabina per la visualizzazione delle pedane;
  • presenza, in prossimità delle pedane, di pulsante “di chiamata” che attivi un segnale acustico in cabina;
  • realizzazione delle pedane e delle maniglie di presa per gli operatori secondo i requisiti funzionali e geometrici riportati nella norma.

 

L’adeguamento del VRR ai requisiti di cui sopra (e di tutti gli altri contenuti nella citata norma armonizzata), sia per veicoli marcati CE, che per veicoli non marcati, non comporta obbligo di nuova certificazione, ai sensi dell’articolo 71, comma 5 del D.Lgs.81/08 che specifica che:

Le modifiche apportate alle macchine quali definite all’articolo 1, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1996, n. 459 [attualmente articolo 2, comma 2, lettera a) del Decreto Legislativo 27 gennaio 2010, n. 17], per migliorarne le condizioni di sicurezza in rapporto alle previsioni del comma 1, ovvero del comma 4, lettera a), numero 3), non configurano immissione sul mercato ai sensi dell’articolo 1, comma 3, secondo periodo, sempre che non comportino modifiche delle modalità di utilizzo e delle prestazioni previste dal costruttore”.

 

In conclusione, qualunque sia stata la modalità di immissione sul mercato del VRR citato (ante Direttiva Macchine o in Direttiva Macchine), esso deve essere adeguato al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione, secondo quanto contenuto dalla attuale norma EN 1501-1, oppure secondo altre misure di prevenzione e protezione equivalenti.

 

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CGIL CATANIA: CON LE MODIFICHE DEL JOBS ACT AUMENTANO I RISCHI PER LA SICUREZZA

 

Da: Rassegna.it

http://www.rassegna.it

02 marzo 2016

 

In un convegno affrontate tutte le negatività del provvedimento, dallo stop all’obbligo di tenuta del Registro infortuni alla non applicazione delle norme ai lavoratori con i voucher.

Presentato anche il Coordinamento provinciale di RLS e RLST della CGIL

 

Le morti sul lavoro cancellano o compromettono ogni anno la vita di centinaia di lavoratori. Le norme italiane puntano sulla prevenzione, ma la CGIL non ha dubbi: le recenti modifiche del Jobs Act introducono parecchie zone d’ombra. Il sindacato, infatti, disapprova lo stop all’obbligo di tenuta del Registro infortuni, la modifica dell’impianto sanzionatorio, la riduzione dei componenti sindacali in Commissione consultiva, la non applicazione delle tutele ai lavoratori con i voucher, e altri “alleggerimenti” nella fase di formazione che appaiono temibili passi indietro.

 

Il seminario di studio “Dal Testo Unico al Jobs Act, come cambia la legislazione su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”, tenutosi mercoledì 9 febbraio nella Sala Russo della Camera del lavoro di Catania, ha evidenziato i punti chiave delle modifiche.

Numerosi gli intervenuti: il segretario confederale CGIL Catania Claudio Longo (che ha coordinato i lavori), il segretario generale CGIL Catania Giacomo Rota, Massimo Malerba (Dipartimento Salute e sicurezza CGIL Catania), Domenico Amich (direttore Ispettorato provinciale del lavoro), gli ingegneri Enzo Maci e Sebastiano Trapani (anche presidente AIAS), Vincenzo Cubito (direttore Inca CGIL), Vito Leocata (medico legale INCA), l’ingegnere Luigi Di Mauro (Coca Cola), Daniele Maugeri (Report RLST) e il responsabile nazionale del Dipartimento Salute e sicurezza della CGIL Sebastiano Calleri.

 

Di “trend negativo” e “rialzo” delle morti sul lavoro in Italia ha parlato il direttore dell’Ispettorato provinciale del lavoro Domenico Amich. Sono state ben 678 nel 2015, escluse quelle avvenute sulla strada. E se nel febbraio 2015 erano 61 (dati nazionali), nel febbraio 2016 ne sono già state registrate 83.

“Il lavoratore è sempre più ricattato” – ha sottolineato – “Ha sempre meno spazio per rifiutare un lavoro, soprattutto se è avanti negli anni. Le percentuali sono impietose: abbiamo il 37 per cento dei morti in agricoltura, il 23 in edilizia, l’11 nel settore industrie, il 9 nei trasporti e un 20 per cento indifferenziato che va esaminato caso per caso”.

 

L’ingegnere Enzo Maci ha rimarcato che “i punti deboli della sicurezza sono messi in evidenza dagli infortuni che ogni anno vengono riassunti dai dati INAIL”. La cultura della sicurezza “andrebbe iniziata dalla scuola elementare, se non dal nido, per evitare che appunto permangano lacune legislative. Percorsi formativi semplici destinati ai lavoratori sono insufficienti per un’adeguata formazione”.

 

Per la CGIL, il rischio che infortuni e malattie professionali siano destinati ad aumentare è concreto. Ma è stato il responsabile nazionale del Dipartimento Salute e sicurezza della CGIL Sebastiano Calleri a evidenziare almeno quattro punti del Jobs Act che il sindacato giudica “pericolosi”.

“Partirei dal demansionamento” – ha detto Calleri – “Durante le relative procedure, il lavoratore può essere adibito a una nuova produzione o all’uso di una macchina per cui non è stata fatta formazione specifica. Il classico esempio è quello dell’impiegato che viene messo in linea di produzione, operando con mezzi di cui non conosce l’uso”.

 

C’è poi la questione voucher. “Per alcuni dei lavoratori impiegati attraverso questa formula” – ha spiegato – “è prevista la non applicazione delle tutele sullo stato di sicurezza della legislazione conseguente”.

 

Sul fronte della video-sorveglianza, il responsabile CGIL nazionale ha evidenziato come “oggi sia possibile effettuarla senza alcun controllo nei confronti dei lavoratori con gli strumenti, dal tablet al telefonino, messi a disposizione direttamente dall’azienda”.

 

Riguardo l’ultimo aspetto, quello dell’abolizione del Registro infortuni, secondo Calleri “sarà sempre più difficile ricostruire gli incidenti all’interno delle aziende e le storie sanitarie dei lavoratori per riconoscere loro un infortunio o una malattia professionale, anche in relazione agli indennizzi INAIL. Anche questa è una norma da cambiare”.

 

Massimo Malerba, del Dipartimento Salute e sicurezza della CGIL Catania, ha aggiunto che “il Registro infortuni era già stato abolito nel 2008, ma in previsione di introdurre un sistema informatizzato, il SINP, mai avviato”.

“Un’altra criticità” – ha continuato – “è rappresentata dal fatto che, a causa del Jobs Act, i datori di lavoro nelle aziende superiori ai cinque dipendenti possono rivestire il ruolo di addetti alla prevenzione nel sistema di antincendio ed evacuazione. Se ciò andava bene nelle piccole aziende familiari, in quelle medie diventa più complesso”.

 

Infine, le sanzioni: “Sono state alleggerite quelle multiple e quelle relative al lavoro irregolare, salvo che per stranieri e i minori”.

 

Ma il seminario è servito anche a lanciare il Coordinamento provinciale degli RLS e RLST della CGIL.

“Creare il Coordinamento consentirà continuità e costanza nell’azione” – ha concluso il segretario confederale CGIL Catania Claudio Longo – “La situazione oggi ci impone una legge più attenta, meglio ancora rigida. Voglio però lanciare una provocazione: anche se ci fosse la migliore legge del mondo, se non partiamo dal rispetto di una vera cultura sulla sicurezza, sulla prevenzione e sulla salute, ci abituiamo all’idea che tutto quello che diventa legge deve di fatto diventare regola. Se questo non accadrà, vanificheremo qualunque legge”.

 

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AMBIENTI CONFINATI: QUALI SONO I RISCHI?

 

DaArticolo 19 (Città Metropolitana)

http://www.cittametropolitana.bo.it

03 marzo 2016

di Maria Capozzi

 

AMBIENTI CONFINATI: COSA SONO E QUALI LE REGOLE?

 

Qualunque attività comporta rischi propri legati alla natura delle operazioni da svolgere e delle sostanze impiegate. In alcuni casi, però, le stesse attività svolte in condizioni ambientali diverse comportano rischi fondamentalmente diversi. Così è anche le attività degli impiantisti, che possono trovarsi a operare in ambienti difficili, sia per dimensioni e collocazione (ambienti ristretti, difficili da raggiungere, entrata/uscita difficoltose) sia per la possibile presenza di atmosfere pericolose (presenza di gas nocivi, carenza di ossigeno).

 

A semplice titolo esemplificativo, fanno parte degli ambienti confinati o sospetti di inquinamento: vasche, silos, camini, pozzi, cunicoli, canalizzazioni, fogne, serbatoi, condutture, stive, intercapedini, cisterne, autobotti, camere di combustioni, reattori dell’industria chimica.

Diverse sono le tipologie di rischio che possono presentarsi in un ambiente confinato:

  • per mancanza di ossigeno (asfissia) o per eccesso di ossigeno;
  • per inalazione o per contatto con sostanze pericolose, gas, vapori, fumi (intossicazione);
  • per presenza di gas/vapori infiammabili (esplosione o incendio);
  • per contatto con parti a temperatura troppo alta o troppo bassa (ustioni).

 

Sono poi presenti rischi diversi, causati da caduta dall’alto, urti, contatti con parti taglienti, schiacciamenti, scivolamenti, seppellimenti, annegamenti, esposizione ad agenti biologici, contatti con tensione elettrica, intrappolamento, stati emotivi legati ad ambienti chiusi e stretti, ecc.

 

In tali ambienti di lavoro, anche un semplice malore un infortunio di lieve entità può avere complicazioni aggiuntive proprio per la difficoltà a prestare l’adeguato soccorso all’infortunato.

Chi è chiamato a operare in tali ambienti dovrà pertanto possedere maggiori capacità professionali in quanto sarà esposto, sia ai rischi specifici connaturati alla mansione, sia a quelli aggiuntivi derivanti dall’operare in un ambiente confinato.

 

E’ proprio quanto richiede il D.P.R. 177/11, norma di recente emanazione, sulla qualificazione delle imprese e lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

 

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

 

Non è facile orientarsi nell’attuale assetto normativo quando si parla di ambienti confinati.

Infatti non esiste un’unica norma che elenchi quali siano i luoghi di lavoro confinati, né che comprenda tutti gli obblighi di chi si trova a operare in tali realtà. Piuttosto occorre fare una valutazione delle caratteristiche dell’ambiente, delle sue specifiche geometriche e di aereazione, dell’uso che ne viene fatto e di quelli fatti in precedenza, delle eventuali sostanze che contiene.

In generale possiamo dire che le norme che regolamentano la materia appartengono a due tipologie diverse: norme di legge (D.P.R. 177/11; D.Lgs. 81/08, articolo 66, articolo 121 e Allegato IV, Punto 3) e norme tecniche (standard di riferimento, linee guida e procedure).

 

In ogni caso, c’è una comune linea di interpretazione che concorda nel ritenere che uno spazio confinato:

  • è un ambiente con aperture di ingresso uscita limitate;
  • non è un ambiente di lavoro usuale;
  • potrebbe contenere un’atmosfera pericolosa;
  • ha una sfavorevole ventilazione naturale;
  • potrebbe contenere sostanze inquinanti;
  • presenta rischi di sprofondamento/seppellimento;
  • presenta una configurazione interna che potrebbe causare l’intrappolamento del lavoratore;
  • potrebbe comportare, per l’attività svolta, grave rischio per la salute.

 

Prima di consentire l’accesso di lavoratori in un ambiente confinato è necessario valutarne i rischi al fine di determinare le misure di prevenzione e protezione che garantiscano la salute e la sicurezza dei lavoratori.

In linea generale la migliore misura di prevenzione è quella di cercare soluzioni alternative effettuando, se possibile, le operazioni di manutenzione, bonifica, ispezione, evitando l’ingresso dei lavoratori nell’ambiente confinato, anche con l’aiuto della tecnologia disponibile sul mercato.

Ad esempio ricorrendo all’ausilio di telecamere, attrezzature robotizzate, sostituzione del componente, ecc..

 

Qualora ciò non sia possibile è necessario acquisire tutte le informazioni occorrenti sulle caratteristiche dell’ambiente confinato (ad esempio sostanze presenti, utilizzi precedenti, dimensioni e configurazione dei luoghi, collegamenti con altri spazi) e delle attività da effettuare tenendo presente che questi spazi possono essere opportunamente progettati o modificati.

Poiché però può capitare che non ci siano alternative e che si debba comunque operare all’interno di spazi confinati occorre ricordare che, poiché in tali contesti i rischi sono particolari, non tutte le imprese o lavoratori autonomi possono eseguirla, ma devono essere in possesso di particolari requisiti tali da risultare “qualificati”.

La qualificazione delle imprese è una previsione già inserita nell’articolo 6, comma 8, lettera g) e nell’articolo 27 del D.Lgs. 81/08 (Testo Unico Sicurezza), attraverso l’emanazione di appositi Regolamenti. Lo scopo è quello di fare una selezione delle imprese più “virtuose” e pertanto in grado di operare non solo con competenza e professionalità, ma soprattutto in sicurezza.

 

Infatti il D.P.R. 177/11, in vigore dal 23 Novembre 2011, “Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati” dà tutta una serie di indicazioni e parametri che le aziende e i lavoratori autonomi debbono possedere per poter operare in questo settore.

 

QUANDO SI APPLICA LA NORMA?

 

Il Decreto si applica ogni qual volta ci si trova ad operare in ambienti “sospetti di inquinamento di cui agli articoli 66 e 121 del Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81, e negli ambienti confinati di cui all’allegato IV, punto 3, del medesimo Decreto Legislativo”, vale a dire in tutti quei casi (ad esempio silos, cunicoli, pozzi, serbatoi, stive, tubazioni, cabine, pozzetti, cisterne, vasche, ecc.) che, per le caratteristiche sopra indicate, ricadono nella categoria di spazio confinato o sospetto di inquinamento.

 

Proprio perché non esiste un elenco esaustivo di cosa sia e cosa non sia ambiente confinato, anche perché può diventarlo nel corso delle lavorazioni, laddove tale situazione non è evidente, è importante che prima di svolgere il lavoro, venga effettuata una attenta valutazione dei rischi mirata a stabilire se siamo o meno in presenza di attività in ambiente confinato, basandosi su alcuni parametri quali l’analisi delle caratteristiche dei luoghi in cui viene svolta l’attività e dalle modalità di esecuzione.

 

A CHI SI APPLICA LA NORMA?

 

La norma si applica sia a chiunque si trovi ad operare in ambienti confinati o sospetti di inquinamento sia direttamente con proprio personale sia a chi esegue tali lavori in appalto (e relativi subappalti), compresi i lavoratori autonomi.

Nel caso delle imprese che esternalizzano tali lavorazioni restano comunque in capo al committente alcuni specifici obblighi.

 

Un utile strumento per meglio capire come operare negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati è rappresentato dal “Manuale illustrato per lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati” dell’INAIL approvato dalla Commissione consultiva il 18 aprile 2012.

Tale documento è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/internet/documents/document/ucm_portstg_114857.pdf

 

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IL LUOGO DI LAVORO E LA GARANZIA DELLE SUE CONDIZIONI DI SICUREZZA

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

29 febbraio 2016

di Gerardo Porreca

 

Si intendono per “luoghi di lavoro” i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro ubicati all’interno di un’azienda/unità produttiva nonché ogni altro luogo di pertinenza delle stesse accessibili al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro.

 

E’ importante questa sentenza della Corte di Cassazione in quanto fornisce una interpretazione su quali siano da intendere i “luoghi di lavoro” così come definiti dall’articolo 62 del D.Lgs. 81/08 ai fini dell’applicazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro nello stesso contenute.

Si intendono per “luoghi di lavoro”, ha sostenuto infatti la suprema Corte, i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro ubicati all’interno di un’azienda o di un’unità produttiva della stessa nonché ogni altro luogo di loro pertinenza accessibile al lavoratore nell’ambito della propria attività lavorativa.

La Corte di Cassazione ha inoltre sottolineato che ai fini della individuazione dei soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio quale luogo di lavoro non può prescindere dalla identificazione del plesso organizzativo al quale lo spazio in questione accede così come si ricava dalla definizione del luogo di lavoro che ha dato il legislatore, laddove ha previsto un collegamento di ordine spaziale indicando “l’interno dell’azienda” o almeno pertinenziale tra l’azienda stessa oppure una sua unità produttiva e il luogo di lavoro.

 

L’Amministratore Delegato di una società proprietaria di una Galleria commerciale ha ricorso, a mezzo dei difensori, avverso una sentenza della Corte di Appello con la quale la stessa, confermando quella pronunciata dal Tribunale, lo ha condannato alla pena ritenuta equa, giudicandolo responsabile dell’infortunio occorso a una lavoratrice dipendente di un negozio di parrucchiera situato nella Galleria stessa e delle conseguenti lesioni personali dalla medesima patite. La lavoratrice, secondo una ricostruzione incontroversa dell’accaduto, nel transitare nell’ingresso dell’edificio che ospitava la Galleria, scivolava sul pavimento parzialmente coperto da tappeti mobili e bagnato per l’acqua caduta dall’ombrello chiuso di una cliente che l’aveva preceduta.

Ad avviso della Corte di Appello l’infortunio si era determinato a causa del mancato apprestamento di una adeguata copertura del pavimento dell’ingresso della Galleria e che, essendo questo da reputarsi “ambiente di lavoro”, competeva quindi all’imputato, in qualità di proprietaria dell’edificio, che non aveva mai delegato ad altri le funzioni in materia di antinfortunistica, di provvedere a porre in sicurezza il pavimento dell’ingresso.

 

Con il ricorso in Cassazione l’imputato ha addotto in particolare un vizio motivazionale e una violazione di legge in relazione alla ritenuta aggravante dell’aver commesso il fatto con violazione di norme per la prevenzione degli infortuni non essendo esso il datore di lavoro dell’infortunata che era invece dipendente dell’esercente del negozio di parrucchiere.

L’imputato ha messo in evidenza, altresì, che non sussistendo alcun rapporto di appalto tra la società proprietaria della Galleria e l’esercente dell’attività di parrucchiere, che aveva preso in locazione alcuni locali all’interno delle Galleria stessa, non andava applicato neanche l’articolo 26 del D.Lgs. 81/08 e non incombevano quindi su di esso i doveri in materia di coordinamento che la norma pone in capo al datore di lavoro committente.

L’imputato ha sostenuto ancora che, non sussistendo conseguentemente l’aggravante dell’aver commesso il fatto con violazione di norme per la prevenzione degli infortuni, il reato era procedibile a querela, nella fattispecie non proposta, aggiungendo che il luogo dell’infortunio non poteva essere definito “ambiente di lavoro”, ai sensi e per gli effetti degli articoli 63 e 64 del D.Lgs. 81/08.

 

E’ del tutto incontroverso, ha sostenuto la suprema Corte di Cassazione, che l’imputato era Amministratore Delegato della società proprietaria dei locali che costituivano il Centro commerciale e che gli stessi erano concessi in locazione alle diverse imprese che avevano deciso di operare nello stesso così come incontroverso era che l’infortunata non fosse alle dipendenze della società che amministrava la Galleria.

 

Con riferimento alla figura del datore di lavoro, ha precisato la Corte di Cassazione, già la nozione normativa di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 81/08, incardinandosi sulla titolarità di poteri decisionali e di spesa e sulla connessa responsabilità dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha evidenziata la necessità di limitare lo sguardo ricognitivo al perimetro di una determinata organizzazione imprenditoriale della quale va ricostruita la catena gestionale.

Detto altrimenti, ha precisato la suprema Corte, nell’accertamento della esistenza di una concreta posizione di garanzia, premessa dell’attribuzione di uno specifico evento concreto, non interessa un qualsiasi soggetto datore di lavoro, ma colui che ne reca le attribuzioni in riferimento alla determinata organizzazione imprenditoriale nel cui ambito presta la propria attività il lavoratore infortunatosi.

 

“A mente dell’articolo 62 del D.Lgs. 81/08” – ha quindi sostenuto la Suprema Corte – “si intendono per luoghi di lavoro i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro”.

La Corte di Cassazione ha inoltre ritenuto opportuno rimarcare che “ai fini della individuazione dei soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio quale luogo di lavoro non può prescindere dalla identificazione del plesso organizzativo al quale lo spazio in questione accede” e ciò si ricava proprio dalla definizione che il legislatore ha voluto dare di un luogo di lavoro, laddove ha previsto un collegamento di ordine spaziale (“all’interno dell’azienda”) o almeno pertinenziale tra l’azienda o l’unità produttiva e il luogo di lavoro stesso, e lo implica la logica stessa della normativa prevenzionistica che attribuisce obblighi di sicurezza a colui che é titolare di poteri organizzativi e decisionali che trovano nei luoghi di lavoro l’ambito spaziale e funzionale di estrinsecazione.

 

La Suprema Corte ha quindi puntualizzato che “proprio ogni tipologia di spazio può assumere la qualità di luogo di lavoro a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro o esso sia accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro” e che in particolare “può trattarsi anche di un luogo nel quale i lavoratori si trovino esclusivamente a dover transitare, se tuttavia il transito é necessario per provvedere alle incombenze loro affidate”.

La Corte di Cassazione ha ricordato che già in passato la stessa ha avuto modo di esprimersi in tal senso in una precedente Sentenza (Sentenza n. 28780 del 19/05/11) allorquando, in occasione di infortunio verificatosi su una strada pubblica e aperta al pubblico transito, esterna a un cantiere, ha formulato il principio per il quale nella nozione di “luogo di lavoro”, rilevante ai fini della sussistenza dell’obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra non soltanto il cantiere, ma anche ogni altro luogo in cui i lavoratori siano necessariamente costretti a recarsi per provvedere a incombenze inerenti all’attività che si svolge nel cantiere stesso.

 

Per contro, e qui la suprema Corte ha individuata una grave lacuna motivazionale nella Sentenza impugnata “Non può parlarsi di luogo di lavoro (da preferirsi in questo caso alla locuzione utilizzata dalla Corte di Appello di ambiente di lavoro) solo sul presupposto che un qualsiasi soggetto, che é anche prestatore d’opera in favore di taluno, vi si trovi a transitare. Va ribadita la stretta correlazione che esiste tra la nozione di luogo di lavoro e la specifica organizzazione imprenditoriale alla quale questo accede in funzione servente; correlazione che deriva dalla necessità che si tratti di ambito spazio-funzionale sul quale possano e debbano estendersi i poteri decisionali del vertice della compagine”.

Può quindi, ha sostenuto la Corte di Cassazione, essere formulato il seguente principio di diritto: “In materia di responsabilità per violazioni delle norme antinfortunistiche, il datore di lavoro obbligato al rispetto delle prescrizioni dettate dal Titolo II del D.lgs. 81/08 per la sicurezza dei luoghi di lavoro va identificato in colui che riveste tale ruolo nell’organizzazione imprenditoriale alla quale accede il luogo di lavoro medesimo”.

 

Alla luce di tale puntualizzazione risulta chiaro, secondo la Corte di Cassazione, che l’attribuzione al ricorrente di una posizione di garanzia tra quelle definite dalla normativa prevenzionistica, e segnatamente quella di datore di lavoro, avrebbe richiesto la preliminare qualificazione dell’area di ingresso del Centro commerciale come luogo di lavoro della società proprietaria. In caso contrario un eventuale obbligo di assicurarsi della non pericolosità dell’area si sarebbero potuti far discendere unicamente dalla proprietà degli spazi con esclusione, quindi, della violazione di obblighi datoriali e procedibilità a querela del reato.

La Suprema Corte ha quindi voluta fare una puntualizzazione in merito alla possibilità che anche una persona estranea all’organigramma dell’impresa, come era la lavoratrice infortunata rispetto alla società proprietaria della Galleria, potesse beneficiare della tutela apprestata dalla normativa prevenzionistica non essendo la qualità di persona estranea all’ambito imprenditoriale di per sé incompatibile con l’esistenza di un dovere di sicurezza da parte del datore di lavoro.

 

Per le suindicate motivazioni, quindi, la Corte di Cassazione ha annullata la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello perché accertasse se l’ingresso dell’edificio ove era avvenuto il sinistro in danno della lavoratrice fosse stato, al tempo, luogo destinato ad ospitare posti di lavoro ovvero luogo accessibile nell’ambito del loro lavoro ai lavoratori dipendenti della società proprietaria della Galleria commerciale e, in caso positivo, verificare se sussistessero le condizioni perché la tutela che l’imputato, nella sua qualità, avrebbe dovuto apprestare a vantaggio dei propri dipendenti, dovesse ritenersi estesa anche alla lavoratrice infortunata.

 

La Sentenza n. 40721 del 9 ottobre 2015 della Corte di Cassazione Penale è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14171:2015-10-12-15-08-40&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

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PREVENZIONE DI MOLESTIE E VIOLENZE: COSA CAMBIA NEI LUOGHI DI LAVORO?

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

02 marzo 2016

di Tiziano Menduto

 

L’Accordo firmato a gennaio parla di combattere violenza e molestie nei luoghi di lavoro. Quali conseguenze avrà? Che misure preventive è necessario prendere per garantire salute e sicurezza ai lavoratori? Le indicazioni di Giulia Barbucci della CGIL.

 

Malgrado i ritardi accumulati dalle parti sociali del nostro paese (quasi nove anni!) e il rischio che anche gli ottimi propositi, se non supportati norme ad hoc, siano solo buone intenzioni sulla carta, è necessario sottolineare l’importanza della firma del 25 gennaio 2016 che le principali parti sociali italiane hanno apposto all’Accordo quadro sulle molestie e sulla violenza sul luogo di lavoro firmato il 26 aprile 2007 dalle parti sociali europee.

 

Un’importanza relativa non tanto e non solo a un Accordo non facile e non scontato (tanto da richiedere nove anni di gestazione…) tra parti sociali datoriali e sindacali che non sempre, in materia di sicurezza, riescono utilmente ad unire le forze per migliorare la prevenzione in Italia… L’importanza di questo Accordo “volontario” nasce principalmente dalla rilevanza che in questi anni di crisi congiunturale, di aumento delle tensioni nelle aziende, di instabilità del mondo del lavoro, ha assunto il tema delle violenze e delle molestie nei luoghi di lavoro.

 

E del fatto che in questa acuirsi delle tensioni servisse un argine e, prima ancora, una presa di coscienza netta e consapevole, se ne sono accorte le parti sociali che finalmente hanno “recepito” l’Accordo europeo.

 

Quello che rimane da chiedersi ora, dopo aver cercato di conoscere i motivi di questi “ingiustificabili” ritardi, è che cosa accadrà…

Come si è arrivati all’Accordo? Quali sono i punti qualificanti? Che conseguenze avrà l’Accordo recepito? Come portare la “tolleranza zero” verso comportamenti come molestie e/o violenza nelle aziende?

 

Per avere qualche risposta abbiamo intervistato una delle persone che hanno lavorato in questi anni al recepimento, tra le parti sociali, dell’Accordo europeo su molestie e violenza: Giulia Barbucci che lavora nell’Area delle politiche europee e internazionali della CGIL.

 

PuntoSicuro

Cominciamo a raccontare qualcosa dell’Accordo europeo del 2007 recepito dalle parti sociali…

Giulia Barbucci

Intanto l’Accordo firmato dalle parti sociali europee il 26 aprile 2007 è il terzo Accordo autonomo negoziato dalle parti sociali europee a livello intersettoriale, a seguito di una consultazione della Commissione europea sul tema della violenza sui luoghi di lavoro e dei suoi effetti sulla salute e sicurezza sul lavoro. Ed essendo un Accordo autonomo, e non una Direttiva, prevede l’applicazione, volontaria, nei vari Paesi, attraverso accordi tra le parti sociali.

In particolare l’Accordo mira a impedire e a gestire i problemi di prepotenza, molestie sessuali e violenza fisica sui luoghi di lavoro. Esso condanna tutte le forme di molestia e violenza e conferma il dovere del datore di lavoro di tutelare i lavoratori contro tali rischi. Le imprese sono tenute ad adottare una politica di tolleranza zero contro tali comportamenti e a fissare procedure per gestire i casi di molestie e violenza, che possono comprendere una fase informale con la partecipazione di una persona terza che goda della fiducia della direzione e dei lavoratori. I ricorsi andranno esaminati e risolti rapidamente. Occorre rispettare i principi di dignità, riservatezza, imparzialità ed equo trattamento. Contro i colpevoli saranno adottate misure adeguate, dall’azione disciplinare fino al licenziamento, mentre alle vittime sarà fornita assistenza nel processo di reinserimento.

Chiaramente l’Accordo andava poi applicato dai membri nazionali delle parti firmatarie, conformemente alle procedure e alle prassi delle parti sociali negli Stati membri, come disposto dall’articolo 139 del Trattato CE e andava attuato entro 3 anni dalla firma.

 

P.S.

Qual è l’aspetto più significativo dell’Accordo europeo?

G.B.

Ad esempio il fatto che l’Accordo opta per un approccio attivo piuttosto che giuridico al fine di risolvere il problema delle molestie e della violenza a livello dell’impresa.

 

P.S.

Una domanda a questo punto viene spontanea: perché in Italia l’Accordo è stato recepito con quasi nove anni di ritardo?

G.B.

Non si può nascondere che il ritardo delle parti sociali italiane è dipeso, in parte, da un atteggiamento di chiusura da parte delle organizzazioni datoriali. Già negli anni scorsi si era tentato di procedere alla traduzione del testo dell’Accordo in italiano (fa fede la versione inglese), ma anche questo tentativo era fallito.

Poi a seguito di incontri delle parti sociali europee, a Berlino e a Roma, le organizzazioni sindacali italiane hanno tentato di rilanciare la questione, tenuto conto anche del fatto che tutti i Paesi più importanti dell’UE avevano attuato già l’Accordo e per evitare un eventuale intervento della Commissione europea. E finalmente si è arrivati all’attuazione dell’Accordo anche in Italia…

 

P.S.

Diamo ancora qualche informazione sull’Accordo europeo: a chi si applica? a che tipo di molestie e violenze si fa riferimento? quali sono le parti più rilevanti?

G.B.

Come già detto con l’Accordo le parti sociali europee condannano fermamente le molestie e la violenza in tutte le loro forme che possono presentarsi in tutti i luoghi di lavoro e colpire qualsiasi lavoratore tenendo conto anche che del fatto che alcuni gruppi e settori possono essere più a rischio di violenza. E l’Accordo si applica a tutti i luoghi di lavoro e a tutti i lavoratori indipendentemente dalla dimensione dell’azienda, della sua attività e tipologia contrattuale. L’Accordo riconosce anche che l’UE e le leggi nazionali definiscono i doveri dei datori di lavoro nel proteggere i lavoratori contro le molestie e la violenza nei luoghi di lavoro.

L’Accordo afferma, inoltre, che le molestie e la violenza sono causate da comportamenti inaccettabili da parte di uno o più individui e che possono avere forme differenti: fisiche, psicologiche e/o sessuali, costituire un singolo episodio o avere un carattere più sistematico, avere luogo tra colleghi, tra superiori e subordinati o da parte di terzi, a partire da casi di minore entità, fino a casi più gravi che richiedono l’intervento delle autorità pubbliche. E si fornisce una metodologia agli imprenditori, ai lavoratori e ai loro rappresentanti per prevenire, identificare e gestire problemi di molestie e violenza sui luoghi di lavoro.

Direi che gli elementi centrali dell’Accordo sono:

  • il riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro, in consultazione con i lavoratori e/o il sindacato di determinare, rivedere e monitorare le procedure appropriate per prevenire e affrontare il fenomeno;
  • il richiedere all’impresa di avere una chiara posizione che sottolinei che le molestie e la violenza nei luoghi di lavoro non sono tollerate e di specificare le procedure da seguire in caso di problemi, attraverso misure appropriate contro gli autori della violenza, fornendo supporto alle vittime;
  • il riconoscimento che procedure aziendali preesistenti possano essere idonee nel trattare molestie e violenza nei luoghi di lavoro.

Senza dimenticare che nell’Accordo si affrontano anche casi di violenza da parte di terzi.

 

P.S.

Veniamo ora al recepimento in Italia dell’Accordo, firmato il 25 gennaio 2016 da CGIL, CISL, UIL e Confindustria. Una domanda che sorge spontanea riguarda le conseguenze di queste firme. Cosa cambia nella realtà? Qual è il valore aggiunto di questo Accordo rispetto al passato?

G.B.

Sicuramente il valore aggiunto dell’Accordo sta nell’aver avviato e rilanciato il dialogo tra le parti sociali su come combattere il fenomeno della violenza e delle molestie nei luoghi di lavoro. Implementando ora l’Accordo a livello nazionale si cerca di elaborare misure concrete, strumenti e procedure per prevenire, identificare e gestire tali fenomeni.

Bisogna poi sottolineare che l’Accordo copre le molestie e la violenza in tutte le loro forme. E questo malgrado la posizione iniziale dei datori di lavoro nel corso dei negoziati fosse quella che l’Accordo dovesse trattare esclusivamente delle molestie. E si sottolinea che le molestie e la violenza possono avere sia serie conseguenze sociali che ripercussioni economiche.

E in pratica con l’Accordo, una volta riconosciuta l’applicabilità della legislazione esistente a livello europeo e nazionale, si indica che se si chiarisce un legame della violenza, della molestia con il luogo di lavoro, le parti sociali se ne devono occupare anche se l’autore è al di fuori dell’azienda.

Si riconosce poi che il datore di lavoro ha la responsabilità di agire nei casi che ricadono sotto la propria responsabilità nel proteggere i suoi lavoratori. E si segnala che le PMI e anche particolari gruppi o settori possono essere maggiormente a rischio, anche con riferimento alla violenza da parte di terzi.

 

P.S.

L’Accordo europeo indica poi che una maggiore consapevolezza e un’adeguata formazione posso ridurre l’eventualità di molestie e violenza nei luoghi di lavoro… Chi deve essere formato? Si prevede l’adozione di procedure particolari?

G.B.

Le misure previste, quali quelle di aumentare la consapevolezza del fenomeno e la previsione di formazione specifica, si applicano a tutti, lavoratori e manager.

Inoltre le imprese hanno l’obbligo di non tollerare molestie e violenza, quindi è necessario definire specifiche procedure, compresa la nomina di una persona di fiducia, decisa congiuntamente tra impresa e lavoratori, che può essere un collega di lavoro o un esperto esterno quale ad esempio uno psicologo del lavoro.

Segue poi una lista non esaustiva di azioni che possono essere parte della procedura stabilita a livello aziendale. Si prevedono anche azioni disciplinari nei confronti degli autori della violenza e la presa in carico delle vittime sia attraverso il totale reintegro nel posto di lavoro, comprese misure per prevenire che la vittima sia soggetta ad ulteriori relazioni intollerabili con l’autore delle violenze. Il datore di lavoro dovrà inoltre fornire sostegno e aiuto legale alla vittima.

 

P.S.

Nel documento di attuazione dell’Accordo si parla anche di incontro tra le parti per individuare alcune strutture…

G.B.

Sì, nell’Accordo si affida alle parti sociali sul territorio il compito di individuare le strutture più idonee nell’assicurare una adeguata assistenza a coloro che siano stati vittime di molestie o violenza nei luoghi di lavoro, ferma restando la facoltà delle singole imprese di adottare ulteriori specifiche soluzioni.

 

P.S.

Si sta già lavorando per identificare queste strutture? E non è prevista una struttura a livello nazionale?

G.B.

Si è valutato che le parti sociali a livello locale, per la loro maggiore conoscenza del territorio, siano le più adatte a proporre strutture valide alla gestione e risoluzione dei problemi…

 

P.S.

Sempre riguardo agli aspetti pratici, concludiamo ricordando che nel recepimento degli accordi è inserita una dichiarazione per le aziende sull’inaccettabilità di ogni atto o comportamento che si configuri come molestie o violenza. Qual è il valore e l’importanza di questa dichiarazione?

G.B.

Al di là del recepimento dei contenuti dell’Accordo europeo, le parti hanno valutato che potesse essere importante che le singole aziende adottassero una dichiarazione di impegno e sensibilizzazione di questi fenomeni, per garantire che questi non sono tollerati in alcun modo e che l’azienda debba essere un luogo in cui vi sia sicurezza per tutti.

 

Il documento “Accordo quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro tra Confindustria, CGIL, CISL E UIL”, recepimento dell’Accordo delle parti sociali europee del 26 aprile 2007 è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/160125_Accordo_molestie_violenza_luoghi_lavoro.pdf

 

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L’ESPOSIZIONE FEMMINILE A STRESS, VIOLENZE E STALKING

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

08 marzo 2016

 

In occasione della festa dell’8 marzo un articolo sulla sicurezza in ottica di genere: l’esposizione femminile ai rischi psico-sociali, ai fattori di stress, al mobbing, alle intimidazioni, alle molestie sessuali e alle violenze sul lavoro.

 

Diverse pubblicazioni in questi anni hanno segnalato come le patologie psichiche siano molto in crescita tra le donne, con la depressione che è la principale causa di disabilità tra i 15 e i 44 anni e una percentuale del 20% di donne che usa ansiolitici (il 15% antidepressivi) contro il 9% degli uomini. E in alcune attività a prevalente occupazione femminile, come l’attività infermieristica, la probabilità di essere vittime di atti di violenze sul lavoro sono ben tre volte superiori rispetto alle altre categorie di lavoratori.

 

Ne parliamo in occasione della giornata internazionale della donna, una giornata che non deve servire solo a ricordare le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne acquisite nel tempo (spesso molto tardi: in Italia il suffragio universale, diversamente da molti altri paesi europei, arriverà solo nel 1945). Ma deve servire anche a mettere in luce le discriminazioni e le violenze sulle donne, anche in ambito lavorativo, che sono ancora presenti in molte parti del mondo, compreso il nostro paese.

 

A dimostrazione di ciò è sufficiente verificare come la ricerca in materia di salute e sicurezza del lavoro orientata al genere sia un filone di indagine recente. Un ambito di ricerca che ha il compito di considerare i rischi lavorativi non più da un punto di vista “neutro”: bisogna tener conto delle differenze di genere e offrire strategie di prevenzione più adeguate ed efficaci.

 

Per affrontare oggi il tema dell’esposizione femminile ai rischi psico-sociali, alle molestie e violenze sul lavoro, torniamo a presentare il contenuto di una pubblicazione dell’INAIL, dal titolo “Lavoro, sicurezza e benessere al femminile: il fattore donna al centro delle nuove sfide nel mercato del lavoro” a cura di Emma Pietrafesa, Chiara Brunetti e Maria Castriotta.

 

La pubblicazione ricorda che la presenza di stress nel mondo del lavoro è correlata a diversi fattori:

  • il tipo di lavoro svolto (problemi con attrezzature inadeguate, ripetitività dei compiti, carico di lavoro eccessivo o insufficiente, lavoro a turni o orari rigidi);
  • la posizione nella gerarchia organizzativa (immobilismo professionale e assenza di prospettive, comunicazione carente, isolamento sociale o fisico);
  • la discriminazione; le difficoltà di conciliare lavoro e vita privata; le molestie sessuali).

 

E si segnala che rispetto ai colleghi maschi, l’esposizione femminile a tali fattori di rischio è molto superiore a causa delle discriminazioni subite sul lavoro e delle maggiori responsabilità domestiche e familiari.

Monotonia, scarsa autonomia, orari rigidi di lavoro, impiego in mansioni emotivamente gravose (come accade per le infermiere o per le insegnanti che, ad esempio, lavorano molte ore in piedi, in ambienti rumorosi, fattori che già di per sé rappresentano un rischio per la salute, spesso anche a contatto con bambini con disturbi), sono tutti fattori di stress particolarmente onerosi per le donne, proprio alla luce del ruolo sociale che ricoprono.

 

Se diverse sono dunque le cause che provocano l’insorgere di stress nei lavoratori appartenenti a sessi diversi, persino quando si trovano a operare in uno stesso ambiente di lavoro, diverse dovranno essere anche le strategie di prevenzione.

Dovranno, in definitiva, tener conto delle differenze uomo-donna e considerare come fattori di stress anche le molestie sessuali, le discriminazioni, le responsabilità verso la famiglia e altri fattori che colpiscono maggiormente e più direttamente le donne.

 

Per esempio le molestie sessuali (manifestazioni verbali come battute a sfondo sessuale, non verbali come sguardi fissi e prolungati, e fisiche, come i contatti fisici non richiesti, ecc.) sono un fattore di stress percepito molto più frequentemente dalle donne che dagli uomini e denunciato dal 30-50% delle lavoratrici contro il 10% dei lavoratori, secondo alcuni studi condotti dalla Commissione Europea Lavoro e Affari Sociali.

Senza dimenticare che spesso le molestie sessuali non vengono denunciate per paura di perdere il posto di lavoro o per il timore di ritrovarsi emarginate dai colleghi.

 

Anche le intimidazioni e il mobbing sono fattori di stress, dagli accertati effetti sintomatologici sul piano della salute fisica, mentale e psicosomatica della vittima che li subisce, quali stress, depressione, diminuzione dell’autostima, sensi di colpa, fobie, disturbi del sonno e degli apparati digestivo e muscolo-scheletrico; anche questo tipo di rischi è percepito con maggiore frequenza rispetto ai colleghi uomini.

 

E se le violenze legate al lavoro colpiscono anche gli uomini, le donne ne sono comunque maggiormente esposte: ciò è dovuto anche al loro massiccio impiego in lavori a contatto con il pubblico, dal momento che gli atti violenti sui luoghi di lavoro sono diffusissimi proprio in quelle professioni che prevedono contatto con clienti, pazienti, studenti, ecc..

E nello specifico gli ambienti più a rischio riguardo alle violenze sono costituiti dal settore terziario, con particolare riferimento alle aziende che operano nel settore sanitario, dei trasporti, della vendita al dettaglio, dell’istruzione e del settore dell’industria alberghiera.

E le figure più esposte ai pericoli sono: infermieri, conducenti di mezzi pubblici, cassieri di banche e supermercati, assistenti sociali e personale di bar e ristoranti. La gestione di denaro contante, l’incombenza di dover far rispettare delle regole, il fatto di compiere un lavoro isolato o con pochi colleghi: sono tutti elementi che rappresentano potenziali fattori di rischio.

 

Ricordiamo a questo proposito che il 25 gennaio 2016 è stato finalmente è stato firmato da CGIL, CISL, UIL e Confindustria l’Accordo quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro che recepisce, dopo quasi nove anni, l’accordo quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro raggiunto nel 2007 dalle rispettive rappresentanze a livello europeo (Businesseurope, Ceep, Ueapme e Etuc).

 

Concludiamo l’articolo presentando brevemente una scheda di approfondimento del documento INAIL dedicata allo stalking.

Infatti alcuni comportamenti come telefonate, sms, e-mail, visite a sorpresa e perfino l’invio di fiori o regali, possono essere graditi segni di affetto che, tuttavia a volte, possono trasformarsi in vere e proprie forme di persecuzione in grado di limitare la libertà di una persona e di violare la sua privacy. E la persecuzione avviene solitamente mediante reiterati tentativi di comunicazione verbale e scritta, appostamenti e intrusioni nella vita privata.

 

I contesti in cui si manifesta lo stalking riguardano nella maggior parte dei casi la relazione di coppia (55%), il condominio, la famiglia (figli/fratelli/genitori), ma nel 15% dei casi riguardano anche il posto di lavoro/scuola/università.

La scheda indica che il “molestatore assillante” (stalker) manifesta un complesso insieme di comportamenti che comprende l’aspettare, l’inseguire, il raccogliere informazioni sulla “vittima” e sui suoi movimenti, comportamenti che sono quasi sempre tipici di tutti gli stalker, al di là delle differenze rilevate di situazione in situazione.

E si segnala che alcuni studi su questo fenomeno hanno distinto due categorie di comportamenti attraverso i quali si può attuare lo stalking:

  • la prima tipologia comprende le comunicazioni intrusive, che includono tutti i comportamenti con lo scopo di trasmettere messaggi sulle proprie emozioni, sui bisogni, sugli impulsi, sui desideri o sulle intenzioni, tanto relativi a stati affettivi amorosi (anche se in forme coatte o dipendenti) che a vissuti di odio, rancore o vendetta: i metodi di persecuzione adottati, di conseguenza, sono forme di comunicazione con l’ausilio di strumenti come telefono, lettere, sms, e-mail o perfino graffiti o murales;
  • il secondo tipo di comportamenti di stalking è costituito dai contatti, che possono essere attuati sia attraverso comportamenti di controllo diretto, quali ad esempio pedinare o sorvegliare, che mediante comportamenti di confronto diretto, quali visite sotto casa o sul posto di lavoro, minacce o aggressioni.

 

Concludiamo ricordando le tre caratteristiche di una molestia perché si possa parlare di stalking;

  • l’attore della molestia, lo stalker, agisce nei confronti di una persona che è designata come vittima in virtù di un investimento ideo-affettivo, basato su una situazione relazionale reale oppure parzialmente o totalmente immaginata (in base alla personalità di partenza e al livello di contatto con la realtà mantenuto);
  • lo stalking si manifesta attraverso una serie di comportamenti basati sulla comunicazione e/o sul contatto, ma in ogni caso connotati dalla ripetizione, insistenza e intrusività;
  • la pressione psicologica legata alla “coazione” comportamentale dello stalker e al terrorismo psicologico effettuato, pongono la vittima “stalkizzata”, definita anche stalking victim, in uno stato di allerta, di emergenza e di stress psicologico.

 

Il documento dell’INAIL “Lavoro, sicurezza e benessere al femminile. Il fattore donna al centro delle nuove sfide nel mercato del lavoro”, documento curato da Emma Pietrafesa, Chiara Brunetti e Maria Castriottaè scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/internet/documents/document/ucm_118785.pdf

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.246 DEL 04/03/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.246 DEL 04/03/16

 

INDICE

  • Le “Frequently Asked Questions” di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights! – n.10
  • L’omicidio colposo del dipendente è a carico dei dirigenti e della società
  • Rapina sul posto di lavoro: dei danni al lavoratore ne risponde il datore qualora manchino adeguati sistemi di sicurezza
  • Fattori di rischio: conflitti casa-lavoro, orari e ritmi lavorativi
  • La Direttiva Macchine e il principio di integrazione della sicurezza
  • Il preposto nelle sentenze della cassazione degli ultimi mesi

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO – KNOW YOUR RIGHTS! – N.10

 

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.

In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.

Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.

Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

 

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Buongiorno Marco,

sono un RLS e devo porti un quesito.

A un lavoratore della mia azienda che utilizza avvitatori e smerigliatrici il medico competente, dopo la visita medica, ha prescritto “non esporre a vibrazioni mano braccio con valore A(8) maggiore di 2,5 m/s2”.

Che cosa significa e come fa il lavoratore in pratica a rispettare la prescrizione?

 

Ciao,

il valore A(8) è il valore, mediato sulle 8 ore di lavoro giornaliero, delle vibrazioni trasmesse da attrezzature di lavoro al sistema mano braccio.

E’ in pratica la “dose” di vibrazioni per le mani e le braccia assorbite dal lavoratore nel corso di una giornata standard.

Trattandosi di accelerazioni tale valore è espresso in m/s2.

Ai sensi dell’articolo 201 del D.Lgs.81/08 per tale valore sono definiti i seguenti limiti:

  • valore di azione (sopra il quale il datore di lavoro deve programmare e attuare misure di prevenzione e protezione) = 2,5 m/s2;
  • valore limite di esposizione (che non può mai essere superato) = 5,0 m/s2.

La prescrizione del medico, derivante probabilmente da una patologia all’apparato muscolo scheletrico degli arti superiori del lavoratore, significa che il lavoratore non può utilizzare attrezzature fonti di vibrazioni la cui media giornaliera sia superiore a 2,5 m/s2 (cioè il valore di azione).

In pratica il lavoratore non può utilizzare attrezzature fonti di vibrazioni, la cui media giornaliera superi quel limite.

E’ compito del datore di lavoro, sentito il RSPP, specificare quali siano tali attrezzature, a seguito della valutazione del rischio da vibrazioni da eseguire ai sensi dell’articolo 202 del D.Lgs.81/08.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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Ciao,

ho letto alcuni dei tuoi articoli su internet e vorrei chiederti delle informazioni in merito al mio caso.

Lunedì rientrerò al lavoro dopo 5 mesi di malattia.

Vengo avvisato dall’azienda che dopo 60 giorni di malattia è necessario fare la visita con il medico del lavoro e di portare la documentazione necessaria.

Dopo aver letto i tuoi articoli mi accorgo che prima di rientrare al lavoro devo effettuare visita dal medico, cosa di cui non vengo informata.

L’orario di lavoro va dalle 8 alle 13 e dalle 14 alle 17.30. la visita è alle 17.15.

Richiedo informazioni e mi dicono che infatti non mi devo presentare lunedì al lavoro, ma martedì dopo la visita.

Tralasciando questa mancanza di informazione (abito tra l’altro a 25 km di distanza dal lavoro e avrei fatto 100 km inutilmente anziché 50), ho richiesto verbalmente 5 settimane fa il part time per motivi di salute e 14 giorni fa in forma scritta, richiesta alla quale non hanno ancora dato risposta. Questo faciliterebbe e avrebbe facilitato di molto il mio rientro.

Ho infatti una malattia rara con sintomi ciclici e non prevedibili. Sto seguendo ancora delle cure che includono, oltre a medicamenti, una dieta abbastanza ristretta, attività fisica specifica, riposo e meno stress possibile tutto questo per accelerare il processo di guarigione.

La cura dovrà procedere per ancora 6/8 mesi e poi si vedrà.

La mia domanda è come devo comportarmi per ottenere il part time che credo sia un modo per non dover affrontare un carico di lavoro eccessivo e rovinare tutto il lavoro fin qui fatto e per andare incontro all’azienda che sembra rimandare questa decisione sul part time?

Come devo comportarmi con il medico del lavoro?

Scusa il lungo testo…e in ogni caso ti ringrazio dell’attenzione.

Cordiali saluti

 

Ciao,

innanzitutto premetto che le visite mediche che la tua azienda dispone nei tuoi confronti devono essere del tutto gratuite e senza nessun onere economico per te, secondo quanto disposto dall’articolo articolo 15, comma 2 del Decreto Legislativo n.81 del 2008 (Testo Unico sulla sicurezza):

Le misure relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori”.

Per quanto riguarda la possibilità che il medico competente disponga la necessità che tu svolga il lavoro part time, è una facoltà che il Decreto lascia appunto al medico competente, che a seguito di visita medica (nel tuo caso dovuta per assenza dal lavoro superiore ai 60 giorni) deve definire la tua idoneità o meno alla mansione specifica, secondo l’articolo 41, comma 6 del Decreto:

Il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche di cui al comma 2, esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:

  1. a) idoneità;
  2. b) idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
  3. c) inidoneità temporanea;
  4. d) inidoneità permanente”.

Inoltre secondo il comma 6-bis del medesimo articolo:

Nei casi di cui alle lettere a), b), c) e d) del comma 6 il medico competente esprime il proprio giudizio per iscritto dando copia del giudizio medesimo al lavoratore e al datore di lavoro”.

A seguito del giudizio del medico competente l’azienda è tenuta, se possibile, ad adottare le prescrizioni indicate dal medico nell’eventuale giudizio di inidoneità parziale o totale, secondo l’articolo 42 del Decreto:

Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.

Pertanto se il medico competente ritiene che a seguito della tua storia clinica, tu non sia più idonea a un turno di 8 ore, può segnalare la tua inidoneità parziale alla mansione svolta con la prescrizione del lavoro part time.

Attenta però che l’azienda non deve necessariamente passarti al part time a seguito del giudizio di non idoneità del medico, in quanto il citato articolo 42 contiene l’inciso “ove possibile”.

Pertanto, almeno in teoria, se l’azienda non ha la possibilità di trasferirti al lavoro part time, per ottemperare a quanto definito dal medico (che è un parere del tutto vincolante) potrebbe anche licenziarti per giusta causa oggettiva, non essendo tu più idonea al lavoro sulle 8 ore.

Pertanto ti consiglio, prima di parlare con il medico, di valutare se la tua azienda ha la possibilità di passarti al part time. Dopo di che potrai parlare con il medico, manifestando la tua difficoltà al lavoro full time, presentando adeguata documentazione della tua storia clinica, e chiedendo che ti prescriva il lavoro part time. Anche in questo caso però non è detto che il medico acconsenta, se secondo suo giudizio professionale lui ritiene che tu possa continuare a svolgere lavoro full time.

Tieni infine conto, che puoi fare ricorso alla ASL (tu, ma anche l’azienda) contro il giudizio del medico, ai sensi dell’articolo 41, comma 9 del Decreto:

Avverso i giudizi del medico competente, ivi compresi quelli formulati in fase preassuntiva, è ammesso ricorso, entro trenta giorni dalla data di comunicazione del giudizio medesimo, all’organo di vigilanza territorialmente competente che dispone, dopo eventuali ulteriori accertamenti, la conferma, la modifica o la revoca del giudizio stesso”.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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Ciao Marco,

lavoro in una ditta di consegna documentazione, sia in moto che in auto.

Secondo te con le condizioni atmosferiche attuali come ci dobbiamo comportare?

Dobbiamo attendere le disposizioni del Comune su un eventuale blocco del traffico oppure è la mia azienda che deve intervenire in qualche modo?

Grazie.

 

Ciao,

se ti riferisci allo smog, tale tipo di esposizione a rischio per la salute dovrebbe essere valutata nel documento di valutazione dei rischi (valutazione del rischio chimico) e di conseguenza dovrebbero essere definite delle misure di protezione individuale (mascherine adeguate), visto che le misure di prevenzione e di protezione collettiva sono tecnicamente impossibili.

La tua azienda fa qualcosa in tal senso? Fai controllare dal tuo RLS cosa è scritto nel DVR e quali misure per la salute adotta la tua azienda.

Oltre alle mascherine andrebbe anche eseguita la sorveglianza sanitaria almeno a livello preventivo per valutare che chi lavora all’aperto sia idoneo (ad esempio assenza di asma o malattie broncopolmonari) e, per me almeno, anche a livello periodico per valutare che non insorgano malattie all’apparato respiratorio.

Quindi fai chiedere al tuo RLS anche il protocollo di sorveglianza sanitaria.

Marco

 

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Ciao Marco,

sono RLS di un’azienda metalmeccanica.

Ieri c è stato un incendio nella cabina prova motori. Io non c’ero.

Sono andato dal mio capo a sentire cos’era successo e se gli RLS erano stati avvisati.

No, lui ha chiamato i capi e hanno sistemato la situazione.

Ti volevo chiedere se per legge i preposti o i dirigenti devono contattare gli RLS in caso di incidenti anche senza feriti.

 

Ciao.

Effettivamente il D.Lgs.81/08 non prevede in maniera esplicita una tale eventualità (consultazione del RLS relativamente a un incidente).

Lo spirito del Decreto è però quello che i RLS siano puntualmente informati su cosa succede in azienda relativamente a salute e sicurezza e quindi l’obbligo di dare ai RLS tale tipo di informazione è sancito in maniera implicita.

Ciò si evince dalle misure generali di tutela come descritte all’articolo 15 del Decreto (che però non è sanzionabile) che prevede “la partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza”.

Nel caso specifico vale comunque pienamente quanto disposto dall’articolo 50, comma 1 lettera e) secondo il quale il RLS “riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali”.

Tale attribuzione dei RLS costituisce in questo caso obbligo sanzionabile per il datore di lavoro e i dirigenti secondo quanto stabilito dall’articolo 18, comma 1, lettera s), per il quale essi devono “consultare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all’articolo 50”.

E’ chiaro che in questo caso le “misure di prevenzione relative” non sono state evidentemente adeguate e di questa informazione i RLS avrebbero dovuto, secondo quanto sopra, essere informati, come avrebbero dovuto essere informati su quali ulteriori misure di prevenzione e protezione l’azienda intende adottare per evitare un simile incidente nel futuro.

Io scriverei una lettera all’azienda in cui si stigmatizza la mancata informazione dei RLS (inviandola anche per conoscenza alla ASL) e in cui si chiede che in caso di futuri incidenti, infortuni, quasi infortuni, i RLS vengano adeguatamente e tempestivamente informati.

A seguire la bozza della lettera.

Marco

 

Al datore di lavoro di [nome azienda]

per conoscenza

al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione di [nome azienda]

al Dipartimento Salute e Sicurezza ASL

La presente per segnalare il grave comportamento tenuto dall’azienda in occasione dell’incendio che si è sviluppato il [data] nella cabina prove motori, che solo per fortuna non ha causato danni alle persone, ma solo alle cose [scriverlo solo se è vero, facendo se possibile una descrizione dettagliata dell’incidente].

Infatti di tale grave incidente i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (ex articolo 47 del D.Lgs.81/08, “Decreto”) sono stati tenuti all’oscuro da parte dei responsabili dell’azienda, venendone a conoscenza solo in via informale da parte dei lavoratori [specificare come].

Riteniamo che la mancata segnalazione ai RLS di quanto accaduto sia assolutamente contrario alla “ratio” del Decreto, relativamente al rapporto tra azienda e RLS.

Tale “ratio” prevede che i RLS siano puntualmente informati su cosa succede in azienda relativamente a salute e sicurezza e quindi l’obbligo di dare ai RLS tale tipo di informazione è sancito dal Decreto in maniera esplicita e implicita.

Ciò si evince dalle misure generali di tutela come descritte all’articolo 15, comma 1, lettera s) del Decreto che prevedono “la partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza”.

Nel caso specifico vale poi quanto disposto dall’articolo 50, comma 1 lettera e) secondo il quale il RLS “riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali”.

Tale attribuzione dei RLS costituisce in questo caso obbligo sanzionabile per il datore di lavoro e i dirigenti secondo quanto stabilito dall’articolo 18, comma 1, lettera s), per il quale essi devono “consultare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all’articolo 50”.

E’ chiaro che in questo caso le “misure di prevenzione relative” non sono state evidentemente adeguate e di questa informazione i RLS avrebbero dovuto, secondo quanto sopra, essere informati, come avrebbero dovuto essere informati su quali ulteriori misure di prevenzione e protezione l’azienda intende adottare per evitare un simile incidente nel futuro.

Nello spirito sopra richiamato, i RLS richiedono con la presente all’azienda di essere nel futuro prontamente informati su incidenti, infortuni, quasi infortuni, “near miss” in modo da poter valutare se le misure di prevenzione e protezione adottate dalla azienda stessa, anche relativamente alla gestione delle emergenze, siano o meno adeguate ai rischi presenti sui luoghi di lavoro.

Rimaniamo in attesa di riscontro alla presente.

I RLS

firme

 

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NOTA

Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:

ASL = Azienda Sanitaria Locale

CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro

DPI = Dispositivi di Protezione Individuali

DVR = Documento di Valutazione dei Rischi

DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto

RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione

RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza

D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)

 

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L’OMICIDIO COLPOSO DEL DIPENDENTE E’ A CARICO DEI DIRIGENTI E DELLA SOCIETA’

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

1 marzo 2016

di Fulvio Graziotto

 

In mancanza di adozione di modelli organizzativi, per l’infortunio mortale paga anche la società.

E’ questo in sintesi quanto affermato dalla Cassazione, nella recente Sentenza n. 2544/2016.

 

Il Tribunale condannava l’Amministratore Unico e il Direttore Tecnico di una Società a Responsabilità Limitata, attiva nel settore edile, colpevoli del reato di omicidio colposo di un addetto (il lavoratore era morto in conseguenza delle lesioni riportate nel cantiere mentre era alla guida di un’autogru con il freno di stazionamento non funzionante).

 

Il Tribunale dichiarava altresì la società, in persona del Legale Rappresentante, responsabile dell’illecito amministrativo di cui all’articolo 5, lettere a) e b) del D.Lgs. 231/01, concessa la riduzione della sanzione ex articolo 12, comma 2, lettera a) dello stesso Decreto, comminando la sanzione amministrativa pecuniaria di 80.000 euro.

 

Avverso la suddetta sentenza proponevano impugnazione entrambi gli imputati, nonché la società, chiedendo in via principale l’assoluzione degli imputati dalle contestazioni a essi mosse.

La Corte di appello di Milano confermava la sentenza impugnata.

 

Proponevano quindi ricorso per Cassazione entrambi gli imputati persone fisiche, nonché la società. La società sosteneva che la condotta del Legale Rappresentante non era finalizzata o utile a un vantaggio dell’ente sociale, con la conseguente non configurabilità della responsabilità in capo alla società pur in mancanza di adozione dei modelli organizzativi previsti dal richiamato Decreto Legislativo.

 

Nell’esaminare il ricorso, la Cassazione, con la Sentenza in commento, ricorda che il requisito dell’interesse dell’ente (sancito dall’articolo 5 del D.Lgs. 231/01) sussiste anche in conseguenza di scelte dettate dall’obiettivo di risparmiare sui costi: con la mancata adozione della disciplina antinfortunistica, l’autore del reato ha consapevolmente violato le disposizioni sulla sicurezza per realizzare un interesse della società. Il vantaggio conseguito dalla società, invece, è rappresentato dal contenimento della spesa e una massimizzazione del profitto.

 

La Cassazione ha affermato che nei reati colposi d’evento, “il finalismo della condotta prevista dall’articolo 5 del D.Lgs. 231/01 è compatibile con la non volontarietà dell’evento lesivo, sempre che si accerti che la condotta che ha cagionato quest’ultimo sia stata determinata da scelte rispondenti all’interesse dell’ente o sia stata finalizzata all’ottenimento di un vantaggio per l’ente medesimo”.

 

Sulla base di quanto precisato dalla Corte di legittimità, la responsabilità della società avrebbe potuto essere esclusa solo dando dimostrazione di aver adottato i modelli organizzativi e la vigilanza sulla loro applicazione da parte di un organismo autonomo.

 

Richiamiamo le norme stabilite dal D.Lgs. 231/01.

 

Articolo 5 – Responsabilità dell’ente

“1. L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:

  1. a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
  2. b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).
  3. L’ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”.

 

Articolo 12 – Casi di riduzione della sanzione pecuniaria

“1. La sanzione pecuniaria è ridotta della metà e non può comunque essere superiore a lire duecento milioni se:

  1. a) l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo;
  2. b) il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità;
  3. La sanzione è ridotta da un terzo alla metà se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado:
  4. a) l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso;
  5. b) è stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
  6. Nel caso in cui concorrono entrambe le condizioni previste dalle lettere del precedente comma, la sanzione è ridotta dalla metà ai due terzi.
  7. In ogni caso, la sanzione pecuniaria non può essere inferiore a lire venti milioni”.

 

La Sentenza n. 2544 della Corte di Cassazione Sezione Penale del 21 gennaio 2016 è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14607:2016-01-23-11-17-10&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

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RAPINA SUL POSTO DI LAVORO: DEI DANNI AL LAVORATORE NE RISPONDE IL DATORE QUALORA MANCHINO ADEGUATI SISTEMI DI SICUREZZA

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

1 marzo 2016

di Paolo Accoti

 

Il datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 2087 del Codice Civile “è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

 

In altri termini, a carico del datore di lavoro, esiste un obbligo contrattuale teso a tutelare la salute e la sicurezza dei propri dipendenti suoi luoghi di lavoro, pertanto, qualora egli ometta di adottare tutte le cautele e le misure necessarie a salvaguardare l’integrità, fisica e morale, del dipendente, risponde dei danni da questi eventualmente subiti.

 

Sulla scorta di ciò un datore di lavoro, a seguito di una rapina subita presso una propria dipendenza, è stato condannato a risarcire il danno subito dal dipendente, a seguito della “prolungata soggezione a minaccia a mano armata”, in assenza delle necessarie misure atte a garantire la sicurezza sul luogo di lavoro.

 

A cagione dei pesanti carichi di lavoro e delle ripetute rapine (quattro in circa un anno) un dipendente evocava in giudizio il proprio datore di lavoro, al fine di vedersi risarcito il danno alla salute, conseguenza di un infarto acuto del miocardio, nonché quello morale, in virtù della tensione accumulata durante le riferite rapine, nel corso delle quali aveva dovuto soggiacere alle minacce portate dai rapinatori, armi in pugno.

 

La domanda in primo grado veniva rigettata, tuttavia, a seguito dell’interposto gravame da parte del lavoratore, la Corte d’Appello di Firenze, condannava il datore di lavoro al risarcimento del danno morale, subito dal lavoratore, in considerazione della “prolungata soggezione a minaccia a mano armata, in assenza delle misure protettive a carico datoriale ai sensi dell’articolo 2087 del Codice Civile”, una volta accertato che la ditta datrice, aveva “omesso di adottare le adeguate protezioni poste a tutela del proprio dipendente”.

 

Veniva, al contrario, respinta la domanda relativa al risarcimento de danno biologico, in virtù del fatto che, la disposta consulenza tecnica, aveva escluso il nesso di causalità tra le rapine subite e l’infarto del miocardico patito dal lavoratore, a seguito degli episodi ipertensivi occorsigli.

 

La Corte di Cassazione Sezione Lavoro, successivamente adita dal datore di lavoro, con la Sentenza n. 3306 del 19 febbraio 2016, respingeva il ricorso, confermando pertanto integralmente la decisione assunta in secondo grado.

 

Il ricorrente lamentava, tra l’altro, la violazione e falsa applicazione degli articoli 2059 e 2087 del Codice Civile, nonché il difetto di motivazione, sulla scorta del fatto che le misure di sicurezza concretamente predisposte, risultavano assolutamente conformi agli standard di sicurezza e alla tipologia di piccolo ufficio periferico, la cui ubicazione e il volume d’affari lo rendevano non soggetto ad apprezzabili rischi.

Si lagnava, inoltre, della mancanza di prova in ordine al supposto danno morale, mancando il nesso causale tra il presunto inadempimento del datore di lavoro e le lesioni all’integrità psichica asseritamente subite dal lavoratore.

 

La Corte di Cassazione, in coerenza con i propri precedenti, ha ritenuto che il lavoratore che agisca in giudizio per il risarcimento dei danni da infortunio sul lavoro, abbia l’onere di provare il fatto generatore del danno e il nesso causale esistente tra l’anzidetto danno e l’inadempimento del datore di lavoro, ma non anche l’eventuale colpa datoriale.

 

E invero, in simili fattispecie, la colpa del datore di lavoro si presume in ragione del disposto di cui all’articolo 1218 del Codice Civile, per il quale “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

 

Pertanto, per superare la presunzione di colpa, spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte quelle misure e cautele atte a evitare il danno, in virtù dell’attività in concreto espletata e ai rischi alla stessa connessi, potendo risultare insufficiente il generico rispetto delle misure universali di protezione individuale disposte per legge (in tal senso si vedano le Sentenze della Corte di Cassazione n. 8855 del 11/04/13 e n. 16003 del 19/07/07).

E invero, le tecniche di sicurezza, devono essere parametrate all’ambiente in cui viene effettivamente esercitata l’attività di impresa, anche in ragione della tipologia della stessa e alle possibili aggressioni conseguenti all’attività criminosa cui potrebbe essere soggetta una determinata attività imprenditoriale.

In altri termini, nelle attività strettamente connesse all’utilizzo di denaro, esercitate in zone dove i fenomeni criminali risultano particolarmente sentiti, non risulta idoneo e sufficiente, per andare esenti da responsabilità, apprestare sistemi di sicurezza generici, quand’anche conformi al dettato normativo.

 

Ricorda a tal proposito, la Corte di Cassazione, i propri precedenti specifici in materia di rapina sul luogo di lavoro, per cui il disposto dell’articolo 2087 del Codice Civile deve essere interpretato nel senso della necessità di fornire ai propri dipendenti: “adeguati mezzi di tutela dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori nei confronti dell’attività criminosa di terzi, nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale” (in tal senso si vedano le Sentenze della Corte di Cassazione n. 23793 del 20/11/15 e n. 7405 del 13/04/15).

 

Pertanto, il datore di lavoro per non incorrere in responsabilità contrattuali, deve provare di aver adottato tutte quelle misure protettive idonee, in considerazione della effettiva situazione di pericolo, a salvaguardare l’incolumità del personale dipendente, specie quando è stato già in passato vittima di simili episodi criminosi.

 

Per quanto concerne, infine, la paventata carenza di prova in ordine al danno subito, questo risulta comprovato nonché allegato “dalla sofferenza emotiva, indubbiamente intensa, conseguita dal dipendente dalle due rapine subite sul posto di lavoro. Tale danno trova positivo riscontro anche nell’episodio ipertensivo insorto il giorno successivo alla seconda rapina e per cui il lavoratore fu ricoverato cinque giorni in ospedale ed è stato correttamente liquidato in via equitativa, in relazione alle modalità della vicenda” (si veda a tale proposito la Sentenza della Corte di Cassazione n. 16041 del 26/06/13).

 

La Sentenza n. 3306 del 19 febbraio 2016 della Corte di Cassazione Sezione Lavoro è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14702:2016-02-22-12-08-49&catid=16:cassazione-civile&Itemid=60

 

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FATTORI DI RISCHIO: CONFLITTI CASA-LAVORO, ORARI E RITMI LAVORATIVI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

22 febbraio 2016

di Tiziano Menduto

 

Le conseguenze psicofisiche di fattori di rischio come l’insicurezza lavorativa, gli orari di lavoro troppo lunghi, il lavoro a turni, gli elevati ritmi lavorativi e le difficoltà nella conciliazione casa-lavoro.

 

“Nonostante lo stress lavoro-correlato sia considerato uno dei più rilevanti problemi per la salute occupazionale dalle principali agenzie nazionali e internazionali di igiene e sicurezza sul lavoro, solo una minima parte dei disturbi psichici causati dal lavoro vengono denunciati e riconosciuti come malattie professionali in Italia”.

A sottolineare questa carenza nella denuncia e riconoscimento dei disturbi psichici lavoro correlati e, più in generale, a presentare alcuni fattori di rischio lavorativi sottovalutati , è un intervento di Angelo d’Errico (Servizio Sovrazonale di Epidemiologia, ASL TO3) al seminario “Le patologie professionali e miglioramento delle notizie sullo stato di salute dei lavoratori: l’occasione dei Piani regionali di prevenzione 2015-2018” che si è tenuto il 18 settembre 2015 a Milano.

Nell’intervento “Fattori di rischio occupazionali emergenti e salute”, Angelo d’Errico si sofferma su vari fattori di rischio come l’insicurezza lavorativa, gli orari di lavoro, gli elevati ritmi lavorativi e le difficoltà nella conciliazione casa-lavoro riportando utili indicazioni sull’associazione con problemi e patologie psicofisiche.

Ci soffermiamo in particolare sulle problematiche connesse agli orari di lavoro, intesi come:

  • long working hours: definite come più di 48 ore a settimana;
  • night shift work: con riferimento al lavoro a turni, con orario notturno.

Il relatore ricorda che entrambi sono stati associati ad aumentata probabilità di:

  • problemi di salute: malattie cardiovascolari e mentali, disturbi del sonno, diabete, disturbi gastrointestinali e muscolo-scheletrici, infortuni, disabilità;
  • alterazioni comportamentali: fumo, alcool, inattività fisica, dieta malsana.

Inoltre per il lavoro a turni sono stati riportati eccessi di tumori della mammella e della prostata (Classe 2A, IARC, 2007).

 

Tuttavia molti di questi studi soffrono di una inadeguata definizione dell’esposizione. Poiché queste caratteristiche del lavoro sono spesso correlate all’esposizione a fattori di rischio di tipo fisico (lavoro fisico intenso) e psicosociale (high demand, low control, high strain, effort-reward imbalance, social support) è controverso se gli effetti osservati non siano dovuti al confondimento da parte di altre esposizioni lavorative. Inoltre non è chiaro se le alterazioni comportamentali indotte siano mediatori dell’effetto del lavoro a orario prolungato o a turni sulla salute.

Uno schema riportato nell’intervento ricorda che il “long working hours” si collega a una ridotta disponibilità di tempo o ridotta capacità di utilizzare effettivamente il tempo per dormire, riposarsi o svolgere attività familiari o di svago e a una più lunga esposizione o aumentata vulnerabilità a: elevata pressione lavorativa e fattori di rischio occupazionali.

E tutto questo può avere impatto sul lavoratore (malattie, infortuni, qualità della vita, ecc.), sulla famiglia (cura dei familiari, qualità delle relazioni, reddito familiare, ecc.), sul datore di lavoro (produttività, qualità, costi di malattie e infortuni, ecc.), sulla comunità (costi di malattie e infortuni, ecc.).

Sono poi riportati diversi dati sull’esposizione a lunghi orari di lavoro (particolarmente evidente nel comparto agricolo, ma anche nel commercio e nei trasporti) e ricordato che ci sono risultati controversi per la correlazione con i problemi di salute mentale.

Riguardo invece al lavoro a turni si fa riferimento a:

  • associazione abbastanza consistente con la malattia ischemica coronarica sulla base degli studi di incidenza, ma non di mortalità;
  • associazioni consistenti con stress occupazionale (basso job control, alta effort-reward imbalance), conflitti casa-lavoro e deficit di recupero;
  • associazioni abbastanza consistenti con ridotta durata o qualità del sonno, fumo, body mass index, peso corporeo, ma non per alcool e attività fisica;
  • associazioni consistenti con diversi end-point intermedi o fattori di rischio biologici (aterosclerosi, colesterolemia, alterazioni linfocitarie, alterazioni della frequenza cardiaca e della sua variabilità, incrementi di cortisolo e noradrenalina, diabete, sindrome metabolica).

Ricordiamo che il relatore si sofferma ampiamente sulla eventuale correlazione tra “shift work” e cancro della mammella e riporta anche alcune indicazioni relative ad altre forme tumorali e a problemi di salute mentale.

Veniamo invece al tema delle elevate richieste di lavoro (high demand):

  • dimensione che cattura esposizione ad alti ritmi di lavoro e a carico di lavoro eccessivo sia fisico che mentale (forte correlazione con livello di esposizione a fattori ergonomici);
  • dimensione frequentemente esaminata insieme a quella del job control o del job reward nell’ambito dei modelli demand-control (Karasek, 1985) e effort-reward imbalance (Siegrist, 1996);
  • difficile quindi isolare in letteratura il suo effetto sulla salute, al netto di quello delle co-esposizioni psicosociali dei due modelli;
  • riportate associazioni soprattutto con: disturbi mentali (Stansfeld & Candy, 2006; Bonde, 2008); malattie cardiovascolari (Eller et al., 2009); disturbi muscolo-scheletrici (Da Costa & Vieira, 2010).

L’intervento riporta poi altre indicazioni sull’associazione tra stress sul lavoro, disturbi psicologici comuni e depressione.

Riguardo infine ai conflitti casa-lavoro si ricorda che la dimensione del conflitto casa-lavoro si riferisce a una condizione in cui gli ambiti del lavoro e della famiglia interferiscono così tanto che uno esercita un effetto negativo sull’altro.

E secondo il NIOSH, “il conflitto casa-lavoro è uno dei 10 fattori stressogeni lavorativi più importanti” (Kelloway , 1999).

Si indica poi che la teoria prevalente su cui si basano gli effetti sulla salute associati è la “role strain hypothesis”, che afferma che il conflitto casa-lavoro è una forma di conflitto tra ruoli nel quale la pressione derivante dal ruolo lavorativo e quello familiare sono per qualche aspetto mutualmente incompatibili (Greenhaus e Beutell, 1985).

Si segnala poi che numerosi studi hanno dimostrato un’associazione tra work-family conflict e disturbi mentali ( ansia, depressione, burnout).

Concludiamo segnalando che alcuni studi europei, con riferimento al doppio carico di lavoro, hanno mostrato che le donne che combinano lavoro retribuito e cura dei figli riportano più sintomi fisici e psicologici di donne occupate senza figli (Krantz, 2001, 2005; Vaananen, 2004).

Tuttavia, la maggior parte degli studi longitudinali sul “doppio carico” non hanno trovato effetti sulla salute generale o sulla mortalità delle donne con questi ruoli multipli (Waldron, 1998).

Al contrario, i pochi studi che hanno indagato l’effetto del doppio carico sulla salute cardiovascolare hanno osservato un aumento del rischio tra le donne occupate con figli (Haynes e Feinleib, 1980; Lee, 2003; Zimmerman e Hartley, 1982; James, 1989; Brisson, 1999).

Il documento “Fattori di rischio occupazionali emergenti e salute” a cura di Angelo d’Errico è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151217_fattori_rischio_emergenti.pdf

 

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LA DIRETTIVA MACCHINE E IL PRINCIPIO DI INTEGRAZIONE DELLA SICUREZZA

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

24 febbraio 2016

 

Le caratteristiche e i principi della Direttiva Macchine 2006/42/CE.

L’evoluzione della normativa, il campo di applicazione, gli aspetti rilevanti, i requisiti essenziali di sicurezza e gli obblighi del fabbricante di una macchina.

 

In relazione ai molti incidenti sul lavoro che avvengono in Italia nell’uso di attrezzature di lavoro, è utile che il nostro giornale torni in modo ricorrente a parlare di sicurezza delle macchine e della normativa correlata, con particolare riferimento alla Direttiva macchine 2006/42/CE.

Infatti questi infortuni possono essere ridotti integrando la sicurezza nelle fasi di progettazione e di costruzione ed effettuando una corretta installazione e manutenzione.

 

In questo senso il principio di integrazione della sicurezza prevede nell’ordine:

  • eliminazione dei rischi in fase progettuale;
  • riduzione dei rischi in fase progettuale;
  • adozione di protezioni o dispositivi di sicurezza;
  • evidenziazione, nelle istruzioni, dei rischi residui non eliminabili.

Ed è basandosi su queste considerazioni che sono state emanate nel tempo una serie di Direttive comunitarie relative alle macchine che interessarono la produzione, la commercializzazione delle macchine e la responsabilità dei vari soggetti coinvolti nelle attività lavorative ai fini della prevenzione infortuni.

 

A parlare in questi termini della normativa europea sulla sicurezza delle macchine è uno dei documenti pubblicati dal Dipartimento Ingegneria Civile Edile Ambientale dell’ Università degli Studi di Napoli Federico II, a cura di Fabrizio Leccisi in materia di “Organizzazione del cantiere”.

Il documento “La Direttiva Macchine (2006/42/CE)” ricorda che la Direttiva Macchine rappresenta dal punto di vista tecnico un insieme di regole per la produzione delle macchine e dal punto di vista amministrativo un insieme di adempimenti burocratici da soddisfare al momento della loro commercializzazione, prescrivendo che una macchina, per essere immessa sul mercato della UE, debba:

  • risultare accettabilmente sicura (rispetto dei Requisiti Essenziali di Sicurezza (RES), con analisi rischi e conseguente applicazione di norme tecniche);
  • essere costruita sulla base di un progetto tecnico disponibile in caso di contestazione (fascicolo tecnico);
  • essere riconoscibile (targa del costruttore e marcatura CE);
  • essere accompagnata da un libretto (manuale di istruzioni per l’uso e la manutenzione);
  • essere garantita da una assunzione di responsabilità da parte del fabbricante (dichiarazione di conformità).

E in relazione ai forti cambiamenti sia nell’ambito tecnologico che commerciale e al significativo aumento del numero di macchinari immessi sul mercato della UE provenienti da paesi extracomunitari, il Parlamento europeo ha emanato il 17 maggio 2006 la Direttiva 2006/42/CE (in sostituzione della precedente Direttiva 98/37/CE) includendo nell’ambito di applicazione attrezzature che ricadevano nell’ambito di altre Direttive di prodotto o che erano escluse dall’ambito di tutte le Direttive di prodotto, chiarendo le esclusioni di alcune macchine dall’ambito di applicazione della Direttiva ed inserendo RES relativi a nuove categorie di macchine e alla evoluzione tecnologica, rivedendo l’elenco delle macchine nell’Allegato IV (macchine con rischi specifici ed elevati), dettando nuovi criteri minimi, adeguandoli a quelli riportati nelle altre Direttive, per la notifica degli organismi e determinando le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione della Direttiva.

Dunque la Direttiva Macchine è, in sostanza, un insieme di regole definite dalla CE, rivolto ai costruttori di macchine, che stabiliscono i RES relativi alla progettazione e alla costruzione delle macchine con il fine di migliorare la sicurezza dei prodotti immessi sul mercato europeo.

La Direttiva che avrebbe dovuto essere recepita entro il 29 giugno 2008 e applicata dal 29 dicembre 2009, in Italia è stata invece recepita con il D.Lgs. 17/10 entrato in vigore il 6 marzo 2010.

Il documento ricorda brevemente il campo di applicazione della nuova Direttiva Macchine che è stato riscritto per chiarire una serie di punti oggetto di interpretazioni disomogenee.

Il campo di applicazione comprende: macchine; attrezzature intercambiabili; componenti di sicurezza; accessori di sollevamento; catene, funi e cinghie; dispositivi amovibili di trasmissione meccanica; quasi-macchine. Esso è stato esteso a: ascensori da cantiere; apparecchi portatili a carica esplosiva (pistole sparachiodi, pistole per macellazione o per marchiare) fino al 2011; apparecchi di sollevamento per persone con velocità di spostamento non superiore a 0,15 m/s.

Dopo essersi soffermato sulla definizione di macchina e quasi macchina, il documento ricorda che nella parte introduttiva delle Direttive di prodotto sono posti i “considerando” che ne racchiudono la filosofia. I “considerando” non hanno forza legale e di solito non figurano nei recepimenti nazionali, tuttavia costituiscono un supporto per comprendere la Direttiva. La Corte di giustizia europea potrebbe tenere in considerazione i considerando per accertare le intenzioni dei legislatori.

 

Inoltre la Direttiva aggiunge due nuovi elementi chiave:

  • istituzione di un quadro giuridico entro il quale la sorveglianza del mercato possa svolgersi in modo armonioso;
  • attenzione verso il consumatore.

 

La Direttiva differenzia poi le macchine in due grandi macro gruppi:

  • macchine che devono essere certificate da Enti Terzi (macchine comprese nell’Allegato IV);
  • macchine che possono essere autocertificate dal fabbricante.

In particolare per le macchine comprese nell’Allegato IV la conformità ai RES è stabilita nel corso di procedure di valutazione eseguite da appositi Enti (Organismi Notificati).

Per tutte le altre è sufficiente redigere e conservare il Fascicolo Tecnico della Costruzione per le macchine e la Documentazione Tecnica pertinente per le quasi-macchine in accordo con quanto riportato nell’Allegato V della Direttiva. Tutte le macchine immesse sul mercato o modificate dopo l’entrata in vigore della Direttiva, devono riportare la marcatura CE ed essere accompagnate da appropriata documentazione. I prodotti non rispondenti ai RES della Direttiva non possono accedere al mercato europeo.

Il documento riporta poi le esclusioni dal campo di applicazione della Direttiva Macchine, e ricorda che, per ognuna delle possibili situazioni pericolose connesse al funzionamento di una macchina, la Direttiva fissa i principi da rispettare, cioè i RES, contenuti nell’Allegato I, che il fabbricante deve rispettare. Gli obblighi previsti dai RES si applicano se sussiste il rischio corrispondente.

In particolare l’Allegato I è suddiviso in 6 capitoli:

  • I – RES generali per tutte le macchine;
  • II – RES per talune categorie di macchine agroalimentari, portatili e per la lavorazione del legno e materie assimilate;
  • III – RES per ovviare a rischi particolari dovuti alla mobilità delle macchine;
  • IV – RES per prevenire i rischi particolari dovuti ad una operazione di sollevamento;
  • V – RES destinati ad essere utilizzati esclusivamente nei lavori sotterranei;
  • VI – RES per evitare i rischi particolari connessi al sollevamento ed allo spostamento delle persone.

Secondo la Direttiva, il fabbricante di una macchina ha l’obbligo di:

  • espletare le procedure di valutazione della conformità ai sensi dell’articolo 12;
  • accertare che la macchina soddisfi i RES dell’Allegato I;
  • costituire il Fascicolo Tecnico e fare in modo che sia disponibile, come da Allegato VIIA;
  • fornire il Manuale d’Uso e Manutenzione;
  • redigere la Dichiarazione di Conformità ai sensi dell’Allegato II;
  • apporre la Marcatura CE ai sensi dell’articolo 16.

In questo senso l’applicazione del marchio CE è l’ultima azione di una corretta produzione e dimostra che la macchina, sulla quale è apposto, è stata costruita nel rispetto di tutte le norme vigenti nell’ambito di utilizzo.

Concludiamo questa breve presentazione del documento (che affronta nel dettaglio anche il tema della marcatura CE, della dichiarazione di conformità e delle sanzioni previste dal D.Lgs. 17/10) ricordando che anche un soggetto che fabbrica una macchina per uso personale è considerato un fabbricante e deve assolvere a tutti gli obblighi di cui all’articolo 5 del D.Lgs. 17/10.

In questo caso, si segnala che anche se la macchina non viene immessa sul mercato, in quanto non è fornita dal fabbricante a un altro soggetto ma è utilizzata dal fabbricante stesso, tale macchina dovrà essere conforme alla Direttiva Macchine prima della messa in servizio. E questo vale analogamente per un utilizzatore che fabbrica un insieme di macchine per uso personale.

Il documento del Dipartimento Ingegneria Civile Edile Ambientale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II “La Direttiva Macchine (2006/42/CE)” a cura di Fabrizio Leccasi è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/160215_Uni_Na_Direttiva_macchine.pdf

 

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IL PREPOSTO NELLE SENTENZE DELLA CASSAZIONE DEGLI ULTIMI MESI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

25 febbraio 2016

di Anna Guardavilla

 

Gli obblighi informativi verso i lavoratori e di segnalazione verso i superiori, la tolleranza delle prassi pericolose quotidiane, la presenza sul luogo di lavoro, il coordinamento negli appalti, il perimetro delle sue responsabilità.

 

Il ruolo, gli obblighi e le responsabilità del preposto sono stati oggetto di numerose Sentenze emanate dalla Corte di Cassazione Penale negli ultimi due mesi, le quali hanno per lo più applicato l’articolo 19 del D.Lgs. 81/08 essendosi pronunciate sulle responsabilità connesse ad infortuni verificatisi dopo il 2008.

 

L’OBBLIGO DEL PREPOSTO DI INFORMARE I LAVORATORI ESPOSTI AL RISCHIO DI UN PERICOLO GRAVE E IMMEDIATO E DI SEGNALARE AL DATORE DI LAVORO LE SITUAZIONI DI PERICOLO

La Cassazione Penale con Sentenza n. 3626 del 27 gennaio 2016 ha confermato la condanna di un RSPP e di un preposto per il reato di lesioni personali colpose in danno di un lavoratore dipendente di una ditta produttrice di ceramiche.

L’infortunio era avvenuto durante un’operazione di smontaggio, pulitura e rimontaggio di un atomizzatore: in particolare il lavoratore, “dopo avere rimosso il materiale che occludeva la parte inferiore dell’apparecchiatura attraverso lo smontaggio del cono inferiore dello stesso, veniva attinto alla gamba sinistra dal detto cono, del peso di circa 50 chilogrammi, caduto sotto la spinta di un blocco di materiale atomizzato distaccatosi dalle pareti dell’atomizzatore”.

Riguardo ai due imputati, “al C.B. il reato é contestato nella sua qualità di preposto al reparto macinazione dello stabilimento, per aver sottostimato i rischi di caduta di materiale dall’interno dell’apparecchiatura e per avere omesso di dare al lavoratore informazioni sulle regole di prevenzione e protezione da osservare, in violazione dell’articolo 19, comma 1, del D.Lgs. 81/08; al C.D. il reato é contestato nella sua qualità di responsabile del servizio sicurezza sul lavoro dello stabilimento, per non avere individuato, nella valutazione dei rischi presso il reparto, specifiche e dettagliate misure di sicurezza da adottare durante le operazioni di pulizia e manutenzione dell’atomizzatore, in violazione dell’articolo 28, comma 2 lettera d), del D.Lgs. 81/08”.

Per quanto concerne la posizione del preposto, la sentenza specifica che “é corretta e adeguata la motivazione della sussistenza, in capo al C.B., del profilo della colpa, non avendo egli (mentre era impegnato accanto al lavoratore infortunatosi nell’esecuzione della manovra) effettuato il controllo delle pareti interne con la dovuta diligenza, posto che l’evento poi verificatosi testimonia che egli, ove mai avesse effettuato il detto controllo, vi avrebbe provveduto in modo negligente e dunque non rispondente alle regole cautelari, come tale caratterizzato quanto meno da colpa generica. E’ perciò corretto il ragionamento seguito dalla Corte territoriale laddove essa afferma che, qualora il controllo fosse stato eseguito in modo diligente, il C.B. avrebbe visto la presenza del blocco di materiale e avrebbe potuto quindi evitare che essa, cadendo, provocasse l’incidente”.

Sul tema relativo agli obblighi informativi (nei confronti dei lavoratori) e di segnalazione (nei confronti dei superiori) del preposto vi è un’altra interessante sentenza, di qualche giorno successiva alla precedente.

Infatti la Cassazione Penale con Sentenza n. 4340 del 2 febbraio 2016 ha giudicato le responsabilità di un RSPP e di un preposto alla direzione esecutiva e capocantiere, quest’ultimo “per non avere informato i lavoratori dello specifico rischio da sprofondamento e seppellimento e sulle precauzioni da prendere e per non avere segnalato al datore di lavoro o al dirigente la situazione di pericolo presente nel cantiere, ai sensi dell’articolo 119 del D.Lgs. 81/08”.

Riguardo alla posizione del capocantiere, secondo la Corte “deve respingersi la pur suggestiva tesi che vorrebbe il preposto esonerato, in questo caso, dagli obblighi di garanzia, non trattandosi di situazione di rischio accidentalmente sopravvenuta, da segnalare alla dirigenza e al datore di lavoro. Invero, qui non si è in presenza di un’inadeguatezza attinente al corredo strumentale d’azienda, già preventivamente nota al datore di lavoro, ma di una modalità di lavorazione, manifestamente in dispregio delle norme cautelari minime, che si rinnovava quotidianamente con la scelta di non proteggere le pareti degli scavi, via via aperti. Non si tratta, in definitiva, della decisione, presa una volta per tutte dal datore di lavoro o dalla dirigenza di impiegare un certo macchinario, ma del rinnovare ogni giorno una prassi lavorativa altamente rischiosa. Situazione, questa, che avrebbe imposto di segnalare ogni giorno (ammesso che la prassi lavorativa non dipenda dallo stesso preposto) la condizione di pericolo elettivo”.

Dunque “a prescindere dalla violazione del dovere di segnalazione (articolo 19, comma 1, lettera f) del D.Lgs. 81/08), risulta pienamente integrata la violazione del precetto che impone di avvisare i lavoratori esposti (articolo 19, comma 1, lettera d) del D.Lgs. 81/08)”.

Secondo la Cassazione il preposto non avrebbe dovuto avallare “condizioni […] di altissimo rischio che, in ogni caso, al momento del suo allontanamento dal cantiere avrebbero dovuto consigliargli di ordinare l’integrale sospensione dei lavori. Conclusivamente […] il capo cantiere, la cui posizione è assimilabile a quella del preposto, assume la qualità di garante dell’obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive ricevute e ne controlla l’esecuzione sicché egli risponde delle lesioni occorse ai dipendenti (vedi Sentenza della Corte di Cassazione n. 9491 del 10 gennaio 2013)”.

IL PREPOSTO E IL COORDINAMENTO NEGLI APPALTI

Nella Sentenza della Cassazione Penale n. 1836 del 18 ottobre 16 è stata contestata a un datore di lavoro e a un preposto la responsabilità per un infortunio nel quale ha perso la vita un operaio investito dal carico di una gru che si era ribaltata all’interno dell’area di cantiere in cui egli stava lavorando.

In particolare erano stati ravvisati “profili di colpa generica (negligenza, imprudenza ed imperizia) e specifica, in relazione all’articolo 7 del D.Lgs .626/94 [ora articolo 26 del D.Lgs. 81/08], in quanto il datore di lavoro non aveva promosso quell’azione di cooperazione e coordinamento per l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa in corso, al fine di garantire che l’autogrù operasse in cantiere in condizioni di assoluta sicurezza, e il preposto perché non era intervenuto con azioni correttive nel momento in cui si era reso conto dell’assenza di tale coordinamento”.

La Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata con cui il Tribunale dichiarava di non doversi procedere e ha disposto la trasmissione degli atti al Tribunale per l’ulteriore corso.

IL PERIMETRO DELLA RESPONSABILITÀ DEL PREPOSTO IN RELAZIONE A QUELLA DEL DIRIGENTE: DOVE FINISCE LA RESPONSABILITA’ DEL CAPOCANTIERE E INIZIA QUELLA DEL DIRETTORE TECNICO

Con Sentenza n. 2539 del 21 gennaio 2016 la Cassazione Penale ha rigettato il ricorso del direttore tecnico di un’impresa edile riconosciuto responsabile per l’infortunio che era occorso al capocantiere “a seguito del cedimento, per eccessivo carico (costituito da una benna carica appoggiata per l’asportazione dei detriti), del solaio”.

Secondo la Corte l’imputato (direttore tecnico, dirigente ai fini della sicurezza) “avrebbe dovuto in questa sua veste vigilare le attività quotidianamente svolte e pretendere che gli operai lavorassero ancorati a funi di sicurezza”.

Il ricorrente (direttore tecnico) si difende affermando che “rivestendo l’infortunato la posizione di capo cantiere era tenuto a rispettare le misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro e dai responsabili aziendali, non avendo egli spazi di autonomia per disattenderle, sicché la sua condotta omissiva, del tutto imprevedibile nonostante la vigilanza [del direttore tecnico] aveva reso l’infortunio tutto dipendente dalle sue scelte”.

 

Ma secondo la Cassazione “tale tesi difensiva, già disattesa dai giudici di merito, è priva di pregio”. Infatti, ricorda la Sentenza, “in tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascun garante risulta per intero destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, fino a che non si esaurisca il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia: in particolare, il direttore tecnico e il capo cantiere, figure inquadrabili rispettivamente in quella del dirigente e del preposto, sono titolari di autonome posizioni di garanzia, seppure a distinti livelli di responsabilità, dell’obbligo di dare attuazione alle norme dettate in materia di sicurezza sul lavoro”.

Pertanto “ne consegue che la nomina di un capo cantiere non implica di per sé il trasferimento a quest’ultimo della sfera di responsabilità propria del ruolo dirigenziale del direttore tecnico (vedi Sentenze della Corte di Cassazione n. 46849 del 19 dicembre 2011 e n.8593 del 27 febbraio 2008)”.

E “dunque, se è vero che il capo cantiere è destinatario diretto dell’obbligo di verificare che le concrete modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative all’interno del cantiere rispettino le normative antinfortunistiche, deve rilevarsi che nel caso di specie il capocantiere ha affermato di aver deciso autonomamente che quel solaio poteva sopportare il carico della benna piena senza bisogno di particolare accorgimenti di sicurezza, compiendo così una valutazione che si è rivelata errata, e in ciò, ad avviso della Corte di merito si incentra la responsabilità del direttore tecnico, che quale direttore tecnico di cantiere aveva il preciso obbligo di verificare il minuto rispetto delle norme di sicurezza e di far osservare quanto previsto dal Piano Operativo di Sicurezza e dal piano delle demolizioni, e non rimettere agli stessi dipendenti la salvaguardia della loro incolumità”.

In conclusione “l’imputato avrebbe dovuto vigilare e tenere sotto controllo le attività quotidianamente svolte nel cantiere, evitando di consentire ai dipendenti di operare scelte spettanti alla dirigenza e di assumere iniziative operative proprie, e nella specie avrebbe dovuto pretendere e accertarsi che gli operai lavorassero ancorati alle funi di sicurezza come previsto dal ripetuto piano delle demolizioni e non rimanere assente dal cantiere, sebbene informato del lavoro da svolgere, senza aver imposto le osservanze di salvaguardia”.

L’ASSIDUITA’ DELLA PRESENZA DEL PREPOSTO SUI LUOGHI DI LAVORO

La Cassazione Penale con Sentenza n. 49361 del 15 dicembre 2015 ha confermato l’assoluzione del capo squadra di una ditta di Costruzioni nonché preposto alla sicurezza in cantiere “nell’esecuzione dei lavori edili commissionati dalla Raffineria di G.”, al quale era stato contestato il reato di lesioni personali ai danni di un lavoratore “per aver disposto l’esecuzione di lavorazioni contrastanti con il permesso di lavoro rilasciato dal responsabile della ditta committente, e per aver omesso di informare il lavoratore infortunato della presenza di zolfo liquido all’interno di una vasca di contenimento in prossimità del quale il lavoratore si era trovato a eseguire la propria prestazione, così propiziandone la caduta all’interno della vasca e le conseguenti gravi ustioni dallo stesso riportate”.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso avanzato dal Procuratore Generale in virtù della “sostanziale inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa” e di un altro testimone nonché in virtù del fatto che risultava sufficientemente provata la “abnormità della condotta di lavoro del prestatore infortunato”, elementi che sono “valsi a escludere l’acquisizione di una certezza, aldilà di ogni ragionevole dubbio, circa la colpevolezza dell’imputato”.

E’ interessante il punto della sentenza in cui la Cassazione sottolinea “l’impossibilità di radicare in capo all’imputato un obbligo di presenza costante e continua sui luoghi di lavoro […], specie se riferiti a un comportamento, quale quello verosimilmente tenuto dalla persona offesa, del tutto estraneo alle quotidiani e abituali attività degli operai, avendo peraltro l’imputato in ogni caso comprovato il dato di una presenza comunque assidua sul cantiere, in coerenza a quanto confermato da altri testi escussi, oltre alla stessa persona offesa”.

IL PREPOSTO E LA TOLLERANZA DI PRASSI DI LAVORO PERICOLOSE IN ASSENZA DI PRESIDI ANTINFORTUNISTICI

Con Sentenza n. 4325 del 2 febbraio 2016 la Cassazione Penale ha confermato la condanna (per lesioni colpose) di un datore di lavoro e di un preposto i quali “nelle rispettive qualità hanno consentito che il lavoratore (e prima di lui altri operai), svolgesse un’attività di evidente pericolosità, senza mettere a sua disposizione l’unico mezzo di prevenzione sicuro, costituito dall’anello unico. Condotta questa aggravata dalla circostanza che la vittima era un mero apprendista al quale non era stata fornita una sufficiente formazione e informazione dei rischi del lavoro che svolgeva”.

Il datore di lavoro, in particolare, aveva “omesso di adottare tutti i provvedimenti tecnici organizzativi e procedurali necessari, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori dell’impresa, omettendo di scegliere una imbracatura e i relativi accessori di sollevamento appropriati alla natura, alla forma ed al volume di una gabbia in ferro sagomato e barre in acciaio lunga 12 m e del peso di 1.633 kg agganciata per mezzo di catene ad una gru a ponte”.

La Corte precisa che “dell’incidente dovevano rispondere il datore di lavoro e il preposto, considerato che il lavoratore non aveva avuto una sufficiente formazione e informazione, nonché per il fatto che in azienda erano tollerate e non controllate prassi di lavoro pericolose”.

E conclude: riguardo al “preposto, egli era garante dell’obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, sovraintendendo alle attività, impartendo istruzioni, dirigendo gli operai, attuando quindi le direttive ricevute. In ragione della sua “prossimità” al rischio aveva tutta la possibilità di evitare l’evento controllando ed impedendo prassi di lavoro pericolose in assenza della presenza di presidi che garantissero la sicurezza del lavoro”.

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.245 DEL 24/02/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.245 DEL 24/02/16

 

INDICE

  • Requisiti di sicurezza delle macchine e norme tecniche di riferimento
  • Tranquilli, il lavoro uccide come al solito!
  • Se fate il turno di notte, la vostra salute è a rischio
  • Cassazione: no al licenziamento per sopravvenuta incapacità totale di svolgere le precedenti mansioni
  • Come e quando avvengono i controlli nelle aziende?
  • Guida alla collaborazione col medico competente
  • Le novità relative alla valutazione del rischio chimico

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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REQUISITI DI SICUREZZA DELLE MACCHINE E NORME TECNICHE DI RIFERIMENTO

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.71

 

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti dei lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

 

 

QUESITO

 

Ciao Marco,

come sempre grazie per le informazioni che ricevo puntuali e che danno spunti di riflessione sull’andamento della sicurezza e salute.

Ti scrivo per porti un paio di quesiti che non trovano risposta, se non nei manuali tecnici difficilmente raggiungibili almeno per me: spero tu possa darmi una mano.

Ci legge in copia sempre il mio RSU di riferimento il quale mi segnala tempestivamente ogni situazione anomala.

Il quesito primo riguarda il piano di carico di un veicolo per la raccolta dei rifiuti del tipo a vaschetta la cui apertura laterale supera i 152 cm da terra. Vorrei sapere se questa misura corrisponde alla normativa UNI EN 1501-2, sempre per la questione della movimentazione Manuale dei carichi.

Leggendo alcuni tuoi articoli si menzionava una altezza di cm 140, ma questo con vani carico posteriore: non so se questa misura si applica anche a quelli laterali.

Un secondo quesito è sul tubo dei gas di scarico dei mezzi per la raccolta dei rifiuti compattatori, con uso delle pedane posteriori, il quale risulta a livello quasi stradale e non come prevede la normativa UNI EN 1501-1, la quale indica che i gas devo essere convogliati verso l’alto.

In questo sorgono anche a me dei dubbi sulla norma UNI, cioè se sia cogente o meno al fine di una eventuale segnalazione all’organo competente.

Ringraziandoti come sempre della tua disponibilità ti saluto cordialmente.

 

 

RISPOSTA

 

Ciao,

occorre premettere che le norme da te citate e in generale quelle relative ai veicoli per la raccolta dei rifiuti (VRR), cioè

  • UNI EN 1501-1:2015 “Veicoli raccolta rifiuti – Requisiti generali e di sicurezza – Parte 1: Veicoli raccolta rifiuti a caricamento posteriore”;
  • UNI EN 1501-2:2010 “Veicoli raccolta rifiuti e relativi dispositivi di sollevamento – Requisiti generali e di sicurezza – Parte 2: Veicoli raccolta rifiuti a caricamento laterale”;
  • UNI EN 1501-3:2008 “Veicoli raccolta rifiuti e relativi dispositivi di sollevamento – Requisiti generali e di sicurezza – Parte 3: Veicoli raccolta rifiuti a caricamento frontale”;
  • UNI EN 1501-4:2008 “Veicoli raccolta rifiuti e relativi dispositivi di sollevamento – Requisiti generali e di sicurezza – Parte 4: Codice di prova dell’emissione acustica per veicoli raccolta rifiuti”;
  • UNI EN 1501-5:2011 “Veicoli raccolta rifiuti – Requisiti generali e di sicurezza – Parte 5: Dispositivi di sollevamento per veicoli raccolta rifiuti”;

sono norme armonizzate, così come definite dall’articolo 2, comma 1, lettera n) del D.Lgs.17/10 (recepimento italiano della Direttiva Macchine Europea 2006/42/CE):

specifica tecnica adottata da un organismo di normalizzazione, ovvero il Comitato europeo di normalizzazione (CEN), il Comitato europeo di normalizzazione elettrotecnica (CENELEC) o l’Istituto europeo per le norme di telecomunicazione (ETSI), nel quadro di un mandato rilasciato dalla Commissione europea conformemente alle procedure istituite dalla direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 giugno 1998, che prevede un procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, e non avente carattere vincolante”.

 

Tali norme, come specificato nella definizione non sono vincolanti per il costruttore di macchine, ma, come si suol dire danno la “presunzione di conformità” ai requisiti di sicurezza dell’Allegato I della Direttiva Macchine che invece sono obbligatori.

 

Infatti, secondo l’articolo 4, comma 2 del D.Lgs.17/10:

Le macchine costruite in conformità di una norma armonizzata, il cui riferimento è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, si presumono conformi ai requisiti essenziali di sicurezza e di tutela della salute coperti da tale norma armonizzata”.

Ciò significa che se il costruttore segue integralmente una norma armonizzata (anche se non è obbligato a farlo) ha la sicurezza legislativa che la macchina costruita sia conforme anche ai requisiti obbligatori di salute e sicurezza contenuti nell’Allegato I della Direttiva Macchine e quindi possa essere immessa sul mercato, secondo gli adempimenti stabiliti dalla Direttiva stessa.

Se il costruttore invece non rispetta uno o più punti della norma armonizzata dovrà dimostrare formalmente all’organismo di certificazione (privato) del VRR o all’organismo di vigilanza (pubblico, cioè l’ASL) che ha adottato soluzioni tecniche equivalenti o migliori rispetto a quelle contenute nella norma armonizzata e che consentano comunque il rispetto dei requisiti obbligatori stabiliti dall’Allegato I della Direttiva Macchine.

 

Per quanto riguarda il primo aspetto che citi, sia la norma 1501-1 (per i VRR a caricamento posteriore) sia la 1501-2 (per i VRR a caricamento laterale) pongono dei limiti all’altezza della soglia di carico della tramoggia di raccolta dei rifiuti.

Le due norme dividono tale requisiti tra sistemi di “tipo aperto” per i quali il movimento del meccanismo di compattazione dei rifiuti interno alla tramoggia di carico può avvenire solo manualmente con comandi ad azione di mantenimento (cioè che devono essere mantenuti azionati per permettere il movimento) e sistemi di “tipo chiuso” per il quali il movimento di compattazione può avvenire anche in maniera automatica o semiautomatica, quindi con pulsanti ad azione diretta e non mantenuta.

 

In particolare la 1501-1 impone un’altezza minima di 1.000 mm per l’altezza della soglia di carico per sistemi di tipo aperto e di 1.400 mm per sistemi di tipo chiuso.

Se l’altezza è variabile a causa di una spondina incernierata che permette l’apertura parziale della tramoggia di carico, a sponda abbassata (sistema di tipo aperto) l’altezza deve essere maggiore di 1.000 mm e la compattazione automatica o semiautomatica deve essere impedita da un sensore di sicurezza che legga la posizione della spondina, mentre a sponda alzata (sistema di tipo chiuso) l’altezza deve essere maggiore di 1.400 mm e può essere permessa la compattazione automatica o semiautomatica.

Analogo discorso vale per i VRR a caricamento laterale, dove ancora l’altezza minima della soglia di carico per i sistemi di tipo aperto deve essere di 1.000 mm e quella per i sistemi di tipo chiuso deve essere di 1.400 mm.

Ovviamente se il VRR (posteriore o laterale) non ha meccanismo di compattazione rifiuti interno alla tramoggia, non ci sono vincoli per l’altezza minima della soglia di carico.

 

Le altezze minime sopra citate non sono state però pensate, dai comitati tecnici che hanno definito le norme armonizzate di cui sopra, in termini di ergonomia del carico manuale dei rifiuti, ma solo in termini di protezione dell’operatore dai rischi di cesoiamento o schiacciamento degli arti superiori da parte del meccanismo di compattazione.

Di conseguenza i costruttori non hanno vincoli sull’altezza massima della soglia di carico, indipendentemente da considerazioni di carattere ergonomico o di movimentazione manuale dei carichi.

 

Spetta al datore di lavoro della azienda di raccolta rifiuti eseguire una specifica valutazione del rischio da movimentazione manuale dei carichi (ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera a) e dell’articolo 169 del D.Lgs. 81/08), tenendo conto non solo dei vincoli tecnici imposti dalle norme 1501 e di conseguenza dell’altezza di conferimento dei rifiuti, ma anche di altri fattori quali la durata del compito, la frequenza di sollevamento, il peso dei carichi da movimentare.

A seguito di tale valutazione il datore di lavoro dovrà individuare misure di prevenzione e protezione tecniche o organizzative per ridurre il fattore di rischio (ad esempio equipaggio composto da due persone che alternativamente guidano il veicolo e caricano i rifiuti).

Su tale aspetto quindi la segnalazione all’autorità competente non può essere fatta nei confronti del costruttore del VRR, ma semmai deve essere fatta nei confronti del datore di lavoro dell’azienda utilizzatrice.

 

Per quanto riguarda il secondo aspetto le norme 1501 pongono dei vincoli ben precisi alla configurazione della tubazione di scarico.

Per quanto riguarda i VRR a caricamento posteriore, il punto 5.16.1 “Tubo di scarico” della norma 1501-1 specifica chiaramente che:

Il flusso dello scarico del motore deve essere diretto lontano dagli spazi di lavoro e dalle pedane se presenti. E’ preferibile un sistema di scarico verticale. Il sistema di scarico deve essere opportunamente montato e/o protetto per prevenire ogni ustione alla pelle”.

Per quanto riguarda i VRR a caricamento laterale il punto 6.13.1 “Tubo di scarico” della norma 1501-2 specifica chiaramente che:

Il flusso di scarico del motore deve essere allontanato dalle postazioni di lavoro. Il tubo di scarico deve essere montato o protetto in modo da evitare il rischio di ustioni secondo la norma EN ISO 13732-1:2006”.

Tali requisiti sono definiti dalle norme per evitare ustioni alla pelle degli operatori, come chiaramente specificato.

Essi garantiscono il rispetto del requisito di sicurezza definito dall’Allegato I della Direttiva Macchine, che al punto 1.5.5 “Temperature estreme” impone che:

Devono essere prese opportune disposizioni per evitare qualsiasi rischio di lesioni causate dal contatto o dalla vicinanza con parti della macchina o materiali a temperatura elevata o molto bassa”.

 

Come ho detto prima i requisiti di cui sopra specificati nella norma armonizzate non sono obbligatori, purché il costruttore del VRR dimostri formalmente (nel documento “analisi dei rischi” che è parte integrante del Fascicolo Tecnico di costruzione della macchina e che deve essere custodito dal fabbricante e reso disponibile all’autorità competente) che ha adottato misure alternative di prevenzione o protezione dei rischi, analoghe o migliori di quelle richieste dalle norme armonizzate e che comunque permettano il rispetto del punto sopra citato del D.Lgs.17/10 (Direttiva Macchine) che è invece un requisito obbligatorio e non derogabile.

 

Tieni conto che i costruttori di VRR non realizzano l’autotelaio sul quale montano il cassone di raccolta rifiuti e quindi non hanno la possibilità di progettare la tubazione di scarico secondo quanto richiesto dalle norme 1501. In ogni caso essi devono introdurre delle misure progettuali (ad esempio protezioni isolanti dal calore) per eliminare i rischi (da ustione in questo caso) derivanti dalla non conformità alle norme armonizzate.

Dalle tue informazioni risulta che questo non è stato assolutamente fatto, pertanto, in questo caso potete rivolgervi all’autorità di vigilanza per segnalare la mancata osservanza (da parte del costruttore in questo caso) della norma tecnica e della mancata applicazione di soluzioni progettuali alternative a quelle indicate dalla norma, ma che abbiano la stessa efficacia in termini di protezione dalle ustioni e che rispettino comunque il requisito citato della Direttiva Macchine.

 

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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TRANQUILLI, IL LAVORO UCCIDE COME AL SOLITO!

 

Da La Città Futura

http://www.lacittafutura.it

19 febbraio 2016

di Carmine Tomeo

 

Scusate la provocazione. Però, capirete che fa rabbia leggere allarmi sulle morti nei luoghi di lavoro solo quando ci sono incidenti mortali eclatanti che coinvolgono più lavoratori nello stesso cantiere o quando, come in questi giorni, qualcuno fa notare un aumento dei casi nell’arco di un anno rispetto a quello precedente. Nel 2015, in rapporto alle ore lavorate, sono morti tanti lavoratori quanti nel 2014. E ogni anno sono molti di più dei militari morti nelle “missioni di pace”. A non fare notizia è la condizione dei lavoratori: precari, sotto ricatto, sfruttati, che svolgono lavori poco sicuri.

 

L’Osservatorio Vega Engineering di Mestre, con un lavoro molto apprezzabile, da anni diffonde mensilmente i dati sulle morti che avvengono nei luoghi di lavoro; l’Osservatorio indipendente di Bologna fa un lavoro encomiabile con il monitoraggio degli incidenti mortali sul lavoro, in tempo reale. Sono due esempi di rilevazione sulla strage quotidiana nei luoghi di lavoro, che dovrebbero far sobbalzare dalla sedia ogni volta che se ne leggono i dati. E invece, troppo spesso, si attende la fine dell’anno per stracciarsi le vesti perché c’è stato un X% di morti in più sul lavoro. Come se nel 2014 l’Italia potesse considerarsi un Paese che conosce la civiltà del lavoro perché ci sono stati “solo” 1.107 lavoratori morti e non 1.172, come nel 2015.

 

Sia chiaro: ogni volta che si registrano morti in più siamo di fronte a una tragedia che si aggrava. Ma c’è da chiedersi: oltre 1.000 lavoratori ammazzati dal lavoro a causa di incidenti, sono accettabili? No, certo. E allora, di grazia, perché non ci si è allarmati per i 1.107 morti del 2014, per i 1.215 del 2013, per i 1.347 del 2012, per i 1.387 del 2011? Perché negli ultimi anni i morti sul lavoro erano in calo e ora sono tornati ad aumentare, si dirà. Ma ne siamo sicuri? A leggere i dati, non sembra ci fosse una tendenza alla riduzione di infortuni e morti sul lavoro così sostanziosa da far pensare che si fosse sulla strada giusta.

 

Ha senso considerare i numeri assoluti? Ovviamente, no. Dire che un chilo di pasta è una quantità eccessiva da mangiare, non ha senso senza dire in quanti pasti viene consumato o da quante persone. Lo stesso vale nel caso di infortuni e morti sul lavoro. Il rapporto minimo da considerare è quello tra numero di infortuni e incidenti mortali rispetto al numero dei lavoratori. Se consideriamo i dati INAIL, allora occorre rapportarli con il numero degli assicurati all’ente, che sono circa il 70% degli occupati rilevati dall’ISTAT. Un rapporto del genere mostra davvero un calo di infortuni in generale e di quelli mortali: dal 2011 al 2015, si è registrato un infortunio in meno ogni 100 lavoratori e un morto in meno ogni 100.000 lavoratori. Positivo, certo, ma tanto da restare praticamente indifferenti in questi anni di fronte a quei numeri! E questi dati ancora non raccontano la realtà in maniera esaustiva. Un dato più corretto è quello che mette in rapporto gli infortuni con le ore lavorate. Perché è chiaro che, a parità di pericolo al quale è soggetto, un lavoratore avrà tanta più probabilità di infortunarsi o ammalarsi quanto più tempo è esposto al rischio, cioè quante più ore di lavoro svolge.

 

L’ISTAT fa sapere che, mediamente, le ore settimanali effettivamente lavorate pro-capite sono state 37 nel 2011, e 36 dal 2012 al 2014. Con questi dati possiamo calcolare che ogni 10.000 ore lavorate si verificavano 14 infortuni nel 2011 e 12 nel 2014; allo stesso modo, ogni 10 milioni di ore lavorate, sono morti: 23 lavoratori nel 2011, 24 nel 2012, 22 nel 2013 e 20 nel 2014. Quest’ultimo dato è uguale a quello del 2015 (ipotizzando 36 ore lavorate pro-capite). Perché i 20 lavoratori morti nel 2015 allarmano più dei 20 del 2014? Dovrebbe destare allarme il fatto che sistematicamente la maggioranza delle denunce di infortunio mortale riguarda i lavoratori più anziani (la metà sia nel 2014 che nel 2015); e invece sistematicamente si alza l’età pensionabile. Dovrebbero impressionare le oltre 60.000 denunce di infortunio l’anno che riguardano lavoratori meno che quattordicenni, che qualche volta, poco più che bambini, muoiono sul lavoro (5 casi solo nel 2014), e invece il ministro Poletti parla di ridurre le vacanze, così che i “nostri giovani fanno un’esperienza formativa nel mondo del lavoro”.

 

E perché non ci si allarma per altre morti provocate dal lavoro, quali sono quelle che avvengono per malattia professionale? Eppure nel 2014 sono decedute quasi 1.000 persone per aver contratto una malattia a causa del lavoro. Ogni milione di ore lavorate, dal 2011 al 2014 l’INAIL ha riconosciuto la malattia professionale a 30 lavoratori, e di questi, due hanno contratto una malattia che li ha lentamente uccisi.

 

Eppure questi numeri, che nascondono la tragedia di vite spezzate da un lavoro insicuro, dovrebbero fare notizia, sempre. Perché raccontano di un modo di lavorare, spesso così rischioso da essere mortale. Sicuramente più rischioso di una “missione di pace”, visto che negli stessi anni (2011-2014) sono morti in quelle missioni 21 militari a fronte di oltre 5.000 lavoratori nelle fabbriche, nei cantieri, nelle strade. Tutti quei morti parlano di lavoratori esposti a rischi per la propria salute, la propria integrità fisica e la propria vita. Ed esposti a un ricatto sempre maggiore, sempre più ossessivo, che impone sempre maggiori sacrifici che, ci dicono, sono necessari per far ripartire la crescita. Quella crescita misurata con PIL da zero-virgola, di cui Renzi ed il suo governo si rallegrano ma che è prodotto, evidentemente, molto spesso con lavoro di bassa qualità, scarsa specializzazione, che compete solo sul costo del lavoro che viene ridotto anche sottraendo le spese per garantire condizioni di lavoro sicuro.

 

La riforma Fornero del lavoro, quella sulle pensioni, il Jobs Act, la destrutturazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, gli accordi che sacrificano diritti sull’altare della produttività, sono presupposti esattamente opposti a ciò che sarebbe necessario per contrastare la strage quotidiana sui luoghi di lavoro. Gli appelli per ridurre infortuni e morti sul lavoro, come le chiacchiere, stanno a zero. Alla loro riduzione servono controlli e processi più rapidi; ma soprattutto, il lavoro che uccide va contrastato con la riduzione delle forme di precarietà, ricatto, sfruttamento dei lavoratori e con un’estensione dei diritti e della democrazia nei luoghi di lavoro.

 

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SE FATE IL TURNO DI NOTTE, LA VOSTRA SALUTE E’ A RISCHIO

 

da La Stampa

http://www.lastampa.it

14/01/2015

di Nicla Panciera

 

SE FATE IL TURNO DI NOTTE, LA VOSTRA SALUTE E’ A RISCHIO

UNO STUDIO AMERICANO MISURA LE CONSEGUENZE NEGATIVE SULL’ALTERAZIONE DEL RITMO SONNO-VEGLIA: AUMENTANO RISCHI CARDIOVASCOLARI E ONCOLOGICI

LE REGOLE PER MINIMIZZARE I DANNI

 

Lavorare nelle ore notturne non fa bene alla salute. Le alterazioni del ciclo sonno-veglia hanno degli effetti negativi di lungo periodo sull’organismo dei lavoratori, come un maggior rischio di malattie cardiovascolari e oncologiche, che aumenta in modo proporzionale al numero di anni spesi adottando ritmi sfasati.

Lo dice uno studio condotto da un team internazionale, il più grande finora mai realizzato quanto a numero di soggetti analizzati (ben 75.000 infermiere) e al periodo di tempo considerato (22 anni).

 

I risultati, appena pubblicati sull’American Journal of Preventive Medicine, dicono che un’alterazione dei regolari ritmi del sonno, anche se per un periodo limitato di cinque anni, accresce il rischio di cancro al polmone e di malattie cardiovascolari con un aumento complessivo della mortalità del 11%. Nel dettaglio, i ricercatori hanno visto che le donne che avevano lavorato con turni per un periodo dai 6 ai 14 anni, avevano un rischio di morte per malattie cardiovascolari maggiore del 19%, che arrivava al 23% per periodi lavorativi più lunghi di 15 anni.

 

Parte di un più ampio progetto partito nel 1976, l’indagine ha analizzato per un ventennio la salute di un gruppo di 75.000 infermiere americane.

Secondo gli autori, ciò non costituirebbe un limite ma, al contrario, il riferirsi a una sola professione, permettendo così di escludere le variabili legate alla diversità di occupazione, rafforzerebbe i risultati ottenuti, comunque considerati estendibili alla popolazione generale.

Oggi, infatti, oltre agli operatori sanitari, sono molti i lavoratori costretti a lavorare con turni, dai call center a chi deve fare i conti con i fusi orari nello svolgimento delle proprie mansioni.

 

IL LEGAME TRA RITMI CIRCADIANI E MALATTIE

Per spiegare i meccanismi alla base della maggior vulnerabilità alle malattie oncologiche e cardiovascolari dei turnisti bisogna fare riferimento alla melatonina, ormone dalla funzione protettiva per l’organismo e coinvolto nella regolazione del ciclo sonno veglia. “Alterare il ritmo circadiano riduce i livelli di melatonina secreti dall’organismo, la cui funzione oncoprotettrice è confermata da decenni di studi sull’uomo e sull’animale; la melatonina è un antiossidante che contrasta quei fenomeni di danneggiamento del DNA che possono portare allo sviluppo dei tumori”, spiega il dottor Giovanni de Vito, ricercatore di medicina del lavoro all’Università di Milano Bicocca.

Per quanto riguarda l’aumento della mortalità cardiovascolare emersa dallo studio, “la melatonina avrebbe un effetto stabilizzante sulla membrana dei vasi; ciò determina una riduzione della reazione infiammatoria alla base della produzione delle cosiddette placche endovasali, tra cui quelle coronariche che portano alle patologie ischemiche cardiache”.

 

LAVORO NOTTURNO E MALATTIE NEOPLASTICHE

Il rischio di sviluppare certe malattie in seguito a turni di lavoro notturni è un sorvegliato speciale da tempo, tanto che già dal 2007 l’International Agency for Research on Cancer (lo IARC) di Lione ha inserito il “lavoro su turni che comporta un’alterazione dei ritmi circadiani” fra i possibili fattori che agevolano la carcinogenesi. Nel suo rapporto (Monografia IARC sulla valutazione del rischio cancerogeno per l’essere umano n. 9) del 2010 ha classificato il rischio di tumore legato al turno notturno come “possibile 2A” (probabile cancerogeno per l’uomo).

 

CANCRO AL POLMONE

“I dati sul cancro al polmone dello studio sulle infermiere sono piuttosto nuovi, esistendo una sola altra ricerca relativa agli effetti del lavoro sul rischio di sviluppare la neoplasia”, commenta il dottor De Vito, non coinvolto nello studio. “Sembra che la mortalità per tumore del polmone sia elevata sia nei fumatori che nei non fumatori, questi ultimi con incidenza inferiore. Vale la pena ricordare che i turnisti mangiano di più e fumano di più”.

 

CANCRO ALLA MAMMELLA

Quanto al tumore alla mammella, “questo studio indica un aumento non significativo, per il numero limitato di casi osservati (meno di 100)”. “Tuttavia”, continua De Vito, “precedenti studi confermano il rapporto tra alterazione del ritmo circadiano e tumore della mammella dopo circa 20-30 anni di turni. In questo caso, il meccanismo è basato sul fatto che alcuni tumori della mammella sono estrogeni-dipendenti, in altre parole il loro sviluppo e la loro crescita sono promossi da alti livelli di estrogeni. La melatonina contrasta l’estradiolo, uno degli estrogeni più importanti. Così si spiega il danno creato da una sua diminuzione”.

 

L’IMPATTO SULLE FACOLTA’ COGNITIVE

Anche il nostro cervello risente del lavoro notturno, in particolare con un peggioramento nelle prestazioni delle principali facoltà cognitive, come memoria, attenzione, velocità di reazione.

Lo ha dimostrato uno studio franco-britannico che ha seguito per dieci anni 3.000 lavoratori nel sud della Francia fra i 32 e i 62 anni, impiegati nei più diversi settori, ma con almeno 50 giorni all’anno con orari notturni. I risultati sono chiari: dieci o più anni da turnisti portano a un’accelerazione del declino cognitivo. L’impatto negativo, inoltre, pur reversibile, persiste per almeno cinque anni dopo la fine del lavoro a turni.

 

LE REGOLE D’ORO PER MINIMIZZARE I DANNI

Quando cambiare lavoro non è una strada perseguibile, si devono adottare delle strategie che riguardano l’organizzazione del lavoro volte a minimizzare il danno. Il dottor De Vito, che dirige la Struttura Complessa di Medicina del Lavoro dell’Azienda Ospedaliera della Provincia di Lecco, ne suggerisce alcune basandosi sulla letteratura scientifica esistente.

 

Pianificare correttamente il sistema di rotazione del turno notturno in accordo con criteri ergonomici:

  • preferire rotazioni in senso orario piuttosto che antiorario (mattina, pomeriggio, notte piuttosto che mattina, notte, pomeriggio);
  • evitare che i turni della mattina inizino eccessivamente presto;
  • evitare turni molto lunghi (di 9-12 ore), se non adeguatamente strutturati, con pause e interruzioni per evitare l’accumulo eccessivo di fatica o l’esposizione a sostanze tossiche;
  • programmare turni il più possibile regolari, lasciando libero il fine settimana;
  • lavorare di notte in modo permanente è accettabile solo in situazione lavorative particolari e comunque l’inversione del ciclo sonno-veglia va mantenuta anche nelle giornate non lavorative e l’esposizione alla luce del sole va evitata quando si stacca e nel viaggio verso casa (indossare occhiali da sole mentre si rientra a casa);
  • lasciare tra un turno e l’altro un tempo sufficiente al recupero delle ore di sonno e dalla fatica, evitando due turni nelle 24 ore e inserendo il giorno di pausa dopo un turno di notte;
  • lasciare ai lavoratori una certa flessibilità di orario per permettere loro di gestire al meglio impegni personali, famigliari e sociali.

 

Ridurre i fattori di rischio che favoriscono lo sviluppo della patologia:

  • per il tumore al polmone: dire basta al fumo e no all’esposizione a cancerogeni polmonari certi (amianto, idrocarburi policiclici aromatici, cromo esavalente, nickel, arsenico, berillio, cadmio, silice, radon);
  • per le malattie cardiovascolari: dire basta al fumo, obesità, ipertensione e adottare abitudini di vita salutari (attività fisica, dieta).

 

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CASSAZIONE: NO AL LICENZIAMENTO PER SOPRAVVENUTA INCAPACITA’ TOTALE DI SVOLGERE LE PRECEDENTI MANSIONI

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

22 febbraio 2016

di Annalisa Sassaro

 

CASSAZIONE: NO AL LICENZIAMENTO PER SOPRAVVENUTA INCAPACITA’ TOTALE DI SVOLGERE LE PRECEDENTI MANSIONI

IN CAPO AL DATORE DI LAVORO GRAVA L’ONERE DI RICOLLOCAZIONE DEL LAVORATORE

 

Con la sentenza n. 12489 del 17/06/15, la Suprema Corte afferma come la sopravvenuta inabilità totale del prestatore di lavoro alle mansioni precedentemente svolte non sia causa sufficiente, autonomamente considerata, per ricorrere al licenziamento.

 

Il fatto che ha dato luogo alla pronuncia è stato il caso di un’ausiliaria socio-sanitaria licenziata dalla Casa di Cura datrice di lavoro per sopravvenuta totale inabilità alle mansioni alle quali era adibita. Nel 2005 il Tribunale di Roma ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato dalla Casa di Cura ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro, così come stabilito dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nonché la condanna al risarcimento dei danni.

 

Per contro, la società ha impugnato la sentenza dinanzi alla Corte d’Appello di Roma, la quale ha rigettato il gravame interposto contro la pronuncia emessa in prima istanza.

 

La Casa di Cura è ricorsa alla Suprema Corte per la cassazione della sentenza di secondo grado.

 

La società ricorrente ritiene che il licenziamento è stato correttamente intimato sulla base di un giudizio reso da un organismo pubblico, ovvero dalla Commissione medica ospedaliera, che al tempo aveva giudicato la donna totalmente e permanentemente inabile alle prestazioni lavorative alle quali era adibita precedentemente. La Casa di Cura sostiene quindi come la sopravvenuta incapacità totale della dipendente fosse causa ostativa alla positiva prosecuzione del rapporto lavorativo, giustificando il recesso senza la necessità di provvedere ad accertamenti circa la possibilità di assegnare alla dipendente altre mansioni equivalenti, o in via residuale, inferiori.

 

La Suprema Corte considera infondato il motivo addotto dalla parte ricorrente.

 

In primis, la Corte afferma come il giudizio d’inidoneità della Commissione ospedaliera, formulato sulla base di quanto disposto all’articolo 5 dello Statuto dei Lavoratori, non sia vincolante né per il datore né per il Giudice, il quale può provvedere discrezionalmente a un ulteriore controllo avvalendosi, se ritenuto necessario, dell’ausilio di un consulente tecnico.

Di conseguenza, in caso di contrasto tra l’accertamento sanitario e la consulenza prevista durante il processo, il Giudice del merito è tenuto a confrontare le diverse risultanze allo scopo di stabilire quale sia maggiormente attendibile e convincente.

 

In subordine, il giudizio di totale inabilità alle mansioni precedentemente svolte non integra né un caso di impossibilità sopravvenuta tale da risolvere il contratto, né tanto meno risulta essere condizione sufficiente per il licenziamento in quanto in capo al datore di lavoro grava l’onere di dimostrare l’inesistenza di altre mansioni (equivalenti o, in extremis, deteriori) compatibili con la situazione di salute del lavoratore a condizione che quest’ultimo non abbia già manifestato, “ab origine”, il rifiuto di qualsiasi diversa assegnazione (nel caso esaminato, questa ipotesi non sussiste) e che l’attribuzione non comporti un’alterazione dell’organizzazione produttiva.

Si profila dunque l’onere di ricollocazione del lavoratore, individuando nel licenziamento una “extrema ratio”.

 

Alla luce di quanto detto, la Corte ha respinto il ricorso presentato dalla Casa di Cura.

 

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COME E QUANDO AVVENGONO I CONTROLLI NELLE AZIENDE?

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

di Tiziano Menduto

 

Indicazioni per aumentare la trasparenza delle attività ispettive in un documento dell’ULSS 9 di Treviso.

Come e quando avvengono in controlli? Come sono scelte le aziende e i cantieri? Come si svolge il controllo? Quali sono i possibili esiti?

 

Parlare di vigilanza e dell’attività ispettiva in materia di salute e sicurezza sul lavoro (vigilanza esercitata specialmente, ma non solo, dalle Aziende Sanitarie Locali competenti per territorio e, secondo le competenze riportate nel Testo Unico, dal personale ispettivo del Ministero del Lavoro) non è mai semplice.

E’ un tema delicato, destinato spesso a suscitare opinioni e riflessioni divergenti sulla quantità, sull’efficacia, sui risultati delle ispezioni realizzate. E su quelle che si sarebbero potute realizzare se fossero maggiori le risorse disponibili, se aumentasse il coordinamento e uniformità di strategie e metodi, se si superasse l’attuale frammentazione dell’attività ispettiva.

 

Proprio per la delicatezza del tema e la necessità di far conoscere, con semplicità e chiarezza, le caratteristiche dell’attività di vigilanza, è da sostenere il tentativo di alcune Aziende Sanitarie di aumentare la trasparenza in questo ambito attraverso la pubblicazione in rete di utili documenti.

E’ il caso ad esempio dell’Azienda ULSS 9 di Treviso che ha creato uno spazio web destinato a chi vuole:

  • conoscere le modalità con cui il Servizio Prevenzione Igiene e Sicurezza in Ambienti di Lavoro (SPISAL) effettua i controlli durante la vigilanza negli ambienti di lavoro;
  • conoscere le norme che devono essere rispettate da parte dei datori di lavoro;
  • autovalutare il grado di conformità alla normativa.

Un documento reso disponibile riguarda, ad esempio, le “Modalità di effettuazione dei controlli durante l’attività Ispettiva dello SPISAL negli ambienti di lavoro”.

La nota informativa è utile per comunicare alle aziende le modalità con cui vengono effettuati i controlli miranti a verificare l’ottemperanza alla normativa sulla sicurezza sul lavoro e agevolarle nel compito di attuare le misure di prevenzione conoscendo le modalità con cui sarà effettuato l’accesso ispettivo.

COME AVVENGONO I CONTROLLI?

Si ricorda in particolare che l’attività di controllo e vigilanza prevede l’effettuazione di sopralluoghi ispettivi al fine di individuare e accertare la presenza di fattori di rischio per la salute dei lavoratori, di verificare l’adozione delle cautele necessarie e di promuovere, in caso di carenze in tema di igiene e sicurezza del lavoro, l’attuazione di misure di prevenzione e protezione in modo da eliminare o ridurre il rischio di infortuni e malattie professionali. E se vengono evidenziate violazioni alla normativa sulla sicurezza il personale ha l’obbligo, stabilito da norme penali, di sanzionare le violazioni e prescrivere il ripristino delle condizioni di sicurezza e salubrità.

QUANTI CONTROLLI VENGONO OPERATI?

Il documento indica che il volume di attività di controllo è stabilito a livello nazionale e modulato a livello regionale (chiaramente per l’ULSS9 si fa riferimento alla Regione Veneto) dalla Direzione Regionale Prevenzione e dal Comitato Regionale di Coordinamento di cui all’articolo 7 del D.Lgs. 81/08. E il numero di aziende da ispezionare è calcolato nella misura del 5% delle posizioni assicurative INAIL che abbiano almeno un dipendente o equiparato; per la ULSS 9 l’obiettivo si traduce in circa 1.000 aziende all’anno da ispezionare (compresi cantieri e lavoratori autonomi). La selezione delle aziende avviene, conformemente alle indicazioni di priorità del Comitato per l’Indirizzo di cui all’articolo 5 del D.Lgs. 81/08, sulla base del rischio evidenziato con criteri oggettivi e delle direttive regionali che individuano i comparti produttivi a maggior rischio. E l’edilizia e l’agricoltura rappresentano i due settori in cui sono più concentrati gli infortuni gravi e mortali e per questo motivo sono oggetto di piani nazionali di prevenzione; la regione fissa un numero minimo di cantieri e di aziende agricole da ispezionare nel territorio di ciascuna ULSS.

COME SONO SCELTE LE AZIENDE E I CANTIERI DA CONTROLLARE?

Lo SPISAL indica che la selezione dei cantieri per i controlli avviene:

  • sulla base di indicatori di possibile rischio rilevati dalla notifica preliminare effettuata dal committente ai sensi dell’articolo 99 del D.Lgs 81/08;
  • a vista, in quanto già dall’esterno sono visibili palesi violazioni alla normativa sulla sicurezza;
  • a campione, in base alla distribuzione delle attività nel territorio;
  • per esposto da parte di cittadini, lavoratori o altri soggetti interessati.

Mentre la selezione delle aziende per i controlli avviene (oltre che per esposto/denuncia da parte di cittadini, lavoratori, Autorità Giudiziaria e altri Enti con funzioni di vigilanza) per iniziativa del Servizio (in base anche ai criteri già indicati nel documento):

  • per la particolare incidenza di infortuni, anche se non gravi;
  • per la presenza di infortuni con modalità particolarmente pericolose (eventi sentinella);
  • per infortuni ripetitivi con le stesse modalità;
  • per comparto produttivo (ad esempio agricoltura);
  • per progetti mirati a prevenire alcuni rischi di danno grave o mortale (verifica impianti elettrici e attrezzature, sorveglianza sanitaria assenza tossicodipendenza, attrezzature pericolose, muletti ecc.);
  • a campione, anche su attività non particolarmente rischiose, in funzione della distribuzione nel territorio e del numero di addetti.

Senza dimenticare che lo SPISAL, per accertare eventuali violazioni alla normativa sulla sicurezza e quindi eventuali responsabilità, effettua anche interventi di polizia giudiziaria in azienda a seguito di:

  • infortunio sul lavoro con lesioni personali gravi o gravissime o morte;
  • malattia professionale con lesioni personali gravi o gravissime o morte.

E inoltre possono essere eseguiti interventi di promozione dell’adozione di sistemi di gestione della sicurezza e di modelli organizzativi di cui all’articolo 30 del D.Lgs. 81/08, con o senza concomitante attività ispettiva.

QUALI SONO LE MODALITA’ DI INTERVENTO?

Si segnala che se l’ispezione viene effettuata dal personale SPISAL, che può avere diversi profili e competenze professionali (dirigenti medici del lavoro, laureati dirigenti non medici, tecnici della prevenzione, infermieri, assistenti sanitari, ecc.), all’accesso partecipa sempre almeno un Ufficiale di Polizia Giudiziaria (UPG) che, ai sensi del D.P.R. 520/55, ha potere di accesso nei luoghi di lavoro.

Si sottolinea che per nessun motivo le aziende possono essere preavvertite dell’accesso ispettivo; soltanto se necessario per verificare lavorazioni discontinue, possono essere presi accordi per sopralluoghi successivi al primo accesso.

Il personale inoltre richiede la presenza del Datore di Lavoro o di un suo delegato, del Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione e, se necessario per la tipologia di intervento, del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza. Il Datore di Lavoro ha facoltà di far presenziare i propri consulenti, fermo restando che si procede anche in attesa del loro arrivo. Tuttavia, anche in assenza dei soggetti sopra menzionati, il controllo procede, fatta salva la facoltà per l’azienda di fornire successivamente documentazione o quanto altro ritenga opportuno per documentare la propria attività in tema di prevenzione.

Il documento citato si sofferma anche nel dettaglio sulla documentazione richiesta (fermo restando che, per esigenze specifiche o per quanto emerso nel corso dell’ispezione, possono essere visionati o richiesti anche tutti gli altri documenti che l’azienda è tenuta ad esibire), sul processo di ispezione (che si conclude con la compilazione del verbale di accesso) e sull’esito dell’attività ispettiva.

Riguardo a quest’ultimo aspetto sono riportati i possibili esiti dell’ispezione:

  • se non sono state rilevate violazioni penali o amministrative e non sono necessarie disposizioni per il miglioramento della salute e sicurezza, il controllo si chiude; il personale relazionerà al direttore del servizio che archivierà il procedimento;
  • se, in assenza di violazioni, emerge la necessità di migliorare le condizioni di salute e sicurezza su argomenti che presentano margini di discrezionalità, possono essere impartite delle disposizioni; in questo caso è possibile che pervenga all’azienda il successivo verbale di disposizioni che specifica le cautele da adottare; il verbale indica i tempi entro cui ottemperare e le modalità per effettuare eventuale ricorso in via amministrativa se l’azienda intende opporsi alla disposizione; una forma particolare di disposizione è quella prevista dall’articolo 302-bis del D.Lgs. 81/08 in caso di adozione volontaria di norme tecniche e di buone prassi;
  • se vengono riscontrate violazioni di natura amministrativa, l’azienda riceverà il verbale di accertamento dell’illecito amministrativo che riporterà i tempi e i modi per la regolarizzazione, gli adempimenti conseguenti, e l’indicazione sulle modalità per effettuare eventuale ricorso in via amministrativa se l’azienda intende opporsi; se l’azienda ottempera, dopo nuovo sopralluogo di verifica, potrà essere ammessa al pagamento in misura minima della sanzione amministrativa, estinguendo così l’illecito;
  • se vengono riscontrate violazioni di natura penale, l’azienda riceverà il verbale di contravvenzione e prescrizione ai sensi del D.Lgs. 758/94 (salvo il caso dei reati istantanei) ai fini della depenalizzazione; la norma prevede che sia data Notizia di Reato alla Procura della Repubblica, ma il procedimento penale resta sospeso in attesa della conclusione dell’iter di cui al D.Lgs. 758/94; il verbale di prescrizione contiene le indicazioni sullo svolgimento della procedura, tempi e modi di regolarizzazione; l’azienda ha la possibilità di richiedere proroghe motivate dei tempi concessi per la regolarizzazione (che devono comunque essere congrue dal punto di vista tecnico e non dovute a negligenza del contravventore); trascorso il termine, verrà effettuato il sopralluogo di verifica e, in caso di ottemperanza, il contravventore sarà ammesso al pagamento di una sanzione amministrativa in misura ridotta e a pagamento avvenuto, lo SPISAL comunica alla Procura che il contravventore ha ottemperato nei tempi e nei modi previsti e ha pagato la sanzione amministrativa entro i termini, determinando così l’estinzione del reato; in caso contrario, cioè se non ha ottemperato nei modi e nei tempi indicati e non ha pagato entro i termini, il procedimento penale riprende il suo corso.

Lo SPISAL ricorda infine che altre disposizioni in materia penale sono contenute nel titolo XII del D.Lgs. 81/08.

Il documento della ULSS 9 Treviso “Modalità di effettuazione dei controlli durante l’attività Ispettiva dello SPISAL negli ambienti di lavoro” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/160125_modalita_controlli_spisal.pdf

 

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GUIDA ALLA COLLABORAZIONE COL MEDICO COMPETENTE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

18 febbraio 2016

 

Un piano di prevenzione dell’ATS Brianza si sofferma sul contributo del sistema prevenzionistico aziendale all’attività del medico competente. La guida per le imprese, la definizione e i compiti del medico competente.

 

I Piani Mirati di Prevenzione (PMP) elaborati dal Comitato Provinciale (ex articolo 7 del D.Lgs. 81/08) dell’Azienda sanitaria locale della provincia di Monza e Brianza (dal primo gennaio 2016 ATS Brianza) hanno sempre avuto il merito in questi anni di centrare alcune delle problematiche, degli aspetti centrali e, a volte, delle carenze nelle strategie di prevenzione aziendali.

E’ stato così per il PMP sulla formazione dei lavoratori ed è così anche per il nuovo PMP che affronta il ruolo del medico competente nelle aziende.

Sappiamo che il medico competente dovrebbe rivestire all’interno del sistema prevenzionistico aziendale un ruolo molto importante. Un ruolo che non si ferma alla sorveglianza sanitaria e ai giudizi di idoneità, ma che dovrebbe riguardare anche (come ricordato nella presentazione ufficiale del nuovo PMP) a una collaborazione a tutto campo per la valutazione dei rischi, la predisposizione e attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psicofisica dei lavoratori, la loro formazione e informazione, l’organizzazione del primo soccorso e la valorizzazione di programmi di promozione della salute.

 

Ma tutto questo avviene effettivamente nelle aziende? E il datore di lavoro e gli altri attori della sicurezza (ad esempio i componenti del servizio di prevenzione e protezione e il rappresentante dei lavoratori) forniscono un adeguato supporto e stimolo all’attività del medico competente per garantirgli una partecipazione attiva ed efficace al sistema di prevenzione aziendale?

 

Per rimarcare l’importanza e le funzioni del medico competente il citato Comitato Provinciale ha dunque attivato il PMP dal titolo “Contributo del sistema prevenzionistico aziendale all’attività del medico competente”.

Un piano che si è concretizzato anche in una lettera alle aziende del territorio, in una scheda di autovalutazione, in un incontro pubblico che si è tenuto il 15 dicembre 2015 e nell’elaborazione della guida “Contributo del sistema prevenzionistico aziendale all’attività del medico competente. Guida per le imprese”.

Ci soffermiamo oggi su questa guida che rappresenta la sintesi condivisa del lavoro svolto dal gruppo “Contributo del sistema prevenzionistico aziendale all’attività del medico competente” costituito nell’ambito del Comitato di Coordinamento Provinciale di Monza e Brianza.

Analizziamo oggi due domande di base.

CHI E’ IL MEDICO COMPETENTE?

La guida, con riferimento a quanto contenuto nel D.Lgs. 81/08 all’articolo 2, comma 1, lettera h), indica che il medico competente è un medico in possesso di uno dei titoli e dei requisiti formativi e professionali di cui all’articolo 38, che collabora, secondo quanto previsto all’articolo 29, comma 1, con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi ed è nominato dallo stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria e per tutti gli altri compiti di cui al D.Lgs. 81/08.

Riportiamo per chiarezza l’articolo 38:

“Per svolgere le funzioni di medico competente è necessario possedere uno dei seguenti titoli o requisiti:

  • specializzazione in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica;
  • docenza in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia e igiene del lavoro o in clinica del lavoro;
  • autorizzazione di cui all’articolo 55 del Decreto Legislativo n,277 del 15 agosto 1991;
  • specializzazione in igiene e medicina preventiva o in medicina legale;
  • con esclusivo riferimento al ruolo dei sanitari delle Forze Armate, compresa l’Arma dei carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza, svolgimento di attività di medico nel settore del lavoro per almeno quattro anni.

I medici in possesso dei titoli di cui al comma 1, lettera d), sono tenuti a frequentare appositi percorsi formativi universitari da definire con apposito decreto del Ministero dell’Università e della ricerca di concerto con il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali. I soggetti di cui al precedente periodo i quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, svolgano le attività di medico competente o dimostrino di avere svolto tali attività per almeno un anno nell’arco dei tre anni anteriori all’entrata in vigore del presente decreto legislativo, sono abilitati a svolgere le medesime funzioni. A tal fine sono tenuti a produrre alla Regione attestazione del datore di lavoro comprovante l’espletamento di tale attività.

Per lo svolgimento delle funzioni di medico competente è altresì necessario partecipare al programma di educazione continua in medicina ai sensi del Decreto Legislativo n.228 del 19 giugno 1999 e successive modificazioni e integrazioni, a partire dal programma triennale successivo all’entrata in vigore del presente decreto legislativo. I crediti previsti dal programma triennale dovranno essere conseguiti nella misura non inferiore al 70 per cento del totale nella disciplina medicina del lavoro e sicurezza degli ambienti di lavoro.

I medici in possesso dei titoli e dei requisiti di cui al presente articolo sono iscritti nell’elenco dei medici competenti istituito presso il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali”.

La guida ricorda inoltre che:

  • ai sensi dell’articolo 39, comma 1 del D.Lgs. 81/08, l’attività di medico competente è svolta secondo i principi della medicina del lavoro e del codice etico della Commissione internazionale di salute occupazionale (ICOH);
  • ai sensi dell’articolo 39, comma 3 del D.Lgs. 81/08,il dipendente di una struttura pubblica, che svolge attività di vigilanza, non può prestare, ad alcun titolo e in alcuna parte del territorio nazionale, attività di medico competente;
  • ai sensi dell’articolo 39, comma 4 del D.Lgs. 81/08, il datore di lavoro assicura al medico competente le condizioni necessarie per lo svolgimento di tutti i suoi compiti garantendone l’autonomia.

La seconda domanda a cui è necessario preventivamente rispondere riguarda invece la funzione del medico competente.

QUALI SONO GLI OBBLIGHI DEL MEDICO COMPETENTE?

 

La guida, sempre con riferimento al contenuto del Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (articolo 25), riporta gli obblighi del medico competente.

 

Innanzitutto il medico competente collabora con il datore di lavoro e il servizio di prevenzione e protezione alla:

  • valutazione dei rischi, anche ai fini della programmazione, ove necessario, della sorveglianza sanitaria;
  • alla predisposizione dell’attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psico-fisica dei lavoratori;
  • all’ attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di competenza;
  • all’organizzazione del servizio di primo soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione ed esposizione e le peculiari modalità organizzative;
  • all’attuazione e valorizzazione di programmi volontari di ‘promozione della salute’, secondo i principi della responsabilità sociale.

 

Inoltre il medico competente:

  • programma ed effettua la sorveglianza sanitaria attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici;
  • istituisce, aggiorna e custodisce, sotto la propria responsabilità, una cartella sanitaria e di rischio, per ogni lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria;
  • consegna al datore di lavoro, alla cessazione dell’incarico, la documentazione sanitaria in suo possesso, nel rispetto delle disposizioni di cui al D.Lgs 196/03 (Codice in materia di protezione dei dati personali) e con salvaguardia del segreto professionale;
  • consegna al lavoratore, alla cessazione del rapporto di lavoro, copia della cartella sanitaria e di rischio, e gli fornisce le informazioni necessarie relative alla conservazione della medesima;
  • fornisce informazioni ai lavoratori sul significato della sorveglianza sanitaria cui sono sottoposti e, nel caso di esposizione ad agenti con effetti a lungo termine, sulla necessità di sottoporsi ad accertamenti sanitari anche dopo la cessazione della attività che comporta l’esposizione a tali agenti;
  • informa ogni lavoratore interessato dei risultati della sorveglianza sanitaria e, a richiesta dello stesso, gli rilascia copia della documentazione sanitaria;
  • comunica per iscritto, in occasione delle riunioni annuali, al datore di lavoro, al RSPP, ai RLS, i risultati anonimi collettivi della sorveglianza sanitaria effettuata e fornisce indicazioni sul significato di detti risultati ai fini dell’attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psico-fisica dei lavoratori;
  • visita gli ambienti di lavoro almeno una volta all’anno o a cadenza diversa che stabilisce in base alla valutazione dei rischi (l’indicazione di una periodicità diversa dall’annuale deve essere comunicata al datore di lavoro ai fini della sua annotazione nel documento di valutazione dei rischi);
  • partecipa alla programmazione del controllo dell’esposizione dei lavoratori i cui risultati gli sono forniti con tempestività ai fini della valutazione del rischio e della sorveglianza sanitaria.
  • comunica, mediante autocertificazione, il possesso dei propri titoli e requisiti al Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali.

Concludiamo questa prima presentazione generale della figura e del ruolo del medico competente ricordando che la sorveglianza sanitaria è un’attività clinica complessa e articolata effettuata dal medico competente, specialista in medicina del lavoro (o in discipline equipollenti), finalizzata alla tutela della salute dei lavoratori. Essa consiste nella valutazione dell’idoneità del lavoratore alla mansione lavorativa specifica attraverso visita medica e accertamenti ematochimici e strumentali, identificati sulla base dei rischi lavorativi. Inoltre la sorveglianza sanitaria è effettuata dal medico competente nei casi previsti dalla normativa vigente, dalle indicazioni fornite dalla Commissione Consultiva Permanente.

Ricordiamo poi che l’obbligo di sorveglianza sanitaria non dipende dal numero di lavoratori occupati, ma dai fattori di rischio presenti nell’attività svolta.

Segnaliamo infine che la sorveglianza sanitaria può essere effettuata anche qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi.

Il documento della Azienda sanitaria locale della provincia di Monza e Brianza “Contributo del sistema prevenzionistico aziendale all’attività del medico competente. Guida per le imprese” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/160208_ASL_guida_MC.pdf

 

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LE NOVITA’ RELATIVE ALLA VALUTAZIONE DEL RISCHIO CHIMICO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

19 febbraio 2016

di Tiziano Menduto

 

La norma tecnica UNI EN 689:1997 è in via di aggiornamento. Qual è la funzione di questa norma? Come cambierà? E quali saranno le conseguenze per le aziende?

Ne parliamo con Maria Ilaria Barra della CONTARP dell’INAIL.

 

Se pensiamo all’importanza per la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori della valutazione del rischio chimico nelle aziende, alla complessità della misurazione degli agenti chimici e al nostro tessuto produttivo, in gran parte costituito da piccole e medie aziende, si comprende la necessità di informare costantemente sugli obblighi e sulle buone prassi in materia chimica. E la necessità anche, quando possibile, di informare su quelli che sono gli sviluppi della normativa tecnica e gli scenari futuri possibili relativi alla valutazione del rischio.

E’ per questo motivo che abbiamo deciso di raccogliere informazioni sulle novità della norma tecnica UNI EN 689:1997 “Atmosfera nell’ambiente di lavoro. Guida alla valutazione dell’esposizione per inalazione a composti chimici ai fini del confronto con i valori limite e strategia di misurazione”. Norma in vigore, ma in via di aggiornamento, che fornisce indicazioni per la valutazione della esposizione ad agenti chimici nelle atmosfere dei posti di lavoro. E che descrive una strategia per confrontare l’esposizione per inalazione degli addetti con i rispettivi valori limite per agenti chimici nel posto di lavoro e la strategia di misurazione.

Ricordiamo che la norma UNI EN 689 deve la sua importanza anche al fatto che è una delle metodiche standardizzate citate espressamente nell’Allegato XLI (Metodiche standardizzate di misurazione degli agenti) del Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/08).

 

Per avere informazioni sulle possibili novità future di questa norma abbiamo intervistato Maria Ilaria Barra (CONTARP dell’INAIL) che fa parte del gruppo di lavoro incaricato della revisione della Norma.

Qual è la funzione di questa norma? Come cambierà? E quali saranno le conseguenze dell’aggiornamento della norma per le aziende che hanno valutato e/o devono valutare il rischio chimico?

PUNTO SICURO

Riguardo al rischio chimico da mesi si sta lavorando all’aggiornamento di un importante norma, la UNI EN 689. Cominciamo raccontando qual è la funzione e l’importanza di questa norma e come può e deve essere utilizzata nelle aziende.

MARIA ILARIA BARRA

Il D.lgs. 81/08 impone al datore di lavoro di determinare preliminarmente l’eventuale presenza di agenti chimici pericolosi sul luogo di lavoro e valutare anche i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori derivanti dalla presenza di tali agenti. Inoltre l’articolo 225 prevede che nel caso il datore di lavoro non possa dimostrare con altri mezzi il conseguimento di un adeguato livello di prevenzione e di protezione, periodicamente e ogni qualvolta sono modificate le condizioni che possono influire sull’esposizione, provvede a effettuare la misurazione degli agenti che possono presentare un rischio per la salute, con metodiche standardizzate di cui è riportato un elenco meramente indicativo nell’Allegato XLI o in loro assenza, con metodiche appropriate e con particolare riferimento ai valori limite di esposizione professionale e per periodi rappresentativi dell’esposizione in termini spazio temporali.

Dalle misurazioni il datore di lavoro deve essere in grado di valutare il superamento o meno del valore limite di esposizione professionale in modo tale da identificare e rimuovere le cause che hanno portato a tale superamento, adottando immediatamente le misure appropriate di prevenzione e protezione.

Tra le metodiche standardizzate riportate nell’Allegato XLI vi è la UNI EN 689:1997 “Atmosfera nell’ambiente di lavoro. Guida alla valutazione dell’esposizione per inalazione a composti chimici ai fini del confronto con i valori limite e strategia di misurazione”.

Dall’inquadramento di tale norma all’interno del panorama legislativo italiano, emerge l’importanza della stessa per i datori di lavoro e per tutti coloro che si occupano di salute e sicurezza sul lavoro.

PS

Lei sta partecipando ai lavori di aggiornamento della norma. Quali sono i punti qualificanti e le criticità su cui si sta lavorando in questi mesi? Quali sono i motivi che hanno spinto a rivedere la norma? Quali gli aspetti importanti che rimarranno nella versione finale della norma che, ricordiamo, è ancora in fase di aggiornamento?

MIB

All’interno dell’Ente di standardizzazione europeo (CEN), opera la Commissione Tecnica TC 137 che si occupa di “Assessment of workplace exposure to chemical and biological agents” dove un gruppo di esperti provenienti dai diversi Paesi europei, si incontrano e sviluppano progetti che possono diventare degli standard futuri.

L’esigenza dei diversi Paesi di modificare la Norma EN 689, risalente ormai al 1997, ha portato nel 2013 alla creazione all’interno del CEN/TC 137 di un gruppo dedicato alla valutazione della fattibilità di tale revisione: il gruppo AHG2 (Ad Hoc Group 2). La creazione di questo primo gruppo di lavoro si è resa necessaria poiché molti stati membri richiamano la Norma all’interno del proprio sistema legislativo nazionale adattandola alle esigenze caratteristiche della realtà produttiva del paese stesso; da ciò ne deriva che le strategie di campionamento e valutazione del rispetto di un limite di esposizione professionale non sono sempre omogenee in tutti gli stati.

L’AHG2 ha individuato una possibile condivisione di vedute e si è pertanto proceduto, nel 2015, alla formalizzazione del gruppo di lavoro incaricato alla revisione della Norma: il WG1.

L’interesse per la nuova norma ha portato inoltre, anche sul fronte Nazionale, alla creazione di un gruppo di lavoro all’interno dell’UNI con il fine di dare la possibilità ai diversi interessati di partecipare in maniera fattiva e costruttiva ai lavori.

La Norma ha subito numerosi cambiamenti rispetto alla versione precedente. In essa viene definito uno schema di flusso relativo alla strategia di campionamento e misurazione che prevede una serie di step dalla caratterizzazione di base, alla costituzione dei gruppi omogenei di esposizione, alla effettuazione dei campionamenti, alle misure periodiche. La strategia di misurazione prevede una procedura semplificata di screening che consente di effettuare un numero limitato di misure qualora i risultati delle stesse siano cautelativamente inferiori al limite di esposizione professionale, in caso contrario il numero di campionamenti aumenta in funzione della deviazione standard delle misure e del loro scostamento dal limite di esposizione stesso.

Inoltre la Norma è molto più corposa della precedente avendo elaborato una serie di allegati tecnici che hanno lo scopo di costituire un utile riferimento per affrontare diverse problematiche, quali la classificazione degli ambienti di lavoro con esposizione costante o variabile, l’individuazione del tempo di campionamento in funzione della variabilità dell’esposizione nell’arco di un turno di lavoro, l’esposizione multipla, la valutazione della distribuzione log-normale dei dati all’interno di un gruppo omogeneo di distribuzione, ecc.

PS

A che punto sono i lavori della norma? Potrebbe cambiare molto rispetto alla versione a cui avete lavorato?

MIB

Il gruppo di lavoro ha attualmente completato la stesura del documento, entro qualche mese i Paesi membri hanno la possibilità di inviare delle osservazioni o proposte di modifica al gruppo di lavoro, quest’ultimo si riunirà per valutarle e rispondere puntualmente ad ognuna di esse. Il documento così modificato sarà sottoposto a votazione per la sua approvazione o meno come norma.

PS

E dunque per quando è prevista?

MIB

Orientativamente l’iter dovrebbe essere ultimato entro la fine di quest’anno.

 

PS

I cambiamenti in materia di regolamenti Reach e CLP hanno in qualche modo influito sull’aggiornamento della norma?

MIB

I cambiamenti conseguenti il recepimento dei suddetti regolamenti hanno sicuramente influenzato la valutazione del rischio chimico nei luoghi di lavoro.

Questi regolamenti non hanno un impatto diretto con la norma EN 689 che riguarda più in particolare le strategie di misurazione degli agenti chimici per il confronto con un limite di esposizione professionale, anche se uno degli step della norma prevede l’individuazione e la caratterizzazione degli agenti chimici presenti nel luogo di lavoro ed è pertanto imprescindibile dall’applicazione del REACH e del CLP.

PS

Concludiamo parlando delle conseguenze di queste novità. Quando l’aggiornamento della norma sarà pubblicato, costringerà le aziende a rifare le valutazioni dei rischi?

MIB

La Norma ha sempre carattere volontario, tuttavia ritengo che qualora la nuova norma venga approvata, le aziende che da quel momento dovranno effettuare le misurazioni degli agenti chimici per la valutazione del superamento del limite di esposizione professionale faranno riferimento ad essa.

PS

E come è, a suo parere, la situazione della consapevolezza e tutela dei rischi chimici nelle aziende italiane in rapporto alle aziende degli altri paesi europei?

MIB

La Normativa italiana sulla salute e sicurezza sul lavoro è sicuramente in linea, e in alcuni casi anche più stringente, rispetto agli altri Paesi europei, tuttavia la peculiarità del nostro sistema produttivo caratterizzato principalmente da piccole e medie imprese, non rende sempre facile per l’imprenditore assolvere a tutti gli obblighi legislativi e comprendere l’importanza di una attenta politica prevenzionale.

 

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.244 DEL 18/02/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.244 DEL 18/02/16

 

INDICE

  • Le “Frequently Asked Questions” di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights! – n.9
  • I dirigenti devono garantire la sicurezza anche se non hanno un’investitura formale
  • Depenalizzazione: i chiarimenti del ministero del lavoro

–         Fibre artificiali vetrose: le linee guida e effetti sulla salute

–         Rischio esplosione: normativa ATEX e sistemi di protezione

  • Rischio rumore: come valutare l’esposizione dei lavoratori
  • Infortunio per comportamento abnorme e mancata formazione: le responsabilità

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO – KNOW YOUR RIGHTS! – N.9

 

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.

In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.

Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.

Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

 

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Ciao Marco,

ho un dubbio.

Io sono preposto in un appalto (impresa di pulizie).

Lavoriamo di sera fino alle 22. Se sono presente aspetto l’uscita di tutti gli addetti prima di andarmene cosi da avere la certezza che tutti stiano bene, ma quando non ci sono io questa mansione dovrebbe essere svolta dal preposto di fatto che si rifiuta e alle 21.55 sono già tutti nei pressi della timbratrice, lasciando indietro i lavoratori più lenti.

Se dovesse accadere qualcosa duranti la mia assenza posso essere considerato responsabile?

 

Ciao,

presumo da quanto scrivi che tu sia stato nominato preposto in maniera formale.

Tu operi correttamente aspettando l’uscita di tutti i lavoratori e da questo punto di vista non hai nessuna responsabilità.

Il problema si pone quando tu non ci sei ed è presente quello che tu definisci un “preposto di fatto”, quindi persona con responsabilità (anche se non formale, appunto di fatto) nei confronti degli altri lavoratori che non si attiene a quanto tu fai.

Il problema è che tu, in quanto preposto, sei a conoscenza di una situazione di potenziale pericolo per i lavoratori, non per causa tua, ma per causa sia dell’altro “preposto di fatto”, sia della mancanza di una procedura aziendale formale che imponga a te e, in tua assenza, all’altro preposto di fatto di aspettare l’uscita di tutti i lavoratori.

Tieni conto che l’articolo 19, comma 1, lettera f) del D.Lgs.81/08 (Testo Unico per la sicurezza) impone come obbligo a carico del preposto quello di:

segnalare tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente sia le deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra condizione di pericolo che si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta”.

Pertanto, tu, essendo venuto a conoscenza di una situazione di pericolo (il fatto che alcuni lavoratori rimangano da soli), hai l’obbligo di segnalarlo (possibilmente in maniera formale) al tuo dirigente o datore di lavoro, specificando che, mentre tu aspetti tutti i lavoratori, il tuo collega non lo fa e chiedendo di formalizzare una procedura o un ordine di servizio che imponga anche al tuo collega di aspettare tutti i lavoratori.

In questo modo ti sollevi completamente da qualunque responsabilità. Se l’azienda non definisce la procedura e/o non vigila sull’operato del tuo collega in tua assenza, non è certo colpa tua.

Ma la segnalazione del pericolo è comunque cosa da fare.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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Buongiorno Marco,

vorrei porti un quesito, riguardante la sicurezza a scuola.

Sono una maestra statale di Sanremo. L’insegnante fiduciaria del plesso in cui lavoro oggi mi ha consegnato un modulo da compilare, e restituire al dirigente dell’istituto scolastico, in cui io dovrei dichiarare che dal giorno X ho portato nella mia sede di servizio uno strumento di personale proprietà (a copertura di carenza strumentale dell’istituzione) con descrizione dello stesso (ad esempio computer, iPad, ecc.).

Nonostante io sia stata, in passato, anche RLS, non riesco a capire in base a quale normativa io dovrei dichiarare quali strumenti di mia proprietà uso a scuola.

Se puoi, per favore, fammi sapere se sono tenuta o meno a compilare il modulo.

Ti ringrazio sin d’ora.

 

Ciao,

innanzitutto trovo aberrante che la scuola pubblica chieda ai professori di portare propria strumentazione “a copertura di carenza strumentale dell’istituzione”.

D’altro canto se agli alunni si chiede di portate la carta igienica, non ci si può aspettare altro.

Da un punto di vista della sicurezza sul lavoro, non ci sono particolari responsabilità, in quanto strumenti come computer, tablet, ecc. sono marcati CE e quindi sicuri.

Credo che il modulo che ti vogliono fare firmare sia una forma di garanzia nei tuoi confronti in caso di furto, rottura o altro. Pertanto oltre al tipo di strumentazione segna anche il modello e numero di matricola

Tieni conto però che prestando una tua attrezzatura alla scuola, rientri comunque nell’ambito di applicazione del D.Lgs.81/08.

Infatti l’articolo 72 comma 1 di tale Decreto impone come obblighi a carico dei noleggiatori e dei concedenti in uso il seguente:

Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1, deve attestare, sotto la propria responsabilità, che le stesse siano conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisiti di sicurezza di cui all’allegato V”.

Nel tuo caso tu concedi in uso, a titolo gratuito, la tua attrezzatura alla scuola e quindi ricadi, almeno teoricamente, nell’ambito di applicazione di tale articolo.

Ripeto però che non ci sono particolari problemi, in quanto se si tratta di attrezzature elettroniche (computer, tablet, ecc.) queste sono sicuramente marcate CE e quindi certificate secondo le applicabili Direttive Europee di Prodotto (Direttiva Bassa Tensione e Direttiva Compatibilità Elettromagnetica). Quindi esse non rientrano tra le attrezzature costruite “al di fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1” e tu non devi fare proprio niente.

Ti consiglio comunque, onde evitare possibili problemi, di aggiungere la frase:

Il sottoscritto manleva ogni responsabilità derivante da un uso non conforme alle istruzioni del fabbricante dell’attrezzatura portata all’interno della scuola”, tanto per garantirti da eventuali usi non conformi (ad esempio smontaggio della parte elettrica) dell’attrezzatura.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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Ciao Spezia,

sono RSU di Cobas del privato.

Ti invio questa richiesta.

In un magazzino logistica abbiamo indetto elezioni per il RLS e per sfortuna ha vinto una candidata UIL, la quale non è mai in azienda e ci risulta in malattia o permesso (non sappiamo). Ma comunque è assente dal magazzino da febbraio 2015.

Cosa possiamo fare?

Il secondo eletto era Cobas.

Possiamo chiedere all’azienda di sollevare dall’incarico il RLS, mettere al suo posto il secondo eletto o indire nuove elezioni.

Ti ringrazio per la risposta.

 

Ciao,

ho analizzato i CCNL relativi al settore logistica privata, ma nessuno di essi esamina il caso che tu segnali, né da indicazioni su come sfiduciare o chiedere le dimissioni di un RLS che non svolga in maniera corretta il proprio ruolo.

Tieni conto che anche il D.Lgs.81/08 (Testo Unico sulla Sicurezza) attribuisce al RLS dei diritti, ma nessun dovere o obbligo legislativo.

Dei CCNL esaminati l’unico che affronta l’aspetto dei RLS è il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro di Logistica, Trasporto merci e Spedizione del 29 gennaio 2005, che all’articolo 43 “Rappresentante per la sicurezza (RLS), specifica quanto segue:

1) La figura del RLS è disciplinata dall’articolo 18 del D.Lgs.626/94 [attualmente articolo 47 del D.Lgs.81/08], in base al quale detta figura è eletta o designata in tutte le aziende o unità produttive, nonché dall’Accordo interconfederale del 24/07/96.

2) Nelle aziende o unità produttive fino a 15 dipendenti il RLS è eletto direttamente dai lavoratori al loro interno. Ai sensi del citato articolo 18, del D.Lgs.626/94, nelle aziende che occupano fino a 15 dipendenti il RLS può altresì essere individuato per più aziende nell’ambito territoriale; la disciplina del Rappresentante territoriale per la sicurezza e le relative modalità di nomina saranno stabilite in sede di contrattazione integrativa territoriale anche nell’ambito degli Osservatori regionali.

3) Nelle aziende o unità produttive con più di 15 dipendenti i RLS si individuano tra i componenti della RSU. La procedura di elezione è quella applicata per le elezioni della RSU. Nei casi in cui la RSU non sia stata ancora costituita (e fino a tale evento) e nell’unità produttiva operino le RSA, i RLS sono eletti dai lavoratori al loro interno.

4) I RLS restano in carica 3 anni”.

Il citato Accordo Interconfederale del 24 Luglio 1996 Tra Confetra e CGIL, CISL e UIL sulla Sicurezza sul Lavoro si limita a specificare le modalità di elezione o designazione del RLS.

Nelle aziende o unità produttive fino a quindici dipendenti le modalità sono le seguenti.

L’elezione si svolge a suffragio universale diretto e a scrutinio segreto, anche per candidature concorrenti. Risulterà eletto il lavoratore che ha ottenuto il maggior numero di voti espressi.

Prima dell’elezione, i lavoratori nominano tra di loro il segretario del seggio elettorale, il quale, a seguito dello spoglio delle schede, provvede a redigere il verbale dell’elezione. Il verbale è comunicato senza ritardo al datore di lavoro.

Hanno diritto al voto tutti i lavoratori iscritti a libro matricola e possono essere eletti tutti i lavoratori non in prova con contratto a tempo indeterminato che prestano la propria attività nell’unità produttiva.

La durata dell’incarico è di 3 anni”.

Nelle aziende o unità produttive con più di quindici dipendenti le modalità sono le seguenti.

All’atto della costituzione della RSU il candidato a rappresentante per la sicurezza viene indicato specificatamente tra i candidati proposti per l’elezione della RSU.

La procedura di elezione è quella applicata per le elezioni delle RSU.

Nei casi in cui sia già costituita la RSU ovvero siano ancora operanti le rappresentanze sindacali aziendali, per la designazione del rappresentante per la sicurezza si applica la procedura che segue.

Entro novanta giorni dalla data del presente accordo i RLS sono designati dai componenti della RSU al loro interno.

Tale designazione verrà ratificata in occasione della prima assemblea dei lavoratori.

Nei casi in cui la RSU non sia stata ancora costituita (e fino a tale evento) e nella unità produttiva operino le RSA delle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie, i RLS sono eletti dai lavoratori al loro interno secondo le procedure sopra richiamate per le unità produttive con numero di dipendenti inferiore a 16, su iniziativa delle organizzazioni sindacali.

In assenza di rappresentanze sindacali in azienda, i RLS sono eletti dai lavoratori dell’azienda al loro interno secondo le procedure sopra richiamate per il caso delle unità produttive con numero di dipendenti inferiori a 16, su iniziativa delle Organizzazioni Sindacali.

Il verbale contenente i nominativi dei RLS deve essere comunicato alla direzione aziendale, che a sua volta ne dà comunicazione, per il tramite dell’associazione territoriale di appartenenza, all’organismo paritetico territoriale che terrà il relativo elenco.

I rappresentanti per la sicurezza restano in carica 3 anni”.

Nel vostro caso pertanto non avete molti spazi di manovra.

Una prima cosa che ti consiglio di fare è verificare che l’elezione o designazione della RLS della UIL sia stata fatta secondo quanto stabilito dall’Accordo di cui sopra, richiamato a sua volta dal vostro CCNL.

Se ciò non è stato fatto potete contestare le modalità di elezione o designazione e richiedere che essa sia ripetuta e svolta secondo l’Accordo.

Se invece le elezioni si sono svolte secondo le modalità previste, non vi resta che convincere la RLS a dimettersi (magari coinvolgendo la UIL locale), giustificando la richiesta con l’oggettiva difficoltà o impossibilità per la RLS di svolgere il proprio ruolo e poi richiedere di indire una nuova elezione o designazione.

Se la RLS non si vuole dimettere, non vi resta che aspettare la scadenza del mandato triennale (secondo CCNL e Accordo).

Rimane un’ulteriore possibilità che però non è avvallata da sostegno legislativo, né contrattuale che è quella di richiedere l’intervento del RLS Territoriale (possibilmente della UIL) a cui fare presente che, tenendo conto che la RLS aziendale non è in grado di svolgere il suo ruolo, è necessario che esso venga svolta appunto dal RLS Territoriale.

Nulla potete invece nei confronti dell’azienda, in quanto essa non ha alcun poter in merito alla elezione del RLS e allo svolgimento dei sui compiti, ma ha solo l’obbligo di permettergli l’esercizio delle sue attribuzioni. Se il RLS non esercita tali attribuzioni, l’azienda non è tenuta a farglielo fare.

A disposizione per eventuali chiarimenti.

Marco

 

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Buongiorno Marco,

chi ti scrive è un RLS di una grossa cooperativa di lavoratori che si occupa di logistica, movimentazione merci, ricevimento e spedizioni merci.

Da qualche mese nel nostro magazzino è stato introdotto il “voice picking”, cioè la preparazione degli ordini su bancale tramite sistemi di riconoscimento vocale, introdotto dal datore di lavoro per velocizzare i processi aziendali, in sintesi per aumentare la produttività.

Il principio di base del sistema è quello di sostituire al video di un terminale i comandi vocali trasmessi nella cuffia, e, al lettore di barcode, o alla tastiera, la voce dell’operatore raccolta dal microfono. I sistemi per il riconoscimento vocale identificano come dati le parole pronunciate dai lavoratori e forniscono come risposta le istruzioni e le conferme via audio.

Questa tecnologia, a mio modesto avviso, comporta comunque dei rischi, legati all’inquinamento elettromagnetico: 8 ore al giorno con la cuffia e il dispositivo sempre acceso.

In rete internet non ho rintracciato riscontri su possibili rischi alla salute dei lavoratori che utilizzano questa nuova tecnologia. Se tu fossi a conoscenza di problematiche relative a questo tema, te ne sarei molto grato.

Ti ringrazio anticipatamente.

 

Ciao,

personalmente non ho esperienze dirette sul sistema di “voice picking”, né ho trovato documentazione sul rischio da campi elettromagnetici (CEM) relativo a tale tecnologia.

Per mia esperienza personale, relativa a CEM di sistemi di trasmissione dati wireless, ti posso però dire che, stando almeno ai limiti definiti dal D.Lgs.81/08 (Decreto), non sussistono particolari rischi.

In particolare ho eseguito misurazioni dirette di intensità di CEM ad alta frequenza sui seguenti apparati, simili come frequenze di emissione e potenza al sistema “voice picking”:

  • reti wireless aziendali;
  • sistemi di trasmissione dati da monitor su gru portuali;
  • sistemi di trasmissione dati da monitor su carrelli elevatori.

In tutti tali casi i valori misurati per il campo elettromagnetico “E” risulta di pochi V/m (minori di 5) a fronte del limite più cautelativo (in funzione della frequenza) definito dalla parte B dell’Allegato XXXVI del Decreto, che è di 61 V/m tra i 10 e i 400 MHz.

Gli apparati misurati, anche se non a diretto contatto con la testa dell’operatore, risultavano in molti casi (carrelli e gru) molto vicini (meno di 200 mm) dalla testa.

Ritengo quindi che anche per i sistemi di “voice picking” i valori di “E” di cui sopra non debbano essere superati.

Ti ricordo comunque che è obbligo specifico del datore di lavoro della tua azienda aggiornare il Documento di Valutazione del Rischio (DVR) a seguito dell’introduzione del sistema di “voice picking” (articolo 29, comma 3 del Decreto), in quanto trattasi “di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori”.

La valutazione del rischio da CEM è disciplinata dal Titolo VIII Capo IV del Decreto, che all’articolo 209, comma 1, specifica che il datore di lavoro, nell’ambito del DVR di cui agli articoli 17, comma 1, lettera a), 28 e 29 “valuta e, quando necessario, misura o calcola i livelli dei campi elettromagnetici ai quali sono esposti i lavoratori”.

 

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NOTA

Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:

ASL = Azienda Sanitaria Locale

CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro

DPI = Dispositivi di Protezione Individuali

DVR = Documento di Valutazione dei Rischi

DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto

RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione

RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza

D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)

 

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I DIRIGENTI DEVONO GARANTIRE LA SICUREZZA ANCHE SE NON HANNO UN’INVESTITURA FORMALE

 

Da Il Sole 24 Ore

http://www.ilsole24ore.com

22 gennaio 2016

Giovanni Negri

 

Sono rimasti inerti di fronte alla gravità dello sciame sismico che colpiva L’Aquila già da mesi, e che era particolarmente insistente la notte del crollo del Convitto Nazionale (tre ragazzini morti e due feriti) il 6 aprile 2009, mentre i due imputati, entrambi con posizione di garanzia, avrebbero dovuto dichiarare da tempo l’inagibilità della scuola la cui instabilità era nota.

Almeno quella notte, avrebbero potuto organizzare l’evacuazione degli studenti.

 

Per queste ragioni la Corte di Cassazione con Sentenza del 21/01/16, ha confermato le condanne per omicidio colposo e lesioni per l’ex Rettore del Convitto e per l’allora dirigente provinciale responsabile dell’edilizia scolastica.

“La situazione di allarme sismico era talmente conclamata che il sindaco di L’Aquila aveva disposto la chiusura di tutte le scuole del centro storico” – ricorda la sentenza – “Se fosse stata fatta la valutazione di pericolosità, non sarebbe mancata una analoga ordinanza di inagibilità che avrebbe salvato gli allievi del convitto”.

 

La Corte di Cassazione, poi, sul piano più squisitamente giuridico, interviene a favore di una concezione sostanziale della posizione di garanzia. In questo senso è maestra la Sentenza delle Sezioni Unite Penali del 24 aprile 2014 sulla vicenda Thyssen-Krupp per la quale la posizione di garanzia può essere prodotta non solo da un’investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante.

Di particolare importanza è allora concentrare l’attenzione sulla concreta organizzazione della gestione del rischio: milita in questo senso, osserva la Corte, l’articolo 299 del Testo unico sulla sicurezza del lavoro.

 

Del resto, avverte la Sentenza, bisogna fare riferimento “a una visione eclettica della fondazione del ruolo di garanzia che ha in parte superato la storica concezione formale. Si è sviluppata una elaborazione sostanzialistico-funzionale che non fa più leva tanto su profili formali quanto piuttosto sulla funzione dell’imputazione per omissione, connessa all’esigenza di natura solidaristica di tutela di beni giuridici attraverso l’individuazione di un soggetto gravato dal ruolo di garante della loro protezione”.

 

Si tratta di un’impostazione che, agli occhi dei giudici della Cassazione, presenta una pluralità di vantaggi. Innanzitutto, nella prospettiva dell’ordinamento penale, seleziona in senso restrittivo il dovere di agire nell’ambito di una sterminata lista di obblighi presenti nell’ordinamento.

In questo modo possono anche essere fronteggiate situazioni nelle quali, anche se esiste un vizio della fonte contrattuale dell’obbligo, c’è stata l’assunzione effettiva di un ruolo di garante, la cosiddetta, precisa la Corte, presa in carico del bene protetto. Come pure possono essere affrontate situazioni analoghe a quelle previste dalla fonte legale dell’obbligazione, come nel caso della consolidata convivenza in un rapporto familiare o istituzionale.

 

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DEPENALIZZAZIONE: I CHIARIMENTI DEL MINISTERO DEL LAVORO

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

14 febbraio 2016

di Valeria Zeppilli

 

DEPENALIZZAZIONE: I CHIARIMENTI DEL MINISTERO DEL LAVORO

LE INDICAZIONI CONTENUTE NELLA CIRCOLARE MINISTERIALE 6/15 IN RELAZIONE AI REATI COINVOLTI DALLA RIFORMA

 

Anche il Ministero del Lavoro, con la circolare numero 6 del 5 febbraio 2016 ha detto la sua in materia di depenalizzazione, fornendo chiarimenti operativi a tutto il personale ispettivo, per permettere un’applicazione corretta delle nuove previsioni, in particolare quelle riguardanti la materia del lavoro e della legislazione sociale.

 

Il Ministero ha innanzitutto ricordato che la depenalizzazione è esclusa per i reati di cui al Testo Unico in materia di salute e sicurezza dei luoghi di lavoro, che, quindi, conservano la loro natura penale anche nel caso in cui siano puniti con la sola pena pecuniaria.

 

Per gli illeciti coinvolti nella depenalizzazione, invece, il Ministero chiarisce che due sono i regimi sanzionatori oggi previsti: quello applicabile agli illeciti commessi prima del 6 febbraio (cosiddetto “regime intertemporale”) e quello applicabile agli illeciti commessi dopo (cosiddetto “regime ordinario”). Chiarendo, quindi, come devono comportarsi gli organi ispettivi nell’uno e nell’altro caso.

 

La Circolare ricorda, poi, che a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 8/16 il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, di cui all’articolo 2, comma 1-bis, del Decreto Legge numero 463 del 1983 è oggi “scomposto” in due diverse fattispecie di illecito: una di natura penale e l’altra di natura amministrativa.

 

In particolare, è penale il caso in cui l’omissione ecceda i dieci mila euro annui: la sanzione, in tal caso, continua infatti ad essere quella della reclusione fino a tre anni e della multa fino a 1.032 euro.

E’ invece ora soggetta alla sola sanzione amministrativa compresa tra 10.000 euro e 50.000 euro l’omissione che non eccede i 10.000 euro annui.

 

Il tutto con la precisazione generale che il datore di lavoro che provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione non è penalmente punibile né amministrativamente sanzionabile.

 

Il Ministero chiarisce poi che per individuare l’Autorità Competente a contestare la relativa sanzione occorre far riferimento al criterio di cui all’articolo 35, comma 2, della Legge 689/81, in base alla quale l’ordinanza-ingiunzione per le violazioni consistenti nell’omissione totale o parziale del versamento di contributi e premi è emessa dagli enti e istituti gestori delle forme di previdenza e assistenza obbligatori. Ovverosia, dalla sede provinciale INPS territorialmente competente.

 

la Circolare numero 6 del 5 febbraio 2016 del Ministero del Lavoro è scaricabile all’indirizzo:

http://www.lavoro.gov.it/Strumenti/normativa/Documents/2016/Circolare%20n%206%20del%202016.pdf

 

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FIBRE ARTIFICIALI VETROSE: LE LINEE GUIDA E EFFETTI SULLA SALUTE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

28 gennaio 2016

di Tiziano Menduto
Le nuove linee guida inerenti i rischi di esposizioni alle fibre artificiali vetrose e i potenziali effetti sulla salute.

Gli effetti infiammatori sulle strutture polmonari, gli effetti irritativi, il rischio cancerogeno e gli obiettivi delle linee guida.

 

Le fibre artificiali vetrose, chiamate anche con l’acronimo FAV, sono materiali che appartengono ad un’ampia famiglia di fibre artificiali inorganiche, con caratteristiche che differiscono non solo in funzione dell’utilizzo finale ma anche delle modalità di produzione. In relazione al processo produttivo possiamo ad esempio distinguere:

  • fibre a filamento continuo: prodotte per fusione in filiere e successiva trazione (il diverso tenore di silice ne condiziona le differenti proprietà tecniche e i relativi utilizzi in campo tessile, per usi elettrici, per rinforzo per plastica e cemento);
  • lane(di vetro, lana di scoria e lana di roccia): prodotte dopo fusione delle materie prime, principalmente per fibraggio in centrifuga o centrifugazione/soffiatura (buona resistenza alla trazione e bassa resistenza all’impatto e all’abrasione, alto isolamento termico-acustico);
  • fibre ceramiche: prodotte con soffiatura/filatura, attraverso processi chimici a temperature più elevate (hanno un’estrema resistenza alle alte temperature, bassa conducibilità termica,elettrica ed acustica, risultano inattaccabili dagli acidi);
  • fibre speciali(microfibre di vetro).

 

E proprio in relazione alla grande diffusione di queste fibre per le particolari proprietà delle FAV il Ministero della Salute è intervenuto prima con la Circolare n. 23 del 25 novembre 1991 e successivamente ha istituito un gruppo di lavoro che è arrivato alla definizione delle linee guida “Le Fibre Artificiali Vetrose (FAV): Linee guida per l’applicazione della normativa inerente ai rischi di esposizioni e le misure di prevenzione per la tutela della salute”, approvate dalla Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano nella seduta del 25 marzo 2015.

 

A presentare e raccontare in questo modo le linee guida approvate è un intervento di Giancarlo Marano (Ministero della Salute) che si è tenuto al recente convegno organizzato da Assoprev e dal titolo “FAV – Le fibre artificiali vetrose. Linee Guida della Conferenza Stato Regioni sui rischi e le misure di prevenzione per la tutela della salute” (Milano, 3 Dicembre 2015).

 

Nell’intervento “FAV: obiettivi delle linee guida e percorso di elaborazione”, a cura di Giancarlo Marano, si indicano brevemente le motivazioni che hanno portato alla stesura delle linee guida:

  • necessità di differenziazione dei rischi in relazione alle diverse caratteristiche delle FAV;
  • assenza di stime del numero degli esposti per ragioni professionali;
  • assenza di valori limite o di riferimento per le FAV riguardanti la qualità dell’aria in ambienti di lavoro;
  • necessità di sistematizzare le informazioni sulla tossicità delle FAV in relazione alla classificazione in ambito REACH e CLP.

Motivazioni che comprendevano anche la necessità di rispondere alle sollecitazioni pervenute dalle ASL in relazione a diverse problematiche per gli Operatori della Prevenzione nell’intervenire e verificare la conformità in tutte le fasi di utilizzo delle FAV, dalla commercializzazione, all’uso e controllo dei materiali fibrosi sintetici da rimuovere.

 

Era poi necessario fornire informazioni aggiornate e corrette alla popolazione sui possibili effetti sulla salute che possono derivare da un’esposizione a FAV e sul prevedibile impatto sulla salute e sull’ambiente in occasione di demolizioni con possibile liberazione di fibre nell’aria circostante.

 

L’intervento si sofferma ampiamente anche su alcune considerazioni generali relative agli effetti sulla salute della FAV.

 

Ad esempio si indica che:

  • la forma, le dimensioni e il rapporto dimensionale lunghezza/diametro (L/D), sono parametri importanti per la tossicità di una qualsiasi fibra in quanto ne determinano le proprietà aerodinamiche, che condizionano sostanzialmente le caratteristiche di inalabilità, deposito e biopersistenza;
  • gli effetti sulla salute che possono derivare da un’esposizione a FAV risultano sostanzialmente condizionati dall’interazione tra le caratteristiche chimico-fisiche e tossicologiche presentate dalle diverse fibre, rispetto alle capacità difensive dell’organismo esposto; capacità che possono variare in relazione a fattori di rischio voluttuari (fumo di sigaretta) e per fattori di rischi individuali in grado di incidere negativamente sui meccanismi difensivi che assicurano la rimozione, l’allontanamento e l’espulsione o la dissoluzione delle particelle o fibre depositate, in rapporto al livello, durata e modalità di esposizione.

 

E riguardo ai potenziali effetti infiammatori sulle strutture polmonari si indica che:

  • come conseguenza del loro depositarsi in un qualunque tratto delle vie respiratorie, le FAV in rapporto alle caratteristiche di biopersistenza possedute, sono in grado di attivare processi infiammatori, con presenza di cellule infiammatorie negli spazi alveolari, interstiziali peribronchiali e perivasali;
  • per le fibre ad elevata biopersistenza, attraverso l’attivazione di fibroblasti e la deposizione di matrice connettivale possono innescarsi anche alterazioni anatomopatologiche del parenchima polmonare.

 

In particolare gli effetti irritativi delle FAV con diametro maggiore di 4μm su cute e mucose sono oramai accertati (NIOSH, 2006). Gli effetti irritativi comunque osservati sarebbero da ascrivere ad azione di tipo meccanico (sfregamento) e non alla composizione chimica. Non sono invece risolutive, per l’esiguità degli studi disponibili, le osservazioni relative a patologie cutanee allergiche attribuite ad additivi utilizzati per la lavorazione delle FAV.

 

Veniamo al rischio cancerogeno.

Riguardo alla cancerogenicità le diverse caratteristiche fisiche e chimiche delle FAV non permettono un’individuazione generalizzata degli eventuali meccanismi di cancerogenesi potenzialmente correlabili all’esposizione, anche in relazione alle potenzialità cancerogene mostrate da alcune FAV (fibre ceramiche), che ne ha determinato la classificazione come cancerogene, il meccanismo dell’azione tossica non risulta ancora del tutto chiarito. In analogia a quanto rilevato nei confronti dell’asbesto, anche in questo caso si potrebbe assumere che il coinvolgimento di queste fibre artificiali nella produzione di radicali liberi di ossigeno possa rappresentare uno degli elementi più importanti nel dare il via al processo di oncogenesi, innescando un danno al genoma cellulare, quale conseguenza dello stress ossidativo, con conseguente mutazione ed eventuale trasformazione in cellule neoplastiche.

 

Si ricorda che nella monografia IARC del 2002 si è concluso per una inadeguata evidenza di cancerogenicità delle lane minerali nell’uomo con riclassificazione nel gruppo 3 (non classificabile come cancerogeno per l’uomo). Tale osservazione è ripresa nella attuale classificazione europea che prevede per le lane minerali (numero di indice: 650-016-00-2) la categoria 2 per la cancerogenesi.

In ogni caso l’attribuzione della classificazione “cancerogeno” è strettamente collegata al diametro medio geometrico della fibra e alla presenza degli ossidi alcalini e alcalino terrosi.

E con riferimento alle indicazioni e alle note relative alla classificazione di pericolo (vedi ad esempio il regolamento CLP), le fibre a filamento continuo con diametro medio geometrico pesato sulla lunghezza > 6μm, caratterizzate dalla proprietà di mantenere costante il diametro in caso di frammentazione sono esentate dalla classificazione come cancerogene poiché soddisfano i requisiti della nota R.

 

Dunque le linee guida, hanno voluto assicurare una corretta valutazione e consapevolezza dei rischi da parte di tutti i soggetti interessati, compresi gli utilizzatori finali, sia negli ambienti di lavoro che di vita e favorire sul piano della tutela della salute (superando anche aspetti tecnici cruciali, quali la metodologia analitica di riferimento da utilizzare per la determinazione della corretta classificazione delle diverse FAV oggi presenti sul mercato) l’adozione di misure di prevenzione adeguate, in linea con la vigente normativa, avendo come destinatari particolari, ma non esclusivi, sia i datori di lavoro che gli organi di vigilanza, che hanno la responsabilità di garantire il pieno rispetto della normativa.

 

E, conclude il relatore, l’obiettivo perseguito è stato quello non solo di fornire un valido contributo per poter assumere decisioni utili a tutelare il bene comune anche in termini di tutela dell’ambiente e del lavoro, ma anche di orientare positivamente il nostro modo di comportarci senza enfatizzazione o sottovalutazione del livello di rischio, riconducibile alla diversa composizione delle fibre artificiali vetrose, che ne determina anche i potenziali effetti biologici sostanzialmente diversi.

 

Il documento “FAV: obiettivi delle linee guida e percorso di elaborazione”, a cura di Giancarlo Marano (Ministero della Salute) è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151214_FAV_linee_guida.pdf

 

Il documento “Conferenza Stato-Regioni del 25/03/15: Intesa sulle Linee guida per l’applicazione della normativa inerente i rischi di esposizioni e le misure di prevenzione per la tutela della salute alle fibre artificiali vetrose (FAV)” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.statoregioni.it/Documenti/DOC_046926_59%20CSR%20PUNTO%2012%20ODG.pdf

 

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RISCHIO ESPLOSIONE: NORMATIVA ATEX E SISTEMI DI PROTEZIONE

 

Da: PuntoSicuro

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8 febbraio 2016
Una tesi di laurea affronta il tema delle atmosfere potenzialmente esplosive e della normativa ATEX correlata.

Focus sulla nuova direttiva ATEX 2014/34/UE e sui sistemi di protezione dalle esplosioni.

 

Le tesi di laurea universitarie sono a volte un luogo di riflessione sulle strategie di prevenzione e quasi sempre una buona sintesi, con un linguaggio comprensibile, delle problematiche inerenti la sicurezza e i fattori di rischio.

E’ questo il caso di una tesi di laurea che ha affrontato il tema del rischio esplosione e la normativa ATEX correlata, con riferimento anche alla Direttiva 2014/34/UE che andrà ad abrogare la Direttiva 94/9/CE con effetto decorrente dal 20 aprile 2016.

 

Stiamo parlando della tesi di laurea di Paolo Federle, dal titolo “Macchine e apparecchiature in ambienti ATEX”, elaborata per il corso di laurea in ingegneria meccatronica, dipartimento di tecnica e gestione dei sistemi industriali dell’ Università degli Studi di Padova.

 

La tesi ricorda che un’atmosfera esplosiva è definita come una miscela:

  • di sostanze infiammabili allo stato di gas, vapori, nebbie o polveri;
  • con aria;
  • in determinate condizioni atmosferiche;
  • in cui, dopo l’innesco, la combustione si propaga all’insieme della miscela non bruciata.

E si indica che un’atmosfera suscettibile di trasformarsi in atmosfera esplosiva a causa delle condizioni locali e operative viene definita atmosfera potenzialmente esplosiva. Ed è solo a questo tipo di atmosfera potenzialmente esplosiva che sono destinati i prodotti oggetto delle Direttive ATEX.

 

Nel documento viene presentata la normativa ATEX, con particolare riferimento alla nuova Direttiva 2014/34/UE.

Infatti il 29 marzo 2014 è stata pubblicata la nuova Direttiva 2014/34/UE sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, una direttiva che andrà ad abrogare la vecchia 94/9/CE e che riguarda “l’armonizzazione delle legislazioni degli stati membri relative alle apparecchiature e ai sistemi di protezione destinati a essere utilizzati in atmosfera esplosiva”.

 

L’obiettivo della Direttiva 2014/34/EU è quello di garantire la libera circolazione dei prodotti ai quali si applica nel territorio dell’UE. Pertanto, la Direttiva, basata sull’articolo 95 del trattato CE, prevede i requisiti e le procedure per stabilire le conformità armonizzate.

 

Vediamo brevemente cosa cambia con la nuova Direttiva.

Si indica che le principali modifiche apportate riguardano la posizione giuridica degli operatori economici, come il legale rappresentante, distributore, importatore e produttore, mentre nulla di sostanziale è stato cambiato per quanto riguarda gli aspetti tecnici. La nuova Direttiva infatti presenta lo stesso campo di applicazione della precedente 94/9/CE e continua ad offrire due metodi per effettuare la valutazione della conformità dei prodotti:

  • controllo della produzione interna o marcatura autocertificazione CE: il costruttore esegue la valutazione di conformità e documenta la valutazione in proprio;
  • coinvolgimento di un Organismo Notificato.

In ogni caso per un confronto tra “vecchia” e “nuova” Direttiva ATEX, viene segnalato l’Allegato XII della 2014/34/UE che contiene una tavola di concordanza in cui è possibile verificare la corrispondenza dei vari articoli.

 

Dopo questo breve viaggio intorno alla normativa in materia ATEX, spostiamo la nostra attenzione sul contenuto del capitolo dedicato ai sistemi di protezione dalle esplosioni, sistemi che rientrano nel campo di applicazione della Direttiva ATEX e si riferiscono a quei dispositivi la cui funzione è bloccare sul nascere le esplosioni e/o circoscrivere la zona da esse colpita.

 

In particolare i sistemi di protezione dalle esplosioni possono essere così suddivisi:

  • sistemi di scarico dell’esplosione;
  • sistemi di soppressione dell’esplosione;
  • sistemi di isolamento dell’esplosione;
  • equipaggiamenti resistenti all’esplosione.

Ed è evidente che la scelta e l’impiego di uno o più sistemi di protezione sono strettamente connessi al processo di analisi e valutazione del rischio di esplosione. Inoltre la riduzione degli effetti di una esplosione e la conseguente scelta dei dispositivi di protezione è legata a molteplici fattori, tra cui il tipo di processo produttivo, la logistica dell’impianto in cui potrebbe formarsi l’atmosfera esplosiva e fattori di tipo ambientale. Senza dimenticare che un aspetto rilevante per la protezione dalle esplosioni è l’aspetto progettuale, inteso come il complesso di scelte tecniche e dimensionali che consentono di ridurre gli effetti di una esplosione sin dalla fase di progetto.

 

La tesi si sofferma su alcuni dispositivi, ad esempio sui soppressori.

Si indica che i sistemi di protezione a soppressione si caratterizzano per il fatto che vengono impiegati per il rilevamento di una possibile esplosione e l’immediata soppressione nei suoi primi istanti, limitando fortemente l’incidenza di eventuali danni. A seguito del rilevamento delle prime fasi dell’esplosione, una sostanza soppressore dell’esplosione viene immediatamente scaricata all’interno del volume interessato dall’esplosione. In generale tale sostanza è contenuta all’interno di HRD (High Rate Discharge), cioè dispositivi a rilascio rapido.

 

Veniamo invece allo scarico di una esplosione (venting), una misura finalizzata a ridurne gli effetti: i sistemi di venting consentono infatti lo sfogo dell’esplosione attraverso sezioni ben definite riducendo la pressione di esplosione.

La tesi ricorda che in relazione al tipo di sostanza che ha generato l’esplosione, gas o polvere, i sistemi di venting possono differire in modo sostanziale per tipologia costruttiva, dimensioni e posizione in funzione dell’involucro da proteggere. Uno degli aspetti di fondamentale importanza che influenzano l’efficienza dei dispositivi di scarico è il corretto dimensionamento e posizionamento.

 

Dopo aver riportato altri dettagli sullo scarico dell’esplosione, la tesi si sofferma sui sistemi di isolamento dell’esplosione.

Si possono avere:

  • sistemi attivi di isolamento che si basano sulla rilevazione preventiva dell’esplosione mediante sensori ed unità di controllo;
  • sistemi passivi di isolamento che sono costituiti da dispositivi installati lungo le condotte di propagazione dell’esplosione e non richiedono sensori o sistemi di controllo.

Inoltre in relazione alle specifiche esigenze e alla tipologia di impianto, si possono trovare i seguenti dispositivi per la realizzazione di un sistema di isolamento:

  • valvole di protezione, che possono essere sia attive che passive: quelle attive vengono controllate da sensori e, tramite il sistema di controllo, ne viene attivata la chiusura al momento dell’esplosione, per evitare che la stessa raggiunga le zone protette; mentre quelle passive, per esempio quelle di non ritorno (“flap valve”) impediscono la propagazione dell’esplosione e del suo fronte di fiamma;
  • valvole rotative, impiegate in lavorazioni che prevedono la formazione di polveri a rischio di esplosione, consentono di poter arrestare il fronte di fiamma e di abbassare la pressione di esplosione, attraverso il blocco del rotore;
  • deviatori, permettono la deviazione della propagazione del fronte di esplosione consentendo di ridurne gli effetti.

 

Infine la tesi si sofferma sugli equipaggiamenti resistenti all’esplosione.

Infatti un altro sistema di protezione contro le esplosioni consiste nel prevedere opportune caratteristiche di resistenza meccanica degli apparecchi, che potrebbero essere soggetti a una esplosione. E in particolare la norma EN 14460 stabilisce i requisiti costruttivi che gli apparecchi devono possedere per resistere alle pressioni di esplosione e a shock dovuti a esplosioni. E definisce i limiti di pressione e temperatura di esercizio dell’apparecchiatura potenzialmente soggetta ad esplosione. Senza dimenticare l’importanza della norma EN 13445 che definisce, ad esempio, le grandezze di pressione da assumere come specifiche di progetto.

 

Il documento “Macchine e apparecchiature in ambienti ATEX”, tesi di laurea di Paolo Federle è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/160125_atex_macchine_apparecchiature.pdf

 

Il Documento “Parlamento Europeo e Consiglio dell’Unione europea – Direttiva 2014/34/UE del 26 febbraio 2014 concernente l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative agli apparecchi e sistemi di protezione destinati a essere utilizzati in atmosfera potenzialmente esplosiva” è scaricabile all’indirizzo:

http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32014L0034&from=IT

 

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RISCHIO RUMORE: COME VALUTARE L’ESPOSIZIONE DEI LAVORATORI

 

Da: PuntoSicuro

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12 febbraio 2016

 

Un documento dell’INAIL affronta il rischio rumore e gli aspetti relativi alla sua valutazione. Focus sull’ipotesi di valutazione senza misurazioni o con misurazioni, sui parametri di esposizione e sulle strategie di misura.

 

Il D.Lgs. 81/08 all’articolo 181 indica che il datore di lavoro valuta tutti i rischi derivanti da esposizione ad agenti fisici in modo da identificare e adottare le opportune misure di prevenzione e protezione con particolare riferimento alle norme di buona tecnica ed alle buone prassi.

In particolare la valutazione dei rischi derivanti da esposizioni ad agenti fisici è programmata ed effettuata, con cadenza almeno quadriennale, da personale qualificato nell’ambito del servizio di prevenzione e protezione in possesso di specifiche conoscenze in materia. La valutazione dei rischi è aggiornata ogni qual volta si verifichino mutamenti che potrebbero renderla obsoleta, ovvero, quando i risultati della sorveglianza sanitaria rendano necessaria la sua revisione. E in particolare l’articolo 190 riporta varie indicazioni per il datore di lavoro relative alla valutazione dell’esposizione dei lavoratori al rumore.

 

Per dare qualche indicazione sulla valutazione dell’esposizione al rumore, torniamo a parlare oggi della pubblicazione del Dipartimento Innovazioni Tecnologiche e Sicurezza degli Impianti, Prodotti ed Insediamenti Antropici (DIT) dell’INAIL dal titolo “La valutazione del rischio rumore”; un documento curato da Raffaele Sabatino (DIT), con la collaborazione di Michele Del Gaudio (INAIL Unità Operativa Territoriale di Avellino) e la revisione scientifica di Pietro Nataletti (INAIL Dipartimento di Medicina, Epidemiologia, Igiene del Lavoro ed Ambientale).

Il documento INAIL ribadisce dunque che l’articolo 190 del D.Lgs. 81/08 impone al datore di lavoro di effettuare una valutazione del rumore, all’interno della propria azienda e indipendentemente dal settore produttivo, nella quale siano presenti lavoratori subordinati, o equiparati a essi, al fine di individuare i lavoratori esposti al rischio e attuare i necessari idonei interventi di prevenzione e protezione della salute.

E laddove non si possa fondatamente escludere che siano superati i valori inferiori di azione (LEX,8h > 80dB(A) o Lpicco > 135dB(C)) la valutazione deve prevedere anche misurazioni.

Ricordiamo, a questo proposito, che l’articolo 188 del D.Lgs. 81/08 definisce i seguenti parametri:

  • pressione acustica di picco (ppeak): valore massimo della pressione acustica istantanea ponderata in frequenza “C”;
  • livello di esposizione giornaliera al rumore (LEX,8h): valore medio, ponderato in funzione del tempo, dei livelli di esposizione al rumore per una giornata lavorativa nominale di otto ore: esso si riferisce a tutti i rumori sul lavoro, incluso il rumore impulsivo;
  • livello di esposizione settimanale al rumore (LEX,w): valore medio, ponderato in funzione del tempo, dei livelli di esposizione giornaliera al rumore per una settimana nominale di cinque giornate lavorative di otto ore.

Per le situazioni nelle quali è evidente che l’ esposizione al rumore risulti trascurabile, il documento ricorda che si può ricorrere alla cosiddetta “giustificazione” e, in tal caso, non sarà necessario approfondire oltre la valutazione del rischio oppure, nei casi dubbi, ci si potrà limitare ad alcune misurazioni, in maniera da poter escludere il superamento dei valori inferiori d’azione anche per i lavoratori più a rischio.

E dunque nell’ipotesi di una valutazione senza misurazioni la relazione tecnica dovrà indicare:

  • il layout (planimetria e indicazione delle macchine, attrezzature, lavoratori esposti, ecc.);
  • l’individuazione di eventuali fattori potenzianti il rischio (ad esempio sostanze ototossiche, vibrazioni, rumori impulsivi, ecc.), come identificati dall’articolo 190, comma 1;
  • l’indicazione delle motivazioni che escludono il superamento dei valori di azione inferiori nella giornata/settimana/settimana ricorrente a massimo rischio;
  • le conclusioni con le eventuali indicazioni specifiche per la riduzione del rischio.

 

Mentre, una valutazione con misurazioni dovrà, invece, contemplare:

  • il layout (planimetria e indicazione delle macchine, attrezzature, lavoratori esposti, ecc.);
  • la descrizione del ciclo lavorativo (almeno di quelle fasi, in relazione alle quali, non è possibile ritenere la presenza di un rischio trascurabile);
  • l’individuazione di eventuali fattori potenzianti il rischio (ad esempio sostanze ototossiche, vibrazioni, rumori impulsivi, ecc.), come identificati dall’articolo 190, comma 1;
  • i risultati delle misurazioni di rumore (LAeq, Lpicco e LCeq);
  • l’individuazione delle aree e delle macchine a forte rischio (LAeq > 85 dB(A) e Lpicco > 137 dB(C));
  • la valutazione del rispetto dei valori limite di esposizione (LEx > 87 dB(A) e Lpicco > 140 dB(C));
  • il calcolo dei LEx e dei Lpicco degli esposti oltre gli 80 dB(A) e i 135 dB(C);
  • la valutazione dell’efficienza e dell’efficacia dei Dispositivi di Protezione Individuale uditivi (DPIu), se e in quanto forniti ai lavoratori;
  • la definizione delle misure tecniche e organizzative di contenimento del rischio (il “Programma Aziendale di Riduzione dell’Esposizione”, di cui alla norma UNI 11347:2015);
  • le conclusioni (quadro d’insieme del rischio).

Riepilogando e computando nei livelli di esposizione anche il contributo delle incertezze (l’incertezza è quel parametro associato al risultato di una misurazione, o di una stima, di una grandezza che ne caratterizza la dispersione dei valori ad essa attribuiti con ragionevole probabilità):

  • ai fini della individuazione degli obblighi che ricadono sui diversi soggetti interessati (Datore di lavoro, lavoratore, Medico Competente), si fa riferimento ai livelli di esposizione calcolati in assenza di DPIu (LEx,8h);
  • il superamento dei livelli di esposizione giornaliera di un lavoratore al rumore (LEx,8h) di 80, 85 e 87 dB(A) comporta il diritto/dovere per i vari soggetti (Datore di lavoro, lavoratori, Medico Competente, costruttore) di adempiere a diverse prescrizioni fissate a tutela della salute;
  • ai fini della verifica del rispetto del limite di esposizione (LEx,8h = 87 dB(A)) si fa riferimento al livello di esposizione stimato con idonei DPIu indossati (L’Ex,8h con DPIu).

E il percorso per la redazione della relazione tecnica, allegata al DVR, prevede una serie di step che il personale qualificato incaricato dovrà seguire, in base al criterio logico da applicare al caso di specie. In generale il processo di valutazione del rischio rumore, che deve essere effettuato adattandolo alle situazioni reali e avendo come obiettivo la protezione dei lavoratori, parte dall’identificazione dei pericoli, passando per la relativa valutazione, fino a giungere alla pianificazione degli interventi tecnici e organizzativi di riduzione del rischio. Nel documento INAIL è riportato uno schema con le principali tappe dell’iter.

Un paragrafo è dedicato poi alle strategie di misura.

Infatti una corretta valutazione del rischio viene eseguita in conformità alle indicazioni della norma UNI EN ISO 9612:2011 che propone un metodo tecnico progettuale per la misurazione dell’esposizione al rumore dei lavoratori nell’ambiente di lavoro e il calcolo del livello di esposizione sonora. E occorre tener conto anche della norma UNI 9432:2011 da considerarsi complementare alla norma UNI EN ISO 9612:2011.

Nel documento sono presentate nel dettaglio le tre possibili strategie di misura per la valutazione del rischio:

  • misurazioni basate su attività (compiti): il lavoro svolto durante la giornata è analizzato e suddiviso in un numero di compiti rappresentativi; per ogni determinato compito si eseguono separatamente le misure di livello di pressione sonora;
  • misurazioni basate sulle mansioni: mediante campionatura casuale si ottengono delle misure di livello di pressione sonora durante l’esecuzione di determinate mansioni;
  • misurazioni a giornata intera: il livello di pressione sonora è misurato continuativamente sull’arco completo di una o più giornate lavorative.

Concludiamo ricordando che con il recente D.Lgs. 151/15 è stato riscritto il comma 5-bis dell’articolo 190 del D.Lgs. 81/08 andando a ufficializzare e permettere l’utilizzo delle banche dati sul rumore. Utilizzo che può avvenire se queste banche dati sono state approvate dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro.

Il documento dell’ INAIL – Dipartimento Innovazioni Tecnologiche e Sicurezza degli Impianti, Prodotti ed Insediamenti Antropici “La valutazione del rischio rumore”, edizione 2015 è scaricabile all’indirizzo: http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/intranet/documents/document/ucm_199620.pdf

 

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INFORTUNIO PER COMPORTAMENTO ABNORME E MANCATA FORMAZIONE: LE RESPONSABILITA’

 

Da: PuntoSicuro

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15 febbraio 2016

di Gerardo Porreca

 

La responsabilità dell’infortunio occorso al lavoratore a causa di condotta negligente e imprudente: se lo stesso non è stato formato sui rischi specifici, l’infortunio può essere considerato conseguenza diretta della mancata formazione.

 

Un insegnamento quello che discende da questa sentenza della Corte di Cassazione che mette in chiara evidenza l’importanza della formazione in materia di salute e di sicurezza sul lavoro da impartire ai lavoratori dipendenti ed a quelli ad essi equiparati.

Il datore di lavoro che non ha adempiuto agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde a titolo di colpa specifica, ha infatti precisato la suprema Corte, dell’infortunio occorso a un lavoratore anche se questi, nell’espletamento delle proprie mansioni, ha posto in essere condotte negligenti e imprudenti, trattandosi di una conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi.

Nel caso sottoposto in questa circostanza all’esame della Corte di Cassazione il lavoratore era rimasto mortalmente infortunato in quanto schiacciato fra la motrice e il rimorchio di un mezzo di trasporto mentre stava procedendo a un incauto riaggancio delle due parti del veicolo non rispettando così quelle misure di sicurezza che una specifica formazione gli avrebbe sicuramente fatto conoscere.

La Corte di Appello ha assolto con formula piena l’Amministratore Delegato di una società mentre ha confermata la condanna inflitta dal Tribunale al Responsabile del deposito dello stabilimento gestito dalla società stessa per il delitto di omicidio colposo in danno di un lavoratore dipendente.

Ai due imputati era stato addebitato di avere cagionata la morte del lavoratore per colpa consistita in imprudenza, negligenza e imperizia, nonché violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. In particolare gli imputati erano stati accusati di non avere valutato, tra gli altri, il rischio cui è stato esposto il lavoratore il quale, addetto a mansioni di autotrasportatore, provvedeva al periodico prelievo di rottami in vetro presso lo stabilimento.

Il lavoratore nel giorno dell’infortunio si era venuto a trovare nella necessità di sganciare l’autocarro dal rimorchio per l’impossibilità di accedere al punto di prelievo con l’intero veicolo, data la ridotta dimensione del tratto di strada antistante. Nel documento di valutazione rischi elaborato dall’azienda mancava ogni riferimento a tale specifico rischio, con conseguente omessa individuazione delle misure preordinate a fronteggiarlo quale la individuazione di una zona che consentisse di operare in sicurezza e mancava altresì l’indicazione delle modalità operative da adottare. Il lavoratore inoltre non era stato adeguatamente informato sui rischi specifici a cui era esposto in relazione all’attività svolta, con particolare riferimento al rischio presente durante le operazioni di sganciamento e successivo riaggancio tra autotreno e rimorchio e, dunque, sulle misure di sicurezza del caso e non gli era stata assicurata, altresì, una formazione sufficiente e adeguata in materia di sicurezza, avuto riguardo alle proprie mansioni, con particolare riferimento allo operazioni in svolgimento.

Con tali condotte omissive gli imputati non avevano impedito il decesso del lavoratore, il quale era rimasto schiacciato tra la motrice e il rimorchio all’atto di riagganciarli. In particolare il lavoratore aveva effettuata detta operazione senza che fossero state individuate e successivamente impartite al medesimo, mediante idonea informazione sul rischio e formazione lavorativa, le misure di sicurezza da seguire, che avrebbero imposto l’esecuzione dell’operazione a rimorchio fermo, previo allineamento del timone alla campana della motrice (anche avvalendosi di attrezzi occasionali) e avvicinando l’autocarro al rimorchio mediante manovra di retromarcia. In assenza delle dovute prescrizioni, invece, il lavoratore aveva eseguito l’operazione posizionandosi tra i due mezzi e sfrenando il rimorchio, che si trovava in pendenza, in modo da farlo avvicinare all’autocarro, mentre con le mani allineava il timone del rimorchio alla campana dell’autocarro, per farli incastrare. Non essendo però riuscito nell’intento, rimaneva schiacciato dal rimorchio, riversatosi sulla motrice per effetto del mancato incastro del timone (infilatosi viceversa sotto la campana dell’autocarro), con conseguente immediato decesso.

La Corte di merito ha osservato che nessuna responsabilità poteva gravare sull’Amministratore Delegato il quale aveva conferito al Responsabilità del deposito una delega antinfortunistica scritta e firmata dalle parti, esaustiva e con attribuzione di pieni poteri di programmazione, organizzazione e gestione. Con riferimento invece all’altro imputato la Corte territoriale ha ritenuto che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la condotta della vittima non era stato un fatto imprevedibile e abnorme, in quanto aveva svolto un’attività che rientrava nelle sue mansioni, da solo, senza ausilio di altro collega e senza che gli fosse stata data alcuna formazione e informazione sui rischi specifici e sulla corretta manovra da svolgere. La violazione delle norme di prevenzione, che aveva determinato il concretizzarsi dell’evento, ha fatto notare la Corte di Appello, era stata determinata dalle omissioni dell’imputato che, in ragione della delega ricevuta, era il primo garante della sicurezza dei lavoratori in azienda per cui, sulla base di tali considerazioni, la sentenza di condanna di primo grado è stata confermata, sebbene con una pena ridotta a sei mesi di reclusione.

Avverso la Sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato, lamentando l’erronea applicazione della legge e il difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa. Invero, secondo il ricorrente, l’evento verificatosi era del tutto imprevedibile, in quanto inaspettato era che il lavoratore disattivasse l’impianto frenate del rimorchio, onde consentire per gravità, il suo avvicinamento alla motrice. Inoltre in relazione alle operazioni di sganciamento e riaggancio, le norme ISPESL prendevano in considerazione il rischio di schiacciamento degli arti, ma non consideravano assolutamente la possibilità di un incidente mortale per cui se tale rischio non era prevedibile per gli Enti deputati alla sicurezza sul lavoro certamente non potevano esserlo per l’imputato.

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione che lo ha rigettato. La stessa ha sostenuto in premessa che “in tema di infortuni sul lavoro, l’articolo 2087 del Codice Civile ha carattere generale e sussidiario, di integrazione della specifica normativa antinfortunistica, con riferimento all’interesse primario della garanzia della sicurezza del lavoro. Pertanto, il dovere di sicurezza si realizza o attraverso l’attuazione di misure specifiche imposte tassativamente dalla legge oppure con l’adozione dei mezzi idonei a prevenire ed evitare i sinistri, assunti con i sussidi dei dati di comune esperienza, prudenza, diligenza, prevedibilità, in relazione all’attività svolta.

Ne consegue che, per configurare la responsabilità del datore di lavoro o dei suoi delegati, non è necessario che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni, essendo sufficiente che l’evento dannoso si sia verificato a causa dell’omessa adozione di quelle misure e accorgimenti imposti all’imprenditore dall’ articolo 2087 del Codice Civile ai fini della più efficace tutela dell’integrità fisica del lavoratore”.

La circostanza inoltre che le norme ISPELS non prendessero in considerazione il rischio morte non è stato ritenuto rilevante da parte della Sezione IV, considerato peraltro che in ogni caso era stata presa in considerazione la possibilità dello schiacciamento.

All’imputato, ha precisato inoltre la suprema Corte, è stato mosso anche un addebito di colpa generica. Tenuto conto, infatti, che la manovra di sgancio e aggancio del rimorchio era di routine, correttamente il giudice di merito ha ritenuto che il relativo rischio di infortunio fosse prevedibile ed evitabile con l’adozione di adeguate disposizioni di sicurezza. Pertanto, considerato che tale rischio non era stato preso in considerazione adeguatamente nel relativo documento di valutazione, tale omissione ha determinato il concretizzarsi dell’evento che le cautele dovute miravano ad evitare.

La responsabilità dell’imputato, secondo la Sezione IV, era a lui anche da attribuire per la violazione di specifiche norme di sicurezza e, quindi, a titolo di colpa specifica. Infatti al lavoratore, come esposto in sentenza, non è stata fornita una adeguata formazione ed informazione. In tali casi, ha così concluso la suprema Corte, “la negligenza del lavoratore, che nell’espletamento delle sue mansioni ponga in essere condotte imprudenti, non costituisce un fatto imprevedibile, in quanto è il frutto proprio della mancanza dell’adempimento dell’obbligo di formazione gravante sul datore di lavoro ed sui suoi delegati”.

La Sentenza n. 39765 del 2 ottobre 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14134:cassazione-penale-sez-4-02-ottobre-2015-n-39765-lavoratore-rimane-schiacciato-tra-la-motrice-ed-il-rimorchio-omessa-valutazione-del-rischio-e-mancata-formazione&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

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