Scienza zuccherata

Una recente serie di articoli del BMJ ha affrontato i conflitti d’interesse tra ricercatori e industria dello zucchero, o Big Sugar.(1-5) Quasi in contemporanea, il Lancet ha pubblicato una serie di articoli sull’obesità, discutendo in maniera molto simile il ruolo dell’industria degli alimenti, sia essa Big Food o Big Drink.(6) In entrambi i casi gli autori mostrano chiaramente come queste industrie abbiano usato le loro immense risorse per confondere, offuscare e indebolire le evidenze, sempre più forti e numerose, sul fatto che lo zucchero sia al centro dell’attuale epidemia di obesità.

Mostrano altrettanto chiaramente come i ricercatori britannici, ma non c’è ragione per non pensare che sia così anche altrove, abbiano collaborato nell’ottenere questi risultati mediante la loro associazione con l’industria (fondi per la ricerca, consulenze, attività di formazione, etc). Questa è la lista delle industrie coinvolte: Coca-Cola, PepsiCo, Nestlé, Institute of Brewing and Distilling, Weight Watchers International, Sainsbury’s, Sanofi, W K Kellogg Institute, GlaxoSmithKline, Boots, Cereal Partners UK, Mars, Unilever, Tanita UK (un produttore di bilance), Food and Drink Federation, Institute of Grocery Distributors, National Association of British and Irish Millers, Rank Hovis McDougal, e NutriLicious (una ditta di pubbliche relazioni specializzata in messaggi su salute e nutrizione per l’industria). Molti dei ricercatori finanziati dall’industria lavoravano per enti pubblici come lo Scientific Advisory Committee on Nutrition e il Medical Research Council; tutti erano ovviamente stimatissimi, nessuno ha mai messo in questione la loro onestà, e tutto ciò che facevano era legale. Gli articoli del BMJ citano numerosi nomi di eminenti ricercatori, ed esempi dei progetti di ricerca realizzati, sottolineando come i soldi andassero alle attività di ricerca; non finissero cioè nelle tasche dei ricercatori. Il giro di soldi è notevole: da 250mila a 380mila sterline l’anno solo per le ricerche del Medical Research Council.

 

Ma perché quasi tutti questi eminenti ricercatori accettano di lavorare a progetti finanziati dall’industria? Intervistati dal giornalista autore della serie per il BMJ, molti giurano di averlo fatto perché pensavano che i loro studi fossero importanti per la medicina e la salute pubblica. Ma è difficile pensare che un bravo ricercatore non veda l’interesse commerciale che sta dietro a uno studio mirante a comparare l’efficacia, nel diminuire il peso, di un servizio primario territoriale nei confronti di una consulenza da Weight Watchers, che era ovviamente il finanziatore dello studio. Altri, più onestamente, dicono di essere stati costretti ad accettare finanziamenti da Big Sugar per l’assenza o la diminuzione dei finanziamenti pubblici; vero, anche in Italia, ma perché non hanno alzato la voce e fatto pressione perché così non fosse? Altri ancora confidavano nei codici etici dell’industria, o speravano addirittura di influenzarne positivamente i comportamenti. Poveri illusi; non sapevano che Big Food elabora questi codici proprio per allontanare la possibilità che siano i governi a imporre le regole; per poi continuare a fare affari come al solito.(7)

 

Ma tutto ciò sarebbe innocuo, o quasi, se non vi fossero anche prove del fatto che le ricerche finanziate dall’industria sono di parte. Ebbene, una revisione sistematica sull’associazione tra aumento di peso e bevande zuccherate pubblicata nel 2013 mostra che le ricerche finanziate dall’industria hanno cinque volte più probabilità di trovare che non esiste nessuna associazione.(8) E uno studio precedente che aveva preso in considerazione 206 articoli sugli effetti di latte, bevande zuccherate e succhi di frutta sulla salute aveva concluso che la ricerca finanziata dall’industria distorce i risultati in favore della stessa, con importanti implicazioni per la salute pubblica.(9) E non è detto che ciò sia dovuto alla negligenza o imperizia dei ricercatori. Molto più probabile che sia l’industria che mette le mani sul disegno della ricerca, sui metodi, sugli strumenti di raccolta dati, sull’analisi degli stessi, ed infine su come i risultati sono descritti e commentati negli articoli pubblicati, distorcendoli a volte in maniera così sottile che non solo non se ne accorge il lettore, ma nemmeno il ricercatore.

 

Sembra chiaro, leggendo questi articoli del BMJ, che le politiche e i cambiamenti necessari a dare una svolta all’epidemia di obesità richiedono ricerche indipendenti da interessi commerciali. Come si legge in uno degli articoli della serie del Lancet, “mentre molti sforzi di salute pubblica sono stati spesi per limitare gli effetti avversi del marketing dei sostituti del latte materno, ora sono richiesti altrettanti sforzi per proteggere i bambini più grandi dall’aumento di un sempre più sofisticato marketing di cibi e bevande con eccesso di energia e difetto di nutrienti. Per affrontare questa sfida, il controllo della distribuzione e del marketing degli alimenti dev’essere migliorato e le attività commerciali devono essere subordinate alla protezione della salute.”(10) Ma non può esserci controllo del marketing e delle attività industriali e commerciali senza una ricerca che, adeguatamente finanziata con fondi pubblici, fornisca ai governi e a coloro che prendono decisioni dati e informazioni indipendenti sui quali basare le stesse. Come conclude l’autrice dell’editoriale che accompagna la serie di articoli del BMJ, che tra l’altro prende in considerazione anche i conflitti d’interesse riguardanti la ricerca su un nuovo vaccino contro il meningococco, conflitti che rischiano di fornire ulteriori argomenti ai gruppi contrari alle vaccinazioni, “non possiamo attenderci che il pubblico abbia fiducia in una scienza che sembra in vendita”.(11)

 

Adriano Cattaneo

 

1. Gornall J. Sugar: spinning a web of influence. BMJ 2015;350:h231 doi: 10.1136/bmj.h231

2. Gornall J. Sugar’s web of influence 2: biasing the science. BMJ 2015;350:h215 doi: 10.1136/bmj.h215

3. Gornall J. Sugar’s web of influence 3: why the responsibility deal is a “dead duck” for sugar reduction. BMJ 2015;350:h219 doi: 10.1136/bmj.h219

4. Gornall J. Sugar’s web of influence 4: Mars and company: sweet heroes or villains? BMJ 2015;350:h220 doi: 10.1136/bmj.h220

5. Anderson P, Miller D. Commentary: sweet policies. BMJ 2015;350:h780 doi: 10.1136/bmj.h780

6. Kleinert S, Horton R. Rethinking and reframing obesity. Lancet 2015 Feb 18. pii: S0140-6736(15)60163-5. doi: 10.1016/S0140-6736(15)60163-5

7. Stuckler D, Nestle M. Big food, food systems, and global health. PLoS Med 2012;9(6):e1001242

8. Bes-Rastrollo M, Schulze MB, Ruiz-Canela M, Martinez-Gonzalez MA. Financial conflicts of interest and reporting bias regarding the association between sugar sweetened beverages and weight gain: a systematic review of systematic reviews. PLoS Med 2013;10(12):e1001578

9. Lesser LI, Ebbeling CB, Goozner M, Wypij D, Ludwig DS. Relationship between funding source and conclusion among nutrition-related scientific articles. PLoS Med 2007;4:e5

10. Lobstein T, Jackson-Leach R, Moodie ML, et al. Child and adolescent obesity: part of a bigger picture. Lancet 2015 Feb 18. pii: S0140-6736(14)61746-3. doi: 10.1016/S0140-6736(14)61746-3

11. Loder E. Big food, big pharma: is science for sale? BMJ 2015;350:h795

Commento a cura di Giovanni Peronato

Big Sugar si occupa anche dei nostri denti e della relativa ricerca. In un articolo apparso su PlosMed il 10 marzo 2015,(1) ripreso poi dal BMJ,(2) si dimostra come il National Institute of Dental Research (NIDR), istituito negli USA nel 1966 per identificare ed eradicare le cause della carie dentaria, abbia perso una storica occasione nella sua battaglia. Nello studio vengono analizzati più di 300 documenti interni di un’industria dello zucchero e del NIDR per valutare le influenze su quest’ultimo. Non potendo negare che lo zucchero è la causa principale della carie dentaria, l’industria alimentare ha finanziato la ricerca su argomenti paralleli, come gli enzimi che rompono la placca dentale o i vaccini, di efficacia discutibile, in modo da oscurare la ricerca sui rapporti causali ben più diretti con lo zucchero e deviare l’attenzione del pubblico. Gli autori dell’articolo dimostrano che i finanziamenti alla ricerca hanno dettato in pratica l’agenda e le priorità del National Caries Program, iniziato nel 1971, condizionandone pesantemente i risultati. Alla luce di questi fatti appare maggiormente chiara la strenua opposizione di Big Sugar (The World Sugar Research Organisation) alle linee guida proposte dall’OMS, sulla restrizione nel consumo di zuccheri semplici, e dalla FDA, sulla modifica alle etichette nelle confezioni di prodotti alimentari e bevande. Conclusione: gli interessi dell’industria non devono interferire con gli sforzi atti a migliorare la salute dei nostri denti!

 

1. Kearns CE, Glantz SA, Schmidt LA. Sugar Industry Influence on the Scientific Agenda of the National Institute of Dental Research’s 1971 National Caries Program: A Historical Analysis of Internal Documents. PLoS Med 2015;12(3):e1001798

2. McCarthy M. Industry influence moved focus of US dental research away from sugar, documents indicate. BMJ 2015;350:h1322

 

Forza zucchero!

Lo strano caso dell’Italia all’attacco delle nuove raccomandazioni dell’OMS sullo zucchero. Possiamo titolarla così la clamorosa iniziativa intrapresa in solitario dal nostro paese al Consiglio Esecutivo dell’OMS, con un’aggressività diplomatica mai vista prima. Lo scrive una che – dal lontano 1999 – segue con una certa accuratezza tutti gli appuntamenti intergovernativi dell’agenzia. Ma la battaglia nostrana sullo zucchero non è una questione tecnica, una storia per addetti ai lavori. C’è dell’altro.

A incastro fra la seconda Conferenza Internazionale sulla Nutrizione della FAO (ICN2) e l’universale Expo Milano, la presa di posizione dell’Italia contro le nuove linee guida dell’OMS ha implicazioni fortemente politiche che investono le scelte globali in campo sanitario, e gli assetti di governance nazionale. La vicenda avrà ricadute diplomatiche, dicono fonti informate. Nell’euforico debutto di Expo, c’è da aspettarsi che l’Italia riprenderà il tema prima dell’Assemblea Mondiale della Salute. Insomma, non finisce qui.

 

Qual è dunque la questione? Al Consiglio Esecutivo dell’OMS da poco concluso a Ginevra il nostro paese, appellandosi alla regola sui procedimenti d’urgenza, si è lanciato nella richiesta di inserire un nuovo punto all’ordine del giorno per rivedere le modalità con cui l’OMS mette a punto le linee guida intese ad orientare di volta in volta le politiche dei governi su specifici temi di salute pubblica. Le linee guida sono una delle funzioni normative più importanti dell’OMS. Ne connotano l’importanza, anzi l’unicità stessa della funzione rispetto ad altre agenzie dell’ONU e alla miriade di organizzazioni pubblico-private nate negli ultimi anni nel campo della salute. L’iniziativa dell’Italia ha colto di sorpresa tutti i governi presenti, a maggior ragione i 33 Paesi del Consiglio Esecutivo, nel metodo e nel merito. L’Italia non è membro di questo organo di governo dell’OMS (per turnazione, questo posto le spetterebbe di diritto da molti anni; ma non ce ne sono le condizioni politiche, fanno capire da Ginevra); è apparsa pertanto assai poco diplomatica l’italica modalità di intervento a gamba tesa, e senza preavviso, su un’agenda del Consiglio già densa di priorità. Gli Stati Membri del Consiglio Esecutivo hanno sopportato così con imbarazzato fastidio la lobby battente in cui si sono avventurati i nostri delegati. Ambiguo è parso il documento (EB163/1 Add. 1) con cui il nostro governo ha intavolato la discussione. L’Italia chiede da un lato la generica revisione delle procedure in materia di linee guida, ma è chiaro che l’interesse vero è puntato in una direzione specifica. Ovvero, alle nuove raccomandazioni sull’assunzione di zucchero per adulti e bambini contenute in un documento (Guideline: sugars intake for adults and children) licenziato dall’OMS ma non ancora pubblicato, che limitano l’assunzione di zuccheri semplici (quelli tipici delle merendine, per intendersi) al 10% del fabbisogno calorico giornaliero, con l’esortazione a ridurre ulteriormente questa soglia a meno del 5%.

 

Cosa c’è che non va? Perché l’Italia spara a raffica su queste raccomandazioni, con un’azione senza precedenti? “Direttive ricevute da Roma”, stando ai delegati italiani. Che prendono di mira l’OMS con una serie di argomenti ripetuti come un disco rotto. Le nuove raccomandazioni sarebbero “draconiane”; non sono solide sotto il profilo scientifico; non sono state condotte in maniera trasparente. Ecco perché, secondo l’Italia, gli Stati Membri devono poter intervenire sulla procedura di messa a punto delle linee guida, anche tramite la scelta degli esperti e delle fonti scientifiche. In due paginette molto tecniche, il Dipartimento Nutrizione dell’OMS dettaglia come si è giunti al fatidico 5%, tentando di rispondere alle critiche sulla tenuta scientifica dei dati epidemiologici. Questi rimandano in effetti a meticolosi studi effettuati in Giappone sulle carie dentali negli anni ’60, in una fase di forte transizione dietetica del paese dopo la guerra. I dati hanno il conforto di una nuova analisi del 2014 degli studiosi Sheiham e James, che avvallano le nuove raccomandazioni. L’idea di esplorare la soglia del 5% deriva infine da uno studio sistematico della letteratura scientifica del 2014 condotto da Moynian e Kelly. In quanto alla trasparenza del processo, la metodologia delle linee guida imposta negli ultimi anni dall’OMS stabilisce un’attenzione speciale alla gestione del conflitto d’interesse nella selezione degli esperti in tutte le fasi di conduzione del lavoro, e alla condivisione dei processi intermedi. La messa a punto di tutte le linee guida prevede una consultazione aperta con i governi, che partecipano con i loro commenti. La stessa procedura è stata applicata ovviamente alle raccomandazioni sullo zucchero.

 

Un terreno molto delicato, nella tensione fra Paesi produttori e consumatori. Ecco perché in tutti questi passaggi, sarebbe molto pericoloso affidare la decisione tecnica sulle linee guida agli Stati Membri e ai loro interessi nazionali. Vale per lo zucchero, ma vale per tutte le linee guida dell’OMS. Lo ha spiegato bene il Segretariato dell’agenzia, lo hanno ribadito diverse delegazioni europee, e persino gli Stati Uniti.

 

Ma allora da dove vengono fuori le “direttive da Roma”? Contro ogni tradizione di severità in materia alimentare, in Italia da qualche tempo si agita un vento nuovo sull’agenda politica del cibo e delle malattie croniche. Le folate di questo vento si sono chiaramente avvertite nel corso del negoziato che ha faticosamente concepito i documenti finali della Seconda Conferenza sulla Nutrizione (ICN2) di novembre a Roma. Per mesi il nostro paese, approfittando senza troppi scrupoli della presidenza UE, ha ostinatamente opposto resistenza a ogni discorso sulle “healthy diets”, le diete salutari. Queste sono la risposta più realistica alle interferenze delle aziende alimentari che approntano soluzioni alla malnutrizione puntando alla medicalizzazione del cibo e alla “bio-fortificazione” degli alimenti tramite l’ingegneria genetica. Effetto Expo? Nei ministeri l’aria è cambiata, confermano fonti che chiedono di restare anonime. L’influenza delle grandi aziende alimentari nelle decisioni del nostro paese è palpabile, con una nuova filiera decisionale che procede da “livelli molto alti”.

 

Chi sono queste aziende? La delegazione italiana accreditata all’OMS contiene qualche risposta. Delle due figure apparse per la prima volta sotto la generica denominazione di “esperti della salute del Ministero Affari Esteri”, Luca del Balzo risulta in effetti “senior advisor della Ferrero” in diversi link rintracciabili fino a qualche giorno fa sul web. Con questa funzione Del Balzo compare in un convegno dell’Istituto Luigi Sturzo del 16 luglio 2014 su “Il voucher universale per i servizi alla persona e alla famiglia”, e in un incontro con le aziende italiane organizzate in Portogallo, dove è stato ambasciatore dell’Italia, a ottobre 2014. Un classico esempio di revolving doors, o meglio di paso doble fra pubblico e privato, nella progressiva ibridazione della governance sulle grandi sfide del pianeta: salute, cibo, ambiente, solo per citarne alcune.

 

Nel mondo, le patologie croniche – malattie cardiovascolari, diabete, tumori, etc. – sono la principale causa di morte, e lo zucchero è uno degli agenti più comuni nelle diete di bassa qualità, e uno dei massini fattori di rischio dell’obesità. Risulta difficile in effetti immaginare che gli interessi della multinazionale Ferrero, peraltro molto visibile e attiva durante la preparazione della ICN2, corrispondano a quelli della salute pubblica di un paese in cui, secondo il recente rapporto dell’Osservatorio del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università Milano Bicocca, un bambino su 4 è sovrappeso e uno su 10 è obeso. In Italia la prevalenza di sovrappeso in età pediatrica supera di circa 3 punti percentuali la media europea, con un tasso di crescita annua dello 0,5-1 per cento, pari a quella degli Stati Uniti.

 

L’insidiosa offensiva italiana – con l’infiltrazione dell’industria nella delegazione del nostro paese – non è passata inosservata agli stakeholders dello zucchero, la filiera produttiva, aprendo loro un varco come è normale che sia. Lo ha detto il rappresentante degli USA, alludendo alla necessità di tornare sull’argomento nelle discussioni dell’OMS, con il coinvolgimento degli sugar stakeholders. Coincidenza vuole che tutta questa vicenda s’intrecci con un’altra spinosa discussione in sede di Consiglio Esecutivo dell’OMS. La questione che rimanda alle nuove regole dell’interazione dell’OMS con gli attori del settore privato, sia profit che non profit. Il tema è sul tavolo da anni ed è un tema sensibile, perché riguarda il futuro stesso dell’agenzia, la sua credibilità e autorevolezza. Al Consiglio Esecutivo la stragrande maggioranza dei governi ha piazzato l’ennesima richiesta di approfondire la questione del conflitto d’interesse e la gestione dell’indebita influenza dei portatori di interessi privati.

 

Quello della Ferrero assomiglia a un caso studio. Uno strano caso, che richiede chiarezza nel nostro paese, prima di tutto. Quanto prima. Un tempo c’era la Nutella, buona e aggregante, ed era un bel tempo. Oggi rischia di esserci il cinismo incompetente di un governo che – assoggettato agli interessi privati del made in Italy – non sembra curarsi più di tanto dei prevedibili effetti delle proposte che fa nel campo della salute, indicatore drammatico dello stato di democrazia di una società.

 

Nicoletta Dentico, Osservatorio Italiano sulla Salute Globale, 10 Febbraio 2015

 

Per gentile concessione di saluteinternazionale.info (http://www.saluteinternazionale.info/2015/02/forza-zucchero/)

 

PS Sarà stato per caso, sta di fatto che il 19 Febbraio 2015, pochi giorni dopo l’episodio narrato qui sopra, Matteo Renzi era al funerale di Michele Ferrero (http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2015/02/18/renzi-ai-funerali-di-ferrero-e-poi-alla-general-motors-no-a-italia-pigra-e-rassegnata_d14c48c4-ceb4-4aef-9e2e-d912edf01096.html).

OKkio al MOIGE

E a proposito di obesità infantile e conflitto d’interessi, riproduciamo qui sotto una lettera inviata dai responsabili del progetto OKkio alla Salute (http://www.epicentro.iss.it/okkioallasalute/) al MOIGE (Movimento Italiano Genitori, http://www.moige.it/) il 24 Febbraio 2015. Il testo parla da solo e non ha bisogno di commenti.

 

Spettabile Movimento Italiano Genitori (MOIGE).

 

In qualità di componenti del Comitato Tecnico del Sistema di Sorveglianza Nazionale OKkio alla SALUTE, desideriamo con la presente ringraziare il MOIGE per aver contribuito a diffondere i dati della 4a rilevazione di OKkio alla SALUTE in occasione della conferenza stampa per la presentazione della vostra campagna “Mangia bene, cresci bene”.

 

Il tema del sovrappeso e dell’obesità nei bambini è a noi molto vicino in quanto, nell’ambito della Sorveglianza Nazionale OKkio alla SALUTE – promossa e finanziata dal 2007 dal Ministero della Salute e coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con le Regioni e il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca – siamo impegnati in prima linea, ormai da 10 anni, non solo nella sistematica raccolta di dati effettuata nel rispetto del massimo rigore scientifico, ma anche nel contrasto di tale fenomeno attraverso la promozione di iniziative sugli stili di vita salutari che coinvolgono i bambini, le loro famiglie e le scuole.

 

Come è ben noto al MOIGE, OKkio alla SALUTE è ormai una realtà consolidata nel nostro paese e rappresenta una solida fonte di dati epidemiologici nella fascia d’età 6-10 anni e vede il coinvolgimento a livello centrale e locale di numerosi professionisti del settore della sanità e della scuola di tutte le Regioni italiane; ad oggi vanta quattro raccolte dati a cadenza biennale (2008/9, 2010, 2012 e 2014) ed è strettamente collegata all’iniziativa europea “COSI, Childhood Obesity Surveillance Initiative” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

 

I risultati dell’ultima rilevazione, presentati il 21 gennaio 2015 al Convegno svoltosi presso il Ministero della Salute a Roma, confermano livelli di eccesso ponderale elevati nei bambini in Italia anche se si assiste ad una progressiva diminuzione del fenomeno rispetto a quanto rilevato in passato, contrariamente a quanto da voi riportato in occasione della vostra conferenza stampa. In particolare, allo scopo di evitare fraintendimenti, si sottolinea la necessità di porre la massima attenzione nel riportare i dati in quanto, poiché per i bambini si possono usare dei valori soglia differenti per definire il sovrappeso e l’obesità, potrebbero emergere discrepanze interpretative ed incomprensioni nelle prevalenze del fenomeno.

 

Nel dettaglio, il COSI dell’OMS riporta i dati utilizzando sia le curve OMS che quelle del IOTF: utilizzando le curve OMS in Italia 1 bambino su quattro risulta obeso e uno su due è sovrappeso (dati 2010), mentre con le curve IOTF i valori sono, rispettivamente, 1 bambino su dieci obeso e uno su quattro sovrappeso, così come risulta in OKkio alla SALUTE (che fornisce i dati italiani al COSI) che utilizza solo le curve IOTF. La diffusione di dati contrastanti, in quanto assunti in base a criteri non omogenei, può solo generare confusione e non è certo utile a contrastare un tale grave problema. É comunque meritorio, e di ciò Vi ringraziamo, l’aver contribuito alla diffusione dei dati di OKkio alla SALUTE 2014 riguardanti anche i comportamenti alimentari dei bambini che sembrano volgere verso un miglioramento per quanto permangano delle abitudini che, se associate a sedentarietà e scarso movimento, possono determinare un aumento di peso. Ciò non dimenticando che quanto sopra comunicato dal MOIGE rappresenta solamente una piccola parte degli indicatori raccolti in OKkio alla SALUTE. In caso di maggiori chiarimenti su ciò, potete consultare la pagina http://www.epicentro.iss.it/okkioallasalute/ o le pubblicazioni scientifiche prodotte.

 

Con l’occasione, per amor di verità e ad evitare che sorgano situazioni di confusione con altre iniziative presenti nel territorio, siamo a ricordarvi di citare OKkio alla SALUTE non come indagine, ma come Sistema di Sorveglianza Nazionale promosso e finanziato dal Ministero della Salute, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità con il contributo attivo delle Regioni e di una fitta rete di professionisti in unità di intenti, di formazione acquisita e di metodologia presenti sul territorio nazionale i cui risultati conseguiti hanno ottenuto riconoscimento di merito dallo stesso OMS Europa. Per conseguire questi traguardi, in armonia con la letteratura e le evidence best practices, OKkio alla SALUTE promuove solamente interventi partecipati e multidisciplinari, accompagnati da un solido processo comunicativo e supportati da diversi Enti, che abbiano continuità nel tempo soprattutto a fronte di un contesto scolastico dove quotidianamente “piovono” iniziative/progetti talvolta sporadici, poco coordinati tra di loro e in alcuni casi scarsamente coerenti con le buone pratiche provenienti dalla letteratura.

 

Riguardo il progetto “Mangia bene, cresci bene” dovrebbe essere motivo di riflessione la ragion d’essere della partecipazione al progetto dell’Associazione Medica Italiana di Omotossicologia (AIOT), dato che non risulta ad oggi evidenza scientifica di un ruolo dell’omotossicologia nella patogenesi e/o terapia dell’obesità in età pediatrica, né nell’educazione alimentare. L’osservazione viene posta poiché è consistente il timore che, a fronte della condizione di eccesso di peso, potrebbero ingenerarsi false aspettative di soluzioni prettamente terapeutiche/farmacologiche o delle false convinzioni nell’ambito degli stili alimentari (ciò visti i testi presenti sul sito della AIOT a riguardo dell’obesità).

 

Inoltre considerato che il progetto “Mangia bene, cresci bene” prevede l’intervento, negli istituti coinvolti, di incontri “tenuti dai docenti e dai medici dell’AIOT, che daranno ai ragazzi e alle loro famiglie tutte le informazioni necessarie sui principi di una corretta nutrizione”, considerata l’importanza e i possibili effetti che le iniziative di promozione della salute possono avere sullo sviluppo dei bambini e dei ragazzi, riteniamo sia doveroso porre preliminarmente la massima attenzione sulla verifica delle competenze e delle esperienze – relative sia alla comunicazione che ai contenuti della promozione della salute – di cui tali operatori medici omotossicologi dell’AIOT dovranno disporre per poter svolgere nel migliore dei modi questo delicato compito.

 

Similari perplessità nutriamo riguardo al coinvolgimento dell’azienda GUNA che nel suo portfolio presenta farmaci omeoterapici per il trattamento dell’obesità. Ovviamente la buona fede del MOIGE non è in discussione, ma con le considerazioni che vi sottoponiamo vorremmo prevenire la possibilità che alcuni genitori, a minor solidità culturale, possano essere orientati verso una scelta di carattere terapeutico/farmacologico. D’altra parte è ben nota a tutti la regola che la sponsorizzazione di campagne preventive non debba essere affidata a ditte o compagnie che possano avere motivo di conflitto di interesse con la campagna stessa.

 

Con l’augurio che la presente possa trovare una vostra condivisione e in attesa di un vostro gentile riscontro, inviamo cordiali saluti.

 

Il Comitato Tecnico di OKkio alla SALUTE

OMS: rendere disponibili tutti i risultati dei trials clinici

É la prima volta che l’OMS prende una posizione netta sull’obbligo di pubblicare i dati degli studi condotti sull’uomo.(1) In una dichiarazione diffusa il 15 Aprile 2015 afferma infatti che entro un anno dal termine dello studio tutti i dati dovranno essere depositati su uno dei due registri disponibili, quello europeo (EU-CTR) o quello statunitense (ClinicalTrials.gov), mentre i risultati dovrebbero essere pubblicati entro 2 anni su una rivista scientifica peer reviewed.

 

Nonostante le salatissime multe stabilite dalla Food and Drug Administration, pari a 10mila$ per ogni giorno di ritardo nella registrazione (a dire il vero mai applicate), più della metà degli studi rimane a tutt’oggi invisibile. Per questo, l’era dei segreti deve finire. Così l’OMS compie un altro passo in avanti e chiede di rendere consultabili gli studi già registrati, ma mai pubblicati.

 

David Tovey, co-fondatore assieme a Ben Goldacre della campagna AllTrials, cui aderiscono anche i NoGrazie, ha dichiarato che per la Cochrane Library (di cui è direttore editoriale) è una notizia formidabile; maggior accesso ai dati vuol dire maggiore efficacia della ricerca, maggiore possibilità decisionale a tutti i livelli, per cittadini, medici, politici e amministratori.

 

Tutto ciò sarebbe stata una grande notizia per Alessandro Liberati, che poco prima di morire aveva descritto il suo ‘viaggio infinito attraverso l’incertezza’, a proposito dei dati non pubblicati (proprio relativamente alla sua malattia) e degli interessi commerciali che si antepongono a quelli dei pazienti.(2)

 

Giovanni Peronato

 

1. Wise J. Results of all clinical trials should be posted within a year, says WHO. BMJ 2015;350:h1987

2. Liberati A. An unfinished trip through uncertainties. BMJ 2004;328:531

The Cancer War, un grosso affare per Big Pharma

Colin Macilwain, giornalista scientifico scozzese, scrive su Nature che la battaglia contro il cancro sta cambiando strategia focalizzandosi sui test diagnostici e sulla terapia invece che ricercarne le cause e le modalità di prevenzione.(1) Quest’ultima viene gradualmente percepita dal pubblico in maniera distorta. Dopo la doppia mastectomia di Angelina Jolie e la successiva annessiectomia, migliaia di donne sono corse a procurarsi i costosi test genetici pensando sia questa la vera forma di prevenzione. Assieme ai test genetici, vengono oggi offerte cure sempre più costose per prolungare la sopravvivenza (non chiamiamola ‘vita’) magari solo di qualche mese, pensando che questa sia la strategia vincente nella guerra contro i tumori. Una grande massa di investimenti viene dirottata su test preventivi e sulle strategie terapeutiche piuttosto che essere impiegata nella ricerca delle cause. Big Pharma sembra dettare l’agenda anche a istituzioni pubbliche come il National Cancer Institute il cui budget per la ricerca sulla prevenzione è sceso dall’11% nel 2003 al 6% nel 2013. Si riduce anche il budget per la ricerca di sistemi di valutazione dei reali risultati ottenuti con le nuove terapie.

 

La guerra globale contro il cancro fu dichiarata nel 1971 dal presidente Nixon, che paragonò il numero di vittime di questa malattia alle perdite subite dall’esercito americano nella seconda guerra mondiale.(2) La sollecitazione gli era venuta dalle pagine del Washington Post, dove era comparso un annuncio pubblicitario a tutta pagina dell’American Cancer Association, intitolato “Mr Nixon: you can cure cancer”. L’associazione contribuì poi a premere sul Congresso per stanziare fondi sempre più consistenti nel settore oncologico. Nixon aveva dichiarato guerra alla droga solo sei mesi prima e ora ripeteva il proclama contro il cancro. Gli americani avevano appena messo piede sulla luna, l’euforia era grande e si pensava che anche la vittoria nei confronti della malattia fosse dietro l’angolo. Già allora però parte della comunità scientifica era scettica sul fatto che si potesse vincere il cancro senza conoscerne a fondo le cause; sarebbe, si disse, come voler andare sulla luna senza conoscere la legge di gravità di Newton. Dichiarare guerra al cancro è ancora più irrealistico che farlo nei confronti del terrorismo o della droga, perché antepone le strategie terapeutiche di attacco alla malattia a quelle di prevenzione e ricerca delle cause, seguendo così gli interessi dell’industria, rendendo sempre più costosi i trattamenti, al punto che presto non saranno più disponibili per tutti come già non lo sono per i paesi più poveri. Come il terrorismo va combattuto alle radici, migliorando il benessere e la giustizia sociale, così del cancro vanno ricercate attivamente ed eliminate le cause, soprattutto ambientali: parlare di ‘guerra’ è un modo per distorcere le priorità di azione.

 

L’industria farmaceutica ha fatto passare come realistico il rapporto fra sopravvivenza al cancro e velocità di approvazione e di uso intensivo dei nuovi farmaci. Ecco allora nascere associazioni di pazienti, spesso finanziati dall’industria, che si battono per ottenere gli ultimi successi della ricerca terapeutica, indipendentemente dal rapporto costo/efficacia. Il termine guerra esprime una metafora oramai obsoleta che andrebbe abbandonata e che invece viene estesa ad altri settori, come le malattie neuro-degenerative. Nel marzo scorso si è svolta all’OMS di Ginevra la prima Conferenza su “Global Action Against Dementia”, al cui tavolo si sono seduti in prima fila i rappresentanti di Big Pharma. La priorità ancora una volta non è sul miglioramento della qualità di vita della popolazione, ma sui test genetici e sui farmaci innovativi.

 

L’articolo di Macilwain si conclude con un’immagine metaforica della guerra al cancro vista come la muraglia cinese, opera monumentale che doveva servire a proteggere gli abitanti da un nemico esterno, ma che è servita soprattutto ad aumentare il potere di chi la costruiva, l’Imperatore e la sua corte.

 

Giovanni Peronato

 

1. http://www.nature.com/news/change-the-cancer-conversation-1.17236

2. http://www.journalcancerpolicy.net/article/S2213-5383(13)00007-6/fulltext

Insulina evergreen

In un recentissimo articolo apparso sul NEJM ci si chiede come mai l’insulina, scoperta quasi un secolo fa e il cui brevetto fu ceduto nel 1923 al prezzo simbolico di un dollaro (e con la raccomandazione che non si facesse mai profitto di una farmaco salvavita) non sia ancora disponibile come prodotto generico.(1) Una volta ricevuto il brevetto l’Università di Toronto si rese subito conto che non sarebbe mai riuscita a produrre insulina per il fabbisogno del Nord America, così lo cedette alla Eli Lilly per gli Stati Uniti, lo tenne per sé invece per il resto dei mercati, vendendolo poi ad altre industrie farmaceutiche come la Nordisk danese (oggi Novo Nordisk). Già negli anni ’30 Hagedorn, che lavorava per la Nordisk, aggiunse della protamina all’insulina, prolungandone l’azione, ma anche il brevetto. Successivamente, con aggiunta di zinco, si riuscì a produrre un’insulina/protamina miscibile all’insulina regolare, lanciando sul mercato l’insulina NPH (neutral protamine Hagedorn), un altro brevetto, datato 1946. Negli anni ’50 si introdusse l’insulina cosiddetta ‘lenta’ arrivando ad estendere i brevetti sino agli anni ’70. Estrarre insulina dal pancreas di bovini e suini comportava la presenza di impurità con conseguenti reazioni immunologhe, così Novo Nordisk introdusse l’insulina monocomponente, altamente purificata, arrivando con il brevetto fino agli anni ’80.

 

Con l’arrivo delle biotecnologie, Genentech produce la prima insulina ricombinante da E. Coli nel 1978. Nel medesimo tempo Novo Nordisk brevettava il metodo per convertire l’insulina bovina in umana e più tardi iniziava a produrre insulina ricombinante umana. Siamo nel 1988, un altro brevetto. Una nuova serie di brevetti permette a Lilly, Novo Nordisk e Genentech di arrivare alle soglie del 21° secolo. Sempre con la biotecnologia fu quindi possibile sostituire singoli aminoacidi per ottenere insuline con proprietà farmacodinamiche differenti, come ad esempio la Glargine, che ha visto il suo brevetto scadere nel 2014. L’EMA ha potuto allora approvare la prima glargine/biosimilare, ma con un vantaggio economico modesto. ‘Copiare’ molecole enormi e complesse con un processo di registrazione molto più difficoltoso comporta un abbattimento dei prezzi di non più del 20-40%, ben inferiore all’80% che si ottiene in genere con gli equivalenti dei farmaci tradizionali.

 

É accaduto per l’insulina lo stesso processo di evergreening che abbiamo visto per molti altri farmaci, un esempio fra tutti il Neurontin Pfizer che diventa Lyrica nel 2004, non chiaramente più efficace, ma sicuramente più costoso. Il Neurontin però rimaneva comunque in vendita e a prezzo molto più basso. Invece, mano a mano che entravano in commercio le insuline modificate, i prodotti tradizionali estratti dal pancreas animale uscivano dal commercio, e successivamente divenivano irreperibili anche le insuline NPH ed R, dopo l’ingresso delle insuline biotecnologiche. Certo, se abbiamo di fronte un’insulina ‘migliore’, è giusto usare quest’ultima e offrire al produttore un compenso corrispondente all’innovazione, ma purtroppo non sembra sia così. Nel suo recente libro di denuncia Deadly Medicines and Organised Crime, Peter Gøtzsche scrive che per l’ingresso nel mercato delle insuline biotecnologiche, Novo Nordisk aveva lanciato nel 2006 una campagna aggressiva nei confronti dei medici con la promessa di campioni gratuiti, pranzi pagati e partecipazione a congressi, incrementando le vendite del 364% (la concorrente Eli Lilly vide le vendite aumentare solo del 13%).(2) In poco tempo i pazienti si videro sostituire la ‘vecchia’ insulina (poi sparita dal commercio) con un prodotto dall’azione più rapida e perciò potenzialmente pericoloso e letale, se non accompagnato da informazioni dettagliate.

 

Un’altra campagna altrettanto efficace venne messa in opera con le insuline ‘modificate’ per mezzo di biotecnologie, così la sola Glargine produsse un incremento di vendite pari a 5.1 miliardi di $ per la Sanofi-Aventis, e gli altri analoghi dell’insulina 4.7 miliardi di $ per la Novo Nordisk e 3.1 miliardi di $ per Eli Lilly. Questo indipendentemente da reali vantaggi per la maggior parte dei diabetici tipo 2, se si eccettuano i soggetti più propensi ad importanti episodi di ipoglicemia.(2)

 

Nel 2012 sono apparsi alcuni articoli sul BMJ dove già dal titolo si ipotizza un fenomeno commerciale più che un reale progresso: sales or science?(3,4) Alcune evidenze scientifiche a supporto delle nuove insuline presentano importanti falle metodologiche. In uno studio manca il braccio di controllo, in altri i risultati favorevoli vengono dimostrati solo in sottogruppi ad hoc e con il contributo di autori che erano dipendenti dall’azienda produttrice.

 

Morale: non si trovano più in commercio le ‘vecchie’ insuline, senza che le nuove abbiano ancora dimostrato chiaramente di essere migliori delle sorelle più povere. Così non è potuto avvenire ciò che tradizionalmente si osserva nel mercato dei farmaci: quello uscito di brevetto può essere prodotto anche da altre aziende a prezzi inferiori. A quasi un secolo dalla sua scoperta l’insulina è ancora un farmaco branded dai costi molto elevati.

 

Traduzione e adattamento di Giovanni Peronato

 

1. Greene JA et al. Why Is There No Generic Insulin? Historical Origins of a Modern Problem. N Engl J Med 2015;372:1171-2

2. Gøtzsche P. Deadly Medicines and Organised Crime. Radcliffe Publishing. London 2013

3. Gale EAM. Post-marketing studies of new insulins: sales or science? BMJ 2012;344:e3974

4. Yudkin JS. Post-marketing observational trials and catastrophic health expenditure. BMJ 2012;344:e3987

Lavorano in perdita, poveretti!

Riproduciamo un’intervista, che ci sembra interessante, pubblicata il 5 Maggio 2015 su un sito della Bocconi (http://www.viasarfatti25.unibocconi.it/notizia.php?idArt=15306).

 

Medicine senza frontiere. Tutte le sfide di big pharma

La fine dei farmaci blockbuster e le regole dei mercati nazionali sono i banchi di prova dei manager del settore. Dalle alleanze con i competitor alle relazioni istituzionali: ecco la riceta di Massimo Visentin di Pfizer.

 

di Lorenzo Martini

 

Per un attimo anche Milano sembra New York. E non solo perché un insolito cielo blu si riflette sul grattacielo a specchio della sede di Pfizer, in pendant con il celebre ovale della casa farmaceutica. Ma anche perché la distanza tra la casa madre americana e la sua rappresentanza italiana si annulla spesso nelle parole di Massimo Visentin mentre descrive orgogliosamente la presenza dell’azienda nel nostro paese: 2.600 dipendenti, 1,3 mld di euro di fatturato nel farmaceutico, 80,7 mln nella consumer healthcare (farmaci senza prescrizione, vitamine, integratori…), tre siti produttivi che esportano il 75% della produzione all’estero. Milanese, 47 anni, laureato in Bocconi, presidente e amministratore delegato di Pfizer Italia dal maggio 2012, Visentin ha assistito e guidato questa crescita sul territorio, attraversando tutte le rivoluzioni più recenti del settore farmaceutico.

 

“In un decennio, in effetti, è quasi cambiato tutto”, conferma il manager. “La scadenza della protezione brevettuale di molti prodotti, e il conseguente avvento dei generici, ha reso il settore ancora più competitivo, con una varietà di farmaci disponibili che cresce ogni giorno. Non esistono più blockbuster, ovvero farmaci diffusissimi per cure di massa, e la ricerca si è dovuta adeguare, lavorando su prodotti di nicchia, in linea con la personalizzazione delle cure auspicata da molti. La conseguenza principale è che se prima l’industria farmaceutica aveva un approccio muscolare al mercato, investiva moltissimo per avere un prodotto che poteva vendere moltissimo, oggi deve ragionare diversamente. Un nuovo farmaco costa in media 2 miliardi di dollari; per sostenere il rischio che comporta lo sviluppo e l’introduzione sul mercato di una nuova molecola è indispensabile stringere partnership con istituzioni o con altre aziende, che magari un tempo sarebbero state competitor ma con le quali oggi c’è una condivisione dei rischi”.

 

Un prodotto unico, il farmaco, ma mercati molto diversi tra loro per patologie, regolamentazioni, sistemi sanitari. Come si gestisce questo essere globali e locali al tempo stesso?

 

Noi amiamo definirci come una multinazionale con una grande localizzazione, facente parte di un network internazionale. Abbiamo un minimo comune denominatore, portiamo avanti strategie comuni, ma poi le applichiamo diversamente da paese a paese. I contatti con la casa madre americana, comunque, sono frequenti, quotidiani nel mio caso.

 

Esiste un problema nella comunicazione dei farmaci in Italia, per cui ben pochi pazienti sanno dire quale azienda realizza il prodotto che assumono, mentre, per esempio, quasi tutti gli automobilisti conoscono la casa produttrice della vettura che guidano?

 

No, non credo che esista un problema. Almeno non per noi. Quest’effetto è figlio del divieto che c’è, in Europa, di fare comunicazione diretta al pubblico sui farmaci. Probabilmente negli Usa molti più pazienti saprebbero associare i farmaci alle aziende produttrici. Per noi qui in Italia il prodotto è la cosa più importante, la nostra espressione di eccellenza e il nome Pfizer una garanzia di qualità, un valore aggiunto, che deve esserci come assicurazione che tutto sia stato fatto nel rispetto delle regole e al massimo delle possibilità. Il nostro compito più importante è quello di trasferire questo valore ai nostri interlocutori diretti che sono gli operatori sanitari e le istituzioni.

 

A questo proposito, le aziende farmaceutiche devono quasi necessariamente esercitare il proprio potere di lobbying presso le istituzioni. È un meccanismo che forse in Italia è ancora visto con sospetto. Voi come interpretate questo ruolo?

 

Quello che noi facciamo è di veicolare alle istituzioni le informazioni adeguate. Il mercato in cui operiamo non è realmente di libera concorrenza. Al centro del discorso con le istituzioni c’è sempre il costo del farmaco, considerato spesso troppo alto per il Sistema sanitario nazionale. E il meccanismo che ne deriva è quello per cui viene messo a disposizione un certo budget per l’acquisto dei farmaci e, quando questo fondo si esaurisce, tutto il prodotto che manca e che serve è pagato dalle aziende produttrici. Ogni anno arriviamo a un momento, tra ottobre e novembre, che dobbiamo fornire gratis quasi tutto… È una situazione non sostenibile. Per questo noi insistiamo che il paradigma corretto per fare le valutazioni non sia il costo ma il valore che il farmaco porta. Per esempio curando meglio o più velocemente il paziente, e dunque prolungando la sua qualità della vita, diminuendo i giorni di degenza, di malattia e di assenza dal lavoro, il rischio di ricadute, le eventuali invalidità… Non si può continuare a considerare la spesa farmaceutica separata dal resto della spesa sanitaria, occorre integrare tutti i discorsi.

 

Quasi tre anni fa lei descriveva, in una lettera indirizzata al governo, una situazione più o meno analoga… dunque nulla è cambiato?

 

Se ci sono stati dei cambiamenti sono in peggio. L’instabilità politica è un problema drammatico perché ogni primo ministro cambia le regole, cambia le persone, e occorre cominciare da capo. Noi, e parlo anche come presidente dell’Iapg, l’associazione delle 18 aziende farmaceutiche italiane a capitale americano, avremmo bisogno di assicurazioni per tracciare un piano di sviluppo triennale, come siamo tenuti a fare di fronte ai nostri investitori in quanto società quotate in borsa. Non possiamo, dopo due mesi, dire a tutto il mondo che è cambiato il ministro, o la legge, e le promesse sono cambiate. Ed è un peccato che sia così perché il settore è molto rilevante in Italia: come valore della produzione farmaceutica siamo secondi in Europa dopo la Germania, come valore pro-capite addirittura primi.

 

Come reagisce il management della casa madre di Pfizer quando gli racconta questi aspetti del sistema italiano?

 

La domanda che si fanno è: ha senso restare in un paese nel quale, da un certo giorno in poi, non possiamo più vendere i prodotti ma dobbiamo regalarli? Non vorrei allarmare nessuno ma la situazione è destinata anche a peggiorare perché stanno entrando sul mercato dei farmaci nuovi, per esempio nell’oncologia o nella cura dell’Epatite C, per i quali il budget a disposizione si esaurirebbe ancor prima e questo potrebbe suggerire alle aziende, non solo a Pfizer, di distribuire il prodotto solo in alcuni paesi, e non in Italia. Noi speriamo davvero che non si arrivi a questo e faremo di tutto per scongiurarlo, perché si creerebbero delle discriminazioni assurde, per cui il paziente di Mentone si cura e quello di Ventimiglia no. Ma anche le istituzioni devono fare la loro parte.

Non se ne parla più: medici e industria

Che le industrie farmaceutiche, di presidi e di apparecchiature sanitarie investano molte risorse economiche per informare/sollecitare/convincere i medici a prescrivere i propri prodotti, è noto da tempo e ripetutamente documentato. Talmente scontato da non suscitare più neanche un moto di indignazione, come succede con i fenomeni naturali che ci disturbano, ma non possiamo evitare. Di conseguenza, non se ne parla più. Almeno qui in Italia, dove siamo stati vaccinati da terremoti corruttivi in grande scala. Sapere però quanto il fenomeno coinvolga la classe medica e quanto sia in grado di influenzarne le scelte che ricadono sulla spesa sanitaria del Sistema sanitario nazionale e sulla salute dei pazienti, non è irrilevante.

Il 7 gennaio scorso il New York Times pubblica un articolo sui costi della promozione dei farmaci negli Stati Uniti. Dal 2014 il Governo federale ha obbligato le industrie legate al mondo della sanità a rendere pubblici i pagamenti versati ai medici e agli ospedali (Freedom of Information Act). In attesa dei dati ufficiali, nell’articolo vengono riportati, come una sorta di aperitivo, i dati forniti da 17 industrie, che nel 2013 hanno reso pubblici i loro finanziamenti. Si tratta di 4 miliardi di dollari che corrispondono a circa il 50% del mercato.

Accedendo al sito di ProPublica – Journalism for the Public Interest si trovano i finanziamenti rivolti ai medici a scopo promozionale, che possono essere ricavati per industria, per prodotto, per medico. Niente male poter leggere quanto ha ricevuto da una certa industria lo specialista che mi ha consigliato un prodotto, il relatore che ha trascurato di illustrare gli effetti indesiderati di un farmaco o l’editorialista che non sembra imparziale. Per esempio, potremmo mettere in dubbio l’oggettività dei giudizi di un certo dottor Robert Takla che lavora nell’area di Detroit e che in 5 mesi ha ricevuto 75.000 dollari dall’industria che produce un nuovo anticoagulante, il Brilique.

Noi italiani ci dobbiamo accontentare di farci un’idea di come vengono finanziati i medici oltre Atlantico, ma possiamo comunque ottenere informazioni interessanti sulle caratteristiche dei prodotti più “spinti”. Scorrendo la lista, osserviamo che non vengono investite somme di denaro su farmaci veramente innovativi in aree prive di trattamenti specifici, ma prevalentemente su farmaci che sono sostanzialmente copia di altri in commercio, “farmaci ridondanti” come li definisce il dottor Joseph Ross, associate professor alla Yale University.

Infatti, a quali categorie appartengono i primi 10? Tre sono antidiabetici, 3 anticoagulanti orali, 2 per il trattamento della broncopneumopatia cronico-ostruttiva, 1 per il trattamento della schizofrenia e 1 dell’artrite, patologie per le quali sono già in commercio numerosi farmaci efficaci. Non risultato invece nel top della lista farmaci per il trattamento dell’epatite C o che prolungano in modo significativo la vita: questi farmaci si “vendono da soli” e non c’è bisogno di pagare medici per spiegarne l’utilità ai colleghi.

Quali sono i 5 farmaci su cui sono state investite le cifre più elevate in propaganda ai medici? Il Victoza (liraglutide) un antagonista del recettore GLP-1, l’Eliquis (apixaban) un anticoagulante che dovrebbe sostituire il warfarin, il Brilique (ticagrelor) che dovrebbe sostituire il clopidogrel, farmaco che ha perso la copertura brevettuale, e due farmaci non ancora in commercio in Italia: un antidiabetico (canagliflozin) e un antipsicotico (larusidone). Per ciascuno dei 5 farmaci sono stati investiti negli ultimi 5 mesi del 2013 dai 9 ai 7 milioni di dollari, che sono quasi la metà di quanto è stato speso dalla Intuitive per finanziare i medici che devono divulgare le meraviglie del robot Da Vinci.

Dobbiamo chiedere che anche in Italia si approvi un’analoga legge sulla trasparenza dei finanziamenti ai medici, in modo che anche da noi si possa conoscere quanto è finanziata la promozione di ogni prodotto e chi sono i medici maggiormente sponsorizzati. La maggior parte dei medici non è disposta sopportare una progressiva riduzione della fiducia dei pazienti dovuta alla segretezza con cui vengono distribuiti gli emolumenti da parte delle industrie che ruotano nel mondo della Sanità.

Marco Bobbio, già Direttore della Cardiologia dell’Ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo, ora membro del Direttivo Slow Medicine. Pubblicato su Va’ Pensiero n° 644 del 21 gennaio 2015 (http://www.pensiero.it/attualita/articolo.asp?ID_sezione=37&ID_articolo=1261)

 

I NoGrazie al workshop nazionale sul consumismo sanitario

Riportiamo qui sotto il testo dell’intervento fatto da Amelia Beltramini a nome di NoGrazie nel corso del workshop nazionale sul consumismo sanitario svoltosi ad Arezzo tra l’11 e il 12 dicembre 2014.

 

Uno studio pubblicato sul NEJM ha dimostrato che il 94% dei medici ha qualche relazione con le aziende farmaceutiche, che più di un terzo dei medici riceve rimborsi dalle aziende farmaceutiche per i costi associati a incontri ECM, e che oltre un quarto riceve pagamenti per arruolare pazienti nei trials o per consulenze o lezioni.

Il fatto che non ci siano molti dati sul COI (conflitti di interesse) in Italia per medici e giornalisti non vuol dire che il problema non ci sia. Ogni tanto uno scandalo dimostra che il fenomeno è assai diffuso anche in Italia. Tanto per ricordare i più importanti: il recente scandalo sul latte, e quello sull’ormone della crescita. Questo spiega la necessità di un’organizzazione come NoGrazie. Il gruppo è presente su internet (www.nograzie.eu) e su facebook, e ha una mailing list che raggiunge circa 300 iscritti, oltre a una lettera quadrimestrale spedita a circa 1200 persone,

Molti studi hanno dimostrato che il ricevere denaro dalle aziende farmaceutiche o dai produttori di tecnologie, influenza le prescrizioni dei medici: quindi non è vero che questi “contributi” sono a fondo perduto e non interferiscono con la cura dei pazienti. Non solo: per generare questo tipo di gratitudine basta una penna o un invito a pranzo. Quindi gli italiani che finanziano il SSN con la tassazione, hanno il diritto di sapere quali sono i conflitti d’interesse? Qualcuno ritiene di sì:

Negli USA ciò è ormai generalmente accettato: con il Sunshine Act le aziende farmaceutiche e produttrici di dispositivi medici sono obbligate a segnalare annualmente quanto danno ai singoli medici per il loro ruolo di esperti, consulenti, membri dei board scientifici, corsi ECM, ruolo di opinion leader, conferenze e via elencando. Avevano provato a escludere i corsi di formazione, ma per fortuna non ci sono riusciti e questo la dice lunga sull’importanza che le aziende attribuiscono ai corsi ECM come canale di marketing.

L’Australian competition & consumer commission ha deliberato che tutti i trasferimenti di denaro rilevanti (cioè superiori a 120 dollari) fatti a medici devono essere resi pubblici compresi emolumenti per conferenze, consulenze, etc. La Nuova Zelanda ha deliberato analogamente. La Francia, dopo un grande scandalo in cui si è dimostrato il collegamento fra l’ente di controllo francese dei farmaci e un’industria farmaceutica, ha provato a legiferare per un Sunshine Act: meglio che niente, ma anche assai annacquato.

In Italia siamo ai pannicelli caldi. La legge 6 novembre 2012 n 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione) prevede la dichiarazione dei conflitti di interesse nei tre anni precedenti e sanzioni per le dichiarazioni infedeli. A questa sono obbligati i dipendenti pubblici e quindi i dipendenti del SSN e dell’Università, ma se restano nel cassetto del diretto superiore non servono a nulla. Prima di tutto perché nessuno controlla. E in secondo luogo perché questa informazione non giunge ai cittadini.

E sarebbe bello se l’ingegner Marco Masi (Coordinatore educazione, istruzione, università e ricerca Regione Toscana), che ha parlato questa mattina, riuscisse a rendere pubblici i conflitti di interesse dei dipendenti del servizio sanitario regionale toscano, e anche dei dipendenti del Murst convenzionati o finanziati dalla Regione.

Ma basta la trasparenza? Bisogna chiedersi se i conflitti di interesse sono accettabili. Eduardo Missoni (Docente di cooperazione allo sviluppo e salute globale all’università Bocconi di Milano, vice presidente Osservatorio italiano sulla salute globale) questa mattina chiedeva se i COI contraddicono l’obbligo di lealtà nei confronti del SSN. E anche altri pensano che la trasparenza non basti.

Il 28 novembre scorso, il BMJ in un editoriale afferma che a partire dal 2015 arriverà a tolleranza zero sugli articoli educativi con i legami finanziari con l’industria. La trasparenza è essenziale ma non è sufficiente: d’ora in avanti, scrive Fiona Godlee, direttrice del BMJ, saranno accettati solo revisioni e articoli educativi di autori privi di COI.

Nel 2011 un articolo pubblicato sul BMJ dimostrava che nei panel che avevano costruito le 14 linee guida prodotte fra il 2000 e il 2010 negli Usa e in Canada, il 52% aveva COI, dei quali solo una parte era dichiarata. Ma in Italia c’è addirittura chi teorizza che l’industria si accaparra i migliori e il pubblico non può rinunciare al loro contributo e affidarsi solo a chi l’industria non ha cooptato. Come se rifiutarsi di collaborare con l’industria fosse un demerito. Ma questa posizione più volte e da più parti ripetuta, fa certo molto comodo alle aziende e giustifica che le varie commissioni siano piene di COI.

E quando i COI vengono richiesti, c’è chi bara. Enrico Desideri (Direttore generale dell’ASL di Arezzo) questa mattina ha parlato degli HTA (Health technology assessment) come possibile rimedio all’anarchia e alle differenze regionali. Ma bisogna anche verificare chi stende gli HTA e quali sono i suoi COI. Nel giugno 2013 Agenas pubblicava un report HTA sulle Protesi endovascolari per gli aneurismi dell’aorta addominale: analisi dell’efficacia e della costo efficacia, adattamento alla realtà italiana di un HTA scozzese. Tra gli autori Piergiorgio Cao, chirurgo vascolare dell’azienda ospedaliera san Camillo Forlanini di Roma e docente all’università di Perugia. Cao e i cofirmatari nella dichiarazione di conflitti di interesse: “Dichiara di non ricevere benefici o danni dalla pubblicazione, e di non aver posseduto azioni, prestato consulenza o avuto rapporti personali con alcuno dei produttori dei dispositivi valutati in questo documento”. Ma all’inizio di quello stesso anno è a Lipsia nel corso di formazione dal titolo Interventional Course, e in una slide “Disclose consulting Medronic Bolton” e all’inizio dell’anno successivo, nel gennaio 2014 sul Journal of vascular surgery in un paper riammette la consulenza a pagamento con le stesse aziende. Ergo è lecito sospettare che la dichiarazione di conflitti di interesse all’HTA fosse frutto di una botta di amnesia.

Avrà anche le sue ragioni: il finanziamento pubblico della ricerca è quello che è. Ma forse si sta esagerando. Claudio Cricelli (presidente SIMG Società italiana medicina generale) sempre questa mattina ci annunciava che Cergas Bocconi evidenzia un costante spostamento della popolazione verso la medicina privata. Non vorrei che il Cergas avesse i suoi interessi a dimostrarlo. Non sappiamo chi finanzia il centro di ricerca perché non ce lo raccontano, ma sappiamo che nel CDA di Bocconi siedono, solo per fare due esempi chiari: Gianfelice Rocca, presidente del gruppo Techint che a sua volta possiede la catena di cliniche private Humanitas, e Diana Bracco, di Bracco Spa, azienda farmaceutica, ma anche proprietaria del CDI, centro diagnostico italiano di Milano. Domani parleremo dei conflitti della stampa nella diffusione di questa brillante idea della privatizzazione del SSN.

Mi si potrebbe dire che Bocconi è un’università privata e fa quel che vuole. Ma anche il pubblico ha i suoi problemi. Crea sanità, centro di ricerca di un’università pubblica, Tor Vergata, ha appena prodotto il rapporto Crea sanità. È finanziato da 3M Italia, Bayer, Biogen Idec Italia, Boehringer Inghelheim Italia, Daiichi Snakyo Italia, Eli Lilly Italia, Fondazione MSD, GlaxoSmithKline, Janssen Cilag, Novartis Farma. Novo Nordisk, Pfizer Italia, Sanofi Pasteur MSD. Qualcuno mi deve spiegare perché i cittadini italiani devono finanziare l’Università italiana quando è motivato il loro sospetto che i ricercatori arrotondino diffondendo idee a vantaggio di altri.

Ma adesso c’è una nova fonte di problemi e sono i new media. Gianfranco Domenighetti (economista dell’università di Lugano) diceva oggi che le aziende, per espandere il proprio mercato e i profitti, usano incentivi sovente perversi per promuovere la prescrizione e gli acquisti. Degli ultimi incentivi inventati ha parlato un articolo di metà ottobre sul NEJM, Marketing to physicians in a digital world. Negli USA i medici che riportavano di aver ricevuto la visita di un informatore farmaceutico sono passati dal 77% del 2008 al 55% del 2013 (in Italia praticamente tutti i medici ricevono ancora almeno una visita al giorno). Ma se si va a vedere le spese di marketing di Big Pharma si scopre che il 25% dell’investimento è in tecnologie digitali: websites, social media, app mediche e cartelle cliniche elettroniche.

Nella popolazione, e anche fra i medici, è diffusa l’opinione che si può avere tutto gratis o a basso prezzo. Poi si scopre che il gratuito ha un suo modello economico. Nel caso della sanità il passaggio alle aziende delle informazioni raccolte dal comportamento dei medici. Solo un esempio: Epocrates, una app che consente al medico di vedere interazioni fra i farmaci e valutare i dosaggi, negli USA anche sapere quale farmaco è passato da questa o da quella assicurazione, etc. …  Un fenomeno solo americano? Abbiamo fatto una verifica in un gruppo di medici; in 24 ore hanno risposto solo in 13, quindi un campione statisticamente non significativo, e se il 46% non conosceva questa app, il 23% la considerava irrinunciabile, molto utile o utile. Nessuno però sapeva che ogni volta che il medico cerca qualcosa su Epocrates l’informazione arriva a un venditore farmaceutico, e tutte queste informazioni sono usate per vendere farmaci specifici che magari non sono i farmaci migliori per quel paziente, influenzando la prescrizione in direzione favorevole all’azienda farmaceutica. Ovviamente Epocrates non prospetta alcuna modificazione dello stile di vita.

Grazie per l’attenzione.

Informazione sui farmaci: chiedere all’oste se il vino è buono?

Il 15 febbraio 2013, nell’ospedale di Poissy, nei dintorni di Parigi, un settantenne morì per un’emorragia incontrollabile dopo una banale operazione a un ginocchio che si era svolta normalmente. Il 3 ottobre i parenti del paziente e di altre tre presunte vittime sporsero denuncia contro la multinazionale farmaceutica Boehringer-Ingelheim e contro l’Agenzia nazionale per la sicurezza dei farmaci (ANSM) sostenendo che i decessi erano attribuibili alla terapia con dabigatran (Pradaxa), sulla quale sarebbero state nascoste delle informazioni fondamentali per la sicurezza dei pazienti (1). Nel marzo 2014 il tribunale di Parigi archiviò senza seguito le denunce delle famiglie (2). Ma il 28 maggio 2014, negli Stati Uniti, Boehringer-Ingelheim International annunciò che avrebbe pagato 650 milioni di dollari nell’intento di porre fine a una cosa come 4000 denunce che la accusavano di non aver fornito informazioni sufficienti sui rischi legati al suo prodotto (3).

Nel luglio 2014, il British Medical Journal pubblicò un editoriale dal titolo “Dabigatran: how the drug company withheld important analyses” (4). Con questo articolo, la rivista inglese ha riaperto il dibattito su una questione cruciale per la salute di ognuno di noi: l’indipendenza della ricerca sui farmaci e l’informazione scientifica ai medici. La ricerca farmacologica in effetti è in gran parte finanziata dall’industria farmaceutica (“Big Pharma”), che fino ad oggi ha conservato il potere di decidere se pubblicare o no i risultati degli studi (5). Cosicché ci sono risultati sfavorevoli che non sono stati portati a conoscenza della comunità scientifica, e la valutazione dell’utilità e dei rischi dei farmaci ne è risultata alterata. Di più, diversi studi mostrano che anche se la ricerca è pubblicata, le conclusioni degli autori sono influenzate dagli interessi del promotore (6, 7, 8). Infine, una gran parte delle società scientifiche, che controllano la formazione professionale dei medici, sono finanziate direttamente o indirettamente dai fabbricanti di farmaci (9).

La pressione dei produttori sui medici prescrittori si esercita anche attraverso le visite degli “informatori scientifici del farmaco”, che usano tecniche di marketing e di influenza psicologica (10, 11), di cui i medici sono in genere completamente inconsapevoli.

Studi indipendenti, e anche diverse sentenze, mostrano che ogni giorno migliaia di persone sono danneggiate ingiustamente da farmaci inutili o addirittura controindicati, e che tutto ciò è legato anche alla promozione delle terapie attraverso la relazione tra l’industria, le autorità regolatorie e la professione medica. Di questo sono convinti i medici e gli altri professionisti della salute che aderiscono al gruppo italiano “No Grazie Pago Io”. Dal 2004 il gruppo è particolarmente impegnato a denunciare i pericoli dei conflitti di interesse nella pratica professionale e all’interno delle istituzioni (comprese le università e gli organismi regolatori) e a promuovere l’informazione scientifica indipendente. I “No grazie” propongono ai medici curanti di rifiutare qualunque vantaggio in natura, regali e sovvenzioni provenienti da ditte coinvolte nell’ambito della salute. In Francia, l’associazione “Mieux Prescrire” (http://www.prescrire.org/fr/)sostiene posizioni simili promuovendo l’adesione alla Carta “Non Merci”. Iniziative dello stesso tipo sono sorte in altri paesi come la Spagna (No Gracias), la Germania (Mein Essen Zahl Ich Selbst), il Regno Unito (Nofreelunch http://www.nofreelunch.org/), il Cile (Médicos sin marca). I militanti dell’informazione indipendente si sono riuniti anche in organizzazioni internazionali come Healthy Skepticism (http://www.healthyskepticism.org/global/)o la “International Society of Drug Bullettin” (ISDB http://www.isdbweb.org/), una rete mondiale dei giornali scientifici che rifiutano qualunque finanziamento da chi ha interessi commerciali.

Qual è la risposta dell’industria e delle istituzioni ai problemi sollevati da questi movimenti d’opinione? Il 2 luglio 2014, Farmindustria, l’associazione dell’industria farmaceutica italiana, ha adottato un codice di autoregolamentazione che impone regole più stringenti, esige una maggiore trasparenza e crea un giurì indipendente con il potere di imporre sanzioni (12). La decisione, peraltro, coinvolge solamente le imprese italiane, che rappresentano solo una piccola parte del mercato farmaceutico mondiale. In effetti proprio mentre Farmindustria rinnovava il suo codice, un esempio molto diverso è stato dato dall’americana Merck Sharp & Dohme (MSD). Nel maggio 2014 MSD ha minacciato di citare in giudizio, reclamando danni per 1,3 milioni di euro, il dottor Alberto Donzelli, direttore di un bollettino di informazione sulla Evidence Based Medicine (EBM, Medicina fondata sulle prove di efficacia), pubblicato dall’Azienda sanitaria di Milano; Donzelli aveva analizzato la letteratura scientifica sul farmaco anticolesterolemico ezetimibe, prodotto dalla MSD, e aveva concluso, in un articolo destinato ai medici, che non era raccomandato per un uso in combinazione con statine. La risonanza internazionale della vicenda (13) e l’indignazione dei medici hanno spinto MSD a fare retromarcia, ma l’episodio dà comunque un’idea della distanza che passa tra la logica del mercato e quella dell’informazione scientifica.

In tutto questo, qual è il ruolo svolto dai pubblici poteri? Ogni paese dell’Unione Europea si è ormai dotato di una autorità regolatoria per i farmaci. Tuttavia, di fronte a imprese multinazionali con disponibilità economiche paragonabili a quelli di un piccolo stato, sarebbe l’Agenzia europea del farmaco (EMA http://www.ema.europa.eu/ema/) a aver le migliori possibilità di assicurare con qualche efficacia la priorità della salute sui profitti. Purtroppo però l’EMA, come le omologhe agenzie nazionali, è stato spesso oggetto di critiche proprio a causa dei conflitti d’interessi dei suoi membri.

In effetti soltanto nel 2009 si è deciso di inserire l’EMA nella Direzione generale STANCO (Salute e Consumatori) invece che nella Direzione generale Imprese. Ma il 10 settembre 2014 Il presidente appena eletto della Commissione Europea, Jean-Claude Junker, ha annunciato che la politica del farmaco e l’EMA saranno portate di nuovo nella Direzione generale Imprese. Questa decisione ha portato a numerose critiche riassunte in una lettera aperta al presidente Juncker, firmata da Fiona Godlee, capo redattore del British Medical Journal e da Bruno Toussaint, Direttore della rivista Prescrire. Il documento è stato pubblicato il 16 settembre con il titolo “M. Juncker, il farmaco non è una merce…”.(14) Siamo in attesa di una risposta. Ma fino ad oggi l’impressione è che per la Commissione la salute sia veramente un semplice merce. Allora, fino a quando i medici e i pazienti europei saranno ancora costretti a domandare all’oste se il suo vino è buono?

Mariagrazia Fasoli

1. http://tempsreel.nouvelobs.com/societe/20131009.AFP8069/anticoagulant-pradaxa-plaintes-contre-le-laboratoire-apres-des-deces.html

2. http://www.liberation.fr/societe/2014/03/26/les-plaintes-contre-l-anticoagulant-pradaxa-classees-sans-suite_990430

3. http://www.biolor.fr/Boehringer-Ingelheim-va-payer-650

4. Cohen D, “Dabigatran: Dabigatran: how the drug company withheld important analyses “, BMJ 2014;349:g4670

5. Sismondo S, “How pharmaceutical industry funding affects trial outcomes: Causal structures and responses” Soc Sci Med. 2008 May;66(9):1909-14.

6. Kjaergard L, Als­Nielsen B, “Association between competing interests and authors’conclusions: epidemiological study of randomised clinical”, BMJ 2002;325:249 trials published in the BMJ

7. Bekelman JE, Yan Li, Gross CP, “Scope and Impact of Financial Conflicts of Interest in Biomedical Research: a Systematic Review” JAMA, January 29, 2003;289:454-465.

8. Lundh A, Sismondo S, Lexchin J, Busuioc OA, Bero L, “Industry sponsorship and research outcome” 2012 The Cochrane Collaboration. Published by JohnWiley & Sons, Ltd.

9. Lenzer J, “Many US medical associations and disease awareness groups depend heavily on funding by drug manufacturers” BMJ 2011;342:d2929

10. Roughead EE1, Harvey KJ, Gilbert AL. “Commercial detailing techniques used by pharmaceutical representatives to influence prescribing” Aust N Z J Med. 1998 Jun;28(3):306-10.

11. Fugh-Berman A1, Ahari S. “Following the Script: How Drug Reps Make Friends and Influence Doctors”, PLoS Med. 2007 Apr;4(4):e150.

12. Codice Deontologico Farmindustria, 2 luglio 2014

13. Turone F, “MSD Italy is criticised for threatening legal action over prescription advice to GPs”, BMJ 2014;349:g4441

14. Godlee F, Toussanit B “M. Juncker, le médicament n’est pas une marchandise… “ Préscrire, 16 septembre 2014 http://www.prescrire.org/Fr/1/194/48278/3753/3305/SubReportDetails.aspx

Libri consigliati sull’argomento:

Marcia Angel “The truth about the drug companies”, il libro-denuncia della ex direttrice del New England Journal of Medicine sulla corruzione nel mercato dei farmaci

Ben Goldrake “Bad Pharma: How Drug Companies Mislead Doctors and Harm Patients”, il punto sulla situazione aggiornata al 2014