SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.248 DEL 18/03/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.248 DEL 18/03/16

 

INDICE

–         Jobs Act: il (magro) bilancio di un anno di interventi renziani, e i loro veri obiettivi

  • Ricerca sul fenomeno infortunistico e le malattie professionali degli agenti di polizia municipale
  • Sicurezza delle macchine: i dispositivi di comando
  • L’obbligo di vigilanza del datore di lavoro o a mezzo del preposto
  • Cosa rischiano le aziende se la formazione erogata non è idonea?

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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JOBS ACT: IL (MAGRO) BILANCIO DI UN ANNO DI INTERVENTI RENZIANI, E I LORO VERI OBIETTIVI

 

Riporto a seguire un interessante, dettagliato e documentato articolo dei compagni Clash City Workers sui mancati effetti positivi del Jobs Act.

Nell’articolo si dimostra che i motivi reali per cui è stato varato il pacchetto “Jobs Act” non è stato certo un aumento dell’occupazione, la crescita del PIL, il miglioramento dell’economia italiana.

Il Jobs Act è servito piuttosto per mantenere o aumentare il profitto per i padroni, per scaricare in parte sulla collettività il costo del lavoro, per cancellare la conflittualità, per estendere la flessibilità del lavoro fino a legalizzare vere e proprie forme di lavoro nero.

Ma cosa c’entra tutto questo con la sicurezza sul lavoro?

Un primo effetto deleterio (diretto) del Jobs Act è stato l’ulteriore riduzione delle tutele previste dalla normativa su salute e sicurezza (D.Lgs. 81/08) a causa delle modifiche peggiorative ad essa apportate, come evidenziato in un mio articolo specifico.

Il secondo (indiretto, ma, secondo me, ben più grave) peggioramento apportato dal Jobs Act è il cancellamento o la riduzione della conflittualità, rendendo così i lavoratori ancora più ricattabili e quindi meno propensi ad avviare vertenze anche sul rispetto del diritto a un lavoro salubre e sicuro.

In conclusione, come ha già avuto modo più volte di scrivere, la crisi la stiamo pagando (e continueremo a pagarla visto l’andamento involutivo dell’economia mondiale) sulla nostra pelle, nel senso letterale del termine.

L’aumento degli indici infortunistici e delle malattie professionali ne è una prima conferma.

Marco Spezia

 

da Clash City Workers

http://clashcityworkers.org

6 marzo 2016

 

PREMESSA

Quello che state per leggere è il nostro quarto o quinto contributo sul Jobs Act. Se la nostra è un’ossessione, lo è in misura speculare a quella del Governo e dei suoi megafoni ambulanti che, nel corso dell’ultimo anno, ci hanno quasi quotidianamente edotto sui prodigiosi effetti delle politiche governative sul lavoro.

Arriviamo buoni ultimi a rivelarvi che, in realtà, di prodigi se ne sono visti pochi: ma l’ansia da prestazione dell’apparato di Governo su questi temi è di per sé rivelatrice del fatto che l’attacco al mondo del lavoro non può essere oggetto di alcuna critica. Il complesso di interventi volti a rendere più incerta la continuità lavorativa, minore e più precario il salario non consentivano critiche di alcun tipo: la realtà, però, è più forte di ogni rappresentazione, anche di quella di chi controlla le leve del potere politico e influenza paurosamente il potere mediatico.

 

NOTA DI METODO

Ascriveremo alla categoria Jobs Act molte cose diverse: gli esoneri contributivi stabiliti dalla legge di stabilità 2015; i decreti che costituiscono il Jobs Act vero e proprio (decreti Poletti del 2014, contratto a tutele crescenti, demansionamento e controllo a distanza); l’estensione della possibilità di utilizzo dei voucher. Faremo questa mescolanza perché, al di là delle differenze tecniche tra i provvedimenti, ci interessa cogliere il nesso politico dietro tutta l’azione governativa sul lavoro, in un contesto, quello italiano, che non sembra proprio intenzionato a voler uscire dalla crisi (ammesso che qualcun altro ci sia effettivamente riuscito).

 

AGGIORNAMENTO 6 MARZO 2016: NOTA SULLE FONTI

I dati che sono stati utilizzati per questo documento sono presi, essenzialmente, dall’Osservatorio sul Precariato dell’INPS e dal database dell’ISTAT. In particolare, quelli relativi all’incremento occupazionale 2015 e alla sua composizione sono tratti dal comunicato stampa ISTAT del 2 Febbraio 2016, reperibile al link:

http://www.istat.it/it/files/2016/02/Occupati-e-disoccupati_dicembre_2015.pdf?title=Occupati+e+disoccupati+%28mensili%29+-+02/feb/2016+-+Testo+integrale+e+nota+metodologica.pdf

L’ISTAT ha, successivamente, aggiornato tutte le serie storiche relative all’occupazione, in seguito ad un’innovazione metodologica relativa alla destagionalizzazione dei dati. I cambiamenti non sono pochi, né di scarso peso: per fare solo un esempio, il dato relativo all’incremento occupazionale 2015, che ammontava a +109.000 unità secondo il vecchio metodo, è “improvvisamente” diventato +163.606. Non avendo la possibilità di verificare di nuovo, e in breve tempo, tutti I dati, ci attestiamo su quelli che l’ISTAT forniva fino al mese scorso. Non possiamo fare a meno di notare, però, che la procedura seguita dal nostro istituto di statistica è poco rigorosa e piuttosto “bizzarra”, quantomeno dal punto di vista comunicativo. Del resto questo improvviso aumento di circa un terzo dei posti di lavoro in più per il 2015 (che ai malpensanti potrebbe far nascere più di un sospetto) è in scia con quanto è accaduto, ad esempio, in Grecia, Spagna e Portogallo negli anni scorsi; o con quanto è accaduto con i dati sulle migrazioni forniti da Frontex; dati che cambiano all’improvviso e che dimostrano, anche presupponendo la buona fede di chi li fornisce, il carattere profondamente politico, e quindi ideologicamente orientato, della raccolta ed elaborazione statistica di dati, sulla quale poi si fanno, o si giustificano, le scelte dei governi.

 

1. SPAZZIAMO IL CAMPO DALLA FALSA PROPAGANDA: IL JOBS ACT È STATO UN FLOP (A CARO PREZZO)

Vi chiediamo un momento di pazienza prima di iniziare. Vi sembrerà di essere sommersi da un mare di numeri contraddittori e incomprensibili, e di perdervi, ma state tranquilli: ne usciremo vivi.

Le fonti utilizzate sono, come abbiamo detto, il bollettino mensile dell’Osservatorio sul Precariato dell’INPS e le rilevazioni statistiche dell’ISTAT.

Qual è la differenza tra le due fonti?

L’INPS analizza i flussi, cioè l’andamento mensile delle attivazioni e delle cessazioni di contratti; l’ISTAT lo stock, cioè il saldo finale degli occupati, il suo incremento o decremento.

Non è la stessa cosa, un nuovo contratto o un nuovo posto di lavoro?

No. Una stessa persona può essere intestataria di più contratti, contemporaneamente (due part-time, per esempio) o successivamente: ad un solo posto di lavoro possono corrispondere più contratti. Un altro esempio (è successo nel 2015) è che un lavoratore, formalmente “autonomo”, diventa dipendente: quel lavoratore già era presente nel mercato del lavoro, quindi al nuovo contratto non corrisponde automaticamente un nuovo posto.

Che cosa ha fatto la propaganda governativa, a partire dall’inizio del 2015? Ha usato sistematicamente i dati INPS, cioè quelli sui contratti, e li ha spacciati per posti di lavoro (con la supina, pigra e colpevole complicità della quasi totalità della stampa nazionale); non solo, per cantare le lodi del Jobs Act il Governo è arrivato addirittura a presentare come “crescita dell’occupazione” il dato lordo sui nuovi contratti attivati, senza calcolare le contemporanee cessazioni. Hanno imbrogliato spudoratamente e goffamente, per un anno intero.

La realtà, ovviamente, è diversa.

Il numero di nuovi contratti a tempo indeterminato attivati, al netto delle cessazioni, nell’anno 2015 è 186.048. Il numero dei nuovi occupati, invece, è 109.000 (secondo ISTAT): questo è il prodotto di un incremento del lavoro dipendente (+247.000) e un forte decremento del lavoro autonomo (-138.000); all’interno del lavoro dipendente prevale, seppur di poco, il tempo indeterminato sul determinato (135.000 contro 113.000) ma sono i posti a tempo determinato che hanno la percentuale di crescita più alta (+4,9% rispetto al +0.9% degli indeterminati), confermandosi la tipologia di lavoro più dinamica e finendo per rappresentare il 14,2% del totale dell’occupazione, cifra record mai registrata (nel 2014 erano il 13,6%).

Ciò che l’ISTAT, purtroppo, non ci dice è la composizione di quei 109.000 nuovi occupati: quanti di loro sono a termine, quanti indeterminati, quanti autonomi.

Non potendo stimarli in alcun modo, postuliamo un assunto palesemente impossibile e falso, cioè che tutti i 109.000 nuovi posti di lavoro siano a tempo indeterminato: in questo modo creiamo lo scenario (ripetiamo, impossibile) più favorevole alla propaganda governativa.

Quindi in sostanza l’occupazione aumenta di molto poco, anche perchè crolla il lavoro autonomo. All’interno del lavoro dipendente il miracolo del Jobs Act consisterebbe invece in quei 135.000 contratti a tempo indeterminato. Come veniamo subito a dimostrare però il costo potenziale, per la collettività, di ogni posto di lavoro è stato altissimo e ingiustificabile.

E’ ormai assodato (lo dice da tempo Marta Fana, lo ha detto finanche Bankitalia) che il “merito” della relativa, modestissima crescita dei contratti a tempo indeterminato è essenzialmente da attribuirsi agli esoneri contributivi. Basta vedere, l’andamento mensile delle accensioni dei nuovi contratti a tempo indeterminate: a Dicembre hanno registrato un enorme incremento, proprio quando era l’ultima occasione per le imprese di accaparrarsi i sopraccitati sgravi. Secondo Bankitalia, inoltre, “la combinazione del contratto a tutele crescenti e degli incentivi spiega solo il 5% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato”.

Vediamo, dunque, di che cifre potenzialmente parliamo, quanto ci potrebbe costare questa manovra. I nuovi contratti che hanno usufruito degli sgravi sono stati 1,44 milioni; l’ammontare massimo degli sgravi previsto dalla legge di stabilità è 8.060 euro annui per tre anni. Il calcolo, dunque, è: (8.060×3)x1.440.000 = 34.819.200.000 euro.

Il costo potenziale di ogni nuovo posto di lavoro (postulando che tutti i contratti godano del massimo degli sgravi per tutti e tre gli anni) è dunque di 319.442 euro: nella realtà è sicuramente maggiore, ma non sappiamo di quanto. Altissimo e ingiustificato, non ci sarebbe neanche bisogno di scriverlo.

A questo punto qualche cantore governativo potrebbe dirci che abbiamo imbrogliato, che il Jobs Act non può essere valutato solo sulla base dei nuovi posti di lavoro e che comunque il calo della disoccupazione e l’aumento degli occupati sono dati positivi, anche se irrisori.

Certo! Peccato che il Jobs Act non c’entri nulla!

La disoccupazione è diminuita dell’1% scendendo dal 12,4% all’11,4%, ma i dati sono sostanzialmente in linea con quelli europei: nell’Eurozona la disoccupazione è al 10,5%, in Francia al 10,1%, in Spagna al 21,4%, in Germania al 4,5%. La curva di crescita è in linea con l’UE, dove da gennaio a novembre la disoccupazione è scesa dello 0,7%.

In sintesi: il Jobs Act è stato ininfluente rispetto alla dinamica del mercato del lavoro, l’andamento è stato in linea con quello del resto dell’UE; quel pochissimo in più ci è costato carissimo!

2. EFFETTI POLITICI DELL’OPERAZIONE

Insomma, il Jobs Act ha prodotto poco in termini lavorativi nonostante le roboanti promesse di Renzi; che cosa ha prodotto, invece, in termini politici?

  1. Contratto a tutele crescenti

Il tempo indeterminato non esiste più, dal momento che è stato di fatto cancellato il reintegro e la sanzione amministrativa in caso di ingiustificato motivo è modesta. Ci sono stati, infatti, già casi di licenziamenti di lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti.

  1. Contratti a tempo determinato.

Abolito ogni obbligo di indicazione delle ragioni tecniche, produttive, organizzative, sostitutive nei primi 36 mesi di ricorso al contratto a termine, fino a un massimo di 5 rinnovi. Considerato che basta cambiare il titolo della mansione per ricominciare daccapo con lo stesso lavoratore, si può dire che non c’è alcun limite di utilizzo ai contratti a termine. L’unica sanzione prevista, per un utilizzo oltre il limite del 20% del totale del personale, è minima: il 20% della retribuzione del 21esimo contratto. Non a caso, nonostante i consistenti sgravi contributivi per i contratti a tutele crescenti e nonostante la libertà di licenziare, i contratti a termine sono la forma di contrattazione più utilizzata nel lavoro subordinato.

  1. Voucher

Non sono contratti, ma sono la forma di organizzazione del lavoro maggiormente cresciuta nel 2015. Ne sono stati venduti 114.921.574 del valore nominale di 10 euro, per un ammontare complessivo dunque di oltre un miliardo di euro. Danno diritto alla maturazione della pensione e all’assicurazione INAIL, ma non a disoccupazione, maternità, malattia, ecc., perché non si certifica, col voucher, la continuità del rapporto di lavoro. Il limite economico di utilizzo annuo è 9.333 euro lordi a lavoratore, più basso nel caso di prestazioni per imprenditori commerciali e liberi professionisti. Ciò significa che, nel corso del 2015, almeno 123.134 lavoratori sono stati pagati con voucher. Molti di più, se si considera che per alcuni settori (pub, ristoranti, ecc.) il limite è più basso, è che molti vengono retribuiti in parte in nero, in parte in voucher. Possiamo stimare senza timore di esagerare che sono stati circa 200.000 i lavoratori pagati in voucher, pari alla totalità dell’incremento del numero degli occupati (nel cui computo comunque non confluiscono).

  1. Controllo a distanza

Senza alcun collegamento con eventuali effetti benefici sul mercato del lavoro, nel Jobs Act è stata inserita la possibilità, per i datori di lavoro, di controllare i lavoratori attraverso telecamere a circuito chiuso, controllo telematico sull’uso dei PC, chip nelle scarpe per il controllo dei movimenti: in pratica è diventato legale il modello organizzativo di Amazon.

  1. Demansionamento

Come dice questo articolo (http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-sanatoria-nascosta-nel-jobs-act/) una pratica, quella del mancato riconoscimento della professionalità, che è anticostituzionale e riconosciuta dalla medicina del lavoro come lesiva dell’integrità psico-fisica dei lavoratori, è stata riconosciuta innocua e consentita sempre e comunque.

 

3. MA INSOMMA, L’ECONOMIA E’ RIPARTITA?

Il 14 Marzo 2015 Renzi era in visita al cantiere dell’Expo. Mancavano 50 giorni all’apertura e il cantiere era pronto al 90%, ma ciò bastava e avanzava, per Renzi e Squinzi, per lanciarsi in ottimistiche previsioni sulla ripresa in Italia. Dall’articolo de laRepubblica on-line di quel giorno leggiamo che Squinzi dichiarava: “Possiamo invertire la rotta e cambiare la condizione del Paese. Expo è il motore che permetterà al Paese di accelerare i consumi interni ed è il trampolino per la crescita del nostro PIL”. Renzi, dal canto suo, non si sottraeva: “Dopo questo non finisce tutto perché finalmente l’economia italiana sta ripartendo e potremo reinvestire nel settore delle infrastrutture anche alla luce delle nuove tecnologie”. Di dichiarazioni come queste, il Governo, i giornalisti al suo seguito, gli esperti che non ne indovinano una da anni ne hanno rilasciate con frequenza più che quotidiana. E’ andata davvero così?

Insomma: il PIL cresce, ma pochissimo (+0,7% al secondo trimestre 2015, gli ultimi dati accessibili); la produzione industriale crolla (-1% a dicembre 2015, era al +0,2% un anno prima; i prezzi al consumo ristagnano allo 0,1%; la disoccupazione segue la tendenza europea e resta comunque alta, mentre sale la quota di inattivi; l’OCSE, infine, ha tagliato le stime di crescita per i prossimi due anni, per praticamente tutto il mondo. E’ evidente che, in un contesto di crisi generalizzata e globale, solo un imbecille o qualcuno in malafede può ritenere che misure come gli esoneri contributivi e il Jobs Act possano rilanciare l’occupazione…

Bene: proveremo a dimostrarvi che tutto ciò che il Governo ha fatto sul lavoro è esattamente il prodotto di imbecilli in malafede!

 

4. QUAL E’ STATO L’OBIETTIVO REALE? DI FATTO, QUALI SONO STATI GLI EFFETTI PIÙ CONSISTENTI DEL JOBS ACT?

Il costo del lavoro per le imprese è stato ridotto, scaricandolo sulla collettività, quindi, in ultima analisi, sul salario.

La conflittualità è stata annichilita dalla cancellazione dell’articolo 18, dal controllo a distanza e dal demansionamento.

La possibilità di ricorrere al lavoro precario, o di “legalizzare” il nero, è aumentata enormemente, col boom dei voucher e la predominanza dei contratti a tempo determinato.

Il Governo, insomma, ha fatto regali immensi ai padroni: ma i padroni, che stanno facendo per il famoso “sistema Paese”? Vediamolo.

 

  1. L’ECONOMIA ITALIANA, OVVERO: IL MORTO INTERROGATO NON RISPOSE

Uno dei cavalli di battaglia del Governo è stato che gli interventi sul lavoro avrebbero rilanciato la produttività; non a caso nell’ultima legge di stabilità lo Stato si fa praticamente carico degli investimenti privati introducendo il cosiddetto “superammortamento”, cioè una valutazione maggiorata del 40% delle spese sostenute per l’acquisto di nuovi macchinari e i canoni di locazione, in maniera tale da avere consistenti sconti su IRES e IRPEF: in parole semplici i padroni pagano meno tasse se investono.

A quanto pare, però, a questo fatto di spendere i soldi i padroni italiani sono piuttosto refrattari: tra il 1995 e il 2014, infatti, la quota di investimenti sul PIL è diminuita del 2,51%! Nonostante ciò, nello stesso arco di tempo la produttività, cioè la quantità di prodotto per unità lavorativa, è costantemente aumentata, tranne che nel 2009 e nel 2012: in totale, nel 2014 era il 47% in più rispetto al 1995!

Chi ha fatto questo vero e proprio miracolo italiano? I lavoratori! Solo aumentando l’intensità di sfruttamento, intesa anche, brutalmente, come pagare di meno per più lavoro, è possibile crescere in produttività riducendo gli investimenti…insomma, avremmo tutto il diritto di decidere noi sulle scelte economiche, visto che sono i numeri stessi a dirci che mandiamo avanti la baracca, ma invece dobbiamo sorbirci le lezioncine di chi ci accusa della mancata crescita perché…guadagniamo troppo!

In un recente documento del proprio Centro Studi, infatti, Confindustria grida allo scandalo, sostenendo esplicitamente che, in uno scenario in cui il valore aggiunto non cresce a sufficienza, la massa salariale assume, rispetto al PIL, proporzioni intollerabili.

E hanno ragione (dal loro punto di vista…)! La curva dei salari, infatti, dall’inizio della crisi del 2008, da quando cioè il PIL è in contrazione, diventa leggermente anticiclica. Dal momento che non esiste ancora (per fortuna) una scala mobile al contrario (anche se c’è da dire che con gli ultimi rinnovi dei CCNL sono quasi riusciti ad imporla), non è stato possibile per i padroni tagliare i salari proporzionalmente al crollo del PIL, quindi questi ultimi sono, in percentuale, aumentati: di pochissimo, +1,20 % la differenza tra il 2014 e il 1995, ma abbastanza per allarmare Confindustria. Non è un caso, infatti, che nei più importanti rinnovi contrattuali del 2015 i padroni abbiano chiesto un ridimensionamento salariale, o in alternativa la corresponsione degli aumenti concordati in forma di premio di risultato.

Ma che cos’è che davvero preoccupa Confindustria? La produttività cresce senza che loro investano più di tanto, e se lo fanno hanno lauti sconti sulle tasse; i salari sono aumentati in proporzione al PIL, sì, ma dello 0,06% medio all’anno; non pagano i contributi per i neoassunti, possono licenziarli quando vogliono, possono usare i voucher in qualunque settore…che cosa ti preoccupa, Squinzi?

Noi lo sappiamo, perché loro non hanno vergogna a dirlo: li preoccupa il cosiddetto MOL, Margine Operativo Lordo, che noi più chiaramente chiamiamo profitto. Rispetto al 1995, nel 2014 la percentuale del MOL sul PIL era diminuita dell’1,40%, e di anno in anno la variazione oscilla tra un + e un – zero virgola…insomma, si può dire che sia leggerissimamente in calo, e che l’unico sforzo dei padroni in questi vent’anni sia stato quello di mantenerlo più o meno costante, non farlo diminuire troppo.

 

6. MA CHE COLPA ABBIAMO NOI?

Ricapitoliamo un po’ il comportamento di questi geni dell’economia e della finanza: scoppia la crisi, e la prima cosa che fanno in Italia è minare alla base le possibilità di una ripresa, diminuendo la percentuale di capitale investito, solo per continuare a mettersi in tasca più o meno gli stessi soldi a fine anno; dopo che hanno fatto questo decidono che è il momento di attaccare frontalmente i salari: il Jobs Act e i rinnovi contrattuali arrivano esattamente a questo punto, e si portano dietro anche una prevedibile riduzione delle imposte sul lavoro, dal momento che ci sarà sempre meno welfare da finanziare.

Il risultato è che siamo di fronte al più grave attacco al salario degli ultimi 30 anni almeno, che: non farà aumentare il PIL; non avrà risultati sulla produttività; servirà a mantenere invariata, almeno per qualche anno, la quantità di soldi che i padroni rubano, fino a trovarci (si parla già del 2017) precipitati in un’altra crisi, peggiore della precedente (l’andamento delle Borse degli ultimi mesi è un indicatore affidabile).

Se ciò non bastasse, per non farsi cogliere di sorpresa il capitale italiano sta tentando disperatamente di svendere al miglior offerente i settori produttivi strategici.

Parliamo di Finmeccanica, che sta svendendo tutto ciò che non è legato alla produzione militare, come l’aeronautica (e lo sanno bene i lavoratori Alenia, Fincantieri. Dema…).

Parliamo dell’ILVA, il più grande impianto siderurgico a ciclo integrale d’Europa finché non è stato regalato dallo Stato ai Riva, che hanno smesso di investirci fino a quando, con l’esplodere dello scandalo ambientale, l’unica prospettiva realistica, per quanto lontana, è diventata una riconversione dello stabilimento in un impianto di lavorazione di semilavorati, non più competitivo, a spese dello Stato.

 

7. CONCLUSIONI

Usiamo l’abusata metafora del Governo, o della società, come una nave, precisamente, per restare ancora di più nel cliché, come il Titanic.

Qualcuno l’ha costruito male, risparmiando su tutto, dai pezzi alla manodopera. Ci ha caricato sopra una quantità di gente, tutta in qualche modo costretta a lavorarci o viverci. Alle prime falle, questo qualcuno ha pensato bene di ripararle prendendo dei pezzi da altre parti della chiglia. Ogni volta che riparava, aumentava la fragilità complessiva, ma al tizio non interessava, l’importante era continuare a navigare, speculando e arricchendosi su tutti, dai marinai ai passeggeri. A un certo punto il Titanic inizia a collassare, il tizio e altri stronzi come lui non solo si buttano sulle scialuppe scacciando gli altri, accusano passeggeri e lavoratori che è colpa loro, sono troppi, è pure un po’ giusto che muoiano e, ciliegina sulla torta, prima di salire sulle scialuppe si affannano anche a sfasciare ulteriori pezzi di chiglia, contando di vendere un po’ di ferraglia a qualcuno, dopo la bufera.

Sperano, gli stronzi, di sopravvivere sempre, di restare sempre a galla rispettando la loro natura; sperano quindi, dopo l’ennesimo naufragio, di trovare ancora qualcuno a cui vendere la loro paccottiglia. Ma un dopo, e un qualcuno, per loro potrebbero non esserci; prima che il naufragio si compia la gente sulla nave potrebbe decidere di buttarli a mare, oppure potrebbero sbarcare in un posto dove sanno benissimo com’è andata e fanno loro pagare tutto, fino all’ultimo centesimo.

Insomma, in questa storia, e nella Storia, come sempre, il futuro non è scritto!

 

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RICERCA SUL FENOMENO INFORTUNISTICO E LE MALATTIE PROFESSIONALI DEGLI AGENTI DI POLIZIA MUNICIPALE

 

DaArticolo 19 (Città Metropolitana)

http://www.cittametropolitana.bo.it

di Beatrice Cocchi, Marcello Crovara, Leopoldo Magelli

 

Tra gli strumenti di cui i RLS dovrebbero poter disporre per svolgere al meglio la loro attività, sia in termini di conoscenza e valutazione dei rischi che in termini di messa a punto di idonee ed efficaci misure preventive e protettive da proporre ai datori di lavoro, la conoscenza corretta e puntuale dell’andamento degli infortuni e delle loro caratteristiche e determinanti, nonché dei casi di malattia professionale costituisce un elemento basilare.

 

Proprio per confermare la validità di questa affermazione, vi proponiamo qui una breve sintesi dei risultati di una recente ricerca (luglio 2014 – luglio 2015) svolta nella nostra regione (coinvolgendo anche altre due regioni limitrofe).

Infatti l’indagine sul fenomeno infortunistico e sulle malattie professionali degli agenti di Polizia Municipale ha riguardato il personale di tre regioni (Emilia Romagna, Liguria, Toscana) e un periodo di osservazione di 5 anni (dal 2009 al 2013). I dati studiati sono quelli rilevabili (come casi definiti per gli infortuni, come casi denunciati per le malattie professionali) dalle statistiche e dai flussi informativi INAIL.

La ricerca è stata promossa dalla Scuola Interregionale di Polizia Locale (di Emilia Romagna, Liguria e Toscana) e si è potuta realizzare grazie alla preziosa collaborazione dell’INAIL: ringraziamo anche SIPL e INAIL per aver acconsentito alla presentazione su Articolo 19 di questo contributo.

La ricerca è stata condotta da Beatrice Cocchi, Marcello Crovara (INAIL) e Leopoldo Magelli, con la collaborazione anche di Michele Cicalini (SIPL).

 

Il primo elemento da evidenziare è che il fenomeno infortunistico appare in calo, sia in termini di numero assoluto di infortuni che in termini di indice di incidenza; in ogni modo, il numero di infortuni è significativo (il che ha permesso un’attenta analisi del fenomeno): si tratta di 4.090 infortuni riconosciuti e definiti nei 5 anni, con un valore assoluto che scende dagli 864 casi del 2009 ai 787 del 2013, e un indice di incidenza, che, nei vari anni e nelle diverse regioni, scende dal 2009 al 2013 da 8,7 a 8,3 per l’Emilia-Romagna, da 8,4 a 7,2 per la Liguria, da 8,7 a 8,0 per la Toscana.

Gli infortuni delle lavoratrici assommano ad un terzo esatto del totale (del resto, le lavoratrici sono circa un terzo del totale degli agenti di Polizia locale nelle tre Regioni).

 

Il trend dell’Indice di Incidenza è perfettamente corrispondente a quello dei numeri assoluti: un calo dal 2009 al 2013, con un notevole calo dell’indice nel 2012, un recupero nel 2013, ma sempre a valori inferiori rispetto all’anno iniziale del periodo di osservazione, il 2009.

 

E’ da notare che il tasso grezzo unificato di infortuni per il personale delle polizie locali delle tre regioni, nell’arco del quinquennio, presenta un valore medio sempre superiore (ad esempio nel 2012 del 28,6%) al valore medio di tutti i lavoratori italiani assicurati all’INAIL (sempre nel 2012, del 18,6%). In altri anni, lo scarto è ancora maggiore (massimo nel 2011: 33,6% versus 20,5%!). Questo dato dimostra che, pur in calo, il fenomeno infortunistico nella polizia locale è un elemento di significativa importanza.

 

Per quel che riguarda la dinamica degli infortuni, il campo è dominato da tre elementi:

  • l’infortunistica stradale, intesa come incidenti stradali (si includendo che escludendo gli infortuni in itinere): 1.048 casi;
  • l’infortunistica legata a cadute e simili durante le attività di spostamento appiedato: 1.052 casi;
  • l’infortunistica legata ad atti di violenza, aggressione, ecc., subiti durante e attività di vigilanza e controllo: 950 casi.

 

Le parti anatomiche più interessate sono:

  • l’arto inferiore dal bacino alla caviglia esclusa (728 casi, il 18,39%);
  • la colonna vertebrale nei segmenti toracico, lombare e sacrale (717 casi, il 18,11%);
  • l’arto inferiore nella sua parte più distale, ovvero caviglia e piede (519 casi, il 13,11%);
  • l’arto superiore inteso come braccio, gomito, avambraccio polso, mano esclusa (480 casi, il 12,12%);
  • la, mano e le dita (445 casi, l’11,24%).

 

Le tipologie di lesione più rappresentate sono le contusioni (42,4%) e le lussazioni/distorsioni (40,0%): assieme totalizzano più dei 4/5 degli eventi.

Per quel che riguarda la durata degli infortuni e le conseguenze in termini di inabilità, si rileva che (a parte i casi mortali che sono stati, in totale, 2) il 21% ha avuto una durata superiore ai 40 giorni (all’interno di questi va ricompreso quel 3,5% del totale infortuni la cui durata ha superato i 120 giorni).

Quanto agli esiti (sempre tenendo presenti i 2 casi mortali) l’83,1% non ha presentato postumi permanenti a fronte di un 16,9% che invece li ha presentati (16,4% sotto il 15% di inabilità permanente, 0,5% oltre tale limite).

Invece, per quel che riguarda le malattie professionali, il numero denunciato è talmente esiguo (37 in totale) da non permettere valutazioni puntuali, anche per l’ampia distribuzione delle stesse su patologie molto diverse.

Le patologie più rappresentate nelle denunce sono quelle a carico del sistema osteo-articolare, dei muscoli e del tessuto connettivo (16 casi in totale, quasi il 50% di tutti i casi), seguite dai tumori (9 casi in totale, circa il 25% del totale delle malattie denunciate), da quelle a carico del sistema nervoso e organi di senso (5 casi, di cui 3 ipoacusie) e dell’apparato respiratorio (4 casi).

Occorre sottolineare che il numero di casi riconosciuti dall’INAIL è molto basso, solamente 4, per cui il dato globale delle malattie riconosciute diventa davvero irrilevante.

 

Dopo l’analisi degli infortuni, vengono sviluppate alcune possibili ipotesi di interventi di prevenzione che, se attuati coerentemente, potrebbero ridurre il fenomeno.

Si tratta di una serie di misure tra loro strettamente integrate, che possono essere ricondotte a tre filoni principali:

  • misure rivolte agli aspetti tecnici/tecnologici;
  • misure relative al fattore umano;
  • misure relative all’ambiente in cui si opera.

 

E’ dall’applicazione combinata di tali misure che può scaturire la riduzione della probabilità del verificarsi dell’evento infortunistico e la limitazione, a fatti avvenuti, degli effetti dannosi; risulta ragionevole individuare nel fattore umano il punto su cui concentrare le misure di miglioramento, formative per gli aspetti relazionali e addestrative per l’applicazione di particolari tecniche operative.

In particolare, le esperienze e le ricerche degli anni precedenti condotte insieme con SIPL ci hanno confermato che l’aggressività può manifestarsi in tutte le situazioni operative per gli operatori della Polizia Locale, a partire dal ricevimento del pubblico presso le sedi.

 

Per quanto riguarda le misure preventive e protettive applicabili all’ambiente delle sedi a cui accede il pubblico, possono risultare utili accorgimenti come sale d’attesa confortevoli e luoghi di colloqui con i cittadini controllabili dall’esterno, pur garantendo la riservatezza delle conversazioni, fino a barriere di separazione tra l’operatore e l’utente.

Su un piano più organizzativo, accessi e parcheggi facili, appuntamenti comodi, attese brevi, segnaletica, avvisi e istruzioni comprensibili anche per stranieri aiutano a non fomentare l’aggressività.

 

Per quanto riguarda le attività all’esterno, alcune misure organizzative, di solito applicate anche per altri scopi, rivestono un evidente valore preventivo e protettivo e possono essere implementate, come ad esempio:

  • non lavorare da soli, prevedere un numero adeguato di operatori per situazioni particolari, disporre di informazioni adeguate, di mezzi di comunicazione funzionanti e di un supporto attivabile in caso di bisogno;
  • scegliere, per quanto possibile, le condizioni più favorevoli per gli interventi: tempi, luoghi, dislocazione, ecc.;
  • cooperare con altri soggetti coinvolti nelle attività, concordare protocolli degli interventi definendo in anticipo i rispettivi compiti e responsabilità, attivare momenti formativi comuni (per esempio nel caso di TSO, ma anche di controlli o interventi congiunti, come cantieri, eventi, partite di calcio).

 

Per quanto riguarda infine gli interventi formativi e addestrativi rivolte agli operatori, finalizzati a migliorare la capacità di relazione allo scopo di non sollecitare l’aggressività, ma anche all’applicazione di specifiche tecniche operative per contenerla o all’uso di particolari attrezzature di lavoro o presidi difensivi, si rimanda al complesso delle attività formative organizzate da SIPL su:

  • prevenzione dei conflitti e mediazione sociale;
  • tecniche operative.

 

Un’ultima notazione riguarda il tema dello stress da lavoro correlato, molto sentito e “raccontato” dai lavoratori. Al contrario, i dati delle malattie professionali denunciate (1) e riconosciute (0) non ci forniscono segnali allarmanti.

D’altra parte soluzioni di prevenzione collettiva, da attivarsi anche in assenza di tali segnali, non devono essere necessariamente e specificamente indirizzate allo stress e possono riguardare:

  • misure tecniche/ergonomiche (ad esempio potenziamento della dotazione, degli automatismi tecnologici, progettazione ergonomica dell’ambiente e dei processi di lavoro, ecc.)
  • misure organizzative/procedurali sull’attività lavorativa (ad esempio orario sostenibile, alternanza di mansioni nei limiti di legge e contratti, riprogrammazione attività, definizione di procedure di lavoro, informazione, formazione e addestramento, ecc.)
  • misure di revisione della politica aziendale (ad esempio azioni di miglioramento della comunicazione interna, della gestione, delle relazioni, della consultazione, ecc.)

 

Le misure preventive e protettive rivolte agli aspetti tecnici/tecnologici, ambientali e umani, non saranno del tutto efficaci se non integrate da altri interventi che chiameremo “trasversali” o “organizzativi”, non limitati agli argomenti approfonditi in precedenza: infortuni stradali, in itinere o meno; cadute; aggressioni e colluttazioni.

Si tratta, ad esempio, delle seguenti azioni:

  • gestione del programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza;
  • gestione delle misure di emergenza sia all’interno che all’esterno;
  • gestione della sorveglianza sanitaria: definizione dei protocolli da parte del Medico Competente, specifiche tutele per le lavoratrici madri, ecc.;
  • gestione delle attrezzature di lavoro (auto, moto, macchine in generale e altre attrezzature): disponibilità, manutenzione, equipaggiamento, ecc;
  • gestione dei Dispositivi di Protezione Individuali (DPI): criteri di scelta e di utilizzo, acquisto, distribuzione, ripristino in caso di usura, addestramento all’uso, controllo sull’uso effettivo;
  • informazione, formazione e addestramento;
  • gestione delle relazioni con le figure previste dal D.Lgs. 81/08 come il Medico Competente e il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza: pareri, consultazioni e riunione annuale di sicurezza ex articolo 35 del D.Lgs. 81/08;
  • gestione delle segnalazioni di lavoratori e preposti.

 

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SICUREZZA DELLE MACCHINE: I DISPOSITIVI DI COMANDO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

11 marzo 2016

 

Un progetto si sofferma sulla sicurezza delle macchine nell’industria metalmeccanica. Focus sui dispositivi di comando: avviamento, azione mantenuta, comando di arresto, arresto di emergenza e selettore modale di funzionamento.

 

Perché le macchine siano sicure per gli operatori è importante, oltre all’eventuale presenza di ripari, di dispositivi di sicurezza e al rispetto di idonee distanze, che i vari sistemi di comando permettano di evitare l’eventuale insorgere di situazioni pericolose.

 

Ci soffermiamo sui dispositivi di comando con riferimento specifico alle macchine utilizzate nel comparto metalmeccanico e al documento “ImpresaSicura Metalmeccanica” correlato a Impresa Sicura, un progetto multimediale (elaborato da Enti Bilaterali Marche, Enti Bilaterali Emilia Romagna, Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e INAIL) che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come buona prassi nella seduta del 27 novembre 2013.

 

Nel documento si ricorda che i dispositivi di comando costituiscono l’elemento attraverso il quale l’operatore attiva o disattiva le funzioni della macchina.

E questi dispositivi sono normalmente costituiti da un organo meccanico che a volte interviene direttamente su organi di trasmissione del moto della macchina (ad esempio leva di innesto rotazione mandrino del tornio) e a volte agisce invece sulla circuitazione elettrica/elettronica, pneumatica o idraulica (ad esempio comando a due mani di pressa idraulica).

 

Il documento riporta le caratteristiche generali dei dispositivi di comando che devono essere:

  • chiaramente visibili e con la chiara indicazione (ad esempio tramite marcatura, descrizione completa, pittogramma) del tipo di azione che si va a comandare;
  • situati fuori dalle zone pericolose;
  • protetti contro il rischio di azionamento accidentale se ciò comporta un rischio (ad esempio pulsante con guardia, pedale con protezione superiore e/o azionamento complesso, leva con movimento articolato);
  • disposti in modo tale che l’operatore addetto al comando sia in grado di verificare l’assenza di persone dalle zone di rischio.

 

Sono riportate poi altre caratteristiche dei dispositivi di comando:

  • disposti in modo da garantire una manovra sicura, univoca e rapida;
  • installati in modo tale che il movimento del dispositivo di comando sia coerente con l’azione del comando;
  • posizionati in modo che la loro manovra non causi rischi supplementari;
  • dotati di grado di protezione IP, contro la penetrazione di polvere o acqua, idoneo e compatibile con le condizioni ambientali;
  • sufficientemente robusti; particolare attenzione deve essere dedicata ai dispositivi di arresto di emergenza che possono essere soggetti a grossi sforzi.

Il documento, con riferimento alla norma CEI EN 60204, si sofferma su vari aspetti e comandi.

 

Riguardo all’avviamento, ossia all’inizio di un ciclo o di una funzione di lavoro, si indica che deve essere possibile soltanto se tutte le funzioni di sicurezza e le misure di protezione sono presenti e funzionanti. Per avviamento si intende anche la rimessa in marcia dopo un qualunque arresto. L’avviamento di una macchina deve essere possibile soltanto agendo volontariamente su un dispositivo di comando appositamente predisposto.

 

E gli organi di comando (pulsanti, pedali, leve, ecc.) dei dispositivi di avviamento devono essere protetti contro il rischio di azionamento accidentale o involontario (ad esempio pulsante con guardia, pedale con protezione superiore e/o azionamento complesso, leva con movimento articolato). Tale requisito non è necessario quando l’avviamento non presenta alcun rischio per le persone. Se la presenza di più dispositivi di comando dell’avviamento può comportare un rischio reciproco per gli operatori addetti, si deve garantire che uno solo di questi sia attivato mediante ad esempio dispositivi di convalida, selettori, ecc. Gli organi di comando dei dispositivi di avviamento devono essere individuabili anche attraverso apposita colorazione (codifica cromatica).

 

Sempre riguardo all’avviamento e con particolare riferimento all’avviamento di macchine complesse, si segnala che dal posto di comando l’operatore deve essere in grado di accertare l’assenza di persone dalle zone di rischio. Se ciò non fosse possibile ogni messa in marcia deve essere preceduta da un segnale di avvertimento sonoro e/o visivo e le persone esposte devono avere il tempo di sottrarsi al pericolo o avere a portata di mano i mezzi, come un arresto di emergenza, per impedire rapidamente l’avviamento della macchina.

 

Il documento si sofferma anche sull’azione mantenuta.

Infatti i dispositivi di comando ad azione mantenuta avviano e mantengono una determinata funzione della macchina solo se azionati continuativamente dall’operatore. Al loro rilascio la funzione comandata si arresta automaticamente.

In particolare per le macchine (per esempio macchine mobili o portatili) sulle quali non è possibile ottenere una completa protezione delle parti pericolose, il comando manuale di azionamento deve avvenire mediante dispositivi ad azione mantenuta. I dispositivi di comando ad azione mantenuta trovano applicazione anche sulle macchine ove per operazioni di messa a punto, manutenzione, cambio lavorazione, ecc, è necessario rimuovere o disabilitare un riparo o un dispositivo di sicurezza. In tal caso la sicurezza dell’operatore deve essere ottenuta adottando oltre al comando ad azione mantenuta, altre misure di sicurezza.

Nel documento di ImpresaSicura sono riportate anche le indicazioni su cosa sia necessario garantire quando il comando ad azione mantenuta è attivato in seguito alla rimozione o disattivazione di funzioni di sicurezza o misure di protezione.

 

Veniamo al comando di arresto, il comando attraverso il quale si ottiene il fermo di una macchina o di una parte di essa.

La pubblicazione segnala che ogni macchina deve essere munita di almeno un dispositivo di comando che consenta l’arresto generale in condizioni di sicurezza. E in presenza di più postazioni di lavoro ognuna di queste deve essere munita di un dispositivo di comando che, in relazione ai rischi presenti sulla macchina, consenta di arrestare l’intera macchina o una parte di essa, mantenendo le condizioni di sicurezza. Inoltre i dispositivi di arresto devono essere collocati accanto a ogni dispositivo di avviamento. L’ordine di arresto della macchina deve essere prioritario rispetto agli ordini di avviamento.

 

Dopo aver elencato tre categorie per le funzioni di arresto e l’arresto per le postazioni di comando mobili senza fili, il documento si sofferma sull’arresto di emergenza.

L’arresto di emergenza è un dispositivo di sicurezza che assicura, una volta azionato, il fermo nel minor tempo possibile degli elementi pericolosi di una macchina. La funzione di arresto d’emergenza è destinata a evitare o ridurre, al loro sorgere, i pericoli per le persone (normale funzionamento, disfunzioni, guasti, errori umani, ecc.), i danni alle macchine o alle lavorazioni in corso.

Ogni macchina deve essere munita di uno o più dispositivi di arresto di emergenza. E ogni dispositivo deve essere attivabile mediante una singola azione umana e deve avere le seguenti caratteristiche:

  • il dispositivo di arresto d’emergenza deve essere chiaramente individuabile, ben visibile e rapidamente accessibile;
  • una volta azionato, l’arresto di emergenza deve restare inserito;
  • deve essere possibile disinserirlo solo mediante una manovra adeguata (riarmo);
  • il riarmo dell’arresto di emergenza non deve avviare nuovamente la macchina, ma solo consentirne il riavvio mediante l’apposito comando;
  • l’azionamento del comando provoca l’arresto del processo pericoloso nel tempo più breve possibile, senza creare rischi ulteriori.

 

Riguardo al suo utilizzo si sottolinea poi che il dispositivo di arresto d’emergenza non può essere utilizzato in alternativa a una protezione (riparo o dispositivo di sicurezza), ma può essere utilizzato solo come misura supplementare. Quando un dispositivo di comando d’arresto d’emergenza può essere facilmente disconnesso (ad esempio pulsantiera portatile collegata mediante presa a spina) o quando una parte di macchina può essere isolata dalle restanti, occorre prendere provvedimenti per evitare la possibilità di confondere i dispositivi di comando d’arresto d’emergenza attivi da quelli inattivi.

Si ricorda che il comando di arresto d’emergenza deve essere mantenuto efficiente e perfettamente funzionante tramite apposita e programmata manutenzione. E la verifica del corretto funzionamento deve essere effettuata all’inizio di ogni turno di lavoro e sempre dopo interventi di manutenzione, regolazione, pulizia, ecc., che coinvolgono la macchina, prima di riprendere il normale ciclo di produzione.

 

Riguardo alla funzione di arresto d’emergenza riprendiamo brevemente le caratteristiche generali del dispositivo:

  • il dispositivo di arresto d’emergenza deve essere in grado di sopportare forti sollecitazioni causate dal suo azionamento in caso di emergenza;
  • deve essere disponibile e operante in qualsiasi momento indipendentemente dal modo operativo (ciclo manuale, ciclo automatico, comando diretto, ecc);
  • deve avere la priorità sugli altri comandi;
  • non deve generare pericoli aggiuntivi;
  • può eventualmente avviare, o permettere di avviare, alcuni movimenti di salvaguardia;
  • l’inversione o la limitazione del moto, la deviazione, la schermatura, la frenatura, il sezionamento, ecc. possono far parte della funzione di arresto d’emergenza (movimenti di salvaguardia);
  • non deve compromettere l’efficacia dei dispositivi di sicurezza o di dispositivi con funzioni condizionanti la sicurezza (dispositivi di frenatura, dispositivi magnetici di trattenuta, ecc.);
  • il dispositivo di comando e il relativo attuatore devono operare secondo il principio dell’azione meccanica positiva;
  • dopo il suo azionamento, il dispositivo di arresto d’emergenza deve operare in modo tale che il pericolo sia evitato o ridotto all’origine automaticamente nel miglior modo possibile (scelta del grado di decelerazione, scelta della categoria di arresto ecc.);
  • l’azione sull’attuatore che provoca l’intervento del comando di arresto d’emergenza deve determinare anche il bloccaggio dell’attuatore stesso in modo che, quando termina l’azione sull’attuatore, il comando di arresto d’emergenza rimanga trattenuto finché non sia intenzionalmente ripristinato (sbloccaggio dell’attuatore);
  • non deve essere possibile avviare il moto pericoloso fino a che tutti gli attuatori di comando azionati non sono stati ripristinati manualmente, singolarmente ed intenzionalmente.

 

Ricordando che il documento si sofferma anche sul posizionamento, forma e colore degli attuatori (pulsanti, pedali, barre, funi, …) e sulle caratteristiche di funzionamento dei dispositivi di arresto d’emergenza, concludiamo questa presentazione dei dispositivi di comando soffermandoci sul selettore modale di funzionamento.

 

Infatti ogni macchina può avere uno o più modi di funzionamento (manuale, automatico, azionamento con pedale, azionamento con comando a due mani, ecc.) determinati dalle caratteristiche della macchina stessa o semplicemente dalle sue applicazioni. Quando la selezione del modo di funzionamento modifica le condizioni di sicurezza della macchina, tale selezione deve avvenire mediante un selettore modale.

 

In particolare il selettore modale può essere azionato mediante una chiave oppure tramite un codice d’accesso. Tuttavia si ricorda che la chiave o il codice di accesso per l’attivazione del selettore modale devono essere disponibili solo per il personale addestrato e autorizzato a modificare i modi di funzionamento della macchina. E durante il normale uso produttivo le chiavi non devono restare inserite nel selettore, bensì conservate dai preposti individuati.

 

L’accesso via internet al sito “Impresa Sicura” è gratuito e avviene tramite una registrazione all’indirizzo:

http://impresasicura.org/ita/pages/home.php

 

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L’OBBLIGO DI VIGILANZA DEL DATORE DI LAVORO O A MEZZO DEL PREPOSTO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

14 marzo 2016

di Gerardo Porreca

 

Secondo una recente Sentenza della Corte di Cassazione, al di là di una eventuale e imprevedibile negligenza o imprudenza dei lavoratori nello svolgimento della loro mansione, il datore di lavoro deve controllare personalmente o a mezzo dei preposti che le lavorazioni avvengano in sicurezza.

 

Una Sentenza questa nella quale la Suprema Corte richiama gli obblighi di vigilanza e di controllo da parte del datore di lavoro e del preposto sul comportamento che il lavoratore tiene nello svolgimento della propria attività nonché l’obbligo da parte dello stesso datore di lavoro di disporre e pretendere che i lavoratori rispettino le disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro.

Nella stessa Sentenza viene ribadito, altresì, il principio ormai consolidato della giurisprudenza in materia di salute e sicurezza sul lavoro in base al quale il sistema prevenzionistico mira a tutelare il lavoratore anche in ordine a incidenti che possono derivare da una sua negligenza, imprudenza e imperizia per cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore stesso sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e quindi al di fuori di ogni prevedibilità o quando il suo comportamento, pur rientrando nelle mansioni che gli sono proprie, sia consistito in qualcosa di radicalmente e ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e quindi prevedibili imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del suo lavoro.

 

La Corte d’Appello ha confermato la Sentenza con la quale il Tribunale ha condannato l’amministratore unico e responsabile tecnico di una ditta esercente l’attività di installazione, ampliamento, trasformazione e manutenzione di impianti di produzione, trasporto, distribuzione ed utilizzazione dell’energia elettrica, alla pena ritenuta di giustizia per il reato di cui all’articolo 590, commi 1 e 3 del Codice Penale per aver, in qualità di datore di lavoro, cagionato a un lavoratore dipendente della ditta stessa lesioni personali gravi consistenti nell’ematoma epidurale traumatico, dalle quali è derivata una malattia della durata di sessantaquattro giorni, per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. In particolare per avere omesso, in relazione all’attività di stesura dei cavi elettrici all’interno di una canalina metallica eseguita presso un cantiere e in violazione dell’articolo 35, comma 4, del D.Lgs. 626/94 e dell’articolo 52, comma 7, del D.P.R. 164/56, di prendere le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro fossero utilizzate correttamente.

La colpa addebitatagli è consistita, nello specifico, nel non avere disposto e preteso che nessun operatore stazionasse sul piano in quota del trabattello, di fatto impiegato per portarsi in quota durante le operazioni di stesura di cavi elettrici suddette, durante gli spostamenti di tale attrezzatura da una postazione a un’altra, stante il rischio di ribaltamento connesso a tale operazione.

Il giorno dell’infortunio, in particolare, era successo che mentre il lavoratore infortunato era rimasto posizionato sul piano in quota del ponteggio su ruote un suo collega aveva spostata l’attrezzatura stessa verso una nuova posizione di lavoro, spingendola manualmente, allorquando improvvisamente, a causa di uno spacco nel pavimento, il trabattello si è ribaltato determinando la caduta a terra del lavoratore su di esso posizionato che ha riportate così le sopradescritte conseguenze lesive.

 

Avverso la predetta decisione della Corte di Appello l’imputato ha ricorso per Cassazione personalmente deducendo una inosservanza e una erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione. Il ricorrente ha messo in evidenza da una parte che il lavoratore era stato preventivamente e perfettamente formato e istruito e dall’altra che il suo comportamento imprudente sarebbe stato tale da interrompere il nesso di causalità.

 

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione. Con riferimento alla motivazione legata alla formazione del lavoratore la Corte suprema ha fatto rilevare che l’omissione formativa non era oggetto di contestazione, essendo stato invece addebitato al datore di lavoro di aver autorizzato l’esecuzione di operazioni lavorative in altezza, senza premurarsi di controllare personalmente o a mezzo del preposto che le stesse avvenissero in sicurezza.

Quanto al comportamento imprudente del lavoratore che, secondo l’imputato, avrebbe dovuto scendere dal trabattello e spostarlo per poi risalirvi in tutta sicurezza, la Sezione IV ha messo in evidenza che la Corte Territoriale aveva ritenuto che l’imputato, in quanto titolare dell’obbligo di protezione dell’incolumità e della vita dei propri dipendenti, avrebbe dovuto comunque inibire quel comportamento e ha ritenuto che la condotta del lavoratore non potesse essere considerata estranea alle mansioni alle quali era stato adibito.

 

La Corte Suprema ha messo in evidenza quindi che la Sentenza impugnata ha fatto buon governo del principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di Legittimità in base al quale “il sistema prevenzionistico mira a tutelare il lavoratore anche in ordine a incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza e imperizia, per cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento imprudente del lavoratore sia stato posto in essere da quest’ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli (e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro) o rientri nelle mansioni che gli sono proprie, ma sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro”.

La Sezione IV ha rimarcato, altresì, come non fosse emersa alcuna estraneità del comportamento del lavoratore rispetto alle mansioni che di fatto gli erano state affidate. Di qui il rigetto del ricorso e la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali.

 

La Sentenza n. 47742 del 2 dicembre 2015 della Corte di Cassazione Penale è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14382:2015-12-03-16-01-54&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

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COSA RISCHIANO LE AZIENDE SE LA FORMAZIONE EROGATA NON E’ IDONEA?

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

15 marzo 2016

di Tiziano Menduto

 

Nelle aule di tribunale si valuta la presenza, la qualità e l’efficacia della formazione alla sicurezza erogata? Cosa rischiano le aziende che si affidano a percorsi formativi inidonei o non conformi alla legge? Ne parliamo con l’avvocato Rolando Dubini.

 

Continua l’inchiesta che PuntoSicuro sta conducendo da qualche mese sulla formazione alla sicurezza in Italia approfondendo con diversi articoli, interviste e contributi, criticità e carenze. Una formazione che è piena di chiaroscuri, di buoni strumenti formativi, ma anche di percorsi inefficaci e, a volte, non conformi alla legge.

 

Una situazione in cui la Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP), come ha sottolineato in un documento presentato a dicembre, rileva “ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla formazione con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non qualificati e la vendita di corsi in formazione a distanza privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti pertinenti”.

 

A tale riguardo abbiamo intervistato uno degli avvocati che in questi anni si sono più occupati di diritto penale del lavoro e dei temi relativi alla responsabilità amministrativa (D.Lgs. 231/01), Rolando Dubini. Un avvocato che i nostri lettori conoscono molto bene non solo per le sue pubblicazioni, ma anche per i suoi numerosi articoli su PuntoSicuro.

 

PUNTO SICURO

Nei processi conseguenti ad eventi infortunistici nei luoghi di lavoro si affronta in aula il tema della formazione? Ad esempio ci si chiede sempre se un comportamento insicuro da parte di un lavoratore non dipenda in realtà da una carenza della formazione?

ROLANDO DUBINI

Si, è una domanda fondamentale che viene posta in sede di indagine preliminare dagli ufficiali di polizia giudiziaria della ASL competente; e che nel dibattimento penale è oggetto di ampia trattazione da parte dell’accusa quando carente, da parte della difesa quando adeguata e sufficiente ai sensi dell’articolo 37, comma 1 del D.Lgs. 81/08.

Quel che pesa davvero è la formazione specifica correlata alla mansione e soprattutto alla lavorazione oggetto dell’infortunio.

In particolare gli elementi rilevanti sono la qualificazione professionale e l’esperienza lavorativa dell’infortunato, la chiarezza e leggibilità delle procedure (a questo proposito consiglio di munirle di fotografie che indicano le modalità corrette e le modalità scorrette vietate), il fatto che siano oggetto di formazione specifica (con verifica dell’apprendimento) e che venga fatta vigilanza sul loro rispetto, e vengano adottate misure disciplinari nei confronti di chi contravviene alle norme aziendali di sicurezza.

Va inoltre documentata la presenza dell’interessato ai corsi di formazione. Attenzione: se manca la firma sul registro la formazione non esiste, ed è meglio adottare modalità di identificazione del partecipante. Ad esempio attraverso l’acquisizione di copia del documento d’identità.

 

P.S.

Possiamo dunque dire che nelle aule di tribunale si valuta non solo la presenza/assenza di un percorso formativo, ma anche la qualità o l’efficacia della formazione erogata?

R.D.

La qualità ed efficacia della formazione sono decisive, la difesa cerca di dimostrare che la formazione era idonea a evitare l’infortunio, ma per far ciò è necessario che l’azienda abbia effettivamente provveduto in tal senso.

L’ideale è quando lo stesso infortunato e/o i suoi colleghi testimoni dichiarino di aver ricevuto la formazione e di conoscere le modalità corrette di lavorazione, che indicano nella loro deposizione.

 

P.S.

Quali sono a suo parere le Sentenze più esemplari in materia di formazione?

R.D.

Fondamentale resta quella che afferma che la verifica dell’apprendimento è obbligatoria anche per i lavoratori, e non solo per dirigenti e preposti: la Sentenza della Cassazione Penale Sezione III, n. 4063 del 28 gennaio 2008, consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&task=view&id=916&Itemid=7

La fattispecie riguardava un datore di lavoro rinviato a giudizio e condannato dal Giudice del Tribunale di Brescia per i reati di cui all’articolo 4, comma 2, del D.Lgs. 626/94 [ora articolo 28 del D.Lgs. 81/08] per avere omesso, quale titolare di un laboratorio di confezioni, di effettuare una idonea valutazione dei rischi reali e specifici presenti nell’ambiente di lavoro e legati alle particolari situazioni lavorative, per aver omesso di adottare una collaborazione fattiva con il medico competente e il Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza per la redazione del documento di valutazione dei rischi, per la mancanza di misure di prevenzione da adottare e di un programma per realizzare le stesse, e, testualmente, per aver violato l’obbligo di cui all’articolo 22, comma 1, dello stesso D.Lgs. 626/94 [ora articolo 37 del D.Lgs. 81/08] per non avere progettato e attuato una adeguata attività formativa per tutti i lavoratori, contenente gli obiettivi specifici, la definizione di moduli didattici e gli strumenti per la verifica di apprendimento.

Richiamando la propria giurisprudenza, la Suprema Corte ha costantemente affermato che “In tema di prevenzione di infortuni, il datore di lavoro deve controllare che siano osservate le disposizioni di legge e quelle (procedure e istruzioni operative, oggetto di formazione adeguata e sufficiente), eventualmente in aggiunta, impartite [al lavoratore]; ne consegue che, nell’esercizio dell’attività lavorativa, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di lesione colposa aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche. È infatti il datore di lavoro che, quale responsabile della sicurezza del lavoro, deve operare un controllo continuo e pressante per imporre che i lavoratori rispettino la normativa e sfuggano alla tentazione, sempre presente, di sottrarvisi anche instaurando prassi di lavoro non corrette”.

Secondo la Cassazione, “tali conclusioni si evincono non solo dallo stesso, richiamato dal ricorrente, articolo 4 del D.Lgs. 626/94 [ora articolo 18 del D.Lgs. 81/08], che non pone a carico del datore di lavoro il solo obbligo di allestire le misure di sicurezza, ma anche una serie di controlli diretti o per interposta persona, atti a garantirne l’applicazione, ma soprattutto dalla norma generale di cui all’articolo 2087 Codice Civile, la quale dispone che l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” [Corte di Cassazione Sezione IV, Sentenza n. 39888 del 23 ottobre 2008,]. Si tratta dell’obbligo della massima sicurezza tecnica, organizzativa e procedurale concretamente attuabile.

In base alla mia esperienza, le aziende che hanno adottato sistemi certificati di gestione della sicurezza sul lavoro (ad esempio le British Standard 18001/2007) sono spesso quelle meglio attrezzate a erogare, anche attraverso enti esterni, e ove consentito con modalità on-line efficaci, formazione adeguata e sufficiente e a controllare affinché detta educazione alla sicurezza non resti inapplicata.

 

P.S.

E più in generale qual è oggi l’orientamento giurisprudenziale riguardo al valore causale della formazione in un evento incidentale?

R.D.

Ad esempio la Sentenza del 2008 che ho in precedenza richiamato chiarisce che l’errata e o insufficiente e incompleta valutazione dei rischi produce una errata percezione del rischio, e in caso di formazione trasferisce informazioni errate e non educa adeguatamente alla sicurezza l’operatore.

E in ogni caso si ribadisce che occorre la verifica dell’apprendimento, la cui miglior dimostrazione è data in dibattimento quando i testimoni, e/o l’interessato, come abbiamo già detto, dichiarano di conoscere le modalità corrette di lavoro, oppure hanno sottoscritto per accettazione l’istruzione operativa pertinente.

 

P.S.

Veniamo ad alcuni aspetti pratici. Quali sono gli elementi che la polizia giudiziaria valuta per comprendere la qualità della formazione erogata in azienda? Sono valutati solo gli aspetti documentali?

R.D.

In realtà viene valutato tutto. Ad esempio si valuta:

  • la qualificazione professionale dell’infortunato;
  • l’esperienza lavorativa;
  • l’avvenuta formazione dell’infortunato, e dei colleghi che svolgono la stessa mansione;
  • la qualità della formazione, il contenuto;
  • i registri di presenza;
  • la verifica dell’apprendimento e in particolare i controlli post formazione sull’applicazione delle regole prevenzionistiche trasmesse.

Chiaramente la documentazione deve essere a posto, e di qualità, per consentire prima la prevenzione e poi la difesa.

 

P.S.

Concludiamo questa breve intervista indicando quali sono oggi, a suo parere, le principali deviazioni dell’offerta formativa in Italia.

R.D.

Esistono significative zone oscure, venditori di certificati, venditori di formazione di bassa qualità, proposte di formazione on-line anche in casi non consentiti dalla legge, fino a vere e proprie truffe formative.

Il datore di lavoro dovrebbe richiedere una dichiarazione scritta dall’ente formatore dove questo dichiari la conformità alle norme vigenti della formazione erogata, e l’assunzione di responsabilità in caso di difformità.

Ed è bene controllare anche le referenze…

 

P.S.

E quali potrebbero essere delle soluzioni per evitare queste deviazioni?

R.D.

Ad esempio una maggior chiarezza degli Accordi Stato-Regioni in materia, con definizione dei modelli di modulistica consentita dalla legge, e l’eliminazione di ogni forma di ambiguità e incertezza in materia: una cosa fattibile… Il non volerla realizzare, come accaduto fino ad oggi, dimostra il disinteresse di chi governa per questa delicata materia che attiene l’integrità psicofisica di tutti coloro che frequentano i luoghi di lavoro.

Includerei, ora come ora, anche l’obbligo di inviare alla ASL competente copia dell’offerta formativa elaborata dagli enti, per conoscenza. Cosa che forse scoraggerebbe le situazioni più truffaldine.

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.248 DEL 18/03/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

Doctor G


Recensione di M.Bobbio sulla graphic novel. “Doctor G” di Luana Caselli, Luca Iaboli, Grazia Lobaccaro, Marco Madoglio

Il dottor G è un esperto di statistica che ama cimentarsi con il calcolo del rischio di malattia così come con la probabilità che un indagato sia innocente; è trasandato e ubriacone ma coraggioso e competente, stigmatizza l’ignoranza di medici e avvocati, ma disprezza e mette in ridicolo gli esperti che manipolano la statistica a proprio vantaggio o per condizionare il mercato dei farmaci.
Riflettendo su questi mistificatori, il dottor G commenta: “Grazie a loro passeranno anni prima di avere una medicina sobria, rispettosa e giusta”.
Il dottor G è il protagonista di una graphic novel, curiosa ma rigorosa, che mescolando vicende sentimentali, con la valutazione dell’efficacia degli screening, con lo svolazzare delle farfalle e con la disamina di alcuni famosi casi giudiziari, spiega con esempi tratti da notizie giornalistiche e da articoli scientifici il calcolo di sensibilità e specificità, la differenza tra rischio relativo e assoluto, la nocività degli screening, i pericoli della sovradiagnosi.
Il cuore della vicenda è a Berlino, ma la storia si snoda tra decine di città e luoghi sparsi in tutto il mondo, facendo rivivere il momento in cui la notizia ha colpito la curiosità del protagonista, che rielabora le percentuali declamate alla televisione o pubblicate in articoli scientifici e ribalta le conclusioni a cui sono giunti (talvolta per ignoranza e talaltra per malafede) medici di medicina generale, primi ministri, avvocati, opinion leader.
Come nelle favole, l’onestà del dottor G, scomodo ed emarginato, verrà premiata; a Parigi come a Madrid, a Oslo come a Dublino, i pazienti felici e contenti riceveranno saggi consigli da medici esperti e non manipolativi che forniranno loro in modo comprensibile e corretto i risultati delle ricerche scientifiche.
Il triste elenco di articoli, spesso introvabili, che costituisce la bibliografia dei libri, è sostituto da ampie note che ricostruiscono un episodio, che spiegano un fumetto, che commentano una battuta, ma soprattutto è arricchito dai QR code che consentono con un click di scaricare l’articolo originale con lo smartphone o il tablet. Geniale.

Doctor G


 

Medico, Cura te spesso (2)


Recensione di M.Bobbio sul libro di Carlo Calcagno. “Medico, cura te spesso“.

Carlo Calcagno. Medico, cura te spesso. Mimesis Milano 2015. Pp185. €18    

E’ interessante notare come vira il comportamento dei medici da quando, freschi di laurea, affrontano il paziente armati di molte conoscenze teoriche, di poca capacità comunicativa e di un  ricco armamentario di linee guida da applicare in modo sistematico, a quando, nel pieno della loro attività adottano qualunque innovazione tecnologica e farmacologica per dimostrare l’eccellenza del proprio operato (e per ottenere qualche marginale beneficio dai produttori), a quando, infine, all’avvicinarsi della pensione, si accorgono che le raccomandazioni, le procedure, le innovazioni molto spesso cozzano contro i desideri, le aspettative i valori del paziente che si è affidato alle loro cure.  In alcuni casi questa maturazione viene accelerata dal fatto di trovarsi dall’altra parte della barricata, in pigiama disteso in un letto d’ospedale. Gianni Bonadonna, recentemente scomparso, aveva sperimentato in prima persona il ruolo dell’ammalato in seguito a un ictus devastante, e aveva scritto “oggi la rincorsa alla ricerca di una cura possibile mi ha allontanato troppo dal paziente, mi ha tenuto per anni in una bolla speciale… Nella mia carriera ho dovuto adattarmi ai protocolli di diagnosi e trattamento, documenti che stabiliscono passo per passo, oggi in modo anche troppo burocratico, le procedure per i pazienti… Il protocollo funge sovente da cuscinetto emotivo, per non dire barriera, tra il medico curante e una situazione clinico-prognostica densa di emotività…” per concludere che “nelle facoltà di medicina serve un nuovo esame per chi deve curare le persone: serve un esame di umanità”.

Carlo Calcagno,  urologo di Genova con una laurea in Storia ad indirizzo scientifico, affronta una riflessione etica e umana della professione medica che ha perduto la propria identità, schiacciata da  un sapere tecnico che diventa il fine e non il mezzo. Per capire quanto la medicina si sia discostata dall’essere “un luminoso e progressivo cammino fatto in nome del bene per gli  esseri umani”, Calcagno ci accompagna in modo erudito, ma soave, attraverso una personale lettura della storia della medicina, fatta di suggestioni, ciarlatani e tradizioni,  per osservare che il senso etico della professione si è diluito nel tempo, fino all’epoca attuale “caratterizzata da una corsa senza freni verso il tecnicamente possibile e non verso l’eticamente fattibile”.

Quali le cause? L’ultra specializzazione che parcellizza un lavoro per secoli concepito per osservare e curare il paziente nella sua interezza, la burocratizzazione (“il paziente avverte il distacco e la lontananza del medico ricavandone spesso la sensazione di essere trascurato”) e infine l’intrusione della spesa sanitaria nel rapporto tra un medico e un paziente. La conseguenza è la medicalizzazione: “l’espropriazione e la gestione eterodiretta della nostra salute viene data dall’establishment medico-farmaceutico in tre abili mosse condotte da scacchisti consumati: l’abbassamento dei valori sogli per definire se un individuo è sano o ammalato, l’epidemia di diagnosi per cui si è creato un esercito di worried wells (persone sane preoccupate per il rischio di incorrere in qualche malattia e quindi consumatori insaziabili di esami di laboratorio, visite mediche e medicine) l’allargamento dei criteri diagnostici che trasformano un sintomo con cui convivere in una patologia da curare con i farmaci. In questo scenairo non poteva mancare il riferimento alla filosofia di Slow  Medicine che immagina “una medicina possibile, una medicina concreta e realizzabile, una medicina che non insegua utopie o faccia le corse contro il Padreterno”.

Il titolo è curioso e ho lasciato alla fine di spiegarne il senso. La morale di  Calcagno è che un medico, per fare bene il suo mestiere, deve essere in grado di riflettere costantemente sul proprio lavoro: “il medico migliore è quello che commette meno errori, ma sopra ogni cosa conserva l’umiltà di esaminare con senso critico il proprio operato e ripensa soprattutto ai propri sbagli traendone una lezione utile per il futuro”.

Marco Bobbio


 

23 Marzo_Approccio critico al consumo critico

Il folklore sugli impatti ambientali: sfatiamo i falsi miti!

Siete tutti invitati il 23 Marzo alle 21.00!

Non mancate :)

 

MDF, Circolo di Torino

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.247 DEL 11/03/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.247 DEL 11/03/16

 

INDICE

  • Adeguamento di macchine marcate CE alla normativa tecnica di riferimento
  • CGIL Catania: con le modifiche del Jobs Act aumentano i rischi per la sicurezza
  • Ambienti confinati: quali sono i rischi?
  • Il luogo di lavoro e la garanzia delle sue condizioni di sicurezza
  • Prevenzione di molestie e violenze: cosa cambia nei luoghi di lavoro?
  • L’esposizione femminile a stress, violenze e stalking

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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ADEGUAMENTO DI MACCHINE MARCATE CE ALLA NORMATIVA TECNICA DI RIFERIMENTO

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.72

 

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti dei lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

 

 

QUESITO

 

Salve ing.,

volevo chiederle un informazione/parere sulla seguente questione.

 

L’azienda dove lavoro possiede una macchina del 2000 marcata CE (automezzo con compattatore rifiuti a carico posteriore). La parte del compattatore è una macchina conforme alla Direttiva Macchine e conforme alla norma tecnica di riferimento del momento.

Oggi però gli stessi mezzi sono conformi alla Direttiva Macchine e alla norma UNI EN 1501, che prevede come dispositivi di sicurezza per esempio: il limitatore di velocità (a 30 km/h) con l’uomo in pedana, blocco della retromarcia con uomo in pedana (tranne manovre di emergenza), telecamera per l’autista ecc..

Queste predisposizioni non erano obbligatorie nei mezzi più vecchi (comunque marcati CE), per esempio il mezzo di cui parlavo all’inizio era dotato di cintura di trattenuta per l’uomo in pedana, ma non di limitatore di velocità.

 

Ora la mia domanda è la seguente.

La macchina del 2000 marcata CE, conforme alla Direttiva Macchine e alla norma tecnica dell’epoca, deve essere adeguata ai dispositivi di sicurezza previsti oggi (norma UNI EN 1501)?

Oppure essendo marcata CE deve essere usata conformemente al libretto d’uso e manutenzione del costruttore e mantenuta per come è stata realizzata?

Dalla mia esperienza in questo campo, mentre è chiaro che se una macchina è antecedente alla prima Direttiva Macchina (quindi senza marcatura CE) è obbligatorio adeguarla all’allegato V del D.Lgs 81/08 e comunque adeguarla allo stato dell’arte di oggi in termini di dispositivi di sicurezza, non mi era mai capitato il caso di una macchina marcata CE (prima Direttiva Macchine), però non in linea con i requisiti di oggi della norma tecnica di riferimento (UNI EN 1501).

 

In attesa di un suo riscontro, la saluto cordialmente.

 

 

RISPOSTA

 

Prima di ogni altra considerazione andrebbe fatta una verifica sulla data di immissione sul mercato del Veicolo Raccolta Rifiuti (VRR) di cui stai parlando.

Infatti nel 2000 esisteva già la norma armonizzata per VRR EN 1501-1:1998 “Refuse collection vehicles and their associated lifting devices – General requirements and safety requirements – Rear-end loaded refuse collection vehicles” (del marzo 1998) che venne recepita in Italia il 30/01/00 dalla norma UNI EN 1501-1:2000 “Veicoli raccolta rifiuti e relativi dispositivi di sollevamento – Requisiti generali e di sicurezza – Veicoli raccolta rifiuti a caricamento posteriore”.

 

Tale norma prevedeva già la limitazione di velocità a 30 km/h e l’inibizione della retromarcia con pedane occupate.

Infatti il punto 6.6.4.3 della norma (versione italiana) specificava che:

Se qualcuno è presente sulle pedane deve essere automaticamente impedito:

  • viaggiare ad oltre 30 km/h;
  • viaggiare in retromarcia.

Deve essere fornito un comando addizionale che permette di inserire ugualmente la retromarcia in caso di emergenza dovuta al traffico stradale.

Questo comando di emergenza deve essere posizionato in modo tale che l’autista lo possa raggiungere facilmente dalla posizione di guida. Tale comando di emergenza deve inoltre disabilitare sia il meccanismo di compattazione che il dispositivo di sollevamento (alza-voltacontenitori) e richiede di dover essere ripristinato tramite chiave prima che il meccanismo di compattazione o il dispositivo di sollevamento possano essere riavviati. La chiave di ripristino deve essere custodita separatamente da quella del VRR”.

 

Quindi già un VRR del 2000 doveva essere immesso sul mercato con riferimento alla norma armonizzata sopra citata.

Tieni conto però che secondo Direttiva Macchine (sia la 98/37/CE, sia la 2006/42/CE) il costruttore non è obbligato a seguire integralmente le norme armonizzate relative alle macchine che lui vuole immettere sul mercato, non avendo tali norme carattere di cogenza, ma solo di guida.

Il rispetto di tutti i punti di una norma armonizzata, dà infatti automaticamente “presunzione di

conformità” a tutti i requisiti di salute e di sicurezza di cui all’Allegato I della Direttiva Macchine, requisiti questi ultimi che sono invece obbligatori.

 

Infatti l’articolo 3 della Direttiva 98/37/CE impone che:

Le macchine e i componenti di sicurezza ai quali si applica la presente Direttiva devono rispondere ai requisiti essenziali ai fini della sicurezza e della tutela della salute di cui all’allegato I”;

mentre relativamente alle norme armonizzate tale Direttiva specifica, all’articolo 5, comma 2, che:

Se una norma nazionale che traspone una norma armonizzata il cui riferimento sia stato oggetto di una pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee comprende uno o più requisiti essenziali di sicurezza, la macchina o il componente di sicurezza costruito conformemente a detta norma è presunto conforme ai requisiti essenziali di cui trattasi”.

Analogamente l’articolo 5, comma 1, lettera a) della Direttiva 2006/42/CE impone che:

Il fabbricante o il suo mandatario, prima di immettere sul mercato e/o mettere in servizio una macchina si accerta che soddisfi i pertinenti requisiti essenziali di sicurezza e di tutela della salute indicati dall’allegato I”;

mentre l’articolo 7, comma 2 della medesima Direttiva specifica che:

Le macchine costruite in conformità di una norma armonizzata, il cui riferimento è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, sono presunte conformi ai requisiti essenziali di sicurezza e di tutela della salute coperti da tale norma armonizzata”.

 

In sede di procedura di certificazione, che per i VRR (macchina compresa nell’Allegato IV della Direttiva Macchine, in quanto con rischi elevati) prevede il coinvolgimento di un Organismo Notificato che rilasci una Dichiarazione CE di Tipo, il costruttore nel caso non abbia seguito integralmente la norma armonizzata di riferimento deve comunque dimostrare, all’interno della analisi dei rischi contenuta nel Fascicolo Tecnico della macchina, che ha adottato misure di prevenzione e protezione che assicurino requisiti di salute e di sicurezza uguali o maggiori di quelli riportato nella norma armonizzata.

 

In merito al VRR a cui ti riferisci, rimane quindi da capire se esso sia stato immesso sul mercato secondo Direttiva Macchine e/o secondo norma armonizzata EN 1501-1.

In ogni caso, indipendentemente dalla “storia” relativa alla immissione sul mercato di tale attrezzatura, è obbligo per il datore di lavoro, eseguire una specifica valutazione del rischio, relativa al suo utilizzo e a seguito di tale valutazione, definire e applicare adeguate misure di prevenzione e protezione.

Oltre a ciò, se il VRR non è stata immesso sul mercato secondo Direttiva Macchine, il datore di lavoro è obbligato ad adeguarlo almeno ai requisiti di salute e sicurezza di cui all’Allegato V del D.Lgs.81/08.

L’allegato V del D.Lgs,81/08 (come d’altronde l’Allegato I della Direttiva Macchine) è del tutto generico e non entra nel merito delle specifiche soluzioni da adottare, in questo caso, per la sicurezza degli operatori in pedana.

 

In ogni caso, al di là che il VRR sia stato o meno immesso sul mercato secondo Direttiva Macchine e con riferimento alla norma armonizzata EN 1501-1, vale quanto disposto dall’articolo 71, comma 4) lettera a), numero 3) del D.Lgs.81/08, che impone (obbligo sanzionabile per il datore di lavoro):

Il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano assoggettate alle misure di aggiornamento dei requisiti minimi di sicurezza stabilite con specifico provvedimento regolamentare adottato in relazione alle prescrizioni di cui all’articolo 18, comma 1, lettera z)”;

dove l’articolo 18, comma 1, lettera z) del D.Lgs.81/08 impone sempre al datore di lavoro di:

aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione”.

Pur non essendo stato promulgato il “provvedimento regolamentare” citato, vale comunque l’obbligo per il datore di lavoro di adeguare le attrezzature messe a disposizione dei lavoratori all’evolversi della tecnica.

 

L’evoluzione della tecnica ha come riferimento anche le norme armonizzate per le macchine.

Una norma armonizzata risponde infatti alla definizione di “norma tecnica” data dall’articolo 2, comma 1, lettera u) del D.Lgs.81/08:

specifica tecnica, approvata e pubblicata da un’organizzazione internazionale, da un organismo europeo o da un organismo nazionale di normalizzazione, la cui osservanza non sia obbligatoria”.

Tale norma non è cogente, ma fornisce comunque presunzione di adeguatezza al “grado di evoluzione della tecnica”.

Pertanto per il VRR citato, il datore di lavoro dovrà adeguare i dispositivi di sicurezza per gli operatori in pedana, secondo l’attuale norma armonizzata EN 1501-1:2011+A1:2015 oppure mediante soluzioni tecniche e organizzative di pari efficacia.

Ricordo che i requisiti per le pedane stabilite dalla norma citata sono:

  • riconoscimento automatico della presenza di operatore in pedana mediante rilevamento del peso, dello spazio occupato o della posizione della pedana;
  • limitazione della velocità del VRR a 30 km/h con pedane occupate;
  • inibizione della retromarcia del VRR a 30 km/h con pedane occupate;
  • inibizione della movimentazione automatica o semiautomatica del dispositivo di compattazione e di quello per il sollevamento dei contenitori;
  • presenza di sistema di esclusione dei dispositivi di sicurezza di cui sopra in condizioni di emergenza e procedura di reset della durata di 5 minuti dopo la fine dell’esclusione;
  • procedura di inizializzazione del sistema di riconoscimento all’accensione del VRR che senza esito positivo consideri il VRR come se avesse le pedane occupate;
  • presenza in cabina di segnalazione di pedana occupata;
  • presenza di telecamera e di video in cabina per la visualizzazione delle pedane;
  • presenza, in prossimità delle pedane, di pulsante “di chiamata” che attivi un segnale acustico in cabina;
  • realizzazione delle pedane e delle maniglie di presa per gli operatori secondo i requisiti funzionali e geometrici riportati nella norma.

 

L’adeguamento del VRR ai requisiti di cui sopra (e di tutti gli altri contenuti nella citata norma armonizzata), sia per veicoli marcati CE, che per veicoli non marcati, non comporta obbligo di nuova certificazione, ai sensi dell’articolo 71, comma 5 del D.Lgs.81/08 che specifica che:

Le modifiche apportate alle macchine quali definite all’articolo 1, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1996, n. 459 [attualmente articolo 2, comma 2, lettera a) del Decreto Legislativo 27 gennaio 2010, n. 17], per migliorarne le condizioni di sicurezza in rapporto alle previsioni del comma 1, ovvero del comma 4, lettera a), numero 3), non configurano immissione sul mercato ai sensi dell’articolo 1, comma 3, secondo periodo, sempre che non comportino modifiche delle modalità di utilizzo e delle prestazioni previste dal costruttore”.

 

In conclusione, qualunque sia stata la modalità di immissione sul mercato del VRR citato (ante Direttiva Macchine o in Direttiva Macchine), esso deve essere adeguato al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione, secondo quanto contenuto dalla attuale norma EN 1501-1, oppure secondo altre misure di prevenzione e protezione equivalenti.

 

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CGIL CATANIA: CON LE MODIFICHE DEL JOBS ACT AUMENTANO I RISCHI PER LA SICUREZZA

 

Da: Rassegna.it

http://www.rassegna.it

02 marzo 2016

 

In un convegno affrontate tutte le negatività del provvedimento, dallo stop all’obbligo di tenuta del Registro infortuni alla non applicazione delle norme ai lavoratori con i voucher.

Presentato anche il Coordinamento provinciale di RLS e RLST della CGIL

 

Le morti sul lavoro cancellano o compromettono ogni anno la vita di centinaia di lavoratori. Le norme italiane puntano sulla prevenzione, ma la CGIL non ha dubbi: le recenti modifiche del Jobs Act introducono parecchie zone d’ombra. Il sindacato, infatti, disapprova lo stop all’obbligo di tenuta del Registro infortuni, la modifica dell’impianto sanzionatorio, la riduzione dei componenti sindacali in Commissione consultiva, la non applicazione delle tutele ai lavoratori con i voucher, e altri “alleggerimenti” nella fase di formazione che appaiono temibili passi indietro.

 

Il seminario di studio “Dal Testo Unico al Jobs Act, come cambia la legislazione su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”, tenutosi mercoledì 9 febbraio nella Sala Russo della Camera del lavoro di Catania, ha evidenziato i punti chiave delle modifiche.

Numerosi gli intervenuti: il segretario confederale CGIL Catania Claudio Longo (che ha coordinato i lavori), il segretario generale CGIL Catania Giacomo Rota, Massimo Malerba (Dipartimento Salute e sicurezza CGIL Catania), Domenico Amich (direttore Ispettorato provinciale del lavoro), gli ingegneri Enzo Maci e Sebastiano Trapani (anche presidente AIAS), Vincenzo Cubito (direttore Inca CGIL), Vito Leocata (medico legale INCA), l’ingegnere Luigi Di Mauro (Coca Cola), Daniele Maugeri (Report RLST) e il responsabile nazionale del Dipartimento Salute e sicurezza della CGIL Sebastiano Calleri.

 

Di “trend negativo” e “rialzo” delle morti sul lavoro in Italia ha parlato il direttore dell’Ispettorato provinciale del lavoro Domenico Amich. Sono state ben 678 nel 2015, escluse quelle avvenute sulla strada. E se nel febbraio 2015 erano 61 (dati nazionali), nel febbraio 2016 ne sono già state registrate 83.

“Il lavoratore è sempre più ricattato” – ha sottolineato – “Ha sempre meno spazio per rifiutare un lavoro, soprattutto se è avanti negli anni. Le percentuali sono impietose: abbiamo il 37 per cento dei morti in agricoltura, il 23 in edilizia, l’11 nel settore industrie, il 9 nei trasporti e un 20 per cento indifferenziato che va esaminato caso per caso”.

 

L’ingegnere Enzo Maci ha rimarcato che “i punti deboli della sicurezza sono messi in evidenza dagli infortuni che ogni anno vengono riassunti dai dati INAIL”. La cultura della sicurezza “andrebbe iniziata dalla scuola elementare, se non dal nido, per evitare che appunto permangano lacune legislative. Percorsi formativi semplici destinati ai lavoratori sono insufficienti per un’adeguata formazione”.

 

Per la CGIL, il rischio che infortuni e malattie professionali siano destinati ad aumentare è concreto. Ma è stato il responsabile nazionale del Dipartimento Salute e sicurezza della CGIL Sebastiano Calleri a evidenziare almeno quattro punti del Jobs Act che il sindacato giudica “pericolosi”.

“Partirei dal demansionamento” – ha detto Calleri – “Durante le relative procedure, il lavoratore può essere adibito a una nuova produzione o all’uso di una macchina per cui non è stata fatta formazione specifica. Il classico esempio è quello dell’impiegato che viene messo in linea di produzione, operando con mezzi di cui non conosce l’uso”.

 

C’è poi la questione voucher. “Per alcuni dei lavoratori impiegati attraverso questa formula” – ha spiegato – “è prevista la non applicazione delle tutele sullo stato di sicurezza della legislazione conseguente”.

 

Sul fronte della video-sorveglianza, il responsabile CGIL nazionale ha evidenziato come “oggi sia possibile effettuarla senza alcun controllo nei confronti dei lavoratori con gli strumenti, dal tablet al telefonino, messi a disposizione direttamente dall’azienda”.

 

Riguardo l’ultimo aspetto, quello dell’abolizione del Registro infortuni, secondo Calleri “sarà sempre più difficile ricostruire gli incidenti all’interno delle aziende e le storie sanitarie dei lavoratori per riconoscere loro un infortunio o una malattia professionale, anche in relazione agli indennizzi INAIL. Anche questa è una norma da cambiare”.

 

Massimo Malerba, del Dipartimento Salute e sicurezza della CGIL Catania, ha aggiunto che “il Registro infortuni era già stato abolito nel 2008, ma in previsione di introdurre un sistema informatizzato, il SINP, mai avviato”.

“Un’altra criticità” – ha continuato – “è rappresentata dal fatto che, a causa del Jobs Act, i datori di lavoro nelle aziende superiori ai cinque dipendenti possono rivestire il ruolo di addetti alla prevenzione nel sistema di antincendio ed evacuazione. Se ciò andava bene nelle piccole aziende familiari, in quelle medie diventa più complesso”.

 

Infine, le sanzioni: “Sono state alleggerite quelle multiple e quelle relative al lavoro irregolare, salvo che per stranieri e i minori”.

 

Ma il seminario è servito anche a lanciare il Coordinamento provinciale degli RLS e RLST della CGIL.

“Creare il Coordinamento consentirà continuità e costanza nell’azione” – ha concluso il segretario confederale CGIL Catania Claudio Longo – “La situazione oggi ci impone una legge più attenta, meglio ancora rigida. Voglio però lanciare una provocazione: anche se ci fosse la migliore legge del mondo, se non partiamo dal rispetto di una vera cultura sulla sicurezza, sulla prevenzione e sulla salute, ci abituiamo all’idea che tutto quello che diventa legge deve di fatto diventare regola. Se questo non accadrà, vanificheremo qualunque legge”.

 

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AMBIENTI CONFINATI: QUALI SONO I RISCHI?

 

DaArticolo 19 (Città Metropolitana)

http://www.cittametropolitana.bo.it

03 marzo 2016

di Maria Capozzi

 

AMBIENTI CONFINATI: COSA SONO E QUALI LE REGOLE?

 

Qualunque attività comporta rischi propri legati alla natura delle operazioni da svolgere e delle sostanze impiegate. In alcuni casi, però, le stesse attività svolte in condizioni ambientali diverse comportano rischi fondamentalmente diversi. Così è anche le attività degli impiantisti, che possono trovarsi a operare in ambienti difficili, sia per dimensioni e collocazione (ambienti ristretti, difficili da raggiungere, entrata/uscita difficoltose) sia per la possibile presenza di atmosfere pericolose (presenza di gas nocivi, carenza di ossigeno).

 

A semplice titolo esemplificativo, fanno parte degli ambienti confinati o sospetti di inquinamento: vasche, silos, camini, pozzi, cunicoli, canalizzazioni, fogne, serbatoi, condutture, stive, intercapedini, cisterne, autobotti, camere di combustioni, reattori dell’industria chimica.

Diverse sono le tipologie di rischio che possono presentarsi in un ambiente confinato:

  • per mancanza di ossigeno (asfissia) o per eccesso di ossigeno;
  • per inalazione o per contatto con sostanze pericolose, gas, vapori, fumi (intossicazione);
  • per presenza di gas/vapori infiammabili (esplosione o incendio);
  • per contatto con parti a temperatura troppo alta o troppo bassa (ustioni).

 

Sono poi presenti rischi diversi, causati da caduta dall’alto, urti, contatti con parti taglienti, schiacciamenti, scivolamenti, seppellimenti, annegamenti, esposizione ad agenti biologici, contatti con tensione elettrica, intrappolamento, stati emotivi legati ad ambienti chiusi e stretti, ecc.

 

In tali ambienti di lavoro, anche un semplice malore un infortunio di lieve entità può avere complicazioni aggiuntive proprio per la difficoltà a prestare l’adeguato soccorso all’infortunato.

Chi è chiamato a operare in tali ambienti dovrà pertanto possedere maggiori capacità professionali in quanto sarà esposto, sia ai rischi specifici connaturati alla mansione, sia a quelli aggiuntivi derivanti dall’operare in un ambiente confinato.

 

E’ proprio quanto richiede il D.P.R. 177/11, norma di recente emanazione, sulla qualificazione delle imprese e lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

 

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

 

Non è facile orientarsi nell’attuale assetto normativo quando si parla di ambienti confinati.

Infatti non esiste un’unica norma che elenchi quali siano i luoghi di lavoro confinati, né che comprenda tutti gli obblighi di chi si trova a operare in tali realtà. Piuttosto occorre fare una valutazione delle caratteristiche dell’ambiente, delle sue specifiche geometriche e di aereazione, dell’uso che ne viene fatto e di quelli fatti in precedenza, delle eventuali sostanze che contiene.

In generale possiamo dire che le norme che regolamentano la materia appartengono a due tipologie diverse: norme di legge (D.P.R. 177/11; D.Lgs. 81/08, articolo 66, articolo 121 e Allegato IV, Punto 3) e norme tecniche (standard di riferimento, linee guida e procedure).

 

In ogni caso, c’è una comune linea di interpretazione che concorda nel ritenere che uno spazio confinato:

  • è un ambiente con aperture di ingresso uscita limitate;
  • non è un ambiente di lavoro usuale;
  • potrebbe contenere un’atmosfera pericolosa;
  • ha una sfavorevole ventilazione naturale;
  • potrebbe contenere sostanze inquinanti;
  • presenta rischi di sprofondamento/seppellimento;
  • presenta una configurazione interna che potrebbe causare l’intrappolamento del lavoratore;
  • potrebbe comportare, per l’attività svolta, grave rischio per la salute.

 

Prima di consentire l’accesso di lavoratori in un ambiente confinato è necessario valutarne i rischi al fine di determinare le misure di prevenzione e protezione che garantiscano la salute e la sicurezza dei lavoratori.

In linea generale la migliore misura di prevenzione è quella di cercare soluzioni alternative effettuando, se possibile, le operazioni di manutenzione, bonifica, ispezione, evitando l’ingresso dei lavoratori nell’ambiente confinato, anche con l’aiuto della tecnologia disponibile sul mercato.

Ad esempio ricorrendo all’ausilio di telecamere, attrezzature robotizzate, sostituzione del componente, ecc..

 

Qualora ciò non sia possibile è necessario acquisire tutte le informazioni occorrenti sulle caratteristiche dell’ambiente confinato (ad esempio sostanze presenti, utilizzi precedenti, dimensioni e configurazione dei luoghi, collegamenti con altri spazi) e delle attività da effettuare tenendo presente che questi spazi possono essere opportunamente progettati o modificati.

Poiché però può capitare che non ci siano alternative e che si debba comunque operare all’interno di spazi confinati occorre ricordare che, poiché in tali contesti i rischi sono particolari, non tutte le imprese o lavoratori autonomi possono eseguirla, ma devono essere in possesso di particolari requisiti tali da risultare “qualificati”.

La qualificazione delle imprese è una previsione già inserita nell’articolo 6, comma 8, lettera g) e nell’articolo 27 del D.Lgs. 81/08 (Testo Unico Sicurezza), attraverso l’emanazione di appositi Regolamenti. Lo scopo è quello di fare una selezione delle imprese più “virtuose” e pertanto in grado di operare non solo con competenza e professionalità, ma soprattutto in sicurezza.

 

Infatti il D.P.R. 177/11, in vigore dal 23 Novembre 2011, “Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati” dà tutta una serie di indicazioni e parametri che le aziende e i lavoratori autonomi debbono possedere per poter operare in questo settore.

 

QUANDO SI APPLICA LA NORMA?

 

Il Decreto si applica ogni qual volta ci si trova ad operare in ambienti “sospetti di inquinamento di cui agli articoli 66 e 121 del Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81, e negli ambienti confinati di cui all’allegato IV, punto 3, del medesimo Decreto Legislativo”, vale a dire in tutti quei casi (ad esempio silos, cunicoli, pozzi, serbatoi, stive, tubazioni, cabine, pozzetti, cisterne, vasche, ecc.) che, per le caratteristiche sopra indicate, ricadono nella categoria di spazio confinato o sospetto di inquinamento.

 

Proprio perché non esiste un elenco esaustivo di cosa sia e cosa non sia ambiente confinato, anche perché può diventarlo nel corso delle lavorazioni, laddove tale situazione non è evidente, è importante che prima di svolgere il lavoro, venga effettuata una attenta valutazione dei rischi mirata a stabilire se siamo o meno in presenza di attività in ambiente confinato, basandosi su alcuni parametri quali l’analisi delle caratteristiche dei luoghi in cui viene svolta l’attività e dalle modalità di esecuzione.

 

A CHI SI APPLICA LA NORMA?

 

La norma si applica sia a chiunque si trovi ad operare in ambienti confinati o sospetti di inquinamento sia direttamente con proprio personale sia a chi esegue tali lavori in appalto (e relativi subappalti), compresi i lavoratori autonomi.

Nel caso delle imprese che esternalizzano tali lavorazioni restano comunque in capo al committente alcuni specifici obblighi.

 

Un utile strumento per meglio capire come operare negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati è rappresentato dal “Manuale illustrato per lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati” dell’INAIL approvato dalla Commissione consultiva il 18 aprile 2012.

Tale documento è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/internet/documents/document/ucm_portstg_114857.pdf

 

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IL LUOGO DI LAVORO E LA GARANZIA DELLE SUE CONDIZIONI DI SICUREZZA

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

29 febbraio 2016

di Gerardo Porreca

 

Si intendono per “luoghi di lavoro” i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro ubicati all’interno di un’azienda/unità produttiva nonché ogni altro luogo di pertinenza delle stesse accessibili al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro.

 

E’ importante questa sentenza della Corte di Cassazione in quanto fornisce una interpretazione su quali siano da intendere i “luoghi di lavoro” così come definiti dall’articolo 62 del D.Lgs. 81/08 ai fini dell’applicazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro nello stesso contenute.

Si intendono per “luoghi di lavoro”, ha sostenuto infatti la suprema Corte, i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro ubicati all’interno di un’azienda o di un’unità produttiva della stessa nonché ogni altro luogo di loro pertinenza accessibile al lavoratore nell’ambito della propria attività lavorativa.

La Corte di Cassazione ha inoltre sottolineato che ai fini della individuazione dei soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio quale luogo di lavoro non può prescindere dalla identificazione del plesso organizzativo al quale lo spazio in questione accede così come si ricava dalla definizione del luogo di lavoro che ha dato il legislatore, laddove ha previsto un collegamento di ordine spaziale indicando “l’interno dell’azienda” o almeno pertinenziale tra l’azienda stessa oppure una sua unità produttiva e il luogo di lavoro.

 

L’Amministratore Delegato di una società proprietaria di una Galleria commerciale ha ricorso, a mezzo dei difensori, avverso una sentenza della Corte di Appello con la quale la stessa, confermando quella pronunciata dal Tribunale, lo ha condannato alla pena ritenuta equa, giudicandolo responsabile dell’infortunio occorso a una lavoratrice dipendente di un negozio di parrucchiera situato nella Galleria stessa e delle conseguenti lesioni personali dalla medesima patite. La lavoratrice, secondo una ricostruzione incontroversa dell’accaduto, nel transitare nell’ingresso dell’edificio che ospitava la Galleria, scivolava sul pavimento parzialmente coperto da tappeti mobili e bagnato per l’acqua caduta dall’ombrello chiuso di una cliente che l’aveva preceduta.

Ad avviso della Corte di Appello l’infortunio si era determinato a causa del mancato apprestamento di una adeguata copertura del pavimento dell’ingresso della Galleria e che, essendo questo da reputarsi “ambiente di lavoro”, competeva quindi all’imputato, in qualità di proprietaria dell’edificio, che non aveva mai delegato ad altri le funzioni in materia di antinfortunistica, di provvedere a porre in sicurezza il pavimento dell’ingresso.

 

Con il ricorso in Cassazione l’imputato ha addotto in particolare un vizio motivazionale e una violazione di legge in relazione alla ritenuta aggravante dell’aver commesso il fatto con violazione di norme per la prevenzione degli infortuni non essendo esso il datore di lavoro dell’infortunata che era invece dipendente dell’esercente del negozio di parrucchiere.

L’imputato ha messo in evidenza, altresì, che non sussistendo alcun rapporto di appalto tra la società proprietaria della Galleria e l’esercente dell’attività di parrucchiere, che aveva preso in locazione alcuni locali all’interno delle Galleria stessa, non andava applicato neanche l’articolo 26 del D.Lgs. 81/08 e non incombevano quindi su di esso i doveri in materia di coordinamento che la norma pone in capo al datore di lavoro committente.

L’imputato ha sostenuto ancora che, non sussistendo conseguentemente l’aggravante dell’aver commesso il fatto con violazione di norme per la prevenzione degli infortuni, il reato era procedibile a querela, nella fattispecie non proposta, aggiungendo che il luogo dell’infortunio non poteva essere definito “ambiente di lavoro”, ai sensi e per gli effetti degli articoli 63 e 64 del D.Lgs. 81/08.

 

E’ del tutto incontroverso, ha sostenuto la suprema Corte di Cassazione, che l’imputato era Amministratore Delegato della società proprietaria dei locali che costituivano il Centro commerciale e che gli stessi erano concessi in locazione alle diverse imprese che avevano deciso di operare nello stesso così come incontroverso era che l’infortunata non fosse alle dipendenze della società che amministrava la Galleria.

 

Con riferimento alla figura del datore di lavoro, ha precisato la Corte di Cassazione, già la nozione normativa di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 81/08, incardinandosi sulla titolarità di poteri decisionali e di spesa e sulla connessa responsabilità dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha evidenziata la necessità di limitare lo sguardo ricognitivo al perimetro di una determinata organizzazione imprenditoriale della quale va ricostruita la catena gestionale.

Detto altrimenti, ha precisato la suprema Corte, nell’accertamento della esistenza di una concreta posizione di garanzia, premessa dell’attribuzione di uno specifico evento concreto, non interessa un qualsiasi soggetto datore di lavoro, ma colui che ne reca le attribuzioni in riferimento alla determinata organizzazione imprenditoriale nel cui ambito presta la propria attività il lavoratore infortunatosi.

 

“A mente dell’articolo 62 del D.Lgs. 81/08” – ha quindi sostenuto la Suprema Corte – “si intendono per luoghi di lavoro i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro”.

La Corte di Cassazione ha inoltre ritenuto opportuno rimarcare che “ai fini della individuazione dei soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio quale luogo di lavoro non può prescindere dalla identificazione del plesso organizzativo al quale lo spazio in questione accede” e ciò si ricava proprio dalla definizione che il legislatore ha voluto dare di un luogo di lavoro, laddove ha previsto un collegamento di ordine spaziale (“all’interno dell’azienda”) o almeno pertinenziale tra l’azienda o l’unità produttiva e il luogo di lavoro stesso, e lo implica la logica stessa della normativa prevenzionistica che attribuisce obblighi di sicurezza a colui che é titolare di poteri organizzativi e decisionali che trovano nei luoghi di lavoro l’ambito spaziale e funzionale di estrinsecazione.

 

La Suprema Corte ha quindi puntualizzato che “proprio ogni tipologia di spazio può assumere la qualità di luogo di lavoro a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro o esso sia accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro” e che in particolare “può trattarsi anche di un luogo nel quale i lavoratori si trovino esclusivamente a dover transitare, se tuttavia il transito é necessario per provvedere alle incombenze loro affidate”.

La Corte di Cassazione ha ricordato che già in passato la stessa ha avuto modo di esprimersi in tal senso in una precedente Sentenza (Sentenza n. 28780 del 19/05/11) allorquando, in occasione di infortunio verificatosi su una strada pubblica e aperta al pubblico transito, esterna a un cantiere, ha formulato il principio per il quale nella nozione di “luogo di lavoro”, rilevante ai fini della sussistenza dell’obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra non soltanto il cantiere, ma anche ogni altro luogo in cui i lavoratori siano necessariamente costretti a recarsi per provvedere a incombenze inerenti all’attività che si svolge nel cantiere stesso.

 

Per contro, e qui la suprema Corte ha individuata una grave lacuna motivazionale nella Sentenza impugnata “Non può parlarsi di luogo di lavoro (da preferirsi in questo caso alla locuzione utilizzata dalla Corte di Appello di ambiente di lavoro) solo sul presupposto che un qualsiasi soggetto, che é anche prestatore d’opera in favore di taluno, vi si trovi a transitare. Va ribadita la stretta correlazione che esiste tra la nozione di luogo di lavoro e la specifica organizzazione imprenditoriale alla quale questo accede in funzione servente; correlazione che deriva dalla necessità che si tratti di ambito spazio-funzionale sul quale possano e debbano estendersi i poteri decisionali del vertice della compagine”.

Può quindi, ha sostenuto la Corte di Cassazione, essere formulato il seguente principio di diritto: “In materia di responsabilità per violazioni delle norme antinfortunistiche, il datore di lavoro obbligato al rispetto delle prescrizioni dettate dal Titolo II del D.lgs. 81/08 per la sicurezza dei luoghi di lavoro va identificato in colui che riveste tale ruolo nell’organizzazione imprenditoriale alla quale accede il luogo di lavoro medesimo”.

 

Alla luce di tale puntualizzazione risulta chiaro, secondo la Corte di Cassazione, che l’attribuzione al ricorrente di una posizione di garanzia tra quelle definite dalla normativa prevenzionistica, e segnatamente quella di datore di lavoro, avrebbe richiesto la preliminare qualificazione dell’area di ingresso del Centro commerciale come luogo di lavoro della società proprietaria. In caso contrario un eventuale obbligo di assicurarsi della non pericolosità dell’area si sarebbero potuti far discendere unicamente dalla proprietà degli spazi con esclusione, quindi, della violazione di obblighi datoriali e procedibilità a querela del reato.

La Suprema Corte ha quindi voluta fare una puntualizzazione in merito alla possibilità che anche una persona estranea all’organigramma dell’impresa, come era la lavoratrice infortunata rispetto alla società proprietaria della Galleria, potesse beneficiare della tutela apprestata dalla normativa prevenzionistica non essendo la qualità di persona estranea all’ambito imprenditoriale di per sé incompatibile con l’esistenza di un dovere di sicurezza da parte del datore di lavoro.

 

Per le suindicate motivazioni, quindi, la Corte di Cassazione ha annullata la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello perché accertasse se l’ingresso dell’edificio ove era avvenuto il sinistro in danno della lavoratrice fosse stato, al tempo, luogo destinato ad ospitare posti di lavoro ovvero luogo accessibile nell’ambito del loro lavoro ai lavoratori dipendenti della società proprietaria della Galleria commerciale e, in caso positivo, verificare se sussistessero le condizioni perché la tutela che l’imputato, nella sua qualità, avrebbe dovuto apprestare a vantaggio dei propri dipendenti, dovesse ritenersi estesa anche alla lavoratrice infortunata.

 

La Sentenza n. 40721 del 9 ottobre 2015 della Corte di Cassazione Penale è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14171:2015-10-12-15-08-40&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

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PREVENZIONE DI MOLESTIE E VIOLENZE: COSA CAMBIA NEI LUOGHI DI LAVORO?

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

02 marzo 2016

di Tiziano Menduto

 

L’Accordo firmato a gennaio parla di combattere violenza e molestie nei luoghi di lavoro. Quali conseguenze avrà? Che misure preventive è necessario prendere per garantire salute e sicurezza ai lavoratori? Le indicazioni di Giulia Barbucci della CGIL.

 

Malgrado i ritardi accumulati dalle parti sociali del nostro paese (quasi nove anni!) e il rischio che anche gli ottimi propositi, se non supportati norme ad hoc, siano solo buone intenzioni sulla carta, è necessario sottolineare l’importanza della firma del 25 gennaio 2016 che le principali parti sociali italiane hanno apposto all’Accordo quadro sulle molestie e sulla violenza sul luogo di lavoro firmato il 26 aprile 2007 dalle parti sociali europee.

 

Un’importanza relativa non tanto e non solo a un Accordo non facile e non scontato (tanto da richiedere nove anni di gestazione…) tra parti sociali datoriali e sindacali che non sempre, in materia di sicurezza, riescono utilmente ad unire le forze per migliorare la prevenzione in Italia… L’importanza di questo Accordo “volontario” nasce principalmente dalla rilevanza che in questi anni di crisi congiunturale, di aumento delle tensioni nelle aziende, di instabilità del mondo del lavoro, ha assunto il tema delle violenze e delle molestie nei luoghi di lavoro.

 

E del fatto che in questa acuirsi delle tensioni servisse un argine e, prima ancora, una presa di coscienza netta e consapevole, se ne sono accorte le parti sociali che finalmente hanno “recepito” l’Accordo europeo.

 

Quello che rimane da chiedersi ora, dopo aver cercato di conoscere i motivi di questi “ingiustificabili” ritardi, è che cosa accadrà…

Come si è arrivati all’Accordo? Quali sono i punti qualificanti? Che conseguenze avrà l’Accordo recepito? Come portare la “tolleranza zero” verso comportamenti come molestie e/o violenza nelle aziende?

 

Per avere qualche risposta abbiamo intervistato una delle persone che hanno lavorato in questi anni al recepimento, tra le parti sociali, dell’Accordo europeo su molestie e violenza: Giulia Barbucci che lavora nell’Area delle politiche europee e internazionali della CGIL.

 

PuntoSicuro

Cominciamo a raccontare qualcosa dell’Accordo europeo del 2007 recepito dalle parti sociali…

Giulia Barbucci

Intanto l’Accordo firmato dalle parti sociali europee il 26 aprile 2007 è il terzo Accordo autonomo negoziato dalle parti sociali europee a livello intersettoriale, a seguito di una consultazione della Commissione europea sul tema della violenza sui luoghi di lavoro e dei suoi effetti sulla salute e sicurezza sul lavoro. Ed essendo un Accordo autonomo, e non una Direttiva, prevede l’applicazione, volontaria, nei vari Paesi, attraverso accordi tra le parti sociali.

In particolare l’Accordo mira a impedire e a gestire i problemi di prepotenza, molestie sessuali e violenza fisica sui luoghi di lavoro. Esso condanna tutte le forme di molestia e violenza e conferma il dovere del datore di lavoro di tutelare i lavoratori contro tali rischi. Le imprese sono tenute ad adottare una politica di tolleranza zero contro tali comportamenti e a fissare procedure per gestire i casi di molestie e violenza, che possono comprendere una fase informale con la partecipazione di una persona terza che goda della fiducia della direzione e dei lavoratori. I ricorsi andranno esaminati e risolti rapidamente. Occorre rispettare i principi di dignità, riservatezza, imparzialità ed equo trattamento. Contro i colpevoli saranno adottate misure adeguate, dall’azione disciplinare fino al licenziamento, mentre alle vittime sarà fornita assistenza nel processo di reinserimento.

Chiaramente l’Accordo andava poi applicato dai membri nazionali delle parti firmatarie, conformemente alle procedure e alle prassi delle parti sociali negli Stati membri, come disposto dall’articolo 139 del Trattato CE e andava attuato entro 3 anni dalla firma.

 

P.S.

Qual è l’aspetto più significativo dell’Accordo europeo?

G.B.

Ad esempio il fatto che l’Accordo opta per un approccio attivo piuttosto che giuridico al fine di risolvere il problema delle molestie e della violenza a livello dell’impresa.

 

P.S.

Una domanda a questo punto viene spontanea: perché in Italia l’Accordo è stato recepito con quasi nove anni di ritardo?

G.B.

Non si può nascondere che il ritardo delle parti sociali italiane è dipeso, in parte, da un atteggiamento di chiusura da parte delle organizzazioni datoriali. Già negli anni scorsi si era tentato di procedere alla traduzione del testo dell’Accordo in italiano (fa fede la versione inglese), ma anche questo tentativo era fallito.

Poi a seguito di incontri delle parti sociali europee, a Berlino e a Roma, le organizzazioni sindacali italiane hanno tentato di rilanciare la questione, tenuto conto anche del fatto che tutti i Paesi più importanti dell’UE avevano attuato già l’Accordo e per evitare un eventuale intervento della Commissione europea. E finalmente si è arrivati all’attuazione dell’Accordo anche in Italia…

 

P.S.

Diamo ancora qualche informazione sull’Accordo europeo: a chi si applica? a che tipo di molestie e violenze si fa riferimento? quali sono le parti più rilevanti?

G.B.

Come già detto con l’Accordo le parti sociali europee condannano fermamente le molestie e la violenza in tutte le loro forme che possono presentarsi in tutti i luoghi di lavoro e colpire qualsiasi lavoratore tenendo conto anche che del fatto che alcuni gruppi e settori possono essere più a rischio di violenza. E l’Accordo si applica a tutti i luoghi di lavoro e a tutti i lavoratori indipendentemente dalla dimensione dell’azienda, della sua attività e tipologia contrattuale. L’Accordo riconosce anche che l’UE e le leggi nazionali definiscono i doveri dei datori di lavoro nel proteggere i lavoratori contro le molestie e la violenza nei luoghi di lavoro.

L’Accordo afferma, inoltre, che le molestie e la violenza sono causate da comportamenti inaccettabili da parte di uno o più individui e che possono avere forme differenti: fisiche, psicologiche e/o sessuali, costituire un singolo episodio o avere un carattere più sistematico, avere luogo tra colleghi, tra superiori e subordinati o da parte di terzi, a partire da casi di minore entità, fino a casi più gravi che richiedono l’intervento delle autorità pubbliche. E si fornisce una metodologia agli imprenditori, ai lavoratori e ai loro rappresentanti per prevenire, identificare e gestire problemi di molestie e violenza sui luoghi di lavoro.

Direi che gli elementi centrali dell’Accordo sono:

  • il riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro, in consultazione con i lavoratori e/o il sindacato di determinare, rivedere e monitorare le procedure appropriate per prevenire e affrontare il fenomeno;
  • il richiedere all’impresa di avere una chiara posizione che sottolinei che le molestie e la violenza nei luoghi di lavoro non sono tollerate e di specificare le procedure da seguire in caso di problemi, attraverso misure appropriate contro gli autori della violenza, fornendo supporto alle vittime;
  • il riconoscimento che procedure aziendali preesistenti possano essere idonee nel trattare molestie e violenza nei luoghi di lavoro.

Senza dimenticare che nell’Accordo si affrontano anche casi di violenza da parte di terzi.

 

P.S.

Veniamo ora al recepimento in Italia dell’Accordo, firmato il 25 gennaio 2016 da CGIL, CISL, UIL e Confindustria. Una domanda che sorge spontanea riguarda le conseguenze di queste firme. Cosa cambia nella realtà? Qual è il valore aggiunto di questo Accordo rispetto al passato?

G.B.

Sicuramente il valore aggiunto dell’Accordo sta nell’aver avviato e rilanciato il dialogo tra le parti sociali su come combattere il fenomeno della violenza e delle molestie nei luoghi di lavoro. Implementando ora l’Accordo a livello nazionale si cerca di elaborare misure concrete, strumenti e procedure per prevenire, identificare e gestire tali fenomeni.

Bisogna poi sottolineare che l’Accordo copre le molestie e la violenza in tutte le loro forme. E questo malgrado la posizione iniziale dei datori di lavoro nel corso dei negoziati fosse quella che l’Accordo dovesse trattare esclusivamente delle molestie. E si sottolinea che le molestie e la violenza possono avere sia serie conseguenze sociali che ripercussioni economiche.

E in pratica con l’Accordo, una volta riconosciuta l’applicabilità della legislazione esistente a livello europeo e nazionale, si indica che se si chiarisce un legame della violenza, della molestia con il luogo di lavoro, le parti sociali se ne devono occupare anche se l’autore è al di fuori dell’azienda.

Si riconosce poi che il datore di lavoro ha la responsabilità di agire nei casi che ricadono sotto la propria responsabilità nel proteggere i suoi lavoratori. E si segnala che le PMI e anche particolari gruppi o settori possono essere maggiormente a rischio, anche con riferimento alla violenza da parte di terzi.

 

P.S.

L’Accordo europeo indica poi che una maggiore consapevolezza e un’adeguata formazione posso ridurre l’eventualità di molestie e violenza nei luoghi di lavoro… Chi deve essere formato? Si prevede l’adozione di procedure particolari?

G.B.

Le misure previste, quali quelle di aumentare la consapevolezza del fenomeno e la previsione di formazione specifica, si applicano a tutti, lavoratori e manager.

Inoltre le imprese hanno l’obbligo di non tollerare molestie e violenza, quindi è necessario definire specifiche procedure, compresa la nomina di una persona di fiducia, decisa congiuntamente tra impresa e lavoratori, che può essere un collega di lavoro o un esperto esterno quale ad esempio uno psicologo del lavoro.

Segue poi una lista non esaustiva di azioni che possono essere parte della procedura stabilita a livello aziendale. Si prevedono anche azioni disciplinari nei confronti degli autori della violenza e la presa in carico delle vittime sia attraverso il totale reintegro nel posto di lavoro, comprese misure per prevenire che la vittima sia soggetta ad ulteriori relazioni intollerabili con l’autore delle violenze. Il datore di lavoro dovrà inoltre fornire sostegno e aiuto legale alla vittima.

 

P.S.

Nel documento di attuazione dell’Accordo si parla anche di incontro tra le parti per individuare alcune strutture…

G.B.

Sì, nell’Accordo si affida alle parti sociali sul territorio il compito di individuare le strutture più idonee nell’assicurare una adeguata assistenza a coloro che siano stati vittime di molestie o violenza nei luoghi di lavoro, ferma restando la facoltà delle singole imprese di adottare ulteriori specifiche soluzioni.

 

P.S.

Si sta già lavorando per identificare queste strutture? E non è prevista una struttura a livello nazionale?

G.B.

Si è valutato che le parti sociali a livello locale, per la loro maggiore conoscenza del territorio, siano le più adatte a proporre strutture valide alla gestione e risoluzione dei problemi…

 

P.S.

Sempre riguardo agli aspetti pratici, concludiamo ricordando che nel recepimento degli accordi è inserita una dichiarazione per le aziende sull’inaccettabilità di ogni atto o comportamento che si configuri come molestie o violenza. Qual è il valore e l’importanza di questa dichiarazione?

G.B.

Al di là del recepimento dei contenuti dell’Accordo europeo, le parti hanno valutato che potesse essere importante che le singole aziende adottassero una dichiarazione di impegno e sensibilizzazione di questi fenomeni, per garantire che questi non sono tollerati in alcun modo e che l’azienda debba essere un luogo in cui vi sia sicurezza per tutti.

 

Il documento “Accordo quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro tra Confindustria, CGIL, CISL E UIL”, recepimento dell’Accordo delle parti sociali europee del 26 aprile 2007 è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/160125_Accordo_molestie_violenza_luoghi_lavoro.pdf

 

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L’ESPOSIZIONE FEMMINILE A STRESS, VIOLENZE E STALKING

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

08 marzo 2016

 

In occasione della festa dell’8 marzo un articolo sulla sicurezza in ottica di genere: l’esposizione femminile ai rischi psico-sociali, ai fattori di stress, al mobbing, alle intimidazioni, alle molestie sessuali e alle violenze sul lavoro.

 

Diverse pubblicazioni in questi anni hanno segnalato come le patologie psichiche siano molto in crescita tra le donne, con la depressione che è la principale causa di disabilità tra i 15 e i 44 anni e una percentuale del 20% di donne che usa ansiolitici (il 15% antidepressivi) contro il 9% degli uomini. E in alcune attività a prevalente occupazione femminile, come l’attività infermieristica, la probabilità di essere vittime di atti di violenze sul lavoro sono ben tre volte superiori rispetto alle altre categorie di lavoratori.

 

Ne parliamo in occasione della giornata internazionale della donna, una giornata che non deve servire solo a ricordare le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne acquisite nel tempo (spesso molto tardi: in Italia il suffragio universale, diversamente da molti altri paesi europei, arriverà solo nel 1945). Ma deve servire anche a mettere in luce le discriminazioni e le violenze sulle donne, anche in ambito lavorativo, che sono ancora presenti in molte parti del mondo, compreso il nostro paese.

 

A dimostrazione di ciò è sufficiente verificare come la ricerca in materia di salute e sicurezza del lavoro orientata al genere sia un filone di indagine recente. Un ambito di ricerca che ha il compito di considerare i rischi lavorativi non più da un punto di vista “neutro”: bisogna tener conto delle differenze di genere e offrire strategie di prevenzione più adeguate ed efficaci.

 

Per affrontare oggi il tema dell’esposizione femminile ai rischi psico-sociali, alle molestie e violenze sul lavoro, torniamo a presentare il contenuto di una pubblicazione dell’INAIL, dal titolo “Lavoro, sicurezza e benessere al femminile: il fattore donna al centro delle nuove sfide nel mercato del lavoro” a cura di Emma Pietrafesa, Chiara Brunetti e Maria Castriotta.

 

La pubblicazione ricorda che la presenza di stress nel mondo del lavoro è correlata a diversi fattori:

  • il tipo di lavoro svolto (problemi con attrezzature inadeguate, ripetitività dei compiti, carico di lavoro eccessivo o insufficiente, lavoro a turni o orari rigidi);
  • la posizione nella gerarchia organizzativa (immobilismo professionale e assenza di prospettive, comunicazione carente, isolamento sociale o fisico);
  • la discriminazione; le difficoltà di conciliare lavoro e vita privata; le molestie sessuali).

 

E si segnala che rispetto ai colleghi maschi, l’esposizione femminile a tali fattori di rischio è molto superiore a causa delle discriminazioni subite sul lavoro e delle maggiori responsabilità domestiche e familiari.

Monotonia, scarsa autonomia, orari rigidi di lavoro, impiego in mansioni emotivamente gravose (come accade per le infermiere o per le insegnanti che, ad esempio, lavorano molte ore in piedi, in ambienti rumorosi, fattori che già di per sé rappresentano un rischio per la salute, spesso anche a contatto con bambini con disturbi), sono tutti fattori di stress particolarmente onerosi per le donne, proprio alla luce del ruolo sociale che ricoprono.

 

Se diverse sono dunque le cause che provocano l’insorgere di stress nei lavoratori appartenenti a sessi diversi, persino quando si trovano a operare in uno stesso ambiente di lavoro, diverse dovranno essere anche le strategie di prevenzione.

Dovranno, in definitiva, tener conto delle differenze uomo-donna e considerare come fattori di stress anche le molestie sessuali, le discriminazioni, le responsabilità verso la famiglia e altri fattori che colpiscono maggiormente e più direttamente le donne.

 

Per esempio le molestie sessuali (manifestazioni verbali come battute a sfondo sessuale, non verbali come sguardi fissi e prolungati, e fisiche, come i contatti fisici non richiesti, ecc.) sono un fattore di stress percepito molto più frequentemente dalle donne che dagli uomini e denunciato dal 30-50% delle lavoratrici contro il 10% dei lavoratori, secondo alcuni studi condotti dalla Commissione Europea Lavoro e Affari Sociali.

Senza dimenticare che spesso le molestie sessuali non vengono denunciate per paura di perdere il posto di lavoro o per il timore di ritrovarsi emarginate dai colleghi.

 

Anche le intimidazioni e il mobbing sono fattori di stress, dagli accertati effetti sintomatologici sul piano della salute fisica, mentale e psicosomatica della vittima che li subisce, quali stress, depressione, diminuzione dell’autostima, sensi di colpa, fobie, disturbi del sonno e degli apparati digestivo e muscolo-scheletrico; anche questo tipo di rischi è percepito con maggiore frequenza rispetto ai colleghi uomini.

 

E se le violenze legate al lavoro colpiscono anche gli uomini, le donne ne sono comunque maggiormente esposte: ciò è dovuto anche al loro massiccio impiego in lavori a contatto con il pubblico, dal momento che gli atti violenti sui luoghi di lavoro sono diffusissimi proprio in quelle professioni che prevedono contatto con clienti, pazienti, studenti, ecc..

E nello specifico gli ambienti più a rischio riguardo alle violenze sono costituiti dal settore terziario, con particolare riferimento alle aziende che operano nel settore sanitario, dei trasporti, della vendita al dettaglio, dell’istruzione e del settore dell’industria alberghiera.

E le figure più esposte ai pericoli sono: infermieri, conducenti di mezzi pubblici, cassieri di banche e supermercati, assistenti sociali e personale di bar e ristoranti. La gestione di denaro contante, l’incombenza di dover far rispettare delle regole, il fatto di compiere un lavoro isolato o con pochi colleghi: sono tutti elementi che rappresentano potenziali fattori di rischio.

 

Ricordiamo a questo proposito che il 25 gennaio 2016 è stato finalmente è stato firmato da CGIL, CISL, UIL e Confindustria l’Accordo quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro che recepisce, dopo quasi nove anni, l’accordo quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro raggiunto nel 2007 dalle rispettive rappresentanze a livello europeo (Businesseurope, Ceep, Ueapme e Etuc).

 

Concludiamo l’articolo presentando brevemente una scheda di approfondimento del documento INAIL dedicata allo stalking.

Infatti alcuni comportamenti come telefonate, sms, e-mail, visite a sorpresa e perfino l’invio di fiori o regali, possono essere graditi segni di affetto che, tuttavia a volte, possono trasformarsi in vere e proprie forme di persecuzione in grado di limitare la libertà di una persona e di violare la sua privacy. E la persecuzione avviene solitamente mediante reiterati tentativi di comunicazione verbale e scritta, appostamenti e intrusioni nella vita privata.

 

I contesti in cui si manifesta lo stalking riguardano nella maggior parte dei casi la relazione di coppia (55%), il condominio, la famiglia (figli/fratelli/genitori), ma nel 15% dei casi riguardano anche il posto di lavoro/scuola/università.

La scheda indica che il “molestatore assillante” (stalker) manifesta un complesso insieme di comportamenti che comprende l’aspettare, l’inseguire, il raccogliere informazioni sulla “vittima” e sui suoi movimenti, comportamenti che sono quasi sempre tipici di tutti gli stalker, al di là delle differenze rilevate di situazione in situazione.

E si segnala che alcuni studi su questo fenomeno hanno distinto due categorie di comportamenti attraverso i quali si può attuare lo stalking:

  • la prima tipologia comprende le comunicazioni intrusive, che includono tutti i comportamenti con lo scopo di trasmettere messaggi sulle proprie emozioni, sui bisogni, sugli impulsi, sui desideri o sulle intenzioni, tanto relativi a stati affettivi amorosi (anche se in forme coatte o dipendenti) che a vissuti di odio, rancore o vendetta: i metodi di persecuzione adottati, di conseguenza, sono forme di comunicazione con l’ausilio di strumenti come telefono, lettere, sms, e-mail o perfino graffiti o murales;
  • il secondo tipo di comportamenti di stalking è costituito dai contatti, che possono essere attuati sia attraverso comportamenti di controllo diretto, quali ad esempio pedinare o sorvegliare, che mediante comportamenti di confronto diretto, quali visite sotto casa o sul posto di lavoro, minacce o aggressioni.

 

Concludiamo ricordando le tre caratteristiche di una molestia perché si possa parlare di stalking;

  • l’attore della molestia, lo stalker, agisce nei confronti di una persona che è designata come vittima in virtù di un investimento ideo-affettivo, basato su una situazione relazionale reale oppure parzialmente o totalmente immaginata (in base alla personalità di partenza e al livello di contatto con la realtà mantenuto);
  • lo stalking si manifesta attraverso una serie di comportamenti basati sulla comunicazione e/o sul contatto, ma in ogni caso connotati dalla ripetizione, insistenza e intrusività;
  • la pressione psicologica legata alla “coazione” comportamentale dello stalker e al terrorismo psicologico effettuato, pongono la vittima “stalkizzata”, definita anche stalking victim, in uno stato di allerta, di emergenza e di stress psicologico.

 

Il documento dell’INAIL “Lavoro, sicurezza e benessere al femminile. Il fattore donna al centro delle nuove sfide nel mercato del lavoro”, documento curato da Emma Pietrafesa, Chiara Brunetti e Maria Castriottaè scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/internet/documents/document/ucm_118785.pdf

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Come stanno le comunità? Quali sono le criticità?

SaluteGlobale_316x180_11Venerdì 29 Aprile presso l’Ordine dei Medici di Chieti si terrà un workshop “Ambiente e Salute” intitolato “Come stanno le comunità? Quali sono le criticità? La valutazione dello stato di salute a livello comunale per la prevenzione, la VIS e la programmazione territoriale”.

L’evento è promosso dall’Ordine dei Medici provinciale e dalla sezione ISDE di Chieti.
Sono previsti gli interventi di Bartolomeo Terzano, Referente ISDE Molise e membro della Giunta Esecutiva, e Felice Vitullo, Presidente ISDE Chieti.
Scarica il programma.

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Referendum trivelle: ISDE Italia per un Sì consapevole

trivellazioni-cilento-rischi-ambientaliIl 17 Aprile prossimo, con il Referendum sulle trivelle, si è chiamati ad esprimersi sul quesito abrogativo che riguarda l’articolo 6, comma 17 del codice dell’ambiente: “Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?”. Per raggiungere la vittoria è necessario che il Sì contro le trivelle a mare entro le 12 miglia sia espresso dalla maggioranza dei votanti.

La decisione del Governo e del Presidente del Repubblica di non accorpare il Referendum con le Amministrative (con un evidente aggravio di spese) e indirlo a così breve scadenza, può far sì che il tempo per informare adeguatamente i cittadini non sia sufficiente. Va tenuto conto che, per la prima volta, ci si misurerà con un quorum del 50%+1 degli aventi diritto al voto.

Inoltre, va ricordato che il quesito referendario non tiene conto delle attività petrolifere sulla terraferma e di quelle in mare situate oltre le 12 miglia dalla costa (22,2 km), tanto meno sono presi in considerazione i permessi per le attività di sfruttamento delle risorse geo-termiche ad alta entalpia e profondità. Tuttavia, sono ancora in itinere i ricorsi di alcune regioni alla Corte Costituzionale che rivendicano il diritto sancito dall’art. 117 della Costituzione di potere essere, loro stesse, soggetti istituzionali attivi nella formulazione del “piano delle aree” (strumento di pianificazione delle trivellazioni che prevede il coinvolgimento delle regioni, abolito dal Governo con un emendamento alla Legge di Stabilità) nonché nelle decisioni relative alla durata dei titoli per la ricerca e lo sfruttamento degli idrocarburi, liquidi e gassosi, sulla terraferma.

ISDE auspica la più ampia partecipazione al Referendum del 17 Aprile ed invita a votare SI.

ISDE auspica inoltre che il 17 Marzo sia una occasione per una più ampia e profonda riflessione circa l’inderogabile necessità ed urgenza di cambiare il modello di sviluppo ancor oggi basato sulla combustione dei fossili. Tale modello, oltre agli alti costi sanitari imposti all’uomo e a tutta la biosfera per via dell’inquinamenti delle varie matrici ambientali, appare sempre più fragile e insostenibile sul piano economico. Negli ultimi 18 mesi il prezzo del greggio è calato circa del 70%: andare a cercare con accanimento e con tecniche sempre più costose e impattanti una risorsa che perde sempre più valore, può contribuire, oltre al danno alla salute e all’ambiente, a minare ulteriormente la tenuta economica del Paese.

Leggi il comunicato stampa ISDE ufficiale.

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Twitter Storm #StopGlifosato per i Ministri @maumartina @bealorenzin @glgalletti

Pesticidi_316x180_11E’ di ieri la notizia relativa alla posizione dell’Italia riguardo il rinnovo dell’uso del glifosato in Europa. Il nostro Paese si è detto contrario a questo pesticida ritenuto probabilmente cancerogeno. Lunedì 7 e martedì 8 marzo è prevista la riunione del Comitato Permanente Europeo per i Prodotti Fitosanitari che dovrà decidere se rinnovare o meno l’autorizzazione all’uso del glifosato nella Unione Europea.

Per le associazioni ambientaliste e anche per ISDE che promuove la salute dei cittadini in un ambiente sano e non inquinato, questa ha rappresentato una grande notizia. Però, anche l’Associazione Medici per l’Ambiente reputa opportuna una verifica a livello europeo della valutazione dell’EFSA sulla pericolosità del glifosato, al fine di escludere dai finanziamenti dei PSR 2014 – 2015 premi alle aziende che conducono pratiche agricole con l’utilizzo del glifosato.

L’annunciato “Piano Nazionale Glifosato Zero” rimanda al 2020 l’eliminazione del pesticida dai disciplinari delle produzioni e non entra in alcun modo nel merito dei premi riconosciuti con i bandi dei PSR 2014 – 2020. È per questo che diverse associazioni hanno ritenuto opportuno dare il via ad una vera e propria “Twitter Storm” verso gli indirizzi @maumartina @bealorenzin @glgalletti perché i messaggi arrivano direttamente agli account twitter dei tre Ministri compenti.

Ognuno con il proprio profilo twitter dovrà inviare almeno 5 tweet, tra le 10.00 e le 11.00 di questa mattina, agli indirizzi sopra indicati, contenenti l’astag #Stopglifosato. L’orario è da rispettare tassativamente perché la “Twitter Storm” sia efficace.

Alleghiamo anche alcuni esempi di twitt che potete decidere di inviare ai Ministri:

E’ iniziato Twitter Storm X dire a @maumartina @bealorenzin @glgalletti #Stopglifosato partecipare e contribuire a diffondere, grazie

@maumartina @bealorenzin bravi x #Stopglifosato ma subito esclusione dai finanziamenti pubblici PSR regioni

#Stopglifosato subito Xchè nocivo per l’ambiente e per la salute di uomini e donne @maumartina @bealorenzin @glgalletti

#Stopglifosato adesso X una #Agricoltura + sostenibile, pulita, sana e giusta @maumartina @bealorenzin @glgalletti

@maumartina @bealorenzin @glgalletti Piano nazionale glifosato zero SUBITO non aspettiamo 2020 #StopGlifosato

@Europarl_IT chieda valutazione lavoro @EFSA_EU su parere pericolosità glifosato @maumartina @bealorenzin @glgalletti #Stopglifosato

@maumartina NO a finanziamenti pubblici da PSR alle aziende agricole che usano ancora il glifosato x #StopGlifosato ADESSO

Ricordiamo inoltre che sarebbe opportuno che ognuno facesse anche almeno 10 retweet, oltre ai 5 tweet che ovviamente possono (e devono!) aumentare, basta che li rivolgiate ai Ministri competenti.

Che la “Twitter Storm” abbia inizio!

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.246 DEL 04/03/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.246 DEL 04/03/16

 

INDICE

  • Le “Frequently Asked Questions” di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights! – n.10
  • L’omicidio colposo del dipendente è a carico dei dirigenti e della società
  • Rapina sul posto di lavoro: dei danni al lavoratore ne risponde il datore qualora manchino adeguati sistemi di sicurezza
  • Fattori di rischio: conflitti casa-lavoro, orari e ritmi lavorativi
  • La Direttiva Macchine e il principio di integrazione della sicurezza
  • Il preposto nelle sentenze della cassazione degli ultimi mesi

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO – KNOW YOUR RIGHTS! – N.10

 

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.

In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.

Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.

Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

 

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Buongiorno Marco,

sono un RLS e devo porti un quesito.

A un lavoratore della mia azienda che utilizza avvitatori e smerigliatrici il medico competente, dopo la visita medica, ha prescritto “non esporre a vibrazioni mano braccio con valore A(8) maggiore di 2,5 m/s2”.

Che cosa significa e come fa il lavoratore in pratica a rispettare la prescrizione?

 

Ciao,

il valore A(8) è il valore, mediato sulle 8 ore di lavoro giornaliero, delle vibrazioni trasmesse da attrezzature di lavoro al sistema mano braccio.

E’ in pratica la “dose” di vibrazioni per le mani e le braccia assorbite dal lavoratore nel corso di una giornata standard.

Trattandosi di accelerazioni tale valore è espresso in m/s2.

Ai sensi dell’articolo 201 del D.Lgs.81/08 per tale valore sono definiti i seguenti limiti:

  • valore di azione (sopra il quale il datore di lavoro deve programmare e attuare misure di prevenzione e protezione) = 2,5 m/s2;
  • valore limite di esposizione (che non può mai essere superato) = 5,0 m/s2.

La prescrizione del medico, derivante probabilmente da una patologia all’apparato muscolo scheletrico degli arti superiori del lavoratore, significa che il lavoratore non può utilizzare attrezzature fonti di vibrazioni la cui media giornaliera sia superiore a 2,5 m/s2 (cioè il valore di azione).

In pratica il lavoratore non può utilizzare attrezzature fonti di vibrazioni, la cui media giornaliera superi quel limite.

E’ compito del datore di lavoro, sentito il RSPP, specificare quali siano tali attrezzature, a seguito della valutazione del rischio da vibrazioni da eseguire ai sensi dell’articolo 202 del D.Lgs.81/08.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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Ciao,

ho letto alcuni dei tuoi articoli su internet e vorrei chiederti delle informazioni in merito al mio caso.

Lunedì rientrerò al lavoro dopo 5 mesi di malattia.

Vengo avvisato dall’azienda che dopo 60 giorni di malattia è necessario fare la visita con il medico del lavoro e di portare la documentazione necessaria.

Dopo aver letto i tuoi articoli mi accorgo che prima di rientrare al lavoro devo effettuare visita dal medico, cosa di cui non vengo informata.

L’orario di lavoro va dalle 8 alle 13 e dalle 14 alle 17.30. la visita è alle 17.15.

Richiedo informazioni e mi dicono che infatti non mi devo presentare lunedì al lavoro, ma martedì dopo la visita.

Tralasciando questa mancanza di informazione (abito tra l’altro a 25 km di distanza dal lavoro e avrei fatto 100 km inutilmente anziché 50), ho richiesto verbalmente 5 settimane fa il part time per motivi di salute e 14 giorni fa in forma scritta, richiesta alla quale non hanno ancora dato risposta. Questo faciliterebbe e avrebbe facilitato di molto il mio rientro.

Ho infatti una malattia rara con sintomi ciclici e non prevedibili. Sto seguendo ancora delle cure che includono, oltre a medicamenti, una dieta abbastanza ristretta, attività fisica specifica, riposo e meno stress possibile tutto questo per accelerare il processo di guarigione.

La cura dovrà procedere per ancora 6/8 mesi e poi si vedrà.

La mia domanda è come devo comportarmi per ottenere il part time che credo sia un modo per non dover affrontare un carico di lavoro eccessivo e rovinare tutto il lavoro fin qui fatto e per andare incontro all’azienda che sembra rimandare questa decisione sul part time?

Come devo comportarmi con il medico del lavoro?

Scusa il lungo testo…e in ogni caso ti ringrazio dell’attenzione.

Cordiali saluti

 

Ciao,

innanzitutto premetto che le visite mediche che la tua azienda dispone nei tuoi confronti devono essere del tutto gratuite e senza nessun onere economico per te, secondo quanto disposto dall’articolo articolo 15, comma 2 del Decreto Legislativo n.81 del 2008 (Testo Unico sulla sicurezza):

Le misure relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori”.

Per quanto riguarda la possibilità che il medico competente disponga la necessità che tu svolga il lavoro part time, è una facoltà che il Decreto lascia appunto al medico competente, che a seguito di visita medica (nel tuo caso dovuta per assenza dal lavoro superiore ai 60 giorni) deve definire la tua idoneità o meno alla mansione specifica, secondo l’articolo 41, comma 6 del Decreto:

Il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche di cui al comma 2, esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:

  1. a) idoneità;
  2. b) idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
  3. c) inidoneità temporanea;
  4. d) inidoneità permanente”.

Inoltre secondo il comma 6-bis del medesimo articolo:

Nei casi di cui alle lettere a), b), c) e d) del comma 6 il medico competente esprime il proprio giudizio per iscritto dando copia del giudizio medesimo al lavoratore e al datore di lavoro”.

A seguito del giudizio del medico competente l’azienda è tenuta, se possibile, ad adottare le prescrizioni indicate dal medico nell’eventuale giudizio di inidoneità parziale o totale, secondo l’articolo 42 del Decreto:

Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.

Pertanto se il medico competente ritiene che a seguito della tua storia clinica, tu non sia più idonea a un turno di 8 ore, può segnalare la tua inidoneità parziale alla mansione svolta con la prescrizione del lavoro part time.

Attenta però che l’azienda non deve necessariamente passarti al part time a seguito del giudizio di non idoneità del medico, in quanto il citato articolo 42 contiene l’inciso “ove possibile”.

Pertanto, almeno in teoria, se l’azienda non ha la possibilità di trasferirti al lavoro part time, per ottemperare a quanto definito dal medico (che è un parere del tutto vincolante) potrebbe anche licenziarti per giusta causa oggettiva, non essendo tu più idonea al lavoro sulle 8 ore.

Pertanto ti consiglio, prima di parlare con il medico, di valutare se la tua azienda ha la possibilità di passarti al part time. Dopo di che potrai parlare con il medico, manifestando la tua difficoltà al lavoro full time, presentando adeguata documentazione della tua storia clinica, e chiedendo che ti prescriva il lavoro part time. Anche in questo caso però non è detto che il medico acconsenta, se secondo suo giudizio professionale lui ritiene che tu possa continuare a svolgere lavoro full time.

Tieni infine conto, che puoi fare ricorso alla ASL (tu, ma anche l’azienda) contro il giudizio del medico, ai sensi dell’articolo 41, comma 9 del Decreto:

Avverso i giudizi del medico competente, ivi compresi quelli formulati in fase preassuntiva, è ammesso ricorso, entro trenta giorni dalla data di comunicazione del giudizio medesimo, all’organo di vigilanza territorialmente competente che dispone, dopo eventuali ulteriori accertamenti, la conferma, la modifica o la revoca del giudizio stesso”.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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Ciao Marco,

lavoro in una ditta di consegna documentazione, sia in moto che in auto.

Secondo te con le condizioni atmosferiche attuali come ci dobbiamo comportare?

Dobbiamo attendere le disposizioni del Comune su un eventuale blocco del traffico oppure è la mia azienda che deve intervenire in qualche modo?

Grazie.

 

Ciao,

se ti riferisci allo smog, tale tipo di esposizione a rischio per la salute dovrebbe essere valutata nel documento di valutazione dei rischi (valutazione del rischio chimico) e di conseguenza dovrebbero essere definite delle misure di protezione individuale (mascherine adeguate), visto che le misure di prevenzione e di protezione collettiva sono tecnicamente impossibili.

La tua azienda fa qualcosa in tal senso? Fai controllare dal tuo RLS cosa è scritto nel DVR e quali misure per la salute adotta la tua azienda.

Oltre alle mascherine andrebbe anche eseguita la sorveglianza sanitaria almeno a livello preventivo per valutare che chi lavora all’aperto sia idoneo (ad esempio assenza di asma o malattie broncopolmonari) e, per me almeno, anche a livello periodico per valutare che non insorgano malattie all’apparato respiratorio.

Quindi fai chiedere al tuo RLS anche il protocollo di sorveglianza sanitaria.

Marco

 

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Ciao Marco,

sono RLS di un’azienda metalmeccanica.

Ieri c è stato un incendio nella cabina prova motori. Io non c’ero.

Sono andato dal mio capo a sentire cos’era successo e se gli RLS erano stati avvisati.

No, lui ha chiamato i capi e hanno sistemato la situazione.

Ti volevo chiedere se per legge i preposti o i dirigenti devono contattare gli RLS in caso di incidenti anche senza feriti.

 

Ciao.

Effettivamente il D.Lgs.81/08 non prevede in maniera esplicita una tale eventualità (consultazione del RLS relativamente a un incidente).

Lo spirito del Decreto è però quello che i RLS siano puntualmente informati su cosa succede in azienda relativamente a salute e sicurezza e quindi l’obbligo di dare ai RLS tale tipo di informazione è sancito in maniera implicita.

Ciò si evince dalle misure generali di tutela come descritte all’articolo 15 del Decreto (che però non è sanzionabile) che prevede “la partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza”.

Nel caso specifico vale comunque pienamente quanto disposto dall’articolo 50, comma 1 lettera e) secondo il quale il RLS “riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali”.

Tale attribuzione dei RLS costituisce in questo caso obbligo sanzionabile per il datore di lavoro e i dirigenti secondo quanto stabilito dall’articolo 18, comma 1, lettera s), per il quale essi devono “consultare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all’articolo 50”.

E’ chiaro che in questo caso le “misure di prevenzione relative” non sono state evidentemente adeguate e di questa informazione i RLS avrebbero dovuto, secondo quanto sopra, essere informati, come avrebbero dovuto essere informati su quali ulteriori misure di prevenzione e protezione l’azienda intende adottare per evitare un simile incidente nel futuro.

Io scriverei una lettera all’azienda in cui si stigmatizza la mancata informazione dei RLS (inviandola anche per conoscenza alla ASL) e in cui si chiede che in caso di futuri incidenti, infortuni, quasi infortuni, i RLS vengano adeguatamente e tempestivamente informati.

A seguire la bozza della lettera.

Marco

 

Al datore di lavoro di [nome azienda]

per conoscenza

al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione di [nome azienda]

al Dipartimento Salute e Sicurezza ASL

La presente per segnalare il grave comportamento tenuto dall’azienda in occasione dell’incendio che si è sviluppato il [data] nella cabina prove motori, che solo per fortuna non ha causato danni alle persone, ma solo alle cose [scriverlo solo se è vero, facendo se possibile una descrizione dettagliata dell’incidente].

Infatti di tale grave incidente i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (ex articolo 47 del D.Lgs.81/08, “Decreto”) sono stati tenuti all’oscuro da parte dei responsabili dell’azienda, venendone a conoscenza solo in via informale da parte dei lavoratori [specificare come].

Riteniamo che la mancata segnalazione ai RLS di quanto accaduto sia assolutamente contrario alla “ratio” del Decreto, relativamente al rapporto tra azienda e RLS.

Tale “ratio” prevede che i RLS siano puntualmente informati su cosa succede in azienda relativamente a salute e sicurezza e quindi l’obbligo di dare ai RLS tale tipo di informazione è sancito dal Decreto in maniera esplicita e implicita.

Ciò si evince dalle misure generali di tutela come descritte all’articolo 15, comma 1, lettera s) del Decreto che prevedono “la partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza”.

Nel caso specifico vale poi quanto disposto dall’articolo 50, comma 1 lettera e) secondo il quale il RLS “riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali”.

Tale attribuzione dei RLS costituisce in questo caso obbligo sanzionabile per il datore di lavoro e i dirigenti secondo quanto stabilito dall’articolo 18, comma 1, lettera s), per il quale essi devono “consultare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all’articolo 50”.

E’ chiaro che in questo caso le “misure di prevenzione relative” non sono state evidentemente adeguate e di questa informazione i RLS avrebbero dovuto, secondo quanto sopra, essere informati, come avrebbero dovuto essere informati su quali ulteriori misure di prevenzione e protezione l’azienda intende adottare per evitare un simile incidente nel futuro.

Nello spirito sopra richiamato, i RLS richiedono con la presente all’azienda di essere nel futuro prontamente informati su incidenti, infortuni, quasi infortuni, “near miss” in modo da poter valutare se le misure di prevenzione e protezione adottate dalla azienda stessa, anche relativamente alla gestione delle emergenze, siano o meno adeguate ai rischi presenti sui luoghi di lavoro.

Rimaniamo in attesa di riscontro alla presente.

I RLS

firme

 

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NOTA

Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:

ASL = Azienda Sanitaria Locale

CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro

DPI = Dispositivi di Protezione Individuali

DVR = Documento di Valutazione dei Rischi

DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto

RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione

RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza

D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)

 

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L’OMICIDIO COLPOSO DEL DIPENDENTE E’ A CARICO DEI DIRIGENTI E DELLA SOCIETA’

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

1 marzo 2016

di Fulvio Graziotto

 

In mancanza di adozione di modelli organizzativi, per l’infortunio mortale paga anche la società.

E’ questo in sintesi quanto affermato dalla Cassazione, nella recente Sentenza n. 2544/2016.

 

Il Tribunale condannava l’Amministratore Unico e il Direttore Tecnico di una Società a Responsabilità Limitata, attiva nel settore edile, colpevoli del reato di omicidio colposo di un addetto (il lavoratore era morto in conseguenza delle lesioni riportate nel cantiere mentre era alla guida di un’autogru con il freno di stazionamento non funzionante).

 

Il Tribunale dichiarava altresì la società, in persona del Legale Rappresentante, responsabile dell’illecito amministrativo di cui all’articolo 5, lettere a) e b) del D.Lgs. 231/01, concessa la riduzione della sanzione ex articolo 12, comma 2, lettera a) dello stesso Decreto, comminando la sanzione amministrativa pecuniaria di 80.000 euro.

 

Avverso la suddetta sentenza proponevano impugnazione entrambi gli imputati, nonché la società, chiedendo in via principale l’assoluzione degli imputati dalle contestazioni a essi mosse.

La Corte di appello di Milano confermava la sentenza impugnata.

 

Proponevano quindi ricorso per Cassazione entrambi gli imputati persone fisiche, nonché la società. La società sosteneva che la condotta del Legale Rappresentante non era finalizzata o utile a un vantaggio dell’ente sociale, con la conseguente non configurabilità della responsabilità in capo alla società pur in mancanza di adozione dei modelli organizzativi previsti dal richiamato Decreto Legislativo.

 

Nell’esaminare il ricorso, la Cassazione, con la Sentenza in commento, ricorda che il requisito dell’interesse dell’ente (sancito dall’articolo 5 del D.Lgs. 231/01) sussiste anche in conseguenza di scelte dettate dall’obiettivo di risparmiare sui costi: con la mancata adozione della disciplina antinfortunistica, l’autore del reato ha consapevolmente violato le disposizioni sulla sicurezza per realizzare un interesse della società. Il vantaggio conseguito dalla società, invece, è rappresentato dal contenimento della spesa e una massimizzazione del profitto.

 

La Cassazione ha affermato che nei reati colposi d’evento, “il finalismo della condotta prevista dall’articolo 5 del D.Lgs. 231/01 è compatibile con la non volontarietà dell’evento lesivo, sempre che si accerti che la condotta che ha cagionato quest’ultimo sia stata determinata da scelte rispondenti all’interesse dell’ente o sia stata finalizzata all’ottenimento di un vantaggio per l’ente medesimo”.

 

Sulla base di quanto precisato dalla Corte di legittimità, la responsabilità della società avrebbe potuto essere esclusa solo dando dimostrazione di aver adottato i modelli organizzativi e la vigilanza sulla loro applicazione da parte di un organismo autonomo.

 

Richiamiamo le norme stabilite dal D.Lgs. 231/01.

 

Articolo 5 – Responsabilità dell’ente

“1. L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:

  1. a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
  2. b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).
  3. L’ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”.

 

Articolo 12 – Casi di riduzione della sanzione pecuniaria

“1. La sanzione pecuniaria è ridotta della metà e non può comunque essere superiore a lire duecento milioni se:

  1. a) l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo;
  2. b) il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità;
  3. La sanzione è ridotta da un terzo alla metà se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado:
  4. a) l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso;
  5. b) è stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
  6. Nel caso in cui concorrono entrambe le condizioni previste dalle lettere del precedente comma, la sanzione è ridotta dalla metà ai due terzi.
  7. In ogni caso, la sanzione pecuniaria non può essere inferiore a lire venti milioni”.

 

La Sentenza n. 2544 della Corte di Cassazione Sezione Penale del 21 gennaio 2016 è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14607:2016-01-23-11-17-10&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

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RAPINA SUL POSTO DI LAVORO: DEI DANNI AL LAVORATORE NE RISPONDE IL DATORE QUALORA MANCHINO ADEGUATI SISTEMI DI SICUREZZA

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

1 marzo 2016

di Paolo Accoti

 

Il datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 2087 del Codice Civile “è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

 

In altri termini, a carico del datore di lavoro, esiste un obbligo contrattuale teso a tutelare la salute e la sicurezza dei propri dipendenti suoi luoghi di lavoro, pertanto, qualora egli ometta di adottare tutte le cautele e le misure necessarie a salvaguardare l’integrità, fisica e morale, del dipendente, risponde dei danni da questi eventualmente subiti.

 

Sulla scorta di ciò un datore di lavoro, a seguito di una rapina subita presso una propria dipendenza, è stato condannato a risarcire il danno subito dal dipendente, a seguito della “prolungata soggezione a minaccia a mano armata”, in assenza delle necessarie misure atte a garantire la sicurezza sul luogo di lavoro.

 

A cagione dei pesanti carichi di lavoro e delle ripetute rapine (quattro in circa un anno) un dipendente evocava in giudizio il proprio datore di lavoro, al fine di vedersi risarcito il danno alla salute, conseguenza di un infarto acuto del miocardio, nonché quello morale, in virtù della tensione accumulata durante le riferite rapine, nel corso delle quali aveva dovuto soggiacere alle minacce portate dai rapinatori, armi in pugno.

 

La domanda in primo grado veniva rigettata, tuttavia, a seguito dell’interposto gravame da parte del lavoratore, la Corte d’Appello di Firenze, condannava il datore di lavoro al risarcimento del danno morale, subito dal lavoratore, in considerazione della “prolungata soggezione a minaccia a mano armata, in assenza delle misure protettive a carico datoriale ai sensi dell’articolo 2087 del Codice Civile”, una volta accertato che la ditta datrice, aveva “omesso di adottare le adeguate protezioni poste a tutela del proprio dipendente”.

 

Veniva, al contrario, respinta la domanda relativa al risarcimento de danno biologico, in virtù del fatto che, la disposta consulenza tecnica, aveva escluso il nesso di causalità tra le rapine subite e l’infarto del miocardico patito dal lavoratore, a seguito degli episodi ipertensivi occorsigli.

 

La Corte di Cassazione Sezione Lavoro, successivamente adita dal datore di lavoro, con la Sentenza n. 3306 del 19 febbraio 2016, respingeva il ricorso, confermando pertanto integralmente la decisione assunta in secondo grado.

 

Il ricorrente lamentava, tra l’altro, la violazione e falsa applicazione degli articoli 2059 e 2087 del Codice Civile, nonché il difetto di motivazione, sulla scorta del fatto che le misure di sicurezza concretamente predisposte, risultavano assolutamente conformi agli standard di sicurezza e alla tipologia di piccolo ufficio periferico, la cui ubicazione e il volume d’affari lo rendevano non soggetto ad apprezzabili rischi.

Si lagnava, inoltre, della mancanza di prova in ordine al supposto danno morale, mancando il nesso causale tra il presunto inadempimento del datore di lavoro e le lesioni all’integrità psichica asseritamente subite dal lavoratore.

 

La Corte di Cassazione, in coerenza con i propri precedenti, ha ritenuto che il lavoratore che agisca in giudizio per il risarcimento dei danni da infortunio sul lavoro, abbia l’onere di provare il fatto generatore del danno e il nesso causale esistente tra l’anzidetto danno e l’inadempimento del datore di lavoro, ma non anche l’eventuale colpa datoriale.

 

E invero, in simili fattispecie, la colpa del datore di lavoro si presume in ragione del disposto di cui all’articolo 1218 del Codice Civile, per il quale “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

 

Pertanto, per superare la presunzione di colpa, spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte quelle misure e cautele atte a evitare il danno, in virtù dell’attività in concreto espletata e ai rischi alla stessa connessi, potendo risultare insufficiente il generico rispetto delle misure universali di protezione individuale disposte per legge (in tal senso si vedano le Sentenze della Corte di Cassazione n. 8855 del 11/04/13 e n. 16003 del 19/07/07).

E invero, le tecniche di sicurezza, devono essere parametrate all’ambiente in cui viene effettivamente esercitata l’attività di impresa, anche in ragione della tipologia della stessa e alle possibili aggressioni conseguenti all’attività criminosa cui potrebbe essere soggetta una determinata attività imprenditoriale.

In altri termini, nelle attività strettamente connesse all’utilizzo di denaro, esercitate in zone dove i fenomeni criminali risultano particolarmente sentiti, non risulta idoneo e sufficiente, per andare esenti da responsabilità, apprestare sistemi di sicurezza generici, quand’anche conformi al dettato normativo.

 

Ricorda a tal proposito, la Corte di Cassazione, i propri precedenti specifici in materia di rapina sul luogo di lavoro, per cui il disposto dell’articolo 2087 del Codice Civile deve essere interpretato nel senso della necessità di fornire ai propri dipendenti: “adeguati mezzi di tutela dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori nei confronti dell’attività criminosa di terzi, nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale” (in tal senso si vedano le Sentenze della Corte di Cassazione n. 23793 del 20/11/15 e n. 7405 del 13/04/15).

 

Pertanto, il datore di lavoro per non incorrere in responsabilità contrattuali, deve provare di aver adottato tutte quelle misure protettive idonee, in considerazione della effettiva situazione di pericolo, a salvaguardare l’incolumità del personale dipendente, specie quando è stato già in passato vittima di simili episodi criminosi.

 

Per quanto concerne, infine, la paventata carenza di prova in ordine al danno subito, questo risulta comprovato nonché allegato “dalla sofferenza emotiva, indubbiamente intensa, conseguita dal dipendente dalle due rapine subite sul posto di lavoro. Tale danno trova positivo riscontro anche nell’episodio ipertensivo insorto il giorno successivo alla seconda rapina e per cui il lavoratore fu ricoverato cinque giorni in ospedale ed è stato correttamente liquidato in via equitativa, in relazione alle modalità della vicenda” (si veda a tale proposito la Sentenza della Corte di Cassazione n. 16041 del 26/06/13).

 

La Sentenza n. 3306 del 19 febbraio 2016 della Corte di Cassazione Sezione Lavoro è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14702:2016-02-22-12-08-49&catid=16:cassazione-civile&Itemid=60

 

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FATTORI DI RISCHIO: CONFLITTI CASA-LAVORO, ORARI E RITMI LAVORATIVI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

22 febbraio 2016

di Tiziano Menduto

 

Le conseguenze psicofisiche di fattori di rischio come l’insicurezza lavorativa, gli orari di lavoro troppo lunghi, il lavoro a turni, gli elevati ritmi lavorativi e le difficoltà nella conciliazione casa-lavoro.

 

“Nonostante lo stress lavoro-correlato sia considerato uno dei più rilevanti problemi per la salute occupazionale dalle principali agenzie nazionali e internazionali di igiene e sicurezza sul lavoro, solo una minima parte dei disturbi psichici causati dal lavoro vengono denunciati e riconosciuti come malattie professionali in Italia”.

A sottolineare questa carenza nella denuncia e riconoscimento dei disturbi psichici lavoro correlati e, più in generale, a presentare alcuni fattori di rischio lavorativi sottovalutati , è un intervento di Angelo d’Errico (Servizio Sovrazonale di Epidemiologia, ASL TO3) al seminario “Le patologie professionali e miglioramento delle notizie sullo stato di salute dei lavoratori: l’occasione dei Piani regionali di prevenzione 2015-2018” che si è tenuto il 18 settembre 2015 a Milano.

Nell’intervento “Fattori di rischio occupazionali emergenti e salute”, Angelo d’Errico si sofferma su vari fattori di rischio come l’insicurezza lavorativa, gli orari di lavoro, gli elevati ritmi lavorativi e le difficoltà nella conciliazione casa-lavoro riportando utili indicazioni sull’associazione con problemi e patologie psicofisiche.

Ci soffermiamo in particolare sulle problematiche connesse agli orari di lavoro, intesi come:

  • long working hours: definite come più di 48 ore a settimana;
  • night shift work: con riferimento al lavoro a turni, con orario notturno.

Il relatore ricorda che entrambi sono stati associati ad aumentata probabilità di:

  • problemi di salute: malattie cardiovascolari e mentali, disturbi del sonno, diabete, disturbi gastrointestinali e muscolo-scheletrici, infortuni, disabilità;
  • alterazioni comportamentali: fumo, alcool, inattività fisica, dieta malsana.

Inoltre per il lavoro a turni sono stati riportati eccessi di tumori della mammella e della prostata (Classe 2A, IARC, 2007).

 

Tuttavia molti di questi studi soffrono di una inadeguata definizione dell’esposizione. Poiché queste caratteristiche del lavoro sono spesso correlate all’esposizione a fattori di rischio di tipo fisico (lavoro fisico intenso) e psicosociale (high demand, low control, high strain, effort-reward imbalance, social support) è controverso se gli effetti osservati non siano dovuti al confondimento da parte di altre esposizioni lavorative. Inoltre non è chiaro se le alterazioni comportamentali indotte siano mediatori dell’effetto del lavoro a orario prolungato o a turni sulla salute.

Uno schema riportato nell’intervento ricorda che il “long working hours” si collega a una ridotta disponibilità di tempo o ridotta capacità di utilizzare effettivamente il tempo per dormire, riposarsi o svolgere attività familiari o di svago e a una più lunga esposizione o aumentata vulnerabilità a: elevata pressione lavorativa e fattori di rischio occupazionali.

E tutto questo può avere impatto sul lavoratore (malattie, infortuni, qualità della vita, ecc.), sulla famiglia (cura dei familiari, qualità delle relazioni, reddito familiare, ecc.), sul datore di lavoro (produttività, qualità, costi di malattie e infortuni, ecc.), sulla comunità (costi di malattie e infortuni, ecc.).

Sono poi riportati diversi dati sull’esposizione a lunghi orari di lavoro (particolarmente evidente nel comparto agricolo, ma anche nel commercio e nei trasporti) e ricordato che ci sono risultati controversi per la correlazione con i problemi di salute mentale.

Riguardo invece al lavoro a turni si fa riferimento a:

  • associazione abbastanza consistente con la malattia ischemica coronarica sulla base degli studi di incidenza, ma non di mortalità;
  • associazioni consistenti con stress occupazionale (basso job control, alta effort-reward imbalance), conflitti casa-lavoro e deficit di recupero;
  • associazioni abbastanza consistenti con ridotta durata o qualità del sonno, fumo, body mass index, peso corporeo, ma non per alcool e attività fisica;
  • associazioni consistenti con diversi end-point intermedi o fattori di rischio biologici (aterosclerosi, colesterolemia, alterazioni linfocitarie, alterazioni della frequenza cardiaca e della sua variabilità, incrementi di cortisolo e noradrenalina, diabete, sindrome metabolica).

Ricordiamo che il relatore si sofferma ampiamente sulla eventuale correlazione tra “shift work” e cancro della mammella e riporta anche alcune indicazioni relative ad altre forme tumorali e a problemi di salute mentale.

Veniamo invece al tema delle elevate richieste di lavoro (high demand):

  • dimensione che cattura esposizione ad alti ritmi di lavoro e a carico di lavoro eccessivo sia fisico che mentale (forte correlazione con livello di esposizione a fattori ergonomici);
  • dimensione frequentemente esaminata insieme a quella del job control o del job reward nell’ambito dei modelli demand-control (Karasek, 1985) e effort-reward imbalance (Siegrist, 1996);
  • difficile quindi isolare in letteratura il suo effetto sulla salute, al netto di quello delle co-esposizioni psicosociali dei due modelli;
  • riportate associazioni soprattutto con: disturbi mentali (Stansfeld & Candy, 2006; Bonde, 2008); malattie cardiovascolari (Eller et al., 2009); disturbi muscolo-scheletrici (Da Costa & Vieira, 2010).

L’intervento riporta poi altre indicazioni sull’associazione tra stress sul lavoro, disturbi psicologici comuni e depressione.

Riguardo infine ai conflitti casa-lavoro si ricorda che la dimensione del conflitto casa-lavoro si riferisce a una condizione in cui gli ambiti del lavoro e della famiglia interferiscono così tanto che uno esercita un effetto negativo sull’altro.

E secondo il NIOSH, “il conflitto casa-lavoro è uno dei 10 fattori stressogeni lavorativi più importanti” (Kelloway , 1999).

Si indica poi che la teoria prevalente su cui si basano gli effetti sulla salute associati è la “role strain hypothesis”, che afferma che il conflitto casa-lavoro è una forma di conflitto tra ruoli nel quale la pressione derivante dal ruolo lavorativo e quello familiare sono per qualche aspetto mutualmente incompatibili (Greenhaus e Beutell, 1985).

Si segnala poi che numerosi studi hanno dimostrato un’associazione tra work-family conflict e disturbi mentali ( ansia, depressione, burnout).

Concludiamo segnalando che alcuni studi europei, con riferimento al doppio carico di lavoro, hanno mostrato che le donne che combinano lavoro retribuito e cura dei figli riportano più sintomi fisici e psicologici di donne occupate senza figli (Krantz, 2001, 2005; Vaananen, 2004).

Tuttavia, la maggior parte degli studi longitudinali sul “doppio carico” non hanno trovato effetti sulla salute generale o sulla mortalità delle donne con questi ruoli multipli (Waldron, 1998).

Al contrario, i pochi studi che hanno indagato l’effetto del doppio carico sulla salute cardiovascolare hanno osservato un aumento del rischio tra le donne occupate con figli (Haynes e Feinleib, 1980; Lee, 2003; Zimmerman e Hartley, 1982; James, 1989; Brisson, 1999).

Il documento “Fattori di rischio occupazionali emergenti e salute” a cura di Angelo d’Errico è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151217_fattori_rischio_emergenti.pdf

 

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LA DIRETTIVA MACCHINE E IL PRINCIPIO DI INTEGRAZIONE DELLA SICUREZZA

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

24 febbraio 2016

 

Le caratteristiche e i principi della Direttiva Macchine 2006/42/CE.

L’evoluzione della normativa, il campo di applicazione, gli aspetti rilevanti, i requisiti essenziali di sicurezza e gli obblighi del fabbricante di una macchina.

 

In relazione ai molti incidenti sul lavoro che avvengono in Italia nell’uso di attrezzature di lavoro, è utile che il nostro giornale torni in modo ricorrente a parlare di sicurezza delle macchine e della normativa correlata, con particolare riferimento alla Direttiva macchine 2006/42/CE.

Infatti questi infortuni possono essere ridotti integrando la sicurezza nelle fasi di progettazione e di costruzione ed effettuando una corretta installazione e manutenzione.

 

In questo senso il principio di integrazione della sicurezza prevede nell’ordine:

  • eliminazione dei rischi in fase progettuale;
  • riduzione dei rischi in fase progettuale;
  • adozione di protezioni o dispositivi di sicurezza;
  • evidenziazione, nelle istruzioni, dei rischi residui non eliminabili.

Ed è basandosi su queste considerazioni che sono state emanate nel tempo una serie di Direttive comunitarie relative alle macchine che interessarono la produzione, la commercializzazione delle macchine e la responsabilità dei vari soggetti coinvolti nelle attività lavorative ai fini della prevenzione infortuni.

 

A parlare in questi termini della normativa europea sulla sicurezza delle macchine è uno dei documenti pubblicati dal Dipartimento Ingegneria Civile Edile Ambientale dell’ Università degli Studi di Napoli Federico II, a cura di Fabrizio Leccisi in materia di “Organizzazione del cantiere”.

Il documento “La Direttiva Macchine (2006/42/CE)” ricorda che la Direttiva Macchine rappresenta dal punto di vista tecnico un insieme di regole per la produzione delle macchine e dal punto di vista amministrativo un insieme di adempimenti burocratici da soddisfare al momento della loro commercializzazione, prescrivendo che una macchina, per essere immessa sul mercato della UE, debba:

  • risultare accettabilmente sicura (rispetto dei Requisiti Essenziali di Sicurezza (RES), con analisi rischi e conseguente applicazione di norme tecniche);
  • essere costruita sulla base di un progetto tecnico disponibile in caso di contestazione (fascicolo tecnico);
  • essere riconoscibile (targa del costruttore e marcatura CE);
  • essere accompagnata da un libretto (manuale di istruzioni per l’uso e la manutenzione);
  • essere garantita da una assunzione di responsabilità da parte del fabbricante (dichiarazione di conformità).

E in relazione ai forti cambiamenti sia nell’ambito tecnologico che commerciale e al significativo aumento del numero di macchinari immessi sul mercato della UE provenienti da paesi extracomunitari, il Parlamento europeo ha emanato il 17 maggio 2006 la Direttiva 2006/42/CE (in sostituzione della precedente Direttiva 98/37/CE) includendo nell’ambito di applicazione attrezzature che ricadevano nell’ambito di altre Direttive di prodotto o che erano escluse dall’ambito di tutte le Direttive di prodotto, chiarendo le esclusioni di alcune macchine dall’ambito di applicazione della Direttiva ed inserendo RES relativi a nuove categorie di macchine e alla evoluzione tecnologica, rivedendo l’elenco delle macchine nell’Allegato IV (macchine con rischi specifici ed elevati), dettando nuovi criteri minimi, adeguandoli a quelli riportati nelle altre Direttive, per la notifica degli organismi e determinando le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione della Direttiva.

Dunque la Direttiva Macchine è, in sostanza, un insieme di regole definite dalla CE, rivolto ai costruttori di macchine, che stabiliscono i RES relativi alla progettazione e alla costruzione delle macchine con il fine di migliorare la sicurezza dei prodotti immessi sul mercato europeo.

La Direttiva che avrebbe dovuto essere recepita entro il 29 giugno 2008 e applicata dal 29 dicembre 2009, in Italia è stata invece recepita con il D.Lgs. 17/10 entrato in vigore il 6 marzo 2010.

Il documento ricorda brevemente il campo di applicazione della nuova Direttiva Macchine che è stato riscritto per chiarire una serie di punti oggetto di interpretazioni disomogenee.

Il campo di applicazione comprende: macchine; attrezzature intercambiabili; componenti di sicurezza; accessori di sollevamento; catene, funi e cinghie; dispositivi amovibili di trasmissione meccanica; quasi-macchine. Esso è stato esteso a: ascensori da cantiere; apparecchi portatili a carica esplosiva (pistole sparachiodi, pistole per macellazione o per marchiare) fino al 2011; apparecchi di sollevamento per persone con velocità di spostamento non superiore a 0,15 m/s.

Dopo essersi soffermato sulla definizione di macchina e quasi macchina, il documento ricorda che nella parte introduttiva delle Direttive di prodotto sono posti i “considerando” che ne racchiudono la filosofia. I “considerando” non hanno forza legale e di solito non figurano nei recepimenti nazionali, tuttavia costituiscono un supporto per comprendere la Direttiva. La Corte di giustizia europea potrebbe tenere in considerazione i considerando per accertare le intenzioni dei legislatori.

 

Inoltre la Direttiva aggiunge due nuovi elementi chiave:

  • istituzione di un quadro giuridico entro il quale la sorveglianza del mercato possa svolgersi in modo armonioso;
  • attenzione verso il consumatore.

 

La Direttiva differenzia poi le macchine in due grandi macro gruppi:

  • macchine che devono essere certificate da Enti Terzi (macchine comprese nell’Allegato IV);
  • macchine che possono essere autocertificate dal fabbricante.

In particolare per le macchine comprese nell’Allegato IV la conformità ai RES è stabilita nel corso di procedure di valutazione eseguite da appositi Enti (Organismi Notificati).

Per tutte le altre è sufficiente redigere e conservare il Fascicolo Tecnico della Costruzione per le macchine e la Documentazione Tecnica pertinente per le quasi-macchine in accordo con quanto riportato nell’Allegato V della Direttiva. Tutte le macchine immesse sul mercato o modificate dopo l’entrata in vigore della Direttiva, devono riportare la marcatura CE ed essere accompagnate da appropriata documentazione. I prodotti non rispondenti ai RES della Direttiva non possono accedere al mercato europeo.

Il documento riporta poi le esclusioni dal campo di applicazione della Direttiva Macchine, e ricorda che, per ognuna delle possibili situazioni pericolose connesse al funzionamento di una macchina, la Direttiva fissa i principi da rispettare, cioè i RES, contenuti nell’Allegato I, che il fabbricante deve rispettare. Gli obblighi previsti dai RES si applicano se sussiste il rischio corrispondente.

In particolare l’Allegato I è suddiviso in 6 capitoli:

  • I – RES generali per tutte le macchine;
  • II – RES per talune categorie di macchine agroalimentari, portatili e per la lavorazione del legno e materie assimilate;
  • III – RES per ovviare a rischi particolari dovuti alla mobilità delle macchine;
  • IV – RES per prevenire i rischi particolari dovuti ad una operazione di sollevamento;
  • V – RES destinati ad essere utilizzati esclusivamente nei lavori sotterranei;
  • VI – RES per evitare i rischi particolari connessi al sollevamento ed allo spostamento delle persone.

Secondo la Direttiva, il fabbricante di una macchina ha l’obbligo di:

  • espletare le procedure di valutazione della conformità ai sensi dell’articolo 12;
  • accertare che la macchina soddisfi i RES dell’Allegato I;
  • costituire il Fascicolo Tecnico e fare in modo che sia disponibile, come da Allegato VIIA;
  • fornire il Manuale d’Uso e Manutenzione;
  • redigere la Dichiarazione di Conformità ai sensi dell’Allegato II;
  • apporre la Marcatura CE ai sensi dell’articolo 16.

In questo senso l’applicazione del marchio CE è l’ultima azione di una corretta produzione e dimostra che la macchina, sulla quale è apposto, è stata costruita nel rispetto di tutte le norme vigenti nell’ambito di utilizzo.

Concludiamo questa breve presentazione del documento (che affronta nel dettaglio anche il tema della marcatura CE, della dichiarazione di conformità e delle sanzioni previste dal D.Lgs. 17/10) ricordando che anche un soggetto che fabbrica una macchina per uso personale è considerato un fabbricante e deve assolvere a tutti gli obblighi di cui all’articolo 5 del D.Lgs. 17/10.

In questo caso, si segnala che anche se la macchina non viene immessa sul mercato, in quanto non è fornita dal fabbricante a un altro soggetto ma è utilizzata dal fabbricante stesso, tale macchina dovrà essere conforme alla Direttiva Macchine prima della messa in servizio. E questo vale analogamente per un utilizzatore che fabbrica un insieme di macchine per uso personale.

Il documento del Dipartimento Ingegneria Civile Edile Ambientale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II “La Direttiva Macchine (2006/42/CE)” a cura di Fabrizio Leccasi è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/160215_Uni_Na_Direttiva_macchine.pdf

 

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IL PREPOSTO NELLE SENTENZE DELLA CASSAZIONE DEGLI ULTIMI MESI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

25 febbraio 2016

di Anna Guardavilla

 

Gli obblighi informativi verso i lavoratori e di segnalazione verso i superiori, la tolleranza delle prassi pericolose quotidiane, la presenza sul luogo di lavoro, il coordinamento negli appalti, il perimetro delle sue responsabilità.

 

Il ruolo, gli obblighi e le responsabilità del preposto sono stati oggetto di numerose Sentenze emanate dalla Corte di Cassazione Penale negli ultimi due mesi, le quali hanno per lo più applicato l’articolo 19 del D.Lgs. 81/08 essendosi pronunciate sulle responsabilità connesse ad infortuni verificatisi dopo il 2008.

 

L’OBBLIGO DEL PREPOSTO DI INFORMARE I LAVORATORI ESPOSTI AL RISCHIO DI UN PERICOLO GRAVE E IMMEDIATO E DI SEGNALARE AL DATORE DI LAVORO LE SITUAZIONI DI PERICOLO

La Cassazione Penale con Sentenza n. 3626 del 27 gennaio 2016 ha confermato la condanna di un RSPP e di un preposto per il reato di lesioni personali colpose in danno di un lavoratore dipendente di una ditta produttrice di ceramiche.

L’infortunio era avvenuto durante un’operazione di smontaggio, pulitura e rimontaggio di un atomizzatore: in particolare il lavoratore, “dopo avere rimosso il materiale che occludeva la parte inferiore dell’apparecchiatura attraverso lo smontaggio del cono inferiore dello stesso, veniva attinto alla gamba sinistra dal detto cono, del peso di circa 50 chilogrammi, caduto sotto la spinta di un blocco di materiale atomizzato distaccatosi dalle pareti dell’atomizzatore”.

Riguardo ai due imputati, “al C.B. il reato é contestato nella sua qualità di preposto al reparto macinazione dello stabilimento, per aver sottostimato i rischi di caduta di materiale dall’interno dell’apparecchiatura e per avere omesso di dare al lavoratore informazioni sulle regole di prevenzione e protezione da osservare, in violazione dell’articolo 19, comma 1, del D.Lgs. 81/08; al C.D. il reato é contestato nella sua qualità di responsabile del servizio sicurezza sul lavoro dello stabilimento, per non avere individuato, nella valutazione dei rischi presso il reparto, specifiche e dettagliate misure di sicurezza da adottare durante le operazioni di pulizia e manutenzione dell’atomizzatore, in violazione dell’articolo 28, comma 2 lettera d), del D.Lgs. 81/08”.

Per quanto concerne la posizione del preposto, la sentenza specifica che “é corretta e adeguata la motivazione della sussistenza, in capo al C.B., del profilo della colpa, non avendo egli (mentre era impegnato accanto al lavoratore infortunatosi nell’esecuzione della manovra) effettuato il controllo delle pareti interne con la dovuta diligenza, posto che l’evento poi verificatosi testimonia che egli, ove mai avesse effettuato il detto controllo, vi avrebbe provveduto in modo negligente e dunque non rispondente alle regole cautelari, come tale caratterizzato quanto meno da colpa generica. E’ perciò corretto il ragionamento seguito dalla Corte territoriale laddove essa afferma che, qualora il controllo fosse stato eseguito in modo diligente, il C.B. avrebbe visto la presenza del blocco di materiale e avrebbe potuto quindi evitare che essa, cadendo, provocasse l’incidente”.

Sul tema relativo agli obblighi informativi (nei confronti dei lavoratori) e di segnalazione (nei confronti dei superiori) del preposto vi è un’altra interessante sentenza, di qualche giorno successiva alla precedente.

Infatti la Cassazione Penale con Sentenza n. 4340 del 2 febbraio 2016 ha giudicato le responsabilità di un RSPP e di un preposto alla direzione esecutiva e capocantiere, quest’ultimo “per non avere informato i lavoratori dello specifico rischio da sprofondamento e seppellimento e sulle precauzioni da prendere e per non avere segnalato al datore di lavoro o al dirigente la situazione di pericolo presente nel cantiere, ai sensi dell’articolo 119 del D.Lgs. 81/08”.

Riguardo alla posizione del capocantiere, secondo la Corte “deve respingersi la pur suggestiva tesi che vorrebbe il preposto esonerato, in questo caso, dagli obblighi di garanzia, non trattandosi di situazione di rischio accidentalmente sopravvenuta, da segnalare alla dirigenza e al datore di lavoro. Invero, qui non si è in presenza di un’inadeguatezza attinente al corredo strumentale d’azienda, già preventivamente nota al datore di lavoro, ma di una modalità di lavorazione, manifestamente in dispregio delle norme cautelari minime, che si rinnovava quotidianamente con la scelta di non proteggere le pareti degli scavi, via via aperti. Non si tratta, in definitiva, della decisione, presa una volta per tutte dal datore di lavoro o dalla dirigenza di impiegare un certo macchinario, ma del rinnovare ogni giorno una prassi lavorativa altamente rischiosa. Situazione, questa, che avrebbe imposto di segnalare ogni giorno (ammesso che la prassi lavorativa non dipenda dallo stesso preposto) la condizione di pericolo elettivo”.

Dunque “a prescindere dalla violazione del dovere di segnalazione (articolo 19, comma 1, lettera f) del D.Lgs. 81/08), risulta pienamente integrata la violazione del precetto che impone di avvisare i lavoratori esposti (articolo 19, comma 1, lettera d) del D.Lgs. 81/08)”.

Secondo la Cassazione il preposto non avrebbe dovuto avallare “condizioni […] di altissimo rischio che, in ogni caso, al momento del suo allontanamento dal cantiere avrebbero dovuto consigliargli di ordinare l’integrale sospensione dei lavori. Conclusivamente […] il capo cantiere, la cui posizione è assimilabile a quella del preposto, assume la qualità di garante dell’obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive ricevute e ne controlla l’esecuzione sicché egli risponde delle lesioni occorse ai dipendenti (vedi Sentenza della Corte di Cassazione n. 9491 del 10 gennaio 2013)”.

IL PREPOSTO E IL COORDINAMENTO NEGLI APPALTI

Nella Sentenza della Cassazione Penale n. 1836 del 18 ottobre 16 è stata contestata a un datore di lavoro e a un preposto la responsabilità per un infortunio nel quale ha perso la vita un operaio investito dal carico di una gru che si era ribaltata all’interno dell’area di cantiere in cui egli stava lavorando.

In particolare erano stati ravvisati “profili di colpa generica (negligenza, imprudenza ed imperizia) e specifica, in relazione all’articolo 7 del D.Lgs .626/94 [ora articolo 26 del D.Lgs. 81/08], in quanto il datore di lavoro non aveva promosso quell’azione di cooperazione e coordinamento per l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa in corso, al fine di garantire che l’autogrù operasse in cantiere in condizioni di assoluta sicurezza, e il preposto perché non era intervenuto con azioni correttive nel momento in cui si era reso conto dell’assenza di tale coordinamento”.

La Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata con cui il Tribunale dichiarava di non doversi procedere e ha disposto la trasmissione degli atti al Tribunale per l’ulteriore corso.

IL PERIMETRO DELLA RESPONSABILITÀ DEL PREPOSTO IN RELAZIONE A QUELLA DEL DIRIGENTE: DOVE FINISCE LA RESPONSABILITA’ DEL CAPOCANTIERE E INIZIA QUELLA DEL DIRETTORE TECNICO

Con Sentenza n. 2539 del 21 gennaio 2016 la Cassazione Penale ha rigettato il ricorso del direttore tecnico di un’impresa edile riconosciuto responsabile per l’infortunio che era occorso al capocantiere “a seguito del cedimento, per eccessivo carico (costituito da una benna carica appoggiata per l’asportazione dei detriti), del solaio”.

Secondo la Corte l’imputato (direttore tecnico, dirigente ai fini della sicurezza) “avrebbe dovuto in questa sua veste vigilare le attività quotidianamente svolte e pretendere che gli operai lavorassero ancorati a funi di sicurezza”.

Il ricorrente (direttore tecnico) si difende affermando che “rivestendo l’infortunato la posizione di capo cantiere era tenuto a rispettare le misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro e dai responsabili aziendali, non avendo egli spazi di autonomia per disattenderle, sicché la sua condotta omissiva, del tutto imprevedibile nonostante la vigilanza [del direttore tecnico] aveva reso l’infortunio tutto dipendente dalle sue scelte”.

 

Ma secondo la Cassazione “tale tesi difensiva, già disattesa dai giudici di merito, è priva di pregio”. Infatti, ricorda la Sentenza, “in tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascun garante risulta per intero destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, fino a che non si esaurisca il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia: in particolare, il direttore tecnico e il capo cantiere, figure inquadrabili rispettivamente in quella del dirigente e del preposto, sono titolari di autonome posizioni di garanzia, seppure a distinti livelli di responsabilità, dell’obbligo di dare attuazione alle norme dettate in materia di sicurezza sul lavoro”.

Pertanto “ne consegue che la nomina di un capo cantiere non implica di per sé il trasferimento a quest’ultimo della sfera di responsabilità propria del ruolo dirigenziale del direttore tecnico (vedi Sentenze della Corte di Cassazione n. 46849 del 19 dicembre 2011 e n.8593 del 27 febbraio 2008)”.

E “dunque, se è vero che il capo cantiere è destinatario diretto dell’obbligo di verificare che le concrete modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative all’interno del cantiere rispettino le normative antinfortunistiche, deve rilevarsi che nel caso di specie il capocantiere ha affermato di aver deciso autonomamente che quel solaio poteva sopportare il carico della benna piena senza bisogno di particolare accorgimenti di sicurezza, compiendo così una valutazione che si è rivelata errata, e in ciò, ad avviso della Corte di merito si incentra la responsabilità del direttore tecnico, che quale direttore tecnico di cantiere aveva il preciso obbligo di verificare il minuto rispetto delle norme di sicurezza e di far osservare quanto previsto dal Piano Operativo di Sicurezza e dal piano delle demolizioni, e non rimettere agli stessi dipendenti la salvaguardia della loro incolumità”.

In conclusione “l’imputato avrebbe dovuto vigilare e tenere sotto controllo le attività quotidianamente svolte nel cantiere, evitando di consentire ai dipendenti di operare scelte spettanti alla dirigenza e di assumere iniziative operative proprie, e nella specie avrebbe dovuto pretendere e accertarsi che gli operai lavorassero ancorati alle funi di sicurezza come previsto dal ripetuto piano delle demolizioni e non rimanere assente dal cantiere, sebbene informato del lavoro da svolgere, senza aver imposto le osservanze di salvaguardia”.

L’ASSIDUITA’ DELLA PRESENZA DEL PREPOSTO SUI LUOGHI DI LAVORO

La Cassazione Penale con Sentenza n. 49361 del 15 dicembre 2015 ha confermato l’assoluzione del capo squadra di una ditta di Costruzioni nonché preposto alla sicurezza in cantiere “nell’esecuzione dei lavori edili commissionati dalla Raffineria di G.”, al quale era stato contestato il reato di lesioni personali ai danni di un lavoratore “per aver disposto l’esecuzione di lavorazioni contrastanti con il permesso di lavoro rilasciato dal responsabile della ditta committente, e per aver omesso di informare il lavoratore infortunato della presenza di zolfo liquido all’interno di una vasca di contenimento in prossimità del quale il lavoratore si era trovato a eseguire la propria prestazione, così propiziandone la caduta all’interno della vasca e le conseguenti gravi ustioni dallo stesso riportate”.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso avanzato dal Procuratore Generale in virtù della “sostanziale inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa” e di un altro testimone nonché in virtù del fatto che risultava sufficientemente provata la “abnormità della condotta di lavoro del prestatore infortunato”, elementi che sono “valsi a escludere l’acquisizione di una certezza, aldilà di ogni ragionevole dubbio, circa la colpevolezza dell’imputato”.

E’ interessante il punto della sentenza in cui la Cassazione sottolinea “l’impossibilità di radicare in capo all’imputato un obbligo di presenza costante e continua sui luoghi di lavoro […], specie se riferiti a un comportamento, quale quello verosimilmente tenuto dalla persona offesa, del tutto estraneo alle quotidiani e abituali attività degli operai, avendo peraltro l’imputato in ogni caso comprovato il dato di una presenza comunque assidua sul cantiere, in coerenza a quanto confermato da altri testi escussi, oltre alla stessa persona offesa”.

IL PREPOSTO E LA TOLLERANZA DI PRASSI DI LAVORO PERICOLOSE IN ASSENZA DI PRESIDI ANTINFORTUNISTICI

Con Sentenza n. 4325 del 2 febbraio 2016 la Cassazione Penale ha confermato la condanna (per lesioni colpose) di un datore di lavoro e di un preposto i quali “nelle rispettive qualità hanno consentito che il lavoratore (e prima di lui altri operai), svolgesse un’attività di evidente pericolosità, senza mettere a sua disposizione l’unico mezzo di prevenzione sicuro, costituito dall’anello unico. Condotta questa aggravata dalla circostanza che la vittima era un mero apprendista al quale non era stata fornita una sufficiente formazione e informazione dei rischi del lavoro che svolgeva”.

Il datore di lavoro, in particolare, aveva “omesso di adottare tutti i provvedimenti tecnici organizzativi e procedurali necessari, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori dell’impresa, omettendo di scegliere una imbracatura e i relativi accessori di sollevamento appropriati alla natura, alla forma ed al volume di una gabbia in ferro sagomato e barre in acciaio lunga 12 m e del peso di 1.633 kg agganciata per mezzo di catene ad una gru a ponte”.

La Corte precisa che “dell’incidente dovevano rispondere il datore di lavoro e il preposto, considerato che il lavoratore non aveva avuto una sufficiente formazione e informazione, nonché per il fatto che in azienda erano tollerate e non controllate prassi di lavoro pericolose”.

E conclude: riguardo al “preposto, egli era garante dell’obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, sovraintendendo alle attività, impartendo istruzioni, dirigendo gli operai, attuando quindi le direttive ricevute. In ragione della sua “prossimità” al rischio aveva tutta la possibilità di evitare l’evento controllando ed impedendo prassi di lavoro pericolose in assenza della presenza di presidi che garantissero la sicurezza del lavoro”.

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ISDE Veneto contro l’inquinamento da PFAS

Dopo la recente pubblicazione del verbale della seduta del 13 Gennaio u.s. della Commissione tecnica che si occupa della contaminazione delle falde acquifere e della catena alimentare da PFAS in Veneto, il Coordinamento delle Sezioni Provinciali Venete dell’Associazione Medici per l’Ambiente-ISDE Italia Onlus, condivide le preoccupazioni e perplessità della responsabile della commissione.

Nel verbale si mettono in luce gravi lacune nella gestione dell’emergenza rappresentata dalla contaminazione delle acque da PFAS, che riguarda circa 350.000 persone di 60 comuni veneti.

Affiorano chiaramente difficoltà e inadeguatezze in seno alla stessa Commissione mista Regione Veneto-Istituto Superiore di Sanità nell’affrontare e governare il grave inquinamento ambientale.

Nessuno dei Membri della Commissione, tranne uno, pare si sia mai occupato prima del 2013 in modo specifico di PFAS. Per questo motivo nell’autunno 2014 la nostra associazione aveva chiesto, senza ricevere ad oggi risposta alcuna, l’inserimento nella suddetta commissione di esperti indipendenti come il Prof. Tony Fletcher della London School of Hygiene and Tropical Medicine, Londra. In considerazione della gravità della situazione venutasi a creare, il Coordinamento Regionale Veneto ISDE, ribadisce la propria disponibilità a collaborare con le istituzioni suggerendo qualificati membri dell’associazione di comprovata competenza ed esperienza da inserire nella commissione e ripropone il nome del Prof. Fletcher, che fece parte del gruppo di esperti indipendenti nominati dal tribunale dell’Ohio per gestire il caso PFAS provocato dalla Dupont.
ISDE Veneto chiede pertanto alla Commissione tecnica regionale di adoperarsi per un’azione più intensa e decisa contro l’inquinamento da PFAS, anche perché è inutile che le autorità regionali manifestino da un lato preoccupazione per l’esposizione di centinaia di migliaia di persone ai PFAS con gli alimenti e l’acqua potabile e, dall’altro lato, consentano l’innalzamento ope legis della loro dose soglia nelle acque potabili a giustificazione alla pochezza delle misure fino ad oggi intraprese per abbattere la loro concentrazione.
Né si può addossare la colpa a qualche dirigente regionale lasciato solo e senza risorse umane, economiche e tecnologiche adeguate ad affrontare con tempestività ed efficacia il problema.
ISDE Veneto chiede un urgente intervento legislativo che proibisca la produzione e la commercializzazione degli alimenti contaminati da PFAS, a difesa della salute dei cittadini veneti e delle altre regioni dove tali prodotti vengono distribuiti e, per coerenza, provveda a sospendere il rifornimento di acque “potabili” e destinate al consumo contenenti concentrazioni di PFAS fra le più alte al mondo identificando fonti di approvvigionamento alternative.
Vincenzo Cordiano, Referente ISDE Veneto e Presidente ISDE Vicenza
Giovanni Beghini, Presidente ISDE Verona
Francesco Cavasin, Presidente ISDE Treviso
Bruno Franco Novelletto, Presidente ISDE Padova

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