La statistica ingannevole delle statine

Le statine sono una classe di farmaci ampiamente usata efficaci nel ridurre i livelli plasmatici di colesterolo. Ma quanto sono efficaci e sicure nel ridurre il rischio cardiovascolare? Sicuramente meno di quanto si creda. Un articolo recentemente pubblicato ci mostra come la ricerca sulle statine è caratterizzata da una strategia di presentazione dei dati in cui le statistiche di rischio relativo e rischio assoluto sono state volutamente utilizzate da un lato per amplificare l’apparenza del beneficio, dall’altro per minimizzare i seri eventi avversi.(1) Analizzando i dati degli studi in modo trasparente è chiaro come per un beneficio molto limitato, si vada incontro a frequenti effetti collaterali. Vista la diffusione di questa categoria di farmaci, il risultato sarà che milioni di persone sane diventeranno pazienti e sperimenteranno effetti avversi senza beneficio.

 

Premessa

 

Le statine sono farmaci che riducono i livelli di colesterolo tramite l’inibizione dell’enzima HMG-CoA reduttasi. Oggi milioni di persone assumono statine, e il numero degli utilizzatori di questi farmaci è destinato a crescere con l’introduzione di nuove linee guida che ne espandono ulteriormente l’uso.

 

Ma il colesterolo è un fattore causale delle malattie cardiovascolari? La risposta a questa domanda sembra scontata, ma non è così, tanto che per decenni vi è stata un’accesa disputa tra i sostenitori del nesso causale tra il colesterolo e la malattia coronarica e gli scettici che considerano il colesterolo come un componente vitale del metabolismo cellulare. Gli argomenti dei primi si basano sulla presenza di colesterolo nel tessuto aterosclerotico e su studi che dimostrano un’associazione tra elevati livelli di colesterolo e malattia coronarica. Gli scettici, al contrario, enfatizzano come manchi un legame di causa-effetto tra elevati livelli di colesterolo e malattia coronarica. In effetti, una ricerca estesa ha documentato che la malattia coronarica può presentarsi indipendentemente dai livelli di colesterolo, e che anziani con bassi livelli di colesterolo risultano avere un’aterosclerosi sovrapponibile a quelli con livelli di colesterolo elevati.

 

Tornando alla domanda iniziale: il colesterolo è un fattore causale delle malattie cardiovascolari? Di sicuro i sostenitori del nesso di causalità hanno avuto la meglio, promuovendo la visione che “non c’è nessun dubbio circa il beneficio e la sicurezza del ridurre i livelli di colesterolo”, e definendo le statine come “farmaci miracolosi” e “l’invenzione più potente per prevenire eventi cardiovascolari”. Anche gli scettici riconoscono che il trattamento con le statine sembra ridurre gli eventi coronarici, ma un’ispezione attenta mostra come il beneficio sia molto più limitato rispetto a quanto è stato raccontato ai medici e al pubblico, e che l’effetto potrebbe derivare da altri meccanismi piuttosto che dalla riduzione dei livelli plasmatici di colesterolo.

 

Come la statistica ha fatto apparire le statine sicure ed efficaci

 

Negli esempi successivi si mostrerà come l’apparenza dell’efficacia dipenda dal fatto che i risultati sono stati descritti sfruttando il “rischio relativo” e disegnando e interpretando gli studi in modo da minimizzare gli effetti collaterali. Ma prima di analizzare i dati degli studi, è necessario comprendere la terminologia usata nella ricerca che riguarda tre termini statistici: riduzione del rischio relativo (Relative Risk Reduction), riduzione del rischio assoluto (Absolute Risk Reduction) e numero di persone da trattare (Number Needed To Treat). Per chiarire questi termini, consideriamo uno studio durato 5 anni e che ha coinvolto 2000 individui sani di mezza età. L’obbiettivo di questo studio era verificare se le statine possono prevenire una malattia coronarica. A metà dei partecipanti è stato somministrato un placebo (sostanza priva di principi attivi) e all’altra metà una statina. Durante i 5 anni di studio circa il 2% degli individui che assumono il placebo hanno un infarto miocardico non fatale contro l’1% degli individui che assumono la statina. La statina è stata quindi di beneficio all’1% degli individui e 1% è la riduzione del rischio assoluto. Messa in un altro modo, la probabilità di non avere un infarto miocardico non fatale è del 98%, mentre assumendo una statina questa probabilità si riduce ulteriormente dell’1% e arriva al 99%. Il numero di persone da trattare per ottenere un beneficio, uguale a “100/riduzione del rischio assoluto” in questo caso è 100, cioè è necessario trattare 100 persone per 5 anni perché 1 ne abbia un beneficio.

 

Quando si tratta di presentare i risultati della ricerca ai medici o al pubblico, i responsabili della ricerca sanno che le persone non saranno impressionate dall’aumento di un 1% e invece di usare la riduzione del rischio assoluto, presentano il beneficio in termini di riduzione del rischio relativo (RRR). La riduzione del rischio relativo deriva dalla riduzione del rischio assoluto ed esprime la differenza nella presenza di malattia tra i due gruppi con una frazione. Quindi, usando la riduzione del rischio relativo, i responsabili della ricerca possono dire che la statina, anziché ridurre l’incidenza di infarto miocardico non fatale da 2% a 1%, riduce l’incidenza di infarto miocardico del 50%, dato che 1 è il 50% di 2.

 

Un esempio di come l’effetto delle statine è stato ingigantito

 

Per illustrare come nei media e nella letteratura medica un effetto trascurabile del trattamento con le statine sia stato ingigantito usando la riduzione del rischio relativo, qui di seguito viene proposta un’analisi dello studio JUPITER che ha promosso l’uso della rosuvastatina. Leggendo l’articolo originale che trovate in bibliografia, trovate esempi simili tratti da altri studi che hanno promosso l’uso dell’atorvastatina (Anglo-Scandinavian Cardiac Outcomes Trial-Lipid Lowering Arm – ASCOTLLA) e della simvastatina (The British Heart Protection Study).

 

JUPITER: in questa ricerca la rosuvastatina o un placebo sono stati somministrati a 17.802 persone sane con un’elevata PCR, ma senza storia di malattia cardiovascolare o elevati livelli di colesterolo. L’obbiettivo della ricerca era verificare nei due gruppi l’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori, definiti come infarto miocardico non fatale, ictus non fatale, ospedalizzazione per angina instabile, necessità di rivascolarizzazione arteriosa, o morte secondaria ad eventi cardiovascolari. Lo studio è stato interrotto dopo un follow-up medio di 1,9 anni. Il numero di soggetti che hanno avuto eventi cardiovascolari maggiori è 251 (2.8%) nel gruppo di controllo che assumeva il placebo e 142 (1.6%) nel gruppo che assumeva la rosuvastatina. La riduzione del rischio assoluto è del 1.2% e il numero di persone da trattare (100/1.2%) è quindi 83. Nella ricerca, il beneficio per quanto riguarda il numero di infarti miocardici fatali o non fatali è anche meno: ci sono stati 68 (0.67%) eventi nel gruppo del placebo contro 13 (0.35%) nel gruppo della statina, corrispondenti a una riduzione del rischio assoluto di 0.41% e un NNT di 244, che equivale a dire che 244 persone devono essere trattate per 1,9 anni per prevenire un singolo infarto miocardico fatale o non fatale. Questo significa che per quanto riguarda gli infarti miocardici fatali e non fatali, meno dell’1% della popolazione trattata (lo 0,41%) ha beneficiato del trattamento con la rosuvastatina. Nonostante questo effetto striminzito, sui media il beneficio del farmaco è stato riportato con frasi del tipo “oltre il 50% evita un infarto miocardico”, dato che 0.41 è il 54% di 0.76. Quindi i medici e il pubblico sono stati informati di una riduzione del 54% degli infarti quando in realtà la riduzione effettiva nella popolazione trattata è di meno di 1 punto percentuale. Inoltre, la riduzione del rischio assoluto di 0.41% deriva dall’insieme di infarti miocardici fatali e non fatali. É stata prestata poca attenzione al fatto che sono morte più persone di un infarto nel gruppo che assumeva il farmaco e anche ricercatori esperti possono non aver considerato questo dato poiché non veniva esplicitato nella pubblicazione. I numeri sono nascosti in una tabella dell’articolo pubblicato: sottraendo il numero di infarti non fatali dal numero di tutti gli infarti risulta infatti che nel gruppo che assumeva la statina si sono verificati 11 infarti fatali, mentre nel gruppo di controllo solo 6.

 

Nonostante il minuscolo effetto della rosuvastatina, nei media i risultati di JUPITER sono stati gonfiati. Su Forbes Magazine, John Kastelein, uno dei coautori dello studio ha proclamato: “É spettacolare, finalmente abbiamo dei dati robusti che una statina previene un primo infarto miocardico”. Questa e altre dichiarazioni trionfanti hanno convinto l’agenzia regolatoria del farmaco americana (FDA) a raccomandare il trattamento con rosuvastatina anche a persone con normali livelli di colesterolo ed elevata PCR. Nella pubblicazione dei risultati di JUPITER, non sembra esserci differenza negli effetti avversi dei due gruppi. Comunque, nel gruppo trattato con il farmaco c’erano 260 nuovi casi di diabete contro i 216 del gruppo di controllo (3% vs 2.4%; p<0.01). Al contrario degli effetti benefici del farmaco amplificati usando il rischio relativo, l’effetto significativo dell’aumento dei nuovi casi di diabete nei pazienti che assumevano la rosuvastatina è stato espresso solo in forma di aumento del rischio assoluto. Una valutazione oggettiva di JUPITER avrebbe dovuto essere comunicata in questo modo: “La probabilità di evitare un infarto miocardico non fatale nei prossimi 2 anni è di circa il 97% senza trattamento, ma si può aumentare a circa il 98% assumendo rosuvastatina ogni giorno. Comunque, la vita non sarà prolungata ed è aumentato il rischio di diabete, senza menzionare altri effetti avversi” (che descriveremo in parte nella sezione successiva).

 

Esempi di come gli effetti collaterali delle statine sono stati minimizzati

 

Un secondo problema degli studi che riguardano le statine sono le distorsioni sistematiche per minimizzare gli effetti avversi. Come abbiamo potuto apprezzare, l’effetto benefico delle statine riguarda una riduzione dell’1-2% di eventi coronarici. Questo dato, a livello di popolazione, renderebbe le statine degli ottimi farmaci, se questi non avessero eventi avversi. Ma gli effetti collaterali sono sostanziali e includono un’aumentata incidenza di cancro, cataratta, diabete, alterazioni cognitive e malattie muscolo-scheletriche. Mentre il beneficio delle statine è sempre riportato con la forma del rischio relativo, gli effetti collaterali sono sempre espressi con il rischio assoluto. Nel seguente esempio analizzeremo uno dei seri eventi correlati all’assunzione delle statine che sono stati minimizzati: il cancro. Consiglio ancora la lettura dell’articolo originale che trovate in bibliografia, in cui potrete apprezzare come è stata sistematicamente sminuita l’importanza di altri due effetti collaterali: la miopatia e soprattutto le alterazioni cognitive.

 

Cancro: vari studi sulle statine hanno riportato un aumento dell’incidenza di cancro. In 4 di questi studi l’incremento di incidenza era statisticamente significativo. Nello studio CARE, che includeva 4159 pazienti (576 donne e 3583 uomini) con infarto e livelli di colesterolo elevati, a metà dei pazienti è stata somministrata prasuvastatina e all’altra metà un placebo. Dopo 5 anni di trattamento, 24 pazienti sono morti per patologia cardiovascolare nel gruppo che assumeva il farmaco (1.15%) contro 38 (1.83%) tra i controlli che assumevano un placebo. La riduzione del rischio assoluto è dello 0.68%. L’effetto collaterale più serio è stato il tumore alla mammella, riscontrato in 12 donne (4.2%) nel gruppo che assumeva la prasuvastatina e in 1 donna (0.34%) nel gruppo che assumeva il placebo. Anche se la differenza di incidenza tra i due gruppi è statisticamente rilevante (p = 0.0002), gli autori hanno minimizzato l’aumento del rischio scrivendo nell’articolo: “Non c’è nessuna conosciuta potenziale base biologica… la totalità dell’evidenza suggerisce che questo riscontro nello studio CARE potrebbe essere un anomalia meglio interpretata nel contesto della bassa frequenza di eventi avversi dello studio e nel valutazione statistica di vari eventi avversi”. Ma una base biologica che correla le statine all’aumento del rischio di cancro esiste, dato che un’estesa ricerca indica che le lipoproteine partecipano attivamente al funzionamento del sistema immunitario e una riduzione dei livelli di colesterolo è associata a un’aumentata incidenza di cancro. Inoltre, studi di pazienti ammalati di cancro e controlli sani hanno mostrato che i pazienti ammalati di cancro usavano statine in modo significativamente maggiore rispetto ai soggetti di controllo.

 

Un altro studio in cui è stato riscontrato un aumento dell’incidenza di cancro è PROSPER. Si tratta di una ricerca che ha coinvolto 5084 tra uomini e donne con una storia di vasculopatia o un fattore di rischio per vasculopatie. A metà dei soggetti è stata somministrata prasuvastatina, all’altra metà un placebo. Dopo un follow-up di 3,2 anni, nell’abstract dell’articolo si leggeva che la mortalità da malattia cardiaca veniva ridotta del 24% dalle statine, ma analizzando meglio una delle tabelle, il 3,3% dei pazienti era morto nel gruppo delle statine contro il 4,2% nel gruppo di controllo, per una riduzione del rischio assoluto dello 0,9%. Il piccolo beneficio sulla mortalità cardiovascolare veniva però annullato da un sostanziale numero di pazienti che morivano per un cancro: nel gruppo della prasuvastatina c’erano 28 morti in meno per patologia cardiovascolare, ma 24 morti in più per cancro. Se includiamo nel calcolo casi di cancro che non avevano (ancora) portato alla morte i pazienti, il totale era di 245 pazienti nel gruppo che assumeva il farmaco e 199 nel gruppo che assumeva il placebo, una differenza statisticamente significativa (p = 0.02). Inoltre la differenza tra i due gruppi nei casi di tumore aumentava di anno in anno. Nonostante una differenza statisticamente significativa, la conclusione degli autori era che “la più probabile spiegazione nello sbilanciamento nell’incidenza di cancro nello studio PROSPER è la casualità, che potrebbe in parte derivare dal reclutamento di individui con una malattia occulta”. Per minimizzare ulteriormente questo riscontro gli autori hanno contato il numero di nuovi tumori in tutti i precedenti studi con la prasuvastatina e trovato che presi insieme non c’era un aumento significativo. Ma nel loro calcolo gli autori hanno omesso due fattori importanti: non hanno calcolato il numero di individui con tumori della pelle e non hanno detto che negli studi precedenti i partecipanti erano di 20-25 anni più giovani. PROSPER è uno studio particolarmente importante e unico dato che le statine sono usate nelle popolazione anziana. Il cancro è un riscontro frequente negli studi autoptici delle persone anziane la cui morte è attribuita a un’altra causa, questo perché il cancro è spesso latente e cresce così lentamente che spesso non diventa un problema nel corso della vita, a meno che la crescita non sia accelerata da fattori esterni. Se il trattamento con le statine o la riduzione del colesterolo può essere un fattore che causa il cancro, come mostrato in modelli animali, è probabile che il cancro dia prima i suoi segni nella popolazione anziana. Ci sono grandi differenze tra i periodi di incubazione di tipi differenti di cancro e quelli più facili da diagnosticare sono quelli che compaiono prima. Escludere i tumori della pelle introduce una distorsione importante. Nei primi due studi che riguardavano la simvastatina, 4S e Heart Protection Study, a più pazienti tra quelli trattati erano stati diagnosticati tumori della pelle. Questi dati sono inclusi nelle tabelle degli articoli e non compaiono nel testo, forse perché la differenza non era statisticamente significativa, ma se si combinano i dati dei due studi, l’associazione tra cancro e statine diventa significativa (256/12454 vs 208/12459; p < 0.028).

 

Un’altra ricerca sulle statine in cui il cancro compare più spesso nel gruppo dei pazienti che assumono il farmaco è SEAS. In questo studio sono stati inclusi 1873 pazienti con vari gradi di stenosi aortica e con un valore medio di colesterolo di 222 mg%. La metà sono stati trattati con simvastatina e ezetimide, l’altra metà con un placebo. Eccetto che per una riduzione degli eventi ischemici, non è stato identificato nessun beneficio nei 4,3 anni di trattamento. Comunque, il cancro si è verificato in 105 (11.1%) pazienti che assumevano il farmaco ma solo in 70 (7.5%) pazienti nel gruppo di controllo, un effetto statisticamente significativo (p<0.01). Gli autori hanno notato l’aumentata incidenza di cancro nei pazienti trattati, ma hanno scritto che “dato che la terapia a lungo termine con le statine non è stata associata ad un aumento del rischio di cancro, la differenza di incidenza di cancro osservata nello studio può essere il risultato del caso”.

 

La maggior parte degli studi sulle statine terminano dopo 2-5 anni, un periodo di tempo troppo corto per valutare lo sviluppo della maggior parte dei tumori. In questo contesto è da notare che uno studio caso-controllo a lungo termine su varie migliaia di donne ha mostrato che il numero di neoplasie mammarie raddoppiava tra chi assumeva statine per più di 10 anni (OR 2.00; 1.26-3.17). Se le statine siano carcinogene o meno è una questione aperta. In ogni caso è forte l’evidenza che la riduzione del colesterolo e l’uso di statine sono entrambi associati ad un aumento del rischio di cancro.

 

Conclusione

 

La ricerca sulle statine è caratterizzata da una strategia di presentazione dei dati in cui le statistiche di rischio relativo e rischio assoluto sono state volutamente utilizzate da un lato per amplificare l’apparenza del beneficio, dall’altro per minimizzare i seri eventi avversi, che sono stati ignorati o spiegati in modo che sembrassero verificarsi per caso. Anche se solo il 10% dei pazienti che assumono statine dovesse presentare un evento avverso, il risultato sarà che milioni di persone sane diventeranno pazienti e sperimenteranno effetti avversi senza beneficio.

 

I punti da ricordate

 

  • Presentare i dati in termini di rischio relativo ha intenzionalmente fuorviato il pubblico così da esagerare il minuscolo beneficio delle statine.
  • Gli studi sulla riduzione del colesterolo in prevenzione primaria non hanno dimostrato di ridurre la mortalità e allungare la vita.
  • La riduzione della mortalità cardiovascolare negli studi di prevenzione secondaria è abbastanza bassa e raramente eccede il 2%.
  • I seri effetti collaterali del trattamento con le statine sono estremamente sottostimati. Gli effetti avversi del trattamento con statine sono molti e riguardano: diabete, alterazioni cognitive, cataratta, cancro, alterazioni muscolo scheletriche.
  • Il piccolo beneficio visto negli studi di riduzione del colesterolo è indipendente dal grado di riduzione del colesterolo.
  • Gli approcci per ridurre la mortalità cardiovascolare dovrebbero enfatizzare altri interventi: la cessazione del fumo, evitare l’obesità, il consumo di cibi poco zuccherati e di grassi parzialmente idrogenati.

 

A cura di Luca Iaboli

 

1. Diamond DM, Ravnskov U. How statistical deception created the appearance that statins are safe and effective in primary and secondary prevention of cardiovascular disease. Expert Rev Clin Pharmacol 2015;8(2):201–10 http://www.drperlmutter.com/wp-content/uploads/2015/02/Statin-data-corruption.pdf

La tombola del conflitto d’interessi

Nel numero di Natale, il BMJ, come consuetudine, pubblica articoli paradossali, paludati però di finta scientificità. Da leggere, ad esempio, “Zombie infections: epidemiology, treatment, and prevention”, in cui si descrive l’azione del virus Solanum (nome scientifico della patata!), che ha il 100% di mortalità. Divertente è pure l’articoletto tradotto qui sotto, dove viene presentata una tabella che elenca le varie giustificazioni avanzate dalla parte più permissiva del nostro io in caso di conflitto d’interessi (http://www.bmj.com/content/351/bmj.h6577). Buona lettura,

 

Giovanni Peronato

 

La tombola del conflitto d’interessi

(Pubblicato il 16 Dicembre 2015)

Citazione: BMJ 2015;351:h6577

Daniel S Goldberg, assistant professor, Department of Bioethics and Interdisciplinary Studies, Brody School of Medicine, East Carolina University; 2015-16 Honors College Faculty fellow, 600 Moye Blvd, Mailstop 641, Greenville, NC 27834, USA

 

Ho passato anni a studiare, insegnare e scrivere sul conflitto di interessi. In tutto questo tempo, ho visto proporre centinaia di giustificazioni per il profondo intreccio di interessi fra medici, scienziati e industria farmaceutica. Vi sono molte plausibili argomentazioni dietro queste relazioni, ma gli attori dell’intreccio le invocano raramente. Le motivazioni abitualmente fornite tradiscono invece la mancanza di una qualsivoglia familiarità con le sostanziose prove di efficacia che stanno dietro queste distorsioni e il conseguente impatto sul comportamento umano, compreso quello di medici e ricercatori. Qualsiasi ragionevole tentativo di giustificare intense relazioni con l’industria e il mercato deve cominciare con il prendere atto di queste prove, piuttosto che tirare in ballo giustificazioni stantie, in gran parte contraddette dalla letteratura. L’affermazione che esistono barriere sufficienti per evitare il conflitto di interessi, quali l’etica del singolo, la loro gestione istituzionale o i vari tipi di dichiarazione di conflitto d’interesse, non è basata su alcuna prova.

 

Dopo aver letto l’ennesima serie delle solite trite e ritrite giustificazioni, ho deciso di comporre una cartella per la tombola del conflitto d’interesse, allo scopo di irridere le giustificazioni più comunemente avanzate e di mostrarne la tipicità; tipicità che, ribadisco, è contraria a qualsiasi sana e robusta prova.

 

I medici e i ricercatori professano spesso un impegno a seguire le prove di efficacia, ovunque esse conducano. Coloro che cercano di giustificare ad ogni costo le profonde relazioni con l’industria dovrebbero seguire questa massima e familiarizzarsi con le prove relative al conflitto d’interessi e alle distorsioni che esso comporta. Da cui la cartella per la tombola sul conflitto d’interessi.

 

la sponsorizzazione è necessaria per avere i migliori esperti non facciamo di tutta l’erba un fascio è solo una biro sono i ricercatori che controllano il lavoro lo sponsor non ha nessuna influenza
è un regalo educativo i miei pazienti/ i miei dati hanno sempre la precedenza la scienza parla da sé siamo noi al comando è più facile lavorare con che contro l’industria
è più complesso di quello che sembra la ricerca è costosa CREAM* spazio libero non è corruzione vuoi impedire il progresso?
siamo totalmente trasparenti il denaro non mi influenza è solo una svista è solo una consulenza è innovazione
basta una corretta gestione è sufficiente dichiarare il conflitto d’interesse non esistono prove di una relazione causale come osi! l’integrità scientifica significa tutto per me

* Cash Rules Everything Around Me (il denaro domina tutto attorno a me)

CONVEGNO – Attività fisica in medicina


E’ disponibile la registrazione completa del seminario organizzato dallL’ASL di Cagliari  sul   tema  dell’attività fisica in medicina, andato in diretta streaming il 19/02/2016.

Informazioni sull’Evento

PER GUARDARE LA REGISTRAZIONE FAI CLICK SUL RETTANGOLO SOTTO

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DIRETTA STREAMING – Attività fisica in medicina


E’ disponibile la diretta streaming del seminario organizzato dallL’ASL di Cagliari  sul   tema  dell’attività fisica in medicina.

Informazioni sull’Evento

PER SEGUIRE LA DIRETTA STREAMING FAI CLICK SUL RETTANGOLO SOTTO

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.244 DEL 18/02/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.244 DEL 18/02/16

 

INDICE

  • Le “Frequently Asked Questions” di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights! – n.9
  • I dirigenti devono garantire la sicurezza anche se non hanno un’investitura formale
  • Depenalizzazione: i chiarimenti del ministero del lavoro

–         Fibre artificiali vetrose: le linee guida e effetti sulla salute

–         Rischio esplosione: normativa ATEX e sistemi di protezione

  • Rischio rumore: come valutare l’esposizione dei lavoratori
  • Infortunio per comportamento abnorme e mancata formazione: le responsabilità

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO – KNOW YOUR RIGHTS! – N.9

 

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.

In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.

Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.

Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

 

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Ciao Marco,

ho un dubbio.

Io sono preposto in un appalto (impresa di pulizie).

Lavoriamo di sera fino alle 22. Se sono presente aspetto l’uscita di tutti gli addetti prima di andarmene cosi da avere la certezza che tutti stiano bene, ma quando non ci sono io questa mansione dovrebbe essere svolta dal preposto di fatto che si rifiuta e alle 21.55 sono già tutti nei pressi della timbratrice, lasciando indietro i lavoratori più lenti.

Se dovesse accadere qualcosa duranti la mia assenza posso essere considerato responsabile?

 

Ciao,

presumo da quanto scrivi che tu sia stato nominato preposto in maniera formale.

Tu operi correttamente aspettando l’uscita di tutti i lavoratori e da questo punto di vista non hai nessuna responsabilità.

Il problema si pone quando tu non ci sei ed è presente quello che tu definisci un “preposto di fatto”, quindi persona con responsabilità (anche se non formale, appunto di fatto) nei confronti degli altri lavoratori che non si attiene a quanto tu fai.

Il problema è che tu, in quanto preposto, sei a conoscenza di una situazione di potenziale pericolo per i lavoratori, non per causa tua, ma per causa sia dell’altro “preposto di fatto”, sia della mancanza di una procedura aziendale formale che imponga a te e, in tua assenza, all’altro preposto di fatto di aspettare l’uscita di tutti i lavoratori.

Tieni conto che l’articolo 19, comma 1, lettera f) del D.Lgs.81/08 (Testo Unico per la sicurezza) impone come obbligo a carico del preposto quello di:

segnalare tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente sia le deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra condizione di pericolo che si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta”.

Pertanto, tu, essendo venuto a conoscenza di una situazione di pericolo (il fatto che alcuni lavoratori rimangano da soli), hai l’obbligo di segnalarlo (possibilmente in maniera formale) al tuo dirigente o datore di lavoro, specificando che, mentre tu aspetti tutti i lavoratori, il tuo collega non lo fa e chiedendo di formalizzare una procedura o un ordine di servizio che imponga anche al tuo collega di aspettare tutti i lavoratori.

In questo modo ti sollevi completamente da qualunque responsabilità. Se l’azienda non definisce la procedura e/o non vigila sull’operato del tuo collega in tua assenza, non è certo colpa tua.

Ma la segnalazione del pericolo è comunque cosa da fare.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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Buongiorno Marco,

vorrei porti un quesito, riguardante la sicurezza a scuola.

Sono una maestra statale di Sanremo. L’insegnante fiduciaria del plesso in cui lavoro oggi mi ha consegnato un modulo da compilare, e restituire al dirigente dell’istituto scolastico, in cui io dovrei dichiarare che dal giorno X ho portato nella mia sede di servizio uno strumento di personale proprietà (a copertura di carenza strumentale dell’istituzione) con descrizione dello stesso (ad esempio computer, iPad, ecc.).

Nonostante io sia stata, in passato, anche RLS, non riesco a capire in base a quale normativa io dovrei dichiarare quali strumenti di mia proprietà uso a scuola.

Se puoi, per favore, fammi sapere se sono tenuta o meno a compilare il modulo.

Ti ringrazio sin d’ora.

 

Ciao,

innanzitutto trovo aberrante che la scuola pubblica chieda ai professori di portare propria strumentazione “a copertura di carenza strumentale dell’istituzione”.

D’altro canto se agli alunni si chiede di portate la carta igienica, non ci si può aspettare altro.

Da un punto di vista della sicurezza sul lavoro, non ci sono particolari responsabilità, in quanto strumenti come computer, tablet, ecc. sono marcati CE e quindi sicuri.

Credo che il modulo che ti vogliono fare firmare sia una forma di garanzia nei tuoi confronti in caso di furto, rottura o altro. Pertanto oltre al tipo di strumentazione segna anche il modello e numero di matricola

Tieni conto però che prestando una tua attrezzatura alla scuola, rientri comunque nell’ambito di applicazione del D.Lgs.81/08.

Infatti l’articolo 72 comma 1 di tale Decreto impone come obblighi a carico dei noleggiatori e dei concedenti in uso il seguente:

Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1, deve attestare, sotto la propria responsabilità, che le stesse siano conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisiti di sicurezza di cui all’allegato V”.

Nel tuo caso tu concedi in uso, a titolo gratuito, la tua attrezzatura alla scuola e quindi ricadi, almeno teoricamente, nell’ambito di applicazione di tale articolo.

Ripeto però che non ci sono particolari problemi, in quanto se si tratta di attrezzature elettroniche (computer, tablet, ecc.) queste sono sicuramente marcate CE e quindi certificate secondo le applicabili Direttive Europee di Prodotto (Direttiva Bassa Tensione e Direttiva Compatibilità Elettromagnetica). Quindi esse non rientrano tra le attrezzature costruite “al di fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1” e tu non devi fare proprio niente.

Ti consiglio comunque, onde evitare possibili problemi, di aggiungere la frase:

Il sottoscritto manleva ogni responsabilità derivante da un uso non conforme alle istruzioni del fabbricante dell’attrezzatura portata all’interno della scuola”, tanto per garantirti da eventuali usi non conformi (ad esempio smontaggio della parte elettrica) dell’attrezzatura.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.

Marco

 

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Ciao Spezia,

sono RSU di Cobas del privato.

Ti invio questa richiesta.

In un magazzino logistica abbiamo indetto elezioni per il RLS e per sfortuna ha vinto una candidata UIL, la quale non è mai in azienda e ci risulta in malattia o permesso (non sappiamo). Ma comunque è assente dal magazzino da febbraio 2015.

Cosa possiamo fare?

Il secondo eletto era Cobas.

Possiamo chiedere all’azienda di sollevare dall’incarico il RLS, mettere al suo posto il secondo eletto o indire nuove elezioni.

Ti ringrazio per la risposta.

 

Ciao,

ho analizzato i CCNL relativi al settore logistica privata, ma nessuno di essi esamina il caso che tu segnali, né da indicazioni su come sfiduciare o chiedere le dimissioni di un RLS che non svolga in maniera corretta il proprio ruolo.

Tieni conto che anche il D.Lgs.81/08 (Testo Unico sulla Sicurezza) attribuisce al RLS dei diritti, ma nessun dovere o obbligo legislativo.

Dei CCNL esaminati l’unico che affronta l’aspetto dei RLS è il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro di Logistica, Trasporto merci e Spedizione del 29 gennaio 2005, che all’articolo 43 “Rappresentante per la sicurezza (RLS), specifica quanto segue:

1) La figura del RLS è disciplinata dall’articolo 18 del D.Lgs.626/94 [attualmente articolo 47 del D.Lgs.81/08], in base al quale detta figura è eletta o designata in tutte le aziende o unità produttive, nonché dall’Accordo interconfederale del 24/07/96.

2) Nelle aziende o unità produttive fino a 15 dipendenti il RLS è eletto direttamente dai lavoratori al loro interno. Ai sensi del citato articolo 18, del D.Lgs.626/94, nelle aziende che occupano fino a 15 dipendenti il RLS può altresì essere individuato per più aziende nell’ambito territoriale; la disciplina del Rappresentante territoriale per la sicurezza e le relative modalità di nomina saranno stabilite in sede di contrattazione integrativa territoriale anche nell’ambito degli Osservatori regionali.

3) Nelle aziende o unità produttive con più di 15 dipendenti i RLS si individuano tra i componenti della RSU. La procedura di elezione è quella applicata per le elezioni della RSU. Nei casi in cui la RSU non sia stata ancora costituita (e fino a tale evento) e nell’unità produttiva operino le RSA, i RLS sono eletti dai lavoratori al loro interno.

4) I RLS restano in carica 3 anni”.

Il citato Accordo Interconfederale del 24 Luglio 1996 Tra Confetra e CGIL, CISL e UIL sulla Sicurezza sul Lavoro si limita a specificare le modalità di elezione o designazione del RLS.

Nelle aziende o unità produttive fino a quindici dipendenti le modalità sono le seguenti.

L’elezione si svolge a suffragio universale diretto e a scrutinio segreto, anche per candidature concorrenti. Risulterà eletto il lavoratore che ha ottenuto il maggior numero di voti espressi.

Prima dell’elezione, i lavoratori nominano tra di loro il segretario del seggio elettorale, il quale, a seguito dello spoglio delle schede, provvede a redigere il verbale dell’elezione. Il verbale è comunicato senza ritardo al datore di lavoro.

Hanno diritto al voto tutti i lavoratori iscritti a libro matricola e possono essere eletti tutti i lavoratori non in prova con contratto a tempo indeterminato che prestano la propria attività nell’unità produttiva.

La durata dell’incarico è di 3 anni”.

Nelle aziende o unità produttive con più di quindici dipendenti le modalità sono le seguenti.

All’atto della costituzione della RSU il candidato a rappresentante per la sicurezza viene indicato specificatamente tra i candidati proposti per l’elezione della RSU.

La procedura di elezione è quella applicata per le elezioni delle RSU.

Nei casi in cui sia già costituita la RSU ovvero siano ancora operanti le rappresentanze sindacali aziendali, per la designazione del rappresentante per la sicurezza si applica la procedura che segue.

Entro novanta giorni dalla data del presente accordo i RLS sono designati dai componenti della RSU al loro interno.

Tale designazione verrà ratificata in occasione della prima assemblea dei lavoratori.

Nei casi in cui la RSU non sia stata ancora costituita (e fino a tale evento) e nella unità produttiva operino le RSA delle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie, i RLS sono eletti dai lavoratori al loro interno secondo le procedure sopra richiamate per le unità produttive con numero di dipendenti inferiore a 16, su iniziativa delle organizzazioni sindacali.

In assenza di rappresentanze sindacali in azienda, i RLS sono eletti dai lavoratori dell’azienda al loro interno secondo le procedure sopra richiamate per il caso delle unità produttive con numero di dipendenti inferiori a 16, su iniziativa delle Organizzazioni Sindacali.

Il verbale contenente i nominativi dei RLS deve essere comunicato alla direzione aziendale, che a sua volta ne dà comunicazione, per il tramite dell’associazione territoriale di appartenenza, all’organismo paritetico territoriale che terrà il relativo elenco.

I rappresentanti per la sicurezza restano in carica 3 anni”.

Nel vostro caso pertanto non avete molti spazi di manovra.

Una prima cosa che ti consiglio di fare è verificare che l’elezione o designazione della RLS della UIL sia stata fatta secondo quanto stabilito dall’Accordo di cui sopra, richiamato a sua volta dal vostro CCNL.

Se ciò non è stato fatto potete contestare le modalità di elezione o designazione e richiedere che essa sia ripetuta e svolta secondo l’Accordo.

Se invece le elezioni si sono svolte secondo le modalità previste, non vi resta che convincere la RLS a dimettersi (magari coinvolgendo la UIL locale), giustificando la richiesta con l’oggettiva difficoltà o impossibilità per la RLS di svolgere il proprio ruolo e poi richiedere di indire una nuova elezione o designazione.

Se la RLS non si vuole dimettere, non vi resta che aspettare la scadenza del mandato triennale (secondo CCNL e Accordo).

Rimane un’ulteriore possibilità che però non è avvallata da sostegno legislativo, né contrattuale che è quella di richiedere l’intervento del RLS Territoriale (possibilmente della UIL) a cui fare presente che, tenendo conto che la RLS aziendale non è in grado di svolgere il suo ruolo, è necessario che esso venga svolta appunto dal RLS Territoriale.

Nulla potete invece nei confronti dell’azienda, in quanto essa non ha alcun poter in merito alla elezione del RLS e allo svolgimento dei sui compiti, ma ha solo l’obbligo di permettergli l’esercizio delle sue attribuzioni. Se il RLS non esercita tali attribuzioni, l’azienda non è tenuta a farglielo fare.

A disposizione per eventuali chiarimenti.

Marco

 

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Buongiorno Marco,

chi ti scrive è un RLS di una grossa cooperativa di lavoratori che si occupa di logistica, movimentazione merci, ricevimento e spedizioni merci.

Da qualche mese nel nostro magazzino è stato introdotto il “voice picking”, cioè la preparazione degli ordini su bancale tramite sistemi di riconoscimento vocale, introdotto dal datore di lavoro per velocizzare i processi aziendali, in sintesi per aumentare la produttività.

Il principio di base del sistema è quello di sostituire al video di un terminale i comandi vocali trasmessi nella cuffia, e, al lettore di barcode, o alla tastiera, la voce dell’operatore raccolta dal microfono. I sistemi per il riconoscimento vocale identificano come dati le parole pronunciate dai lavoratori e forniscono come risposta le istruzioni e le conferme via audio.

Questa tecnologia, a mio modesto avviso, comporta comunque dei rischi, legati all’inquinamento elettromagnetico: 8 ore al giorno con la cuffia e il dispositivo sempre acceso.

In rete internet non ho rintracciato riscontri su possibili rischi alla salute dei lavoratori che utilizzano questa nuova tecnologia. Se tu fossi a conoscenza di problematiche relative a questo tema, te ne sarei molto grato.

Ti ringrazio anticipatamente.

 

Ciao,

personalmente non ho esperienze dirette sul sistema di “voice picking”, né ho trovato documentazione sul rischio da campi elettromagnetici (CEM) relativo a tale tecnologia.

Per mia esperienza personale, relativa a CEM di sistemi di trasmissione dati wireless, ti posso però dire che, stando almeno ai limiti definiti dal D.Lgs.81/08 (Decreto), non sussistono particolari rischi.

In particolare ho eseguito misurazioni dirette di intensità di CEM ad alta frequenza sui seguenti apparati, simili come frequenze di emissione e potenza al sistema “voice picking”:

  • reti wireless aziendali;
  • sistemi di trasmissione dati da monitor su gru portuali;
  • sistemi di trasmissione dati da monitor su carrelli elevatori.

In tutti tali casi i valori misurati per il campo elettromagnetico “E” risulta di pochi V/m (minori di 5) a fronte del limite più cautelativo (in funzione della frequenza) definito dalla parte B dell’Allegato XXXVI del Decreto, che è di 61 V/m tra i 10 e i 400 MHz.

Gli apparati misurati, anche se non a diretto contatto con la testa dell’operatore, risultavano in molti casi (carrelli e gru) molto vicini (meno di 200 mm) dalla testa.

Ritengo quindi che anche per i sistemi di “voice picking” i valori di “E” di cui sopra non debbano essere superati.

Ti ricordo comunque che è obbligo specifico del datore di lavoro della tua azienda aggiornare il Documento di Valutazione del Rischio (DVR) a seguito dell’introduzione del sistema di “voice picking” (articolo 29, comma 3 del Decreto), in quanto trattasi “di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori”.

La valutazione del rischio da CEM è disciplinata dal Titolo VIII Capo IV del Decreto, che all’articolo 209, comma 1, specifica che il datore di lavoro, nell’ambito del DVR di cui agli articoli 17, comma 1, lettera a), 28 e 29 “valuta e, quando necessario, misura o calcola i livelli dei campi elettromagnetici ai quali sono esposti i lavoratori”.

 

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NOTA

Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:

ASL = Azienda Sanitaria Locale

CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro

DPI = Dispositivi di Protezione Individuali

DVR = Documento di Valutazione dei Rischi

DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto

RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione

RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza

D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)

 

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I DIRIGENTI DEVONO GARANTIRE LA SICUREZZA ANCHE SE NON HANNO UN’INVESTITURA FORMALE

 

Da Il Sole 24 Ore

http://www.ilsole24ore.com

22 gennaio 2016

Giovanni Negri

 

Sono rimasti inerti di fronte alla gravità dello sciame sismico che colpiva L’Aquila già da mesi, e che era particolarmente insistente la notte del crollo del Convitto Nazionale (tre ragazzini morti e due feriti) il 6 aprile 2009, mentre i due imputati, entrambi con posizione di garanzia, avrebbero dovuto dichiarare da tempo l’inagibilità della scuola la cui instabilità era nota.

Almeno quella notte, avrebbero potuto organizzare l’evacuazione degli studenti.

 

Per queste ragioni la Corte di Cassazione con Sentenza del 21/01/16, ha confermato le condanne per omicidio colposo e lesioni per l’ex Rettore del Convitto e per l’allora dirigente provinciale responsabile dell’edilizia scolastica.

“La situazione di allarme sismico era talmente conclamata che il sindaco di L’Aquila aveva disposto la chiusura di tutte le scuole del centro storico” – ricorda la sentenza – “Se fosse stata fatta la valutazione di pericolosità, non sarebbe mancata una analoga ordinanza di inagibilità che avrebbe salvato gli allievi del convitto”.

 

La Corte di Cassazione, poi, sul piano più squisitamente giuridico, interviene a favore di una concezione sostanziale della posizione di garanzia. In questo senso è maestra la Sentenza delle Sezioni Unite Penali del 24 aprile 2014 sulla vicenda Thyssen-Krupp per la quale la posizione di garanzia può essere prodotta non solo da un’investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante.

Di particolare importanza è allora concentrare l’attenzione sulla concreta organizzazione della gestione del rischio: milita in questo senso, osserva la Corte, l’articolo 299 del Testo unico sulla sicurezza del lavoro.

 

Del resto, avverte la Sentenza, bisogna fare riferimento “a una visione eclettica della fondazione del ruolo di garanzia che ha in parte superato la storica concezione formale. Si è sviluppata una elaborazione sostanzialistico-funzionale che non fa più leva tanto su profili formali quanto piuttosto sulla funzione dell’imputazione per omissione, connessa all’esigenza di natura solidaristica di tutela di beni giuridici attraverso l’individuazione di un soggetto gravato dal ruolo di garante della loro protezione”.

 

Si tratta di un’impostazione che, agli occhi dei giudici della Cassazione, presenta una pluralità di vantaggi. Innanzitutto, nella prospettiva dell’ordinamento penale, seleziona in senso restrittivo il dovere di agire nell’ambito di una sterminata lista di obblighi presenti nell’ordinamento.

In questo modo possono anche essere fronteggiate situazioni nelle quali, anche se esiste un vizio della fonte contrattuale dell’obbligo, c’è stata l’assunzione effettiva di un ruolo di garante, la cosiddetta, precisa la Corte, presa in carico del bene protetto. Come pure possono essere affrontate situazioni analoghe a quelle previste dalla fonte legale dell’obbligazione, come nel caso della consolidata convivenza in un rapporto familiare o istituzionale.

 

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DEPENALIZZAZIONE: I CHIARIMENTI DEL MINISTERO DEL LAVORO

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

14 febbraio 2016

di Valeria Zeppilli

 

DEPENALIZZAZIONE: I CHIARIMENTI DEL MINISTERO DEL LAVORO

LE INDICAZIONI CONTENUTE NELLA CIRCOLARE MINISTERIALE 6/15 IN RELAZIONE AI REATI COINVOLTI DALLA RIFORMA

 

Anche il Ministero del Lavoro, con la circolare numero 6 del 5 febbraio 2016 ha detto la sua in materia di depenalizzazione, fornendo chiarimenti operativi a tutto il personale ispettivo, per permettere un’applicazione corretta delle nuove previsioni, in particolare quelle riguardanti la materia del lavoro e della legislazione sociale.

 

Il Ministero ha innanzitutto ricordato che la depenalizzazione è esclusa per i reati di cui al Testo Unico in materia di salute e sicurezza dei luoghi di lavoro, che, quindi, conservano la loro natura penale anche nel caso in cui siano puniti con la sola pena pecuniaria.

 

Per gli illeciti coinvolti nella depenalizzazione, invece, il Ministero chiarisce che due sono i regimi sanzionatori oggi previsti: quello applicabile agli illeciti commessi prima del 6 febbraio (cosiddetto “regime intertemporale”) e quello applicabile agli illeciti commessi dopo (cosiddetto “regime ordinario”). Chiarendo, quindi, come devono comportarsi gli organi ispettivi nell’uno e nell’altro caso.

 

La Circolare ricorda, poi, che a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 8/16 il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, di cui all’articolo 2, comma 1-bis, del Decreto Legge numero 463 del 1983 è oggi “scomposto” in due diverse fattispecie di illecito: una di natura penale e l’altra di natura amministrativa.

 

In particolare, è penale il caso in cui l’omissione ecceda i dieci mila euro annui: la sanzione, in tal caso, continua infatti ad essere quella della reclusione fino a tre anni e della multa fino a 1.032 euro.

E’ invece ora soggetta alla sola sanzione amministrativa compresa tra 10.000 euro e 50.000 euro l’omissione che non eccede i 10.000 euro annui.

 

Il tutto con la precisazione generale che il datore di lavoro che provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione non è penalmente punibile né amministrativamente sanzionabile.

 

Il Ministero chiarisce poi che per individuare l’Autorità Competente a contestare la relativa sanzione occorre far riferimento al criterio di cui all’articolo 35, comma 2, della Legge 689/81, in base alla quale l’ordinanza-ingiunzione per le violazioni consistenti nell’omissione totale o parziale del versamento di contributi e premi è emessa dagli enti e istituti gestori delle forme di previdenza e assistenza obbligatori. Ovverosia, dalla sede provinciale INPS territorialmente competente.

 

la Circolare numero 6 del 5 febbraio 2016 del Ministero del Lavoro è scaricabile all’indirizzo:

http://www.lavoro.gov.it/Strumenti/normativa/Documents/2016/Circolare%20n%206%20del%202016.pdf

 

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FIBRE ARTIFICIALI VETROSE: LE LINEE GUIDA E EFFETTI SULLA SALUTE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

28 gennaio 2016

di Tiziano Menduto
Le nuove linee guida inerenti i rischi di esposizioni alle fibre artificiali vetrose e i potenziali effetti sulla salute.

Gli effetti infiammatori sulle strutture polmonari, gli effetti irritativi, il rischio cancerogeno e gli obiettivi delle linee guida.

 

Le fibre artificiali vetrose, chiamate anche con l’acronimo FAV, sono materiali che appartengono ad un’ampia famiglia di fibre artificiali inorganiche, con caratteristiche che differiscono non solo in funzione dell’utilizzo finale ma anche delle modalità di produzione. In relazione al processo produttivo possiamo ad esempio distinguere:

  • fibre a filamento continuo: prodotte per fusione in filiere e successiva trazione (il diverso tenore di silice ne condiziona le differenti proprietà tecniche e i relativi utilizzi in campo tessile, per usi elettrici, per rinforzo per plastica e cemento);
  • lane(di vetro, lana di scoria e lana di roccia): prodotte dopo fusione delle materie prime, principalmente per fibraggio in centrifuga o centrifugazione/soffiatura (buona resistenza alla trazione e bassa resistenza all’impatto e all’abrasione, alto isolamento termico-acustico);
  • fibre ceramiche: prodotte con soffiatura/filatura, attraverso processi chimici a temperature più elevate (hanno un’estrema resistenza alle alte temperature, bassa conducibilità termica,elettrica ed acustica, risultano inattaccabili dagli acidi);
  • fibre speciali(microfibre di vetro).

 

E proprio in relazione alla grande diffusione di queste fibre per le particolari proprietà delle FAV il Ministero della Salute è intervenuto prima con la Circolare n. 23 del 25 novembre 1991 e successivamente ha istituito un gruppo di lavoro che è arrivato alla definizione delle linee guida “Le Fibre Artificiali Vetrose (FAV): Linee guida per l’applicazione della normativa inerente ai rischi di esposizioni e le misure di prevenzione per la tutela della salute”, approvate dalla Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano nella seduta del 25 marzo 2015.

 

A presentare e raccontare in questo modo le linee guida approvate è un intervento di Giancarlo Marano (Ministero della Salute) che si è tenuto al recente convegno organizzato da Assoprev e dal titolo “FAV – Le fibre artificiali vetrose. Linee Guida della Conferenza Stato Regioni sui rischi e le misure di prevenzione per la tutela della salute” (Milano, 3 Dicembre 2015).

 

Nell’intervento “FAV: obiettivi delle linee guida e percorso di elaborazione”, a cura di Giancarlo Marano, si indicano brevemente le motivazioni che hanno portato alla stesura delle linee guida:

  • necessità di differenziazione dei rischi in relazione alle diverse caratteristiche delle FAV;
  • assenza di stime del numero degli esposti per ragioni professionali;
  • assenza di valori limite o di riferimento per le FAV riguardanti la qualità dell’aria in ambienti di lavoro;
  • necessità di sistematizzare le informazioni sulla tossicità delle FAV in relazione alla classificazione in ambito REACH e CLP.

Motivazioni che comprendevano anche la necessità di rispondere alle sollecitazioni pervenute dalle ASL in relazione a diverse problematiche per gli Operatori della Prevenzione nell’intervenire e verificare la conformità in tutte le fasi di utilizzo delle FAV, dalla commercializzazione, all’uso e controllo dei materiali fibrosi sintetici da rimuovere.

 

Era poi necessario fornire informazioni aggiornate e corrette alla popolazione sui possibili effetti sulla salute che possono derivare da un’esposizione a FAV e sul prevedibile impatto sulla salute e sull’ambiente in occasione di demolizioni con possibile liberazione di fibre nell’aria circostante.

 

L’intervento si sofferma ampiamente anche su alcune considerazioni generali relative agli effetti sulla salute della FAV.

 

Ad esempio si indica che:

  • la forma, le dimensioni e il rapporto dimensionale lunghezza/diametro (L/D), sono parametri importanti per la tossicità di una qualsiasi fibra in quanto ne determinano le proprietà aerodinamiche, che condizionano sostanzialmente le caratteristiche di inalabilità, deposito e biopersistenza;
  • gli effetti sulla salute che possono derivare da un’esposizione a FAV risultano sostanzialmente condizionati dall’interazione tra le caratteristiche chimico-fisiche e tossicologiche presentate dalle diverse fibre, rispetto alle capacità difensive dell’organismo esposto; capacità che possono variare in relazione a fattori di rischio voluttuari (fumo di sigaretta) e per fattori di rischi individuali in grado di incidere negativamente sui meccanismi difensivi che assicurano la rimozione, l’allontanamento e l’espulsione o la dissoluzione delle particelle o fibre depositate, in rapporto al livello, durata e modalità di esposizione.

 

E riguardo ai potenziali effetti infiammatori sulle strutture polmonari si indica che:

  • come conseguenza del loro depositarsi in un qualunque tratto delle vie respiratorie, le FAV in rapporto alle caratteristiche di biopersistenza possedute, sono in grado di attivare processi infiammatori, con presenza di cellule infiammatorie negli spazi alveolari, interstiziali peribronchiali e perivasali;
  • per le fibre ad elevata biopersistenza, attraverso l’attivazione di fibroblasti e la deposizione di matrice connettivale possono innescarsi anche alterazioni anatomopatologiche del parenchima polmonare.

 

In particolare gli effetti irritativi delle FAV con diametro maggiore di 4μm su cute e mucose sono oramai accertati (NIOSH, 2006). Gli effetti irritativi comunque osservati sarebbero da ascrivere ad azione di tipo meccanico (sfregamento) e non alla composizione chimica. Non sono invece risolutive, per l’esiguità degli studi disponibili, le osservazioni relative a patologie cutanee allergiche attribuite ad additivi utilizzati per la lavorazione delle FAV.

 

Veniamo al rischio cancerogeno.

Riguardo alla cancerogenicità le diverse caratteristiche fisiche e chimiche delle FAV non permettono un’individuazione generalizzata degli eventuali meccanismi di cancerogenesi potenzialmente correlabili all’esposizione, anche in relazione alle potenzialità cancerogene mostrate da alcune FAV (fibre ceramiche), che ne ha determinato la classificazione come cancerogene, il meccanismo dell’azione tossica non risulta ancora del tutto chiarito. In analogia a quanto rilevato nei confronti dell’asbesto, anche in questo caso si potrebbe assumere che il coinvolgimento di queste fibre artificiali nella produzione di radicali liberi di ossigeno possa rappresentare uno degli elementi più importanti nel dare il via al processo di oncogenesi, innescando un danno al genoma cellulare, quale conseguenza dello stress ossidativo, con conseguente mutazione ed eventuale trasformazione in cellule neoplastiche.

 

Si ricorda che nella monografia IARC del 2002 si è concluso per una inadeguata evidenza di cancerogenicità delle lane minerali nell’uomo con riclassificazione nel gruppo 3 (non classificabile come cancerogeno per l’uomo). Tale osservazione è ripresa nella attuale classificazione europea che prevede per le lane minerali (numero di indice: 650-016-00-2) la categoria 2 per la cancerogenesi.

In ogni caso l’attribuzione della classificazione “cancerogeno” è strettamente collegata al diametro medio geometrico della fibra e alla presenza degli ossidi alcalini e alcalino terrosi.

E con riferimento alle indicazioni e alle note relative alla classificazione di pericolo (vedi ad esempio il regolamento CLP), le fibre a filamento continuo con diametro medio geometrico pesato sulla lunghezza > 6μm, caratterizzate dalla proprietà di mantenere costante il diametro in caso di frammentazione sono esentate dalla classificazione come cancerogene poiché soddisfano i requisiti della nota R.

 

Dunque le linee guida, hanno voluto assicurare una corretta valutazione e consapevolezza dei rischi da parte di tutti i soggetti interessati, compresi gli utilizzatori finali, sia negli ambienti di lavoro che di vita e favorire sul piano della tutela della salute (superando anche aspetti tecnici cruciali, quali la metodologia analitica di riferimento da utilizzare per la determinazione della corretta classificazione delle diverse FAV oggi presenti sul mercato) l’adozione di misure di prevenzione adeguate, in linea con la vigente normativa, avendo come destinatari particolari, ma non esclusivi, sia i datori di lavoro che gli organi di vigilanza, che hanno la responsabilità di garantire il pieno rispetto della normativa.

 

E, conclude il relatore, l’obiettivo perseguito è stato quello non solo di fornire un valido contributo per poter assumere decisioni utili a tutelare il bene comune anche in termini di tutela dell’ambiente e del lavoro, ma anche di orientare positivamente il nostro modo di comportarci senza enfatizzazione o sottovalutazione del livello di rischio, riconducibile alla diversa composizione delle fibre artificiali vetrose, che ne determina anche i potenziali effetti biologici sostanzialmente diversi.

 

Il documento “FAV: obiettivi delle linee guida e percorso di elaborazione”, a cura di Giancarlo Marano (Ministero della Salute) è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151214_FAV_linee_guida.pdf

 

Il documento “Conferenza Stato-Regioni del 25/03/15: Intesa sulle Linee guida per l’applicazione della normativa inerente i rischi di esposizioni e le misure di prevenzione per la tutela della salute alle fibre artificiali vetrose (FAV)” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.statoregioni.it/Documenti/DOC_046926_59%20CSR%20PUNTO%2012%20ODG.pdf

 

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RISCHIO ESPLOSIONE: NORMATIVA ATEX E SISTEMI DI PROTEZIONE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

8 febbraio 2016
Una tesi di laurea affronta il tema delle atmosfere potenzialmente esplosive e della normativa ATEX correlata.

Focus sulla nuova direttiva ATEX 2014/34/UE e sui sistemi di protezione dalle esplosioni.

 

Le tesi di laurea universitarie sono a volte un luogo di riflessione sulle strategie di prevenzione e quasi sempre una buona sintesi, con un linguaggio comprensibile, delle problematiche inerenti la sicurezza e i fattori di rischio.

E’ questo il caso di una tesi di laurea che ha affrontato il tema del rischio esplosione e la normativa ATEX correlata, con riferimento anche alla Direttiva 2014/34/UE che andrà ad abrogare la Direttiva 94/9/CE con effetto decorrente dal 20 aprile 2016.

 

Stiamo parlando della tesi di laurea di Paolo Federle, dal titolo “Macchine e apparecchiature in ambienti ATEX”, elaborata per il corso di laurea in ingegneria meccatronica, dipartimento di tecnica e gestione dei sistemi industriali dell’ Università degli Studi di Padova.

 

La tesi ricorda che un’atmosfera esplosiva è definita come una miscela:

  • di sostanze infiammabili allo stato di gas, vapori, nebbie o polveri;
  • con aria;
  • in determinate condizioni atmosferiche;
  • in cui, dopo l’innesco, la combustione si propaga all’insieme della miscela non bruciata.

E si indica che un’atmosfera suscettibile di trasformarsi in atmosfera esplosiva a causa delle condizioni locali e operative viene definita atmosfera potenzialmente esplosiva. Ed è solo a questo tipo di atmosfera potenzialmente esplosiva che sono destinati i prodotti oggetto delle Direttive ATEX.

 

Nel documento viene presentata la normativa ATEX, con particolare riferimento alla nuova Direttiva 2014/34/UE.

Infatti il 29 marzo 2014 è stata pubblicata la nuova Direttiva 2014/34/UE sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, una direttiva che andrà ad abrogare la vecchia 94/9/CE e che riguarda “l’armonizzazione delle legislazioni degli stati membri relative alle apparecchiature e ai sistemi di protezione destinati a essere utilizzati in atmosfera esplosiva”.

 

L’obiettivo della Direttiva 2014/34/EU è quello di garantire la libera circolazione dei prodotti ai quali si applica nel territorio dell’UE. Pertanto, la Direttiva, basata sull’articolo 95 del trattato CE, prevede i requisiti e le procedure per stabilire le conformità armonizzate.

 

Vediamo brevemente cosa cambia con la nuova Direttiva.

Si indica che le principali modifiche apportate riguardano la posizione giuridica degli operatori economici, come il legale rappresentante, distributore, importatore e produttore, mentre nulla di sostanziale è stato cambiato per quanto riguarda gli aspetti tecnici. La nuova Direttiva infatti presenta lo stesso campo di applicazione della precedente 94/9/CE e continua ad offrire due metodi per effettuare la valutazione della conformità dei prodotti:

  • controllo della produzione interna o marcatura autocertificazione CE: il costruttore esegue la valutazione di conformità e documenta la valutazione in proprio;
  • coinvolgimento di un Organismo Notificato.

In ogni caso per un confronto tra “vecchia” e “nuova” Direttiva ATEX, viene segnalato l’Allegato XII della 2014/34/UE che contiene una tavola di concordanza in cui è possibile verificare la corrispondenza dei vari articoli.

 

Dopo questo breve viaggio intorno alla normativa in materia ATEX, spostiamo la nostra attenzione sul contenuto del capitolo dedicato ai sistemi di protezione dalle esplosioni, sistemi che rientrano nel campo di applicazione della Direttiva ATEX e si riferiscono a quei dispositivi la cui funzione è bloccare sul nascere le esplosioni e/o circoscrivere la zona da esse colpita.

 

In particolare i sistemi di protezione dalle esplosioni possono essere così suddivisi:

  • sistemi di scarico dell’esplosione;
  • sistemi di soppressione dell’esplosione;
  • sistemi di isolamento dell’esplosione;
  • equipaggiamenti resistenti all’esplosione.

Ed è evidente che la scelta e l’impiego di uno o più sistemi di protezione sono strettamente connessi al processo di analisi e valutazione del rischio di esplosione. Inoltre la riduzione degli effetti di una esplosione e la conseguente scelta dei dispositivi di protezione è legata a molteplici fattori, tra cui il tipo di processo produttivo, la logistica dell’impianto in cui potrebbe formarsi l’atmosfera esplosiva e fattori di tipo ambientale. Senza dimenticare che un aspetto rilevante per la protezione dalle esplosioni è l’aspetto progettuale, inteso come il complesso di scelte tecniche e dimensionali che consentono di ridurre gli effetti di una esplosione sin dalla fase di progetto.

 

La tesi si sofferma su alcuni dispositivi, ad esempio sui soppressori.

Si indica che i sistemi di protezione a soppressione si caratterizzano per il fatto che vengono impiegati per il rilevamento di una possibile esplosione e l’immediata soppressione nei suoi primi istanti, limitando fortemente l’incidenza di eventuali danni. A seguito del rilevamento delle prime fasi dell’esplosione, una sostanza soppressore dell’esplosione viene immediatamente scaricata all’interno del volume interessato dall’esplosione. In generale tale sostanza è contenuta all’interno di HRD (High Rate Discharge), cioè dispositivi a rilascio rapido.

 

Veniamo invece allo scarico di una esplosione (venting), una misura finalizzata a ridurne gli effetti: i sistemi di venting consentono infatti lo sfogo dell’esplosione attraverso sezioni ben definite riducendo la pressione di esplosione.

La tesi ricorda che in relazione al tipo di sostanza che ha generato l’esplosione, gas o polvere, i sistemi di venting possono differire in modo sostanziale per tipologia costruttiva, dimensioni e posizione in funzione dell’involucro da proteggere. Uno degli aspetti di fondamentale importanza che influenzano l’efficienza dei dispositivi di scarico è il corretto dimensionamento e posizionamento.

 

Dopo aver riportato altri dettagli sullo scarico dell’esplosione, la tesi si sofferma sui sistemi di isolamento dell’esplosione.

Si possono avere:

  • sistemi attivi di isolamento che si basano sulla rilevazione preventiva dell’esplosione mediante sensori ed unità di controllo;
  • sistemi passivi di isolamento che sono costituiti da dispositivi installati lungo le condotte di propagazione dell’esplosione e non richiedono sensori o sistemi di controllo.

Inoltre in relazione alle specifiche esigenze e alla tipologia di impianto, si possono trovare i seguenti dispositivi per la realizzazione di un sistema di isolamento:

  • valvole di protezione, che possono essere sia attive che passive: quelle attive vengono controllate da sensori e, tramite il sistema di controllo, ne viene attivata la chiusura al momento dell’esplosione, per evitare che la stessa raggiunga le zone protette; mentre quelle passive, per esempio quelle di non ritorno (“flap valve”) impediscono la propagazione dell’esplosione e del suo fronte di fiamma;
  • valvole rotative, impiegate in lavorazioni che prevedono la formazione di polveri a rischio di esplosione, consentono di poter arrestare il fronte di fiamma e di abbassare la pressione di esplosione, attraverso il blocco del rotore;
  • deviatori, permettono la deviazione della propagazione del fronte di esplosione consentendo di ridurne gli effetti.

 

Infine la tesi si sofferma sugli equipaggiamenti resistenti all’esplosione.

Infatti un altro sistema di protezione contro le esplosioni consiste nel prevedere opportune caratteristiche di resistenza meccanica degli apparecchi, che potrebbero essere soggetti a una esplosione. E in particolare la norma EN 14460 stabilisce i requisiti costruttivi che gli apparecchi devono possedere per resistere alle pressioni di esplosione e a shock dovuti a esplosioni. E definisce i limiti di pressione e temperatura di esercizio dell’apparecchiatura potenzialmente soggetta ad esplosione. Senza dimenticare l’importanza della norma EN 13445 che definisce, ad esempio, le grandezze di pressione da assumere come specifiche di progetto.

 

Il documento “Macchine e apparecchiature in ambienti ATEX”, tesi di laurea di Paolo Federle è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/160125_atex_macchine_apparecchiature.pdf

 

Il Documento “Parlamento Europeo e Consiglio dell’Unione europea – Direttiva 2014/34/UE del 26 febbraio 2014 concernente l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative agli apparecchi e sistemi di protezione destinati a essere utilizzati in atmosfera potenzialmente esplosiva” è scaricabile all’indirizzo:

http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32014L0034&from=IT

 

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RISCHIO RUMORE: COME VALUTARE L’ESPOSIZIONE DEI LAVORATORI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

12 febbraio 2016

 

Un documento dell’INAIL affronta il rischio rumore e gli aspetti relativi alla sua valutazione. Focus sull’ipotesi di valutazione senza misurazioni o con misurazioni, sui parametri di esposizione e sulle strategie di misura.

 

Il D.Lgs. 81/08 all’articolo 181 indica che il datore di lavoro valuta tutti i rischi derivanti da esposizione ad agenti fisici in modo da identificare e adottare le opportune misure di prevenzione e protezione con particolare riferimento alle norme di buona tecnica ed alle buone prassi.

In particolare la valutazione dei rischi derivanti da esposizioni ad agenti fisici è programmata ed effettuata, con cadenza almeno quadriennale, da personale qualificato nell’ambito del servizio di prevenzione e protezione in possesso di specifiche conoscenze in materia. La valutazione dei rischi è aggiornata ogni qual volta si verifichino mutamenti che potrebbero renderla obsoleta, ovvero, quando i risultati della sorveglianza sanitaria rendano necessaria la sua revisione. E in particolare l’articolo 190 riporta varie indicazioni per il datore di lavoro relative alla valutazione dell’esposizione dei lavoratori al rumore.

 

Per dare qualche indicazione sulla valutazione dell’esposizione al rumore, torniamo a parlare oggi della pubblicazione del Dipartimento Innovazioni Tecnologiche e Sicurezza degli Impianti, Prodotti ed Insediamenti Antropici (DIT) dell’INAIL dal titolo “La valutazione del rischio rumore”; un documento curato da Raffaele Sabatino (DIT), con la collaborazione di Michele Del Gaudio (INAIL Unità Operativa Territoriale di Avellino) e la revisione scientifica di Pietro Nataletti (INAIL Dipartimento di Medicina, Epidemiologia, Igiene del Lavoro ed Ambientale).

Il documento INAIL ribadisce dunque che l’articolo 190 del D.Lgs. 81/08 impone al datore di lavoro di effettuare una valutazione del rumore, all’interno della propria azienda e indipendentemente dal settore produttivo, nella quale siano presenti lavoratori subordinati, o equiparati a essi, al fine di individuare i lavoratori esposti al rischio e attuare i necessari idonei interventi di prevenzione e protezione della salute.

E laddove non si possa fondatamente escludere che siano superati i valori inferiori di azione (LEX,8h > 80dB(A) o Lpicco > 135dB(C)) la valutazione deve prevedere anche misurazioni.

Ricordiamo, a questo proposito, che l’articolo 188 del D.Lgs. 81/08 definisce i seguenti parametri:

  • pressione acustica di picco (ppeak): valore massimo della pressione acustica istantanea ponderata in frequenza “C”;
  • livello di esposizione giornaliera al rumore (LEX,8h): valore medio, ponderato in funzione del tempo, dei livelli di esposizione al rumore per una giornata lavorativa nominale di otto ore: esso si riferisce a tutti i rumori sul lavoro, incluso il rumore impulsivo;
  • livello di esposizione settimanale al rumore (LEX,w): valore medio, ponderato in funzione del tempo, dei livelli di esposizione giornaliera al rumore per una settimana nominale di cinque giornate lavorative di otto ore.

Per le situazioni nelle quali è evidente che l’ esposizione al rumore risulti trascurabile, il documento ricorda che si può ricorrere alla cosiddetta “giustificazione” e, in tal caso, non sarà necessario approfondire oltre la valutazione del rischio oppure, nei casi dubbi, ci si potrà limitare ad alcune misurazioni, in maniera da poter escludere il superamento dei valori inferiori d’azione anche per i lavoratori più a rischio.

E dunque nell’ipotesi di una valutazione senza misurazioni la relazione tecnica dovrà indicare:

  • il layout (planimetria e indicazione delle macchine, attrezzature, lavoratori esposti, ecc.);
  • l’individuazione di eventuali fattori potenzianti il rischio (ad esempio sostanze ototossiche, vibrazioni, rumori impulsivi, ecc.), come identificati dall’articolo 190, comma 1;
  • l’indicazione delle motivazioni che escludono il superamento dei valori di azione inferiori nella giornata/settimana/settimana ricorrente a massimo rischio;
  • le conclusioni con le eventuali indicazioni specifiche per la riduzione del rischio.

 

Mentre, una valutazione con misurazioni dovrà, invece, contemplare:

  • il layout (planimetria e indicazione delle macchine, attrezzature, lavoratori esposti, ecc.);
  • la descrizione del ciclo lavorativo (almeno di quelle fasi, in relazione alle quali, non è possibile ritenere la presenza di un rischio trascurabile);
  • l’individuazione di eventuali fattori potenzianti il rischio (ad esempio sostanze ototossiche, vibrazioni, rumori impulsivi, ecc.), come identificati dall’articolo 190, comma 1;
  • i risultati delle misurazioni di rumore (LAeq, Lpicco e LCeq);
  • l’individuazione delle aree e delle macchine a forte rischio (LAeq > 85 dB(A) e Lpicco > 137 dB(C));
  • la valutazione del rispetto dei valori limite di esposizione (LEx > 87 dB(A) e Lpicco > 140 dB(C));
  • il calcolo dei LEx e dei Lpicco degli esposti oltre gli 80 dB(A) e i 135 dB(C);
  • la valutazione dell’efficienza e dell’efficacia dei Dispositivi di Protezione Individuale uditivi (DPIu), se e in quanto forniti ai lavoratori;
  • la definizione delle misure tecniche e organizzative di contenimento del rischio (il “Programma Aziendale di Riduzione dell’Esposizione”, di cui alla norma UNI 11347:2015);
  • le conclusioni (quadro d’insieme del rischio).

Riepilogando e computando nei livelli di esposizione anche il contributo delle incertezze (l’incertezza è quel parametro associato al risultato di una misurazione, o di una stima, di una grandezza che ne caratterizza la dispersione dei valori ad essa attribuiti con ragionevole probabilità):

  • ai fini della individuazione degli obblighi che ricadono sui diversi soggetti interessati (Datore di lavoro, lavoratore, Medico Competente), si fa riferimento ai livelli di esposizione calcolati in assenza di DPIu (LEx,8h);
  • il superamento dei livelli di esposizione giornaliera di un lavoratore al rumore (LEx,8h) di 80, 85 e 87 dB(A) comporta il diritto/dovere per i vari soggetti (Datore di lavoro, lavoratori, Medico Competente, costruttore) di adempiere a diverse prescrizioni fissate a tutela della salute;
  • ai fini della verifica del rispetto del limite di esposizione (LEx,8h = 87 dB(A)) si fa riferimento al livello di esposizione stimato con idonei DPIu indossati (L’Ex,8h con DPIu).

E il percorso per la redazione della relazione tecnica, allegata al DVR, prevede una serie di step che il personale qualificato incaricato dovrà seguire, in base al criterio logico da applicare al caso di specie. In generale il processo di valutazione del rischio rumore, che deve essere effettuato adattandolo alle situazioni reali e avendo come obiettivo la protezione dei lavoratori, parte dall’identificazione dei pericoli, passando per la relativa valutazione, fino a giungere alla pianificazione degli interventi tecnici e organizzativi di riduzione del rischio. Nel documento INAIL è riportato uno schema con le principali tappe dell’iter.

Un paragrafo è dedicato poi alle strategie di misura.

Infatti una corretta valutazione del rischio viene eseguita in conformità alle indicazioni della norma UNI EN ISO 9612:2011 che propone un metodo tecnico progettuale per la misurazione dell’esposizione al rumore dei lavoratori nell’ambiente di lavoro e il calcolo del livello di esposizione sonora. E occorre tener conto anche della norma UNI 9432:2011 da considerarsi complementare alla norma UNI EN ISO 9612:2011.

Nel documento sono presentate nel dettaglio le tre possibili strategie di misura per la valutazione del rischio:

  • misurazioni basate su attività (compiti): il lavoro svolto durante la giornata è analizzato e suddiviso in un numero di compiti rappresentativi; per ogni determinato compito si eseguono separatamente le misure di livello di pressione sonora;
  • misurazioni basate sulle mansioni: mediante campionatura casuale si ottengono delle misure di livello di pressione sonora durante l’esecuzione di determinate mansioni;
  • misurazioni a giornata intera: il livello di pressione sonora è misurato continuativamente sull’arco completo di una o più giornate lavorative.

Concludiamo ricordando che con il recente D.Lgs. 151/15 è stato riscritto il comma 5-bis dell’articolo 190 del D.Lgs. 81/08 andando a ufficializzare e permettere l’utilizzo delle banche dati sul rumore. Utilizzo che può avvenire se queste banche dati sono state approvate dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro.

Il documento dell’ INAIL – Dipartimento Innovazioni Tecnologiche e Sicurezza degli Impianti, Prodotti ed Insediamenti Antropici “La valutazione del rischio rumore”, edizione 2015 è scaricabile all’indirizzo: http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/intranet/documents/document/ucm_199620.pdf

 

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INFORTUNIO PER COMPORTAMENTO ABNORME E MANCATA FORMAZIONE: LE RESPONSABILITA’

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

15 febbraio 2016

di Gerardo Porreca

 

La responsabilità dell’infortunio occorso al lavoratore a causa di condotta negligente e imprudente: se lo stesso non è stato formato sui rischi specifici, l’infortunio può essere considerato conseguenza diretta della mancata formazione.

 

Un insegnamento quello che discende da questa sentenza della Corte di Cassazione che mette in chiara evidenza l’importanza della formazione in materia di salute e di sicurezza sul lavoro da impartire ai lavoratori dipendenti ed a quelli ad essi equiparati.

Il datore di lavoro che non ha adempiuto agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde a titolo di colpa specifica, ha infatti precisato la suprema Corte, dell’infortunio occorso a un lavoratore anche se questi, nell’espletamento delle proprie mansioni, ha posto in essere condotte negligenti e imprudenti, trattandosi di una conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi.

Nel caso sottoposto in questa circostanza all’esame della Corte di Cassazione il lavoratore era rimasto mortalmente infortunato in quanto schiacciato fra la motrice e il rimorchio di un mezzo di trasporto mentre stava procedendo a un incauto riaggancio delle due parti del veicolo non rispettando così quelle misure di sicurezza che una specifica formazione gli avrebbe sicuramente fatto conoscere.

La Corte di Appello ha assolto con formula piena l’Amministratore Delegato di una società mentre ha confermata la condanna inflitta dal Tribunale al Responsabile del deposito dello stabilimento gestito dalla società stessa per il delitto di omicidio colposo in danno di un lavoratore dipendente.

Ai due imputati era stato addebitato di avere cagionata la morte del lavoratore per colpa consistita in imprudenza, negligenza e imperizia, nonché violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. In particolare gli imputati erano stati accusati di non avere valutato, tra gli altri, il rischio cui è stato esposto il lavoratore il quale, addetto a mansioni di autotrasportatore, provvedeva al periodico prelievo di rottami in vetro presso lo stabilimento.

Il lavoratore nel giorno dell’infortunio si era venuto a trovare nella necessità di sganciare l’autocarro dal rimorchio per l’impossibilità di accedere al punto di prelievo con l’intero veicolo, data la ridotta dimensione del tratto di strada antistante. Nel documento di valutazione rischi elaborato dall’azienda mancava ogni riferimento a tale specifico rischio, con conseguente omessa individuazione delle misure preordinate a fronteggiarlo quale la individuazione di una zona che consentisse di operare in sicurezza e mancava altresì l’indicazione delle modalità operative da adottare. Il lavoratore inoltre non era stato adeguatamente informato sui rischi specifici a cui era esposto in relazione all’attività svolta, con particolare riferimento al rischio presente durante le operazioni di sganciamento e successivo riaggancio tra autotreno e rimorchio e, dunque, sulle misure di sicurezza del caso e non gli era stata assicurata, altresì, una formazione sufficiente e adeguata in materia di sicurezza, avuto riguardo alle proprie mansioni, con particolare riferimento allo operazioni in svolgimento.

Con tali condotte omissive gli imputati non avevano impedito il decesso del lavoratore, il quale era rimasto schiacciato tra la motrice e il rimorchio all’atto di riagganciarli. In particolare il lavoratore aveva effettuata detta operazione senza che fossero state individuate e successivamente impartite al medesimo, mediante idonea informazione sul rischio e formazione lavorativa, le misure di sicurezza da seguire, che avrebbero imposto l’esecuzione dell’operazione a rimorchio fermo, previo allineamento del timone alla campana della motrice (anche avvalendosi di attrezzi occasionali) e avvicinando l’autocarro al rimorchio mediante manovra di retromarcia. In assenza delle dovute prescrizioni, invece, il lavoratore aveva eseguito l’operazione posizionandosi tra i due mezzi e sfrenando il rimorchio, che si trovava in pendenza, in modo da farlo avvicinare all’autocarro, mentre con le mani allineava il timone del rimorchio alla campana dell’autocarro, per farli incastrare. Non essendo però riuscito nell’intento, rimaneva schiacciato dal rimorchio, riversatosi sulla motrice per effetto del mancato incastro del timone (infilatosi viceversa sotto la campana dell’autocarro), con conseguente immediato decesso.

La Corte di merito ha osservato che nessuna responsabilità poteva gravare sull’Amministratore Delegato il quale aveva conferito al Responsabilità del deposito una delega antinfortunistica scritta e firmata dalle parti, esaustiva e con attribuzione di pieni poteri di programmazione, organizzazione e gestione. Con riferimento invece all’altro imputato la Corte territoriale ha ritenuto che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la condotta della vittima non era stato un fatto imprevedibile e abnorme, in quanto aveva svolto un’attività che rientrava nelle sue mansioni, da solo, senza ausilio di altro collega e senza che gli fosse stata data alcuna formazione e informazione sui rischi specifici e sulla corretta manovra da svolgere. La violazione delle norme di prevenzione, che aveva determinato il concretizzarsi dell’evento, ha fatto notare la Corte di Appello, era stata determinata dalle omissioni dell’imputato che, in ragione della delega ricevuta, era il primo garante della sicurezza dei lavoratori in azienda per cui, sulla base di tali considerazioni, la sentenza di condanna di primo grado è stata confermata, sebbene con una pena ridotta a sei mesi di reclusione.

Avverso la Sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato, lamentando l’erronea applicazione della legge e il difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa. Invero, secondo il ricorrente, l’evento verificatosi era del tutto imprevedibile, in quanto inaspettato era che il lavoratore disattivasse l’impianto frenate del rimorchio, onde consentire per gravità, il suo avvicinamento alla motrice. Inoltre in relazione alle operazioni di sganciamento e riaggancio, le norme ISPESL prendevano in considerazione il rischio di schiacciamento degli arti, ma non consideravano assolutamente la possibilità di un incidente mortale per cui se tale rischio non era prevedibile per gli Enti deputati alla sicurezza sul lavoro certamente non potevano esserlo per l’imputato.

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione che lo ha rigettato. La stessa ha sostenuto in premessa che “in tema di infortuni sul lavoro, l’articolo 2087 del Codice Civile ha carattere generale e sussidiario, di integrazione della specifica normativa antinfortunistica, con riferimento all’interesse primario della garanzia della sicurezza del lavoro. Pertanto, il dovere di sicurezza si realizza o attraverso l’attuazione di misure specifiche imposte tassativamente dalla legge oppure con l’adozione dei mezzi idonei a prevenire ed evitare i sinistri, assunti con i sussidi dei dati di comune esperienza, prudenza, diligenza, prevedibilità, in relazione all’attività svolta.

Ne consegue che, per configurare la responsabilità del datore di lavoro o dei suoi delegati, non è necessario che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni, essendo sufficiente che l’evento dannoso si sia verificato a causa dell’omessa adozione di quelle misure e accorgimenti imposti all’imprenditore dall’ articolo 2087 del Codice Civile ai fini della più efficace tutela dell’integrità fisica del lavoratore”.

La circostanza inoltre che le norme ISPELS non prendessero in considerazione il rischio morte non è stato ritenuto rilevante da parte della Sezione IV, considerato peraltro che in ogni caso era stata presa in considerazione la possibilità dello schiacciamento.

All’imputato, ha precisato inoltre la suprema Corte, è stato mosso anche un addebito di colpa generica. Tenuto conto, infatti, che la manovra di sgancio e aggancio del rimorchio era di routine, correttamente il giudice di merito ha ritenuto che il relativo rischio di infortunio fosse prevedibile ed evitabile con l’adozione di adeguate disposizioni di sicurezza. Pertanto, considerato che tale rischio non era stato preso in considerazione adeguatamente nel relativo documento di valutazione, tale omissione ha determinato il concretizzarsi dell’evento che le cautele dovute miravano ad evitare.

La responsabilità dell’imputato, secondo la Sezione IV, era a lui anche da attribuire per la violazione di specifiche norme di sicurezza e, quindi, a titolo di colpa specifica. Infatti al lavoratore, come esposto in sentenza, non è stata fornita una adeguata formazione ed informazione. In tali casi, ha così concluso la suprema Corte, “la negligenza del lavoratore, che nell’espletamento delle sue mansioni ponga in essere condotte imprudenti, non costituisce un fatto imprevedibile, in quanto è il frutto proprio della mancanza dell’adempimento dell’obbligo di formazione gravante sul datore di lavoro ed sui suoi delegati”.

La Sentenza n. 39765 del 2 ottobre 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14134:cassazione-penale-sez-4-02-ottobre-2015-n-39765-lavoratore-rimane-schiacciato-tra-la-motrice-ed-il-rimorchio-omessa-valutazione-del-rischio-e-mancata-formazione&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

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La situazione dell’inceneritore di Mantova

La Dr.ssa Gloria Costani, Presidente ISDE Mantova, rende note le osservazioni della sezione dell’Associazione Medici per l’Ambiente che rappresenta, riguardo la richiesta di rinnovo dell’inceneritore nella cartiera Ex Burgo a Mantova, che è stata presentata alla Provincia di Mantova, come ha spiegato la stessa Costani: “Si tratta di un impianto importante che brucerebbe i derivati di lavorazioni e riciclo della carta provenienti da tutti i siti della nuova proprietà che opera nel Triveneto e tale incenerimento è stato rifiutato dalla Regione Trentino Alto-Adige. Mi sembra troppo comodo bruciare da noi in Val Padana, con il clima pesante, nebbioso, senza venti e soffocato da micropolveri, che ci ritroviamo, già riconosciuto SIN per la nota storia dei sarcomi.”
L’Ing. Paolo Rabitti, su richiesta della Dr.ssa Costani, ha redatto le osservazioni tecniche in merito alla domanda di modifica non sostanziale dell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale), inoltrata dall’azienda Cartiere Villa Lagarina. Inoltre, in base all’analisi tecnica dell’Ing. Rabitti, occorrerà valutare anche l’impatto sulla salute e i possibili rischi sanitari dell’impianto in questione che ricadrebbero sui cittadini di Mantova, viste le note criticità del territorio. Pertanto comprendendo quale è il livello di salute della zona e se, ad esempio, la mortalità complessiva fosse già in aumento, occorrerebbe pretendere una riduzione delle fonti inquinanti più impattanti.
La palla adesso passa nelle mani della Provincia di Mantova e speriamo che le osservazioni, volte sempre a proteggere l’ambiente e la salute dei cittadini, della Dr.ssa Costani e di ISDE, vengano prese seriamente in considerazione.
Per altre informazioni vi invitiamo a cliccare qui

 

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Libro del mese di Febbraio: Manifesto per la felicità

Ecco tutta per voi la scheda del libro del mese di Febbraio! :)

Manifesto per la felicità

Stefano Bartolini

Ed. Donzelli 2011

 

Stefano Bartolini è un economista e insegna all’Università di Siena.

Si occupa da tempo del rapporto tra la attuale società dei consumi, opulenta, e la percezione di ben-essere dei cittadini. Di recente ha scritto un piccolo articolo sulla rivista Micromega in cui relaziona del lavoro di diversi giovani ricercatori nel mondo per rispondere alla domanda su quale modello di società sia adatto per ottenere una migliore qualità della vita.

E questo è anche il tema del libro di oggi.

Bartolini parte dalla constatazione empirica che nei paesi ricchi, dove molti, ma non tutti, hanno accesso a infiniti e sempre nuovi beni di consumo materiali, serpeggi una diffusa insoddisfazione e un vero disagio psicologico che muove dalla mancanza di tempo e di relazioni umane decenti .

Questa è la chiave di lettura del libro: siamo più infelici perché siamo più poveri di relazioni, di legami. Paradossalmente il miglioramento, innegabile, delle condizioni di vita economiche e materiali è stato ampiamente compensato dal peggioramento delle relazioni interpersonali.

Bartolini analizza per prima la situazione degli Stati Uniti, che sono all’avanguardia sia nel benessere che nel malessere, e fornisce un grafico molto interessante delle curve di reddito e di felicità in Usa nel periodo 1946-1996. Ad un aumento notevole e quasi inarrestabile della curva reddituale, fa da riscontro dapprima un parallelo aumento della soddisfazione , ma a partire dal 1956, un sostanziale declino di questa che si discosta sempre di più dalla curva del reddito . Ma davvero non può esistere altra strada?

E’ molto interessante che Bartolini metta in relazione il degrado relazionale con la crescita economica. Rileva infatti ciò che sanno benissimo i pubblicitari, ovvero che l’insoddisfazione e la paura fanno vendere di più, fanno crescere l’economia. Sono una sorta di sottoprodotto del sistema.

L’autore ci conduce in un viaggio attraverso le cause, ma anche le soluzioni possibili dell’insoddisfazione contemporanea.

Una parte del libretto è dedicata proprio a delineare delle possibili e credibili, politiche per la felicità.

Interessano lo spazio urbano, la scuola, la pubblicità, il lavoro, la salute ed anche la democrazia. In ognuno di questi ambiti si può cambiare il modello, se si vuole favorire una società relazionale più felice.

L’ultima parte del libro, facendo leva su esempi virtuosi e reali, ci dice che questa nuova società, del ben.essere e non più del ben-avere, è concretamente possibile.

Ringraziamo Maurizio per la recensione!

Buona giornata!

MDF, Circolo di Torino

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.243 DEL 12/02/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.243 DEL 12/02/16

 

INDICE

–         “Smart working”: sfruttamento illimitato della costrizione al lavoro

  • Morti bianche in Italia: bilancio simile ad un sanguinoso conflitto

–         Cassazione: se la sicurezza non è garantita, il dipendente può rifiutarsi di lavorare e deve essere pagato

  • Quali sono i diritti e gli obblighi dei lavoratori?
  • La gestione della sicurezza antincendio secondo il nuovo Codice
  • Abrogazione del registro infortuni: ragioniamoci

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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“SMART WORKING”: SFRUTTAMENTO ILLIMITATO DELLA COSTRIZIONE AL LAVORO

 

Da Cortocircuito

http://www.inventati.org/cortocircuito

08 febbraio 2016

di Carla Filosa

 

“In realtà, il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore […] cioè i mezzi di produzione […] e i mezzi d sussistenza […], benché tale rapporto si realizzi soltanto nel processo di produzione reale, che è essenzialmente processo di produzione di plusvalore; processo di autovalorizzazione del capitale anticipato”.

Karl Marx “Il Capitale” Libro I, Capitolo VI

 

Mediaticamente coinvolti in questi ultimi tempi solo dai cosiddetti diritti civili, forse non ricordiamo nemmeno più quella proposta effettuata nel dicembre scorso dal Ministro Poletti, sull’abolizione “tecnologica” della misurazione temporale della giornata lavorativa.

Dopo l’impegno, in settembre, ad abbassare le pensioni a chi ne avesse anticipato la fruizione, l’ineffabile Ministro del Lavoro si è messo all’opera per rosicchiare, non solo il salario differito sui binari della riforma Fornero, ma anche quello diretto, angustamente percepito solo come busta paga, ma in realtà di natura sociale.

I diritti fondamentali, quelli conquistati entro il rapporto lavorativo vessatorio e fraudolento, sono così scivolati nell’inavvertita prassi governativa abile nell’elargire una progressiva dimenticanza da spargere su tutto il piano del reale. Sublimati su battaglie giuridiche, i conflitti sono stati spostati su piani ideologico-religiosi con altri soggetti di diritto, dal piano economico a quello sociale, più permeabile a compromessi. Il capitale rimane pertanto nel cono d’ombra, libero di far erodere anche il salario indiretto con il taglio delle spese sociali e i favori fiscali alle imprese.

 

Quando poi le “innovazioni” politiche non si vogliono far capire bene agli interessati, ormai si usa la lingua dominante sul mercato mondiale. Il titolo apparso (“Smart Working”) sul Sole 24ore (01/12/15) a proposito della geniale proposta del Ministro Poletti di abolire il criterio temporale applicato al lavoro (altrui, si sarebbe completato in altri tempi), non fa eccezione. Nell’articolo citato, rispondono poi i metalmeccanici CISL, senza avvedersi della portata del problema.

L’inimitabile trovata, non del suddetto Ministro, che non ci sarebbe mai arrivato da solo, ma del suo “think tank” (cordata di pensatoi), merita quindi di andare a fondo in questa ennesima obsoleta “innovazione”.

 

“L’ora-lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione” – scrive la Repubblica del 28/11/15, in prima pagina – “Dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento la retribuzione oraria”. La citazione del quotidiano continua perché l’espediente si sposta su “un tema culturale su cui lavorare”, da inserire naturalmente nell’apposito scrigno del Jobs Act approntato all’uopo. Il Ministro è andato a spiegare alla Luiss che “Il lavoro oggi è un po’ meno cessione di energia meccanica ad ore e sempre più risultato. Per molti anni i ritmi biologici e di vita si sono piegati agli orari fissi, ma con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà”. Le suadenti e alate motivazioni puntavano poi a rinverdire le vetuste “forme di partecipazione dei lavoratori all’impresa”, di cui in seguito tecnici deputati, cioè “economisti e giuslavoristi”, dovranno “immaginare il futuro su questo tema”. In altri termini, tecnici organici al sistema (a sostituzione dei lavoratori titolari dell’erogazione lavorativa e destinatari della modifica delle condizioni lavorative) manovreranno queste ultime a favore dei datori di lavoro!

 

Dallo stesso quotidiano si apprende ancora che Maurizio Del Conte, docente alla Bocconi di diritto del lavoro, consulente di Palazzo Chigi e coautore del Jobs Act, presidente dell’ANPAL (nuova agenzia di collocamento) ha incentivato poi, a supporto del Ministro, il “lavoro agile” riferendosi all’attuale Legge di Stabilità.

In questa “ci sono norme per la contrattazione di produttività, premiata con l’aliquota secca del 10% fino a un tetto di 2.000 euro per la produttività partecipata che non è la partecipazione agli utili ma organizzativa. I lavoratori decidono con l’azienda come ottenere incrementi di produttività, quando e quanto premiarli. Una novità che vogliamo estendere anche al lavoro agile”…

Il lavoro agile non è un altro tipo di contratto. Ma un modo nuovo di organizzare il vecchio contratto subordinato che però non va archiviato, ma aggiornato e organizzato in modo diverso. Le aziende devono uscire dallo schema classico delle 40 ore. E’ un problema culturale più che sindacale. Cambia il modo di retribuire, perché cambia il modo di lavorare. E se ho lavoratori contenti perché passano più tempo a casa o all’aperto o allungano il weekend, si incentiva la fidelizzazione, dunque la produttività, e i salari crescono. Un cambio di paradigma rispetto alla retribuzione piatta: una quota del lavoro si svolge fuori dallo spazio e dal tempo classici. E i parametri per misurare e retribuire questa quota vengono fissati dall’azienda con i lavoratori. Ma ci arriveremo per gradi.

 

Adesso proviamo a decodificare questo linguaggio fascinoso e mistificante. Innanzitutto tutti i significati di smart vengono racchiusi entro un concetto di “agilità” che non è chiaro se si riferisce ai datori di lavoro (in vista di maggiori profitti!), o ai lavoratori flessibilizzati, si ipotizza, “a loro piacimento”. Non si parla più (pare sia superfluo) dei rapporti di proprietà, ovvero dell’inestinto rapporto di “comando sul lavoro altrui”, ancorché dissimulato ma assolutamente presente nelle forme del ricatto esplicitato o dell’imbonimento occultato nei confronti di un lavoro perennemente dipendente dalle condizioni lavorative, unilateralmente gestite dai datori di lavoro.

L’apparente cogestione remunerativa viene legittimata tecnicamente. Si evitano così i termini storici e sociali di un tuttora dominante comando capitalistico, modificabile da un’indifferente tecnologia avanzata, che però l’uso capitalistico rende sempre funzionale allo sfruttamento aumentato della forza-lavoro. Obiettivo cui tutto il panegirico precedente tende senza parere.

 

Al fattore “risultato” il sistema di capitale ha sempre teso. Già nel Capitale di Marx (1867) viene chiaramente detto che per il capitale il salario a tempo è meno vantaggioso di quello a cottimo, cioè a “risultato”, perché quest’ultimo, “forma mutata del salario a tempo” (Capitolo I) “tende da un lato a sviluppare l’individualità e con ciò il sentimento della libertà, l’autonomia e l’autocontrollo degli operai, dall’altro a sviluppare la concorrenza fra di loro e degli uni contro gli altri. Esso ha perciò la tendenza ad abbassare il livello medio dei salari mediante l’aumento dei salari individuali al di sopra del livello stesso […] il capitale non può estendere la giornata lavorativa altro che aumentando l’intensità del lavoro […]. Variando la produttività del lavoro, una stessa quantità di prodotti rappresenta un tempo di lavoro vario. Quindi varia anche il salario a cottimo, perché esso è l’espressione del prezzo di un determinato tempo di lavoro. Il salario a cottimo viene abbassato nella stessa proporzione in cui cresce il numero degli articoli prodotto durante lo stesso tempo, e quindi diminuisce il tempo di lavoro impiegato per lo stesso articolo. Questo variare del salario a cottimo, in quanto è puramente nominale, provoca costanti lotte tra capitalista e operaio. O perché il capitalista si serve di questo pretesto per abbassare realmente il prezzo del lavoro, o perché l’aumento della forza produttiva del lavoro è accompagnato da un’accresciuta intensità di quest’ultimo. O perché l’operaio prende sul serio l’apparenza del salario a cottimo e crede che gli venga pagato il suo prodotto e non la sua forza-lavoro e quindi si oppone a una riduzione del salario alla quale non corrisponde la riduzione del prezzo di vendita della merce”.

 

“Il salario a cottimo” – continua Marx – “diventa fonte fecondissima di detrazioni sul salario e di truffe capitalistiche. Esso offre al capitalista una misura ben definita dell’intensità del lavoro […]. Se l’operaio non possiede la capacità media di rendimento (in termini di tempo di lavoro socialmente necessario), se quindi non è in grado di fornire un determinato minimo di opera giornaliera, lo si licenzia […]. Questa forma costituisce quindi la base tanto del moderno lavoro domestico, quanto di un sistema di sfruttamento e di oppressione gerarchicamente articolato […]. Da una parte il salario a cottimo facilita l’inserimento di parassiti fra capitalista e operaio salariato, cioè il subaffitto del lavoro. Il guadagno degli intermediari deriva esclusivamente dalla differenza fra il prezzo del lavoro pagato dal capitalista e quella parte di questo prezzo che essi lasciano realmente pervenire all’operaio. Questo sistema si chiama in Inghilterra lo sweating system (sistema del sudore). Dall’altra parte, il salario a cottimo permette al capitalista di concludere con il capo operaio […]. un contratto per tanti e tanti articoli a un prezzo (e qui probabilmente si instaura la partecipazione organizzativa attuale, con suggerimenti premiabili), per il quale il capo operaio stesso si assume l’arruolamento e il pagamento dei suoi operai ausiliari. Lo sfruttamento degli operai da parte del capitale si attua qui mediante lo sfruttamento dell’operaio da parte dell’operaio.”

 

Altre testimonianze agli albori del lavoro a cottimo riferiscono che “il lavoro dei garzoni artigiani sarà regolato a giornata o a pezzo […]. I mastri artigiani sanno all’incirca quanto lavoro gli operai possono compiere in ogni mestiere, e quindi li pagano spesso in proporzione al lavoro che compiono; in tal modo questi garzoni lavorano, nel proprio interesse, quanto più possono, senza alcuna sorveglianza”. (Cantillon ”Essai sur la nature du commerce en général” Amsterdam 1756).

 

“Spesso si assumono operai in previsione di un lavoro incerto, talvolta anche immaginario: siccome sono pagati a cottimo, si dice che non si rischia nulla, giacché tutte le perdite di tempo saranno a carico degli operai che non lavorano” (Grégoir ”Les typographes devant le tribunal correctionnel de Bruxelles” Bruxelles 1865).

Se non si fraintende, il lavoro misurato sul tempo non scompare (nella fraudolenta “innovazione” da immettere nella legge della regolazione lavorativa) ma viene affiancato, fors’anche con parziali modifiche, da una quantità di lavoro “fuori dal tempo e dallo spazio”.

Già qui è necessario chiedere aiuto alla logica (quella del “futuro”, evidentemente) per capire come misurare una quantità senza categorie spazio-temporali. E’ come chiedere un pezzo di stoffa per un vestito senza disporre di metri o altre unità di misura. Se ne può prendere quanta se ne vuole, fino, si spera, allo stop irato del venditore che se la vede sottrarre tutta.

Dunque, quella forma (in quanto “forma”) lavoro salariato (lohnarbeit, non solo arbeit, cioè lavoro) risponde adeguatamente al contenuto del rapporto di capitale. Si fa così giustizia di ogni altro pseudo-criterio, dalla remunerazione del rendimento e dalla partecipazione del lavoratore al risultato dell’impresa, fino alla fruizione di una quota di reddito nazionale, e via armonizzando.

 

A proposito dell’esigenza che è stata prospettata recentemente [“recentemente” (!) lo scriveva già Marx più di un secolo e mezzo fa nei “Lineamenti”] “talvolta con autocompiacimento, di dare ai lavoratori una certa partecipazione al profitto, non può trattarsi che di un premio speciale, che può raggiungere il suo scopo solo in quanto eccezione alla regola; e in effetti nella prassi normale si limita a una incetta di singoli sorveglianti ecc., nell’interesse del padrone contro l’interesse della sua classe; oppure di impiegati ecc., ossia, in breve, non più al semplice salariato, e quindi nemmeno al rapporto generale; oppure si tratta di una particolare maniera di truffare i salariati trattenendo una parte del loro salario sotto la forma precaria di un profitto che dipende dalla situazione dell’azienda. Ma che questa pretesa contraddica il rapporto stesso risulta dalla semplice riflessione che, se il risparmio del salariato non deve rimanere un semplice prodotto della circolazione (denaro risparmiato che può essere realizzato solo convertendolo prima o poi nel contenuto sostanziale della ricchezza, ossia in godimenti) il denaro accumulato stesso dovrebbe diventare capitale, ossia dovrebbe comprare lavoro, riferirsi al lavoro come valore d’uso. Il risparmio del lavoratore presuppone dunque a sua volta lavoro-che-non-è-capitale, e presuppone che il lavoro sia diventato il suo contrario, cioè non-lavoro. Per diventare capitale, esso presuppone già il lavoro-come-non-capitale di fronte al capitale; insomma, il ristabilimento dell’antitesi, che deve essere soppressa in un punto, in un altro punto. Se dunque già nel rapporto originario l’oggetto e il prodotto dello scambio del lavoratore (come prodotto dello scambio semplice esso non può essere altro prodotto che questo) non fossero il valore d’uso, i mezzi di sussistenza, la soddisfazione del bisogno immediato, la sottrazione dalla circolazione dell’equivalente in essa introdotto per distruggerlo mediante il consumo, allora il lavoro si contrapporrebbe al capitale non come lavoro, non come non-capitale, ma come capitale. Ma anche il capitale non può contrapporsi al capitale se al capitale non si contrappone il lavoro, giacché il capitale è capitale solo in quanto non-lavoro; in questa relazione antitetica. Ossia, verrebbe negato il concetto e il rapporto del capitale stesso”.

 

E’ bene perciò chiarire che il lavoro (o, più correttamente, l’uso della forza-lavoro, di questa merce venduta ad altri) è divenuto organicamente dipendente per tutto il tempo stabilito, senza altri limiti o eccezioni, da colui che lo ha acquistato, cioè il padrone (qui il borghese capitalista, l’imprenditore…) e pertanto non ha nulla a che vedere con la supposta “partecipazione azionaria” dei dipendenti, tanto di moda e diffusa nella socialdemocrazia tedesca e sancita definitivamente nel congresso di Bad Godesberg del 1959 con quell’abbandono del marxismo che, dopo il programma di Erfurt del 1891, segnò l’instancabile assillante cammino intrapreso per primo da Eduard Bernstein con il suo revisionismo, sempre perdente a parole nel suo partito, di rincorsa al sistema capitalistico borghese fino a riuscire ad arrivare comunque al tracollo del marxismo nei partiti socialisti europei con la resa di Bad Godesberg. Si capisce, dunque, come si sia giunti all’annichilimento della classe lavoratrice.

Annichilimento realizzatosi, ora è quasi due secoli, mediante mezzi di produzione di proprietà capitalistica a tecnologia costantemente rinnovatasi, che utilizzano maggiormente il lavoratore in modo sempre più invisibilmente raffinato. Il lavoro vivo, ovvero la forza-lavoro in generale dei lavoratori utilizzati, viene risucchiato entro il valore in generale appropriato dal capitale, ed in esso si trasforma senza più apparire come in origine. Così incorporata al capitale che si “autovalorizza”, l’energia vitale dei lavoratori scompare anche nei tempi della sua erogazione essendo divenuta, per il solo arbitrio del “diritto proprietario” del capitale, valore conservato e maggiorato nell’oggettivazione alienata del capitale.

 

Realtà già in atto di fabbriche digitali si trovano presso Vodafone Italia, alla FCA di Pomigliano, alla Sevel (produce il Ducato), alla ZF Padova, ecc. dove si lavora con margini di autonomia, anche a distanza, con flessibilità orarie in entrate e uscite, ecc. Le modifiche funzionali alle innovazioni sono forme di un progresso produttivo sollecitato dal sistema di capitale, tale progresso oggettivo non necessita però, in prospettiva, della direzione capitalistica che ne aliena e distorce l’utilità sociale. Il lavoro è sempre quello socialmente necessario, cioè calcolabile in base ai tempi di una tecnologia generalmente affermatasi come più conveniente per chi l’ha promossa. Il tempo quindi non può essere abolito in nessuna alchimia politica, essendo la misura dell’intensità lavorativa richiesta. Si vuole solo sottintendere, o non mostrare, che il tempo di lavoro tende sempre più a coincidere con il tempo di vita, e che quest’ultima deve essere funzionale solo al bene lavoro nella sua crescente rarefazione.

La specificità della merce forza-lavoro è che anche se venduta, appropriata, trasformata e apparentemente perduta, rimane comunque attaccata al suo portatore, come una malattia incurabile (per il capitale!). Questo portatore è anche portatore di bisogni materiali inestinguibili strutturalmente antitetici a quelli capitalistici, tendenzialmente infiniti rispetto alla concentrazione limitata dei capitali. Di fronte al bisogno estremo della vita di una classe marginalizzata o resa superflua, ma che nell’esproprio si ingrandisce in termini planetari, l’autonomia da questo potere dialetticamente distruttivo sempre localizzato, nazionalizzato, regionalizzato, ecc. potrebbe configurarsi con la necessità di uno tsunami incontenibile e senza appuntamento.

 

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MORTI BIANCHE IN ITALIA: BILANCIO SIMILE AD UN SANGUINOSO CONFLITTO

 

Da Vega Engineering

http://www.vegaengineering.com

15 gennaio 2016

Mauro Rossato

 

1.000 MORTI SUL LAVORO: IL BILANCIO DELLE VITTIME PIU’ SIMILE A QUELLO DI UN SANGUINOSO CONFLITTO CHE ALLA QUOTIDIANITA’ LAVORATIVA DI UN PAESE CIVILE.

 

A FINE NOVEMBRE 2015 PIU’ DI 1.000 MORTI SUL LAVORO. 800 QUELLE AVVENUTE IN OCCASIONE DI LAVORO IN AUMENTO DEL 17 PER CENTO RISPETTO AL 2014 E SONO 280 QUELLE REGISTRATE IN ITINERE (+ 19 PER CENTO ).

 

Sembra il tragico bilancio di un sanguinoso conflitto, mentre è il drammatico resoconto della quotidianità lavorativa nel nostro Paese: più di mille morti in 11 mesi nel 2015 (1.080 per la precisione).

 

E sono 800 le vittime che hanno perso la vita in occasione di lavoro da gennaio a novembre 2015 (+ 17 per cento rispetto al 2014) e 280 quelle decedute a causa di un infortunio in itinere (+ 19 per cento).

 

Un incremento significativo quello evidenziato dall’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering (sulla base di dati INAIL) che non lascia spazio a speranze di risoluzione per un fenomeno che pone l’Italia in cima alla graduatoria europea (fonte Eurostat) degli infortuni mortali nei luoghi di lavoro.

“Una maglia nera tragica per un Paese che evidentemente non è abbastanza civile da intervenire con i giusti mezzi per invertire la tragica tendenza all’aumento delle morti sul lavoro” – sottolinea Mauro Rossato, Presidente dell’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering di Mestre – “Le istituzioni devono essere più visibili e presenti. Servono più controlli, pene certe e processi più veloci per gli evasori della sicurezza sul lavoro. Perché senza tali premesse nessuna inversione di rotta o di tendenza sarà possibile”.

 

E nel frattempo è sempre la Lombardia a far registrare il più elevato numero di vittime in occasione di lavoro (115); seguono: la Campania (78), la Toscana (74), il Lazio (71), il Veneto (64), l’Emilia Romagna (62), il Piemonte (60), la Sicilia (55), la Puglia (52). E poi ancora: le Marche (26), l’Abruzzo (25), l’Umbria (22), il Trentino Alto Adige (18), la Liguria (17), la Calabria (16), il Friuli Venezia Giulia (13), la Sardegna (12), il Molise e la Basilicata (10). Mentre l’indice di rischio più elevato rispetto alla popolazione lavorativa viene registrato in Molise (100,5 contro una media nazionale di 35,7). Seguono Umbria (61,4) e Basilicata (55,5).

 

Il settore più colpito dalle morti sul lavoro è quello delle Costruzioni con 117 vittime pari al 14,6 per cento del totale degli infortuni mortali sul lavoro. Seguito dalle Attività manifatturiere (98 decessi) e dal Trasporto e magazzinaggio (83).

Più della metà delle vittime rilevate in occasione di lavoro aveva un’età compresa tra i 45 e i 64 anni (485 morti).

Le donne che hanno perso la vita nei primi 11 mesi dell’anno in occasione di lavoro sono state 42. Gli stranieri deceduti sul lavoro sono 125 pari al 15,6 per cento del totale.

 

La provincia in cui si conta il maggior numero di infortuni mortali è Roma (44) seguita da Milano (34), Napoli (30), Bari (22), Torino (21), Brescia (20), Perugia (17).

 

Cosa stiamo aspettando?!

 

Le statistiche delle morti sul lavoro dell’Osservatorio Sicurezza Lavoro Vega Engineering aggiornate al 30 novembre 2015 sono scaricabili all’indirizzo:

http://www.vegaengineering.com/dati-osservatorio/allegati/Statistiche-morti-lavoro-Osservatorio-sicurezza-lavoro-Vega-Engineering-30-11-2015.pdf

 

I dati relativi all’incidenza delle morti sul lavoro sulla popolazione occupata delle Province dell’Osservatorio Sicurezza Lavoro Vega Engineering aggiornati al 30 novembre 2015 sono scaricabili all’indirizzo:

http://www.vegaengineering.com/dati-osservatorio/allegati/Incidenze-morti-lavoro-popolazione-occupata-Province-Osservatorio-Vega-Engineering-30-11-15.pdf

 

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CASSAZIONE: SE LA SICUREZZA NON E’ GARANTITA, IL DIPENDENTE PUO’ RIFIUTARSI DI LAVORARE E DEVE ESSERE PAGATO

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

01 febbraio 2016

di Sestilio Staffieri

 

Quando il datore di lavoro è inadempiente agli obblighi di sicurezza sul lavoro, è legittimo il rifiuto della prestazione lavorativa e si conserva il diritto alla retribuzione

 

Il datore di lavoro è obbligato, a mente dell’articolo 2087 del Codice Civile, ad assicurare condizioni di lavoro idonee a garantire la sicurezza delle lavorazioni ed è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

 

Per la giurisprudenza della Suprema Corte (vedi la recentissima Sentenza n. 836/2016 del 19/01/16), la violazione di tale obbligo legittima i lavoratori a non eseguire la prestazione, eccependo l’inadempimento altrui.

La protezione, anche di rilievo costituzionale, dei beni presidiati dall’articolo 2087 del Codice Civile postula meccanismi di tutela delle situazioni soggettive potenzialmente lese in tutte le forme che l’ordinamento conosce.

 

Dunque, per garantire l’effettività della tutela in ambito civile, si può ricorrere non solo alle azioni volte all’adempimento dell’obbligo di sicurezza o alla cessazione del comportamento lesivo ovvero a riparare il danno subito, ma anche al potere di autotutela contrattuale rappresentato dall’eccezione di inadempimento, rifiutando l’esecuzione della prestazione in ambiente nocivo soggetto al dominio dell’imprenditore.

 

E’ stato altresì statuito che in caso di violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza di cui all’articolo 2087 del Codice Civile, non solo è legittimo, a fronte dell’inadempimento altrui, il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, ma costui conserva, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore.

 

La Sentenza n. 836/2016 del 19/01/16 della Corte di Cassazione è scaricabile all’indirizzo:

http://www.ipsoa.it/~/media/Quotidiano/2016/01/20/Assenza-di-misure-di-sicurezza–rifiuto-al-lavoro-lecito-con-conservazione-dello-stipendio/836-16%20pdf.pdf

 

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QUALI SONO I DIRITTI E GLI OBBLIGHI DEI LAVORATORI?

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

28 gennaio 2016
Informazioni sui diritti e obblighi dei lavoratori con particolare riferimento alla sicurezza sul lavoro.

Gli obblighi e i diritti personali, patrimoniali, sindacali e alla sicurezza. Gli obblighi normati dagli articolo 20 e 21 del D.Lgs. 81/08.

 

L’articolo 2 del D.Lgs. 81/08 definisce il “lavoratorecome persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari. E, sempre nell’articolo 2, sono indicate le altre figure (socio lavoratore di cooperativa o di società, soggetti beneficiari delle iniziative di tirocini formativi, ecc.) equiparabili al lavoratore così definito.

 

Al di là della definizione della normativa quali sono tuttavia i diritti e gli obblighi dei lavoratori?

Per rispondere a questa domanda possiamo sfogliare la guida prodotta dall’Ente Bilaterale Nazionale del settore Terziario (EBINTER), dal titolo “Datori di lavoro e lavoratori. Guida pratica agli adempimenti di sicurezza e all’apparato sanzionatorio”, una guida che fa riferimento non solo al Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, ma anche al contenuto di diversi Accordi/Intese (Confindustria, settore artigiano, pubblica amministrazione, commercio, ecc.).

 

Dopo aver riportato la definizione di lavoratore, il documento ricorda i quattro principali gruppi di diritti che spettano al lavoratore.

 

Il primo gruppo affrontato è il diritto alla sicurezza:

Infatti i lavoratori hanno il diritto:

  • di astenersi (salvo casi eccezionali e su motivata richiesta) dal riprendere l’attività lavorativa nelle situazioni in cui persista un pericolo grave ed immediato;
  • di allontanarsi (in caso di pericolo grave ed immediato e che non può essere evitato) dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, senza subire pregiudizi o conseguenze per il loro comportamento;
  • di prendere, in caso di pericolo grave ed immediato nella impossibilità di contattare un superiore gerarchico o un idoneo referente aziendale, misure atte a scongiurarne le conseguenze, senza subire pregiudizi per tale comportamento, salvo che questo sia viziato da gravi negligenze;
  • di essere sottoposti a visite mediche personali qualora la relativa richiesta sia giustificata da una connessione, documentabile, con rischi professionali.

 

Il documento si sofferma poi anche su altri tre gruppi di diritti:

diritti patrimoniali: sono quelli che riguardano gli aspetti economici della retribuzione e del trattamento di fine rapporto; la retribuzione è un diritto inscindibile dall’attività lavorativa prestata, essa deve avvenire secondo predeterminate scadenze ed inderogabilmente e il salario dev’essere proporzionale al lavoro svolto, sufficiente da garantire la sussistenza al lavoratore e alla sua famiglia, e uguale tra uomini e donne;

diritti personali che riguardano l’integrità fisica e la salute: il datore di lavoro deve infatti garantire un ambiente sicuro e periodicamente controllato; spettano al lavoratore periodi di riposo, quotidiano, settimanale e festivo; è essenziale che il lavoratore sia adibito a mansioni per le quali ha sufficienti competenze, in modo tale che non corra rischi per inesperienza; il lvoratore ha inoltre il diritto di conservare il proprio posto di lavoro in caso di malattia, infortunio, servizio militare, gravidanza e puerperio; è garantita al lavoratore l’assoluta liberà d’opinione, la possibilità di adempiere a funzioni pubbliche, attività ricreative ed assistenziali;

diritti sindacali: ogni lavoratore può, se lo ritiene opportuno, esercitare l’attività sindacale e parteciparvi sul luogo di lavoro; può scioperare e affiggere in locali aziendali qualsivoglia manifesto per lo svolgimento dell’attività sindacale; tra questi diritti rientra certamente quello di nominare un rappresentante per la sicurezza (RLS).

 

Il documento si sofferma ampiamente sulla normativa e sulle regole relative alle elezioni dei RLS, sia con riferimento alle aziende, o unità produttive, che occupano sino a 15 lavoratori, sia alle aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori. Vengono poi presentati nel dettaglio i compiti e i diritti dei RLS.

 

Veniamo ora agli obblighi dei lavoratori che, in questo caso, possono essere classificati in cinque distinti gruppi:

  • prestare la propria attività lavorativa: il lavoratore è tenuto ad adempiere unicamente a quanto sia previsto nel suo contratto individuale, mansioni extra non sono accettabili; qualora esse siano svolte lo saranno a discrezione e scelta del lavoratore; qualora esso si rifiuti non sono tollerabili rivalse da parte del datore di lavoro; se esse dovessero verificarsi, il lavoratore dipendente può tranquillamente rivolgersi alle autorità competenti; inoltre va precisato che l’attività lavorativa può essere svolta unicamente dalla persona intestataria del contratto, non è possibile delegare altre persone affinché adempiano ai propri compiti; il contratto di lavoro può avere come unico fine quello di essere suscettibile di valutazione economica, ossia che disponga a seguito dell’attività un giusto corrispettivo in denaro; il lavoro può essere svolto unicamente nel luogo stabilito dal contratto, nel sito ove l’attività per sua natura debba essere esplicata;
  • obbligo di diligenza: consiste in tutte le dovute accortezze che ogni persona corretta deve far proprie; la prestazione lavorativa deve essere per contratto adempiuta con la necessaria attenzione e precisione; maggiori saranno le responsabilità dell’attività richiesta dall’impresa e maggiore sarà il peso della diligenza; si pensi per esempio a un dottore, una mancanza di attenzione compiuta da esso causerebbe gravi danni al paziente; si comprende bene in tal caso quanto sia importante quest’obbligo contrattuale;
  • obbligo d’obbedienza: consiste nel dover compiere quanto dispone il datore di lavoro o chi ne fa le veci; è importante osservare le direttive date ed esplicarne nel modo migliore possibile;
  • obbligo di fedeltà: si tratta di un dovere che si perpetua per un tempo ragionevole anche a seguito della conclusione della dipendenza per l’attività lavorativa; consiste sostanzialmente nel dover tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne gli interessi; si parla in tal caso di divieto di concorrenza ed obbligo di riservatezza;
  • obblighi di sicurezza: ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro; in aggiunta, è prescritto espressamente ai lavoratori di usare correttamente, in conformità alle istruzioni e alla formazione ricevute, i dispositivi di sicurezza, tanto collettivi che individuali, e gli altri mezzi di protezione, di segnalazione e di controllo; tale obbligo si estende anche all’uso di macchinari, apparecchiature, utensili, sostanze e preparati pericolosi al fine di evitare che una loro utilizzazione inappropriata possa arrecare pregiudizi per la salute e la sicurezza degli altri dipendenti e delle persone eventualmente presenti nel luogo di lavoro.

 

Concludiamo riportando il contenuto di una scheda di sintesi del documento relativa agli obblighi del lavoratore con riferimento esclusivo all’articolo 20 e 21 del D.Lgs. 81/08:

  • prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro (articolo 20, comma 1);
  • contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (articolo 20, comma 2, lettera a));
  • osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva e individuale (articolo 20, comma 2, lettera b));
  • utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto, nonché i dispositivi di sicurezza (articolo 20, comma 2, lettera c));
  • utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione (articolo 20, comma 2, lettera d));
  • segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi, nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e incombente, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (articolo 20, comma 2, lettera e));
  • non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo (articolo 20, comma 2, lettera f));
  • non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori (articolo 20, comma 2, lettera g));
  • partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro (articolo 20, comma 2, lettera h));
  • sottoporsi ai controlli sanitari previsti dal D.Lgs. 81/08 o comunque disposti dal medico competente (articolo 20, comma 2, lettera i));
  • esporre (nel caso che svolgano attività in regime di appalto o subappalto) apposita tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l’indicazione del datore di lavoro; tale obbligo grava anche in capo ai lavoratori autonomi che esercitano direttamente la propria attività nel medesimo luogo di lavoro, i quali sono tenuti a provvedervi per proprio conto (articolo 20, comma 3);
  • utilizzare attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di cui al titolo III del D.Lgs. 81/08;
  • per i lavoratori autonomi, munirsi di dispositivi di protezione individuale e utilizzarli conformemente alle disposizioni di cui al titolo III del D.Lgs. 81/08 (articolo 21, comma 1, lettera b)).

 

Il documento dell’Ente Bilaterale Nazionale del settore Terziario “Datori di lavoro e lavoratori. Guida pratica agli adempimenti di sicurezza e all’apparato sanzionatorio” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/131220_guida_sicurezza_Datori_di_lavoro.pdf

 

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LA GESTIONE DELLA SICUREZZA ANTINCENDIO SECONDO IL NUOVO CODICE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

28 gennaio 2016
Il nuovo Codice di prevenzione incendi riporta precise indicazioni sulla gestione della sicurezza antincendio.

La prevenzione degli incendi, il registro dei controlli, il piano per il mantenimento del livello di sicurezza e la preparazione all’emergenza.

 

Alla Gestione della Sicurezza Antincendio (GSA), una misura antincendio organizzativa e gestionale che deve garantire, nel tempo, un adeguato livello di sicurezza dell’attività in caso di incendio, è dedicato un capitolo del documento “Norme tecniche di prevenzione incendi” allegato al nuovo “Codice di prevenzione Incendi”, il Decreto del Ministero dell’Interno del 3 agosto 2015 recante “Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139” (entrato in vigore il 18 novembre 2015).

 

Presentiamo quindi le indicazioni relative alla gestione della sicurezza nell’attività in esercizio.

 

Dopo aver ricordato che una corretta gestione della sicurezza antincendio durante l’esercizio dell’attività contribuisce all’efficacia delle altre misure antincendio adottate, il Codice indica che tale gestione della sicurezza deve prevedere almeno:

  • la riduzione della probabilità di insorgenza di un incendio e la riduzione dei suoi effetti, adottando misure di prevenzione incendi, buona pratica nell’esercizio, manutenzione, e inoltre: informazioni per la salvaguardia degli occupanti; se si tratta di attività lavorativa, formazione ed informazione del personale (secondo quanto riportato nel paragrafo S.5.6.1 dell’allegato);
  • il controllo e manutenzione di impianti e attrezzature antincendio (secondo quanto riportato nei paragrafi S.5.6.2, S.5.6.3 e S.5.6.4 dell’allegato);
  • la preparazione alla gestione dell’emergenza, tramite l’elaborazione della pianificazione d’emergenza, esercitazioni antincendio e prove d’evacuazione periodiche (secondo quanto riportato nel paragrafo S.5.6.5 dell’allegato).

 

Inoltre in relazione alla prevenzione degli incendi, la riduzione della probabilità di incendio deve essere svolta in funzione delle risultanze dell’analisi del rischio incendio condotta durante la fase progettuale.

Si riportano, a titolo esemplificativo, alcune azioni elementari per la prevenzione degli incendi:

  • pulizia dei luoghi e ordine ai fini della riduzione sostanziale della probabilità di innesco di incendi (ad esempio riduzione delle polveri, dei materiali stoccati scorrettamente o al di fuori dei locali deputati, ecc.) e della velocità di crescita dei focolari (ad esempio la stessa quantità di carta correttamente archiviata in armadi metallici riduce la velocità di propagazione dell’incendio);
  • verifica della disponibilità di vie d’esodo sgombre e sicuramente fruibili;
  • verifica della corretta chiusura delle porte tagliafuoco nei varchi tra compartimenti;
  • riduzione degli inneschi (una nota nel documento indica che siano identificate e controllate le potenziali sorgenti di innesco, quali ad esempio uso di fiamme libere non autorizzato, fumo in aree ove sia vietato, apparecchiature elettriche malfunzionanti o impropriamente impiegate, ecc.);
  • riduzione del carico di incendio (una nota ricorda che le conseguenze di un eventuale incendio possono essere ridotte limitando le quantità di materiali combustibili presenti nell’attività al minimo indispensabile per l’esercizio);
  • sostituzione di materiali combustibili con velocità di propagazione dell’incendio rapida, con altri con velocità d’incendio più lenta (una nota segnala che a parità di qualità dei fumi prodotti, ciò consente di allungare il tempo disponibile per l’esodo degli occupanti;
  • controllo e manutenzione regolare dei sistemi, dispositivi, attrezzature e degli impianti rilevanti ai fini antincendi;
  • contrasto degli incendi dolosi, migliorando il controllo degli accessi e la sorveglianza, senza che ciò possa limitare la disponibilità del sistema d’esodo;
  • gestione dei lavori di manutenzione; il rischio d’incendio aumenta notevolmente quando si effettuano lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, in quanto possono essere: condotte operazioni pericolose (ad esempio lavori a caldo), temporaneamente disattivati impianti di sicurezza, temporaneamente sospesa la continuità di compartimentazione, impiegate sostanze o miscele pericolose (ad esempio solventi, colle, ecc.): tali sorgenti di rischio aggiuntive, generalmente non considerate nella progettazione antincendio iniziale, devono essere specificamente affrontate (ad esempio se previsto nel DUVRI di cui al D.Lgs. 81/08);
  • in attività lavorative, formazione e informazione del personale ai rischi specifici dell’attività, secondo la normativa vigente;
  • mantenimento delle vie d’esodo delle attività sgombre e sicuramente fruibili.

 

Veniamo ora a quanto indicato relativamente al registro dei controlli.

Secondo il nuovo Codice ove previsto dalla soluzione progettuale individuata, il responsabile dell’attività deve predisporre, con le modalità previste dalla normativa vigente, un registro dei controlli periodici dove siano annotati:

  • i controlli, le verifiche, gli interventi di manutenzione su sistemi, dispositivi, attrezzature e le altre misure antincendio adottate;
  • le attività di informazione, formazione e addestramento, ai sensi della normativa vigente per le attività lavorative;
  • le prove di evacuazione.

Questo registro deve essere mantenuto costantemente aggiornato e disponibile per i controllo da parte degli organi di vigilanza.

 

Sono fornite anche indicazioni sul piano per il mantenimento del livello di sicurezza antincendio.

Si indica che ove previsto dalla soluzione progettuale individuata, il responsabile dell’attività deve curare la predisposizione di un piano finalizzato al mantenimento delle condizioni di sicurezza, al rispetto dei divieti, delle limitazioni e delle condizioni di esercizio. E sulla base del profilo di rischio dell’attività e delle risultanze della progettazione, il piano deve prevedere:

  • le attività di controllo per prevenire gli incendi secondo le disposizioni vigenti;
  • la programmazione dell’attività di informazione, formazione e addestramento del personale addetto alla struttura, comprese le esercitazioni all’uso dei mezzi antincendio e di evacuazione in caso di emergenza, tenendo conto dello specifico profilo di rischio dell’attività;
  • la specifica informazione agli occupanti;
  • i controlli delle vie di esodo, per garantirne la fruibilità, e della segnaletica di sicurezza;
  • la programmazione della manutenzione, secondo le disposizioni vigenti, dei sistemi e impianti ed attrezzature antincendio;
  • la pianificazione della turnazione degli addetti antincendio in maniera tale da garantire l’attuazione del piano di emergenza in ogni momento.

 

Si ricorda poi che il controllo e la manutenzione degli impianti e delle attrezzature antincendio devono essere effettuati nel rispetto delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti, secondo la regola dell’arte in accordo alle norme e documenti tecnici pertinenti e al manuale di uso e manutenzione dell’impianto e dell’attrezzatura. E il manuale di uso e manutenzione dell’impianto e delle attrezzature antincendio è predisposto secondo la vigente normativa ed è fornito al responsabile dell’attività.

Si ricorda, a questo proposito, che la manutenzione sugli impianti e sulle attrezzature antincendio è svolta da personale esperto in materia, sulla base della regola dell’arte, che garantisce la corretta esecuzione delle operazioni svolte.

 

Infine si affronta il tema delle emergenze.

In particolare la preparazione all’emergenza, nell’ambito della gestione della sicurezza antincendio, si esplica tramite:

  • pianificazione delle procedure da eseguire in caso d’emergenza, in risposta agli scenari incidentali ipotizzati;
  • nelle attività lavorative con la formazione e addestramento periodico del personale all’attuazione del piano d’emergenza, prove di evacuazione; la frequenza delle prove di attuazione del piano di emergenza deve tenere conto della complessità dell’attività e dell’eventuale sostituzione del personale impiegato.

 

Il Decreto del Ministero dell’Interno 3 agosto 2015 “Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del Decreto Legislativo 8 marzo 2006, n. 139” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/08/20/15A06189/sg

 

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ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI: RAGIONIAMOCI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

02 febbraio 2016

di Pietro Ferrari

Commissione salute e sicurezza sul lavoro CGIL FILCAMS-Brescia
Il registro era uno strumento fondamentale di verifica sull’efficacia della politica aziendale di prevenzione. Come sostituirlo?

 

Il D.Lgs. 151/15, l’ultimo dei quattro Decreti attuativi del Jobs Act (cosiddetto “Decreto semplificazione”), col suo articolo 21, comma 4, ha abrogato il registro degli infortuni:

“A decorrere dal novantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente Decreto, è abolito l’obbligo di tenuta del registro infortuni”.

Il Decreto, del 14 settembre 2015, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.221 del 23 settembre; l’abrogazione dell’obbligo è perciò operante dal 23 dicembre 2015.

 

La storia dell’istituto, da ripercorrere qui brevemente, è abbastanza nota.

Esso è posto per la prima volta con l’articolo 403 del D.P.R. 547/55 (“Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”):

“Le aziende soggette al presente Decreto devono tenere un registro, nel quale siano annotati cronologicamente tutti gli infortuni occorsi ai lavoratori dipendenti, che comportino una assenza dal lavoro superiore ai tre giorni compreso quello dell’evento.

Su detto registro, che deve essere conforme al modello stabilito con decreto del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, sentita la Commissione di cui all’articolo 393, devono essere indicati oltre al nome, cognome e qualifica professionale dell’infortunato, la causa e le circostanze dell’infortunio, nonché la data di abbandono e di ripresa del lavoro.

Il registro infortuni deve essere tenuto a disposizione degli Ispettori del lavoro sul luogo di lavoro”.

 

Successivamente, l’articolo 4, comma 5, lettera o) del D.Lgs. 626/94 confermerà l’obbligo; pur all’interno della problematica titolazione che poneva tale obbligo in capo anche al dirigente e al preposto:

“Il datore di lavoro, il dirigente e il preposto che esercitano, dirigono o sovraintendono le attività indicate all’articolo 1, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, adottano le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori ed in particolare […] tengono un registro nel quale sono annotati cronologicamente gli infortuni sul lavoro che comportano un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni, compreso quello dell’evento […]”.

 

L’incongruenza verrà superata con l’articolo 3, comma 5, del D.Lgs. 242/96 (“Modifiche ed integrazioni al Decreto Legislativo 19 settembre 1994, n. 626, recante attuazione di direttive comunitarie riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro”):

“L’articolo 4 del Decreto Legislativo n. 626/1994, è sostituito dal seguente:

Il datore di lavoro adotta le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori, e in particolare […] tiene un registro nel quale sono annotati cronologicamente gli infortuni sul lavoro che comportano un’assenza dal lavoro di almeno un giorno […]”.

Frattanto la sanzione, di natura penale nel D.P.R. 547/55 (reato contravvenzionale, punito secondo l’articolo 389, lettera c), con l’ammenda da lire 59.000 a lire 100.000) era stata trasformata in illecito amministrativo dal D.Lgs. 626/94.

 

Il D.Lgs. 626 esce il 19 settembre 1994 (in Gazzetta Ufficiale n.265 del 12 novembre). Non passano tre mesi e, con mirabilia coordinatoria non estranea al nostro legislatore, il D.Lgs. 758/94 del 19 dicembre 1994 (“Modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro”; in Gazzetta Ufficiale n.21 del 26 gennaio 1995) interviene a stabilire che:

“Il primo comma dell’articolo 389 [Contravvenzioni commesse dai datori di lavoro e dai dirigenti] del Decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, n. 547, è così modificato:

  1. c) nella lettera c) [che interessava anche l’articolo 403, ovvero la tenuta del registro degli infortuni], le parole: ‘con l’ammenda da lire 250.000 a lire 500.000’ sono sostituite con le seguenti: ‘con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda da lire cinquecentomila a lire due milioni’”.

Da allora trascorrono una quindicina di mesi prima che il sopra citato D.Lgs. 242/96, nell’allargare l’obbligo di registrazione agli “infortuni sul lavoro che comportano un’assenza dal lavoro di almeno un giorno.”, ri-confermi tranquillamente la sanzione (sanzione amministrativa pecuniaria da lire un milione a lire sei milioni) stabilita nel D.Lgs. 626/94, all’articolo 89 (“Contravvenzioni commesse dai datori di lavoro e dai dirigenti”).

 

Il D.Lgs. 81/08, all’articolo 18 (Obblighi del datore di lavoro e del dirigente), comma 1, lettera r), mantiene implicitamente l’obbligo del Registro infortuni, riconoscendone al comma 1-bis la natura transitoria:

“L’obbligo [nuovo] di cui alla lettera r) del comma 1, relativo alla comunicazione a fini statistici e informativi dei dati relativi agli infortuni che comportano l’assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell’evento, decorre dalla scadenza del termine di sei mesi dall’adozione del Decreto di cui all’articolo 8, comma 4. [istituzione del SINP]”.

Dove l’articolo 8 (Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro) specifica che:

“E’ istituito il Sistema informativo nazionale per la prevenzione (SINP) nei luoghi di lavoro […].

Con decreto del Ministro del lavoro, […] da adottarsi entro 180 giorni dalla data dell’entrata in vigore del presente Decreto Legislativo, vengono definite le regole tecniche per la realizzazione ed il funzionamento del SINP, nonché le regole per il trattamento dei dati […]”.

Ne conferma invece l’attualità insieme alla natura transitoria l’articolo 53, comma 6:

“Fino ai sei mesi successivi all’adozione del Decreto interministeriale di cui all’articolo 8 comma 4, [SINP] del presente Decreto restano in vigore le disposizioni relative al registro infortuni”.

 

Con l’articolo 55 (Sanzioni per il datore di lavoro e il dirigente), comma 5, il D.Lgs. 81/08 torna ad applicare la sanzione amministrativa.

Avendo stabilito i diversi fini della comunicazione (statistico quello relativo all’assenza per almeno un giorno, escluso quello dell’evento; assicurativo quello relativo “agli infortuni sul lavoro che comportino un’assenza al lavoro superiore a tre giorni”), applica le diverse sanzioni:

“Il datore di lavoro e il dirigente sono puniti:

[…];

con la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.096,00 a 4.932,00 euro per la violazione dell’articolo 18, comma 1, lettere r), con riferimento agli infortuni superiori ai tre giorni […];

  1. h) con la sanzione amministrativa pecuniaria da 548,00 a 1.972.80 euro per la violazione dell’articolo 18, comma 1, lettera r), con riferimento agli infortuni superiori ad un giorno […]”.

 

A quasi otto anni di distanza, il SINP non è ancora stato costituito, anche se operativamente già sono attivi una serie di canali intercomunicativi che esso doveva assicurare.

Ricordiamo che, ai sensi dell’articolo 8 del D.Lgs. 81/08, il SINP doveva essere istituito “al fine di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l’efficacia della attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali […] e per indirizzare le attività di vigilanza, attraverso l’utilizzo integrato delle informazioni disponibili negli attuali sistemi informativi, anche tramite l’integrazione di specifici archivi e la creazione di banche dati unificate”.

 

A conclusione di questo rapido excursus, e di specifica importanza al prosieguo del ragionamento, va ricordato che il D.Lgs. 626/94 stabiliva esplicitamente all’articolo 19 (Attribuzioni del rappresentante per la sicurezza), comma 5, il diritto del RLS alla consultazione del registro:

 

“Il rappresentante per la sicurezza ha accesso, per l’espletamento della sua funzione, al documento di cui all’articolo 4, commi 2 e 3, nonché al registro degli infortuni sul lavoro”.

E al comma 1, lettera e) del medesimo articolo, stabiliva che il RLS “riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente la valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti le sostanze e i preparati pericolosi, le macchine, gli impianti, l’organizzazione e gli ambienti di lavoro, gli infortuni e le malattie professionali”.

La legge di delega, Legge 3 agosto 2007, n. 123 (“Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia”), articolo 3, comma 1, lettera e), deciderà addirittura l’obbligo di consegna del registro infortuni al RLS:

“Al Decreto Legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modifiche:

  1. e) all’articolo 19, il comma 5 è sostituito dal seguente:

‘5. Il datore di lavoro è tenuto a consegnare al rappresentante per la sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 4, commi 2 e 3, nonché del registro degli infortuni sul lavoro di cui all’articolo 4, comma 5, lettera o)’”.

 

Con l’attuazione della delega da parte del D.Lgs. 81/08, abbiamo visto, l’istituto assume carattere transitorio, in attesa della costituzione del SINP. Eppure il legislatore del 2008/2009 si pone il problema del diritto di accesso al registro da parte del RLS, e lo risolve con l’articolo 18, comma 1, lettera o): “[…] consentire al medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera r) […]”, cioè ai dati relativi agli infortuni sul lavoro oggetto della trasmissione in via telematica all’INAIL.

Esso inoltre, nell’articolo 50 (Attribuzioni del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza), comma 1, lettera e), pone la medesima disposizione del D.Lgs. 626/94626/94: “[…] riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente […] agli infortuni”.

 

Entrando ora nel vivo della problematica, pare evidente la “prova muscolare” dell’attuale legislatore, anche nella formulazione secca dell’articolo 21, comma 4, del cosiddetto “Decreto semplificazione”.

Tuttavia, un approccio basato su ragionevolezza dovrà riconoscere che le derivazioni da tale norma potranno avere ricadute positive, ad esempio nella pratica degli Organi di vigilanza.

 

Ciò che invece pare non esser stato considerato (ed è precisamente il compito che si era posto il legislatore delegante del 2007) è che la consultazione del registro degli infortuni rappresenta parte essenziale della “cassetta degli attrezzi” del RLS. Rappresenta cioè uno strumento fondamentale di verifica sull’efficacia della politica aziendale di prevenzione.

Suonano perciò poco comprensibili, e paiono non proprio lungimiranti, certi giubili immediatamente successivi all’emanazione del provvedimento e relativi alla soppressione di “un adempimento da più parti ritenuto ormai inutile”.

Seguiti, nella logica del “niente prigionieri”, da considerazioni del tipo: poiché il D.P.R. 547/55, il D.Lgs. 626/94 e lo stesso D.Lgs. 81/08 fanno riferimento all’obbligo di “tenere” il registro degli infortuni, dovrà conseguire che il datore di lavoro sia sollevato dall’obbligo non solo, dopo il 23 dicembre 2015, di istituirlo ma anche di conservarlo, di mantenerlo in quanto “storico” degli eventi accaduti prima dell’abrogazione.

 

Fortunatamente, a fare un po’ di chiarezza è intervenuta la Circolare INAIL n. 92 del 23 dicembre 2015. INAIL che, non scordiamo, ai sensi dell’articolo 8, comma 3 del D.Lgs. 81/08, è il deputato gestore del SINP (e gestore in atto delle parti, di quello, già concretamente operative).

Detta Circolare afferma esplicitamente: “Resta inteso che gli infortuni avvenuti in data precedente a quella del 23 dicembre 2015 saranno consultabili nel registro infortuni abolito dalla norma in esame”.

L’INAIL ha poi tamponato il vuoto regolamentare, rendendo telematicamente disponibile un “cruscotto infortuni” “nel quale sarà possibile consultare gli infortuni occorsi a partire dal 23 dicembre 2015”. In tal senso l’INAIL ha predisposto un “Manuale utente” per l’accesso e la ricerca al/nel servizio informatico dell’Istituto.

L’obbligo di conservazione del registro infortuni vale per quattro anni a decorrere dall’ultima registrazione o, se non si sono verificati infortuni, dalla data di vidimazione (oppure di istituzione, in quelle Regioni che avevano già eliminato l’obbligo di vidimazione).

 

Ovviamente, con l’abrogazione del registro infortuni nulla cambia rispetto all’obbligo del datore di lavoro di denunciare all’INAIL gli infortuni occorsi ai dipendenti prestatori d’opera, come previsto dall’articolo 53 del D.P.R. 1124/65 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), modificato dal D.Lgs. 151/15 articolo 21 comma 1, lettera b).

Peraltro, come richiama il D.Lgs. 81/09 all’articolo 18, comma 1, lettera r) seconda parte: “l’obbligo di comunicazione degli infortuni sul lavoro che comportino un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni si considera comunque assolto per mezzo della denuncia di cui all’articolo 53 del Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124;”

 

Tale articolo, come modificato dal D.Lgs. 151/15, dispone che

“Il datore di lavoro è tenuto a denunciare all’Istituto assicuratore gli infortuni da cui siano colpiti i dipendenti prestatori d’opera, e che siano prognosticati non guaribili entro tre giorni […].

La denuncia dell’infortunio deve essere fatta entro due giorni da quello in cui il datore di lavoro ne ha avuto notizia e deve essere corredata dei riferimenti al certificato medico già trasmesso all’Istituto assicuratore per via telematica direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria competente al rilascio”.

 

Il “cruscotto infortuni” INAIL sarà accessibile solamente da:

  • ispettori delle ASL;
  • ispettori dell’INAIL;
  • ispettorato nazionale del lavoro c/o le DTL (Direzioni Territoriali del Lavoro).

Ciò potrà certo concorrere, come accennato, al miglioramento dell’attività ispettiva e consulenziale, significativamente depauperata nel corso degli anni.

 

Ciò che qui si rileva è che anche in questo caso il RLS viene privato di uno strumento necessario alla verifica e proposizione che la legge espressamente gli assegna: “riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente […] agli infortuni […]”, “promuove l’elaborazione, l’individuazione e l’attuazione delle misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori” (articolo 50, comma 1, lettere e) e h) del D.Lgs. 81/08).

Sotto questa luce, la norma in esame si pone senza dubbio in conflitto con le previsioni del D.Lgs. 81/08. Segnatamente, con quelle appena indicate dell’articolo 50 e insieme con l’obbligo di consentire al RLS l’accesso ai dati infortunistici, stabilito dall’articolo 18, comma 1, lettera o) seconda parte (vedi sopra).

 

E’ evidente la necessità di un intervento riequilibratore.

In tal senso, una proposta molto interessante viene da Gino Rubini di “Diario per la prevenzione”.

Scrive Rubini:

“L’atto del Governo sarebbe stato positivo e utile se, in consonanza con l’abrogazione del Registro cartaceo avesse incaricato INAIL di predisporre una piattaforma più evoluta rispetto all’improvvisato ‘cruscotto’, con programmi di software gestionali adatti a monitorare il fenomeno e a elaborare ‘profili aziendali di rischio’, usando i dati provenienti dalle notifiche.

La ‘semplificazione’ sarebbe stata per davvero un passo avanti nella modernizzazione della gestione dei dati per porre sotto governo il fenomeno infortunistico.

Si può ancora rimediare?

Si, se verrà affidato ad INAIL il compito di predisporre un sistema esperto con il quale i dati delle notifiche vengono elaborati e restituiti in automatico alle aziende, che debbono renderli disponibili anche ai RLS. In questo senso avremmo una vera innovazione che semplifica il lavoro delle aziende senza deprivare della conoscenza dei dati i RLS e i lavoratori interessati”.

 

Sarebbe comunque necessario, e urgente, almeno un chiarimento ministeriale.

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AmbienteG_316x180_13Lo spettro di una terza guerra mondiale, le crisi ecnomiche ed ecologiche, e lo “scontro di religioni”. Lucio Sibilia e Stefania Borgo, nel capitolo a loro cura del libro “Spiritualità, benessere e pratiche meditative” (Becciu M., Borgo S., Colasanti A.R., Sibilia L. Roma: F. Angeli, 2015), spiegano la visione di ISDE sul cosiddetto “scontro di civiltà” a cui stiamo assistendo in questo momento storico.
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