Riproduciamo qui sotto, con il permesso dell’autore, un commento di Giuseppe Abate apparso il 15 gennaio 2015 su Aging Blog (https://agingblog.wordpress.com/).
L’informazione scientifica sui media ha molti meriti. Essa rende edotti i cittadini sui fattori di rischio per diverse patologie, sui sintomi delle stesse, sulle nuove metodiche che consentono diagnosi precoci ed affidabili, e sulle terapie al momento disponibili. Tutto ciò contribuisce significativamente alla prevenzione ed alla cura, ed ha un positivo impatto sulla salute pubblica. Ciò premesso, è necessario tuttavia sottolineare che esistono storture nella informazione medica, fonte di danni talvolta rilevanti. Infatti, a lato della acculturazione del cittadino, esistono meno nobili finalità, tra cui quella (neanche tanto nascosta) di promuovere interessi economici, delle industrie produttrici, delle istituzioni sanitarie, ed assai spesso anche dei singoli professionisti. Per tal motivo, l’informazione ne risulta enfatizzata e distorta, alimentando false speranze, specie presso le persone più semplici e meno dotate di senso critico.
L’occasione per queste considerazioni deriva da un articolo, comparso l’8 dicembre 2015 sul supplemento Salute di Repubblica, il cui titolo così recita “La corsa all’oro – Il farmaco contro l’Alzheimer”. Nell’occhiello si legge “DEMENZA. Una medicina che funziona. Dopo anni di ricerche. Ma bisogna somministrarla precocemente. Così nasce un superbusiness. Diagnosi e cura prima che la patologia si manifesti. Per milioni di persone”. Ci sono molti equivoci in queste titolazioni. Da un lato viene subito sparata la notizia che c’è un farmaco “che funziona”; dall’altro si fa capire che vi è la prospettiva di un colossale business da parte dell’industria del farmaco; ed infine c’è una sollecitazione ad effettuare una diagnosi precoce. Tra queste tre cose ce n’è una falsa. La prima.
Procediamo per gradi. In primo luogo, di che si tratta? L’azienda farmaceutica Biogen ha presentato ad un Congresso Internazionale i risultati preliminari di una sperimentazione, che dimostra che un anticorpo monoclonale (aducanumab) risulta efficace nel diminuire la quantità di beta-amiloide presente nel cervello dei malati di Alzheimer e nel migliorare contestualmente le capacità cognitive dei pazienti, misurate con specifiche scale. Tutto ciò sarebbe dimostrato da uno studio preliminare su 166 casi (pochini), per cui la Ditta, visti i promettenti risultati, vuole estendere la ricerca ad un campione più vasto di ammalati.
A questo punto cercherò di spiegarmi meglio a beneficio di chi non è medico, ma che, giunto fin qui, evidentemente conosce l’Alzheimer, e ne ha magari una fottuta paura. A che cosa è dovuta questa terribile malattia? Di preciso non si sa, ma è certo che essa si associa alla eccessiva produzione di alcune proteine anomale, la beta-amiloide e la proteina “tau”. Tali proteine si depositano nelle cellule nervose e ne determinano la morte. Il processo si verifica molto lentamente, per cui la patologia cerebrale può precedere di molti anni (anche venti) la comparsa dei sintomi, tra i quali il più precoce è una grave perdita di memoria. I moderni mezzi neuro-radiologici (Risonanza Magnetica Nucleare, Tomografia ad emissione di positroni e SPECT- Single-Photon Emission Computerized Tomography), così come il dosaggio delle proteine anomale nel liquido cefalo-rachidiano, consentono di individuare in fase precoce il danno cerebrale.
Basandosi sulla convinzione che la responsabilità sia della beta-amiloide, da tempo vengono eseguite delle ricerche per individuare farmaci capaci di impedirne la formazione e/o deposizione, oppure di facilitarne la rimozione. Ne sono stati provati diversi, ma per un verso o per l’altro (scarsa efficacia, tossicità, ecc.) sono stati scartati. Adesso questo aducanumab sembrerebbe (dico sembrerebbe) meglio degli altri.
Tutto ciò premesso, a noi vecchi del mestiere questi progressi della scienza non entusiasmano più di tanto. Sono più di 40 (forse 50) anni che veniamo bombardati dalle aziende farmaceutiche che, a fronte del dilagare della demenza senile (fenomeno strettamente connesso all’invecchiamento della popolazione), hanno immesso sul mercato una valanga di farmaci fantastici, rivelatisi in breve tempo delle bufale colossali. Si cominciò con una vagonata di molecole che agivano (si disse) sui neurotrasmettitori, cioè su quelle sostanze che fanno comunicare i neuroni gli uni con gli altri. Poiché alcuni di essi sono carenti nella malattia di Alzheimer – si disse – un loro aumento poteva risolvere la situazione. Si portava ad esempio la dopamina che è carente nel morbo di Parkinson, ed il cui aumento consente sorprendenti miglioramenti. Verissimo, ma non per l’Alzheimer. É pur vero che i topi diventavano più intelligenti ed imparavano più in fretta la via del labirinto che li avrebbe portati alla ciotola del cibo, o scoprivano prima il sistema per non prendere la scossa. Per gli umani le cose erano un po’ diverse. In apparenza, essi presentavano un miglioramento nei punteggi di una serie di scale e scalette per misurare memoria, intelligenza, capacità logiche e quant’altro, somministrate dai ricercatori con molta benevolenza. All’atto pratico, in qualche caso i pazienti riuscivano più facilmente a ricordare il nome del gatto, salvo poi, un minuto dopo, a riporre le pantofole dentro il frigorifero. Noi geriatri contribuimmo a somministrare e propagandare queste molecole, un po’ perché a questi disgraziati ed ai loro familiari che invocavano aiuto una pillola della speranza non si poteva negare, un po’ perché sollecitati da qualche congresso vacanza con relativo trattamento principesco.
Poi venne il vaccino anti-beta-amiloide. Venivano prodotti in laboratorio anticorpi contro questa sostanza, che la neutralizzavano e ne favorivano la eliminazione. Eureka!! Visti i risultati nei topi, sembrò di essere ad un passo dalla vittoria. Peccato che nell’uomo quel passo non si è ancora fatto, a causa della comparsa di sgradevoli effetti collaterali. La ricerca è andata comunque avanti ed oggi eccoci a trastullarci con gli anticorpi monoclonali. Come dicevo, ne sono stati sperimentati diversi, ma questo aducanumab della Biogen sembra più promettente di altri. Vedremo. Certo i fallimenti del passato non alimentano rosee speranze. Ma comunque “mai dire mai”. Certo che nella più ottimistica delle ipotesi di anni ne dovranno passare molti, ed è ugualmente certo che gli anziani di oggi non potranno avvantaggiarsene.
Ammesso (e non concesso) che così possa essere, viene tuttavia da chiedersi che gusto ci si provi a sottoporsi ad una serie di indagini di un certo rilievo per scoprire che tra 10 o 20 anni si verrà colpiti dall’Alzheimer, senza avere alcuna certezza che un farmaco in via di sperimentazione potrà non guarirti ma solo ritardare di qualche mesetto l’arrivo del terribile morbo. Una prospettiva, a mio avviso, folle. Senza metter nel conto che quella della beta-amiloide è solo una bella teoria, ma che le cause della demenza sono ben più complesse, coinvolgendo altri meccanismi, quali l’altra proteina denominata “tau” (anche in questo caso vaccini in arrivo), il danno vascolare (molto probabile), e non ultimo lo stesso ineluttabile fenomeno dell’invecchiamento. Ricordo a tal proposito che diventar centenario (somma aspirazione di molti) comporta statisticamente una probabilità del 50% di beccarsi la demenza. Non poco. A mio sommesso parere, del resto, la demenza è una patologia diversa da tutte le altre, assumendo un significato escatologico, ponendo cioè la domanda filosofica su quale sia il destino ultimo della vita umana: di finire, certamente, ma anche di finire con il progressivo esaurirsi della fiamma dell’intelligenza, che è quanto più ci distingue da tutti gli esseri viventi. Ed allora, tornando ai media, ed all’articolo che ha dato spunto a questo discorso, ci vorrebbe molta più cautela nel dar le notizie, ingannando i cittadini che ovviamente, leggendo, sperano che sia a portata di mano la terapia miracolosa. Quindi, cari giornalisti, andiamoci piano.
Nel rapporto sulla demenza, pubblicato nel 2012 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, era scritto chiaramente, senza giri di parole: “No treatments are currently available to cure or even alter the progressive course of dementia…”. (Nessun trattamento è al momento disponibile per curare o anche alterare il decorso progressivo della demenza). Eppure è stata mantenuta la rimborsabilità degli inibitori dell’acetilcolinesterasi e della memantina. Si fa l’interesse dei pazienti o delle aziende produttrici?
Ciao a tutti,
Ermanno Pisani
(http://www.globalaging.org/agingwatch/Articles/Dementia%20a%20public%20health%20priority.pdf)