SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.241 DEL 22/01/16
INDICE
- In tema di valore etico della salute e sicurezza sul lavoro
- Amianto, continua la strage di lavoratori
- Il mobbing: guida giuridica
- Il rischio chimico e la relazione sulla sicurezza chimica
Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.
La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.
L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.
Marco Spezia
ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro
Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”
Medicina Democratica
sp-mail@libero.it
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IN TEMA DI VALORE ETICO DELLA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO
Da: PuntoSicuro
http://www.puntosicuro.it
14 gennaio 2016
di Pietro Ferrari
Dalla Costituzione al Decreto 81: quale deve essere il valore etico attribuibile alla sicurezza sul lavoro.
Di fronte al profilarsi di pericolose involuzioni (anche in sede di Commissione europea) rispetto alle politiche di prevenzione e protezione in ambito lavorativo, forse non è inutile fermarsi a considerare quello che deve essere il valore etico attribuibile alla sicurezza sul lavoro (altri ha detto, e dirà, sul valore propriamente economico).
Se davvero vogliamo ragionare, oggi, intorno al tema del valore etico della sicurezza sul lavoro, non possiamo esimerci dallo sforzo di individuare, di “ricostruire” la traccia storica che ci consenta di articolare il discorso.
E’ una traccia antica e di straordinaria importanza quella che si vuole considerare: essa rappresenta il solco tracciato molti anni fa dalla Costituzione della Repubblica per regolare il nostro vivere civile e democratico.
Perché dunque partire dalla Costituzione? E cosa rappresenta la nostra Costituzione?
Le Costituzioni, in generale, rappresentano le regole fondamentali che una organizzazione sociale complessa, qual è lo stato democratico moderno, adotta per regolare il proprio funzionamento.
Ma la nostra Costituzione ha, in più, una caratteristica: essa è nata, alla fine della tragica esperienza della seconda guerra mondiale, dalla lotta di resistenza.
In questa lotta, i lavoratori (operai e contadini) hanno svolto, con le proprie organizzazioni, un ruolo fondamentale ed hanno pagato un grave prezzo per giungere al giorno della Liberazione.
Con questa lunga lotta, alfine vittoriosa, la classe dei lavoratori si è emancipata definitivamente dalla condizione di subalternità, ponendo la dignità ed il valore del suo ruolo quale base fondante della convivenza sociale.
E’ per questo che nel primo articolo dei Principi Fondamentali la Carta Costituzionale stabilisce che “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”.
A differenza di quanto stabilito nel previgente “Statuto Albertino”, all’interno del quale il cardine del sistema dei diritti statutari era costituito dal diritto di proprietà.
Ma facciamo ora un passo indietro e torniamo a quella fase storica denominata “Periodo costituzionale transitorio” che è compresa tra il 25 luglio 1943 (caduta del governo fascista, arresto di Mussolini e nomina del generale Badoglio quale capo del Governo) ed il 1 gennaio 1948 (entrata in vigore della Costituzione).
Nel periodo compreso tra la caduta del governo fascista e l’ingresso a Roma delle truppe alleate (4 giugno 1944) si affermò un nuovo soggetto politico unitario, il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) il quale raggruppava i partiti e le forze che dalla clandestinità avevano combattuto prima il regime fascista, e poi l’occupazione nazi-fascista.
Dopo la liberazione di Roma il CLN entrò a far parte del nuovo governo e il suo presidente, Ivanoe Bonomi, fu nominato Presidente del Consiglio. Nel frattempo continuavano però l’occupazione nazifascista e la lotta partigiana nel nord dell’Italia laddove operava, in clandestinità, il CLN Alta Italia.
L’anno successivo, conclusa vittoriosamente la lotta di liberazione (25 aprile 1945), gran parte del territorio nazionale veniva ricondotto sotto l’autorità formale del governo “romano” e la sovranità formale del Re.
Nuovo Presidente del Consiglio venne nominato Ferruccio Parri, comandante partigiano del Partito d’Azione, il quale provvide a istituire il Ministero per la Costituente con il compito di raccogliere e coordinare i materiali necessari per il lavoro di elaborazione e stesura che l’Assemblea Costituente sarebbe stata chiamata a svolgere.
Le elezioni del 2 giugno 1946 che chiamavano i cittadini (e per la prima volta le donne) al voto, li impegnavano a effettuare la scelta tra monarchia e repubblica e, altresì, a scegliere i componenti dell’Assemblea Costituente: vinse la scelta repubblicana (con 12.717.923 voti contro 10.719.284) e venne eletta l’Assemblea, con l’assegnazione dei 556 seggi alle diverse parti politiche.
L’Assemblea Costituente della Repubblica Italiana cominciò i suoi lavori il 25 giugno 1946 in quanto organo preposto alla stesura di una Carta Costituzionale per la nuova forma dello Stato italiano: la Repubblica Democratica.
La Commissione (la cosiddetta “Commissione dei 75”) incaricata di stendere il progetto generale concluse i suoi lavori nel gennaio 1947. Dopodiché (marzo ‘47) iniziò il dibattito sul testo in sessione plenaria.
Qual è dunque il compito che si poneva ai costituenti?
E come lo affrontarono?
In primo luogo si poneva il difficile compito di ricostituire il tessuto sociale e identitario, dopo le tragiche lacerazioni prodotte dalla guerra. Si trattava, perciò, anche di portare a compimento il difficile processo di riconciliazione nazionale; condizione, questa, necessaria non soltanto per giungere a sentirsi tutti “cittadini della stessa nazione” ma, altresì, per poter avviare il faticoso percorso della ricostruzione materiale ed economica.
Per giungere a ciò i padri costituenti compresero che avrebbero dovuto formulare, nel testo costituzionale, “i diritti inalienabili e imprescrittibili della persona umana come presupposto e limite legale permanente all’esercizio di ogni pubblico potere”, prima ancora che le parti relative ai rapporti civili, economici e di ordinamento della Repubblica.
E compresero (nonostante l’ultima lacerazione nel frattempo intervenuta con la rottura del Patto di unità nazionale) che questo obiettivo generale si sarebbe potuto raggiungere soltanto tramite lo strumento del compromesso, utilizzato per mediare e comporre le diverse posizioni.
C’è però compromesso e compromesso!
Nel caso dei costituenti si trattò di un compromesso alto. Perché essi si sentirono pienamente investiti del compito straordinario al quale venivano chiamati in quel preciso frangente storico e lo affrontarono con un atteggiamento che non è retorico definire sacrale. Come ebbe a dire uno di essi “La Costituzione è veramente una cosa sacra. La Costituzione è per il popolo la legge propria che lo garantisce e lo tutela; è la legge che esso primieramente si dà e che scaturisce dalla sua situazione storica, dalle sue esigenze morali e religiose e da tutto quell’insieme che forma il popolo stesso. Noi dobbiamo dare a questa Costituzione un prestigio di fronte al paese che la renda veramente sacra.”
La Costituzione della Repubblica Italiana entrò in vigore il 1 gennaio 1948.
Se torniamo ora a cercare di stabilire le connessioni rispetto a quello che è il nostro argomento (cioè che cosa si voglia e si debba intendere per valore etico della sicurezza sul lavoro), dobbiamo subito verificare il dettato costituzionale nelle formulazioni dettate nei suoi “Principi Fondamentali” (articoli da 1 a 12), e poi le parti in cui definisce i diritti e i doveri dei cittadini (articoli da 13 a 54).
Articolo 1
“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Articolo 2
“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo […]”.
Articolo 3
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge […] E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana […]”.
Articolo 4
“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Articolo 32
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti […]”.
Articolo 35
“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni e […] cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”.
Articolo 37
“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione”.
Articolo 41
“L’iniziativa economica è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Vediamo dunque come la nostra Costituzione stabilisca qui (per quanto di interesse al nostro ragionamento) alcuni diritti fondamentali e, in quanto tali, inalienabili e garantiti (Articolo 2). Vale a dire, diritti cosiddetti indisponibili.
Essi sono: il diritto alla salute (articoli 2, 32, 35, 37, 41), il diritto al lavoro (articoli 1, 2, 4, 35, 37, 41), la pari dignità sociale di tutti i cittadini (articoli 3, 4).
Non è difficile notare quanto già accennato all’inizio rispetto alla nuova dignità conquistata dal ruolo del lavoratore. Notare cioè come il complesso degli articoli citati vada a reticolare una sorta di “combinato disposto” che concorre a definire il principio, riconosciuto e garantito dalla Repubblica Italiana su decisione del Legislatore costituzionale (articolo 2), ad avere un lavoro che sia sano, sicuro e dignitoso.
La stessa importantissima iniziativa economica/imprenditoriale è sottoposta al limite di non potersi svolgere in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza e alla dignità del lavoratore (articolo 41). Sotto questo aspetto, decisivo risulta quanto dettato dall’articolo 2087 del Codice Civile; articolo ormai considerato universalmente come “norma di chiusura” rispetto alla legislazione e alle politiche di prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Articolo 2087 – Tutela delle condizioni di lavoro
“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Ma il dettato costituzionale dice un’altra cosa ancora, anch’essa decisiva: dice che non solo la salute (e dunque la salute e sicurezza sul lavoro) è un diritto fondamentale dell’individuo ma che, nel contempo, essa è un interesse fondamentale della collettività (articolo 32). Dunque la condizione di salute del singolo lavoratore (come di qualunque cittadino) è un problema per tutta la collettività e ha perciò diritto alla tutela più alta prevista dalla norma superprimaria, la Costituzione appunto.
E’ su queste fondamenta che nel decennio successivo alla entrata in vigore della Costituzione si svilupperà una legislazione (molto avanzata per quel tempo) in materia di prevenzione e protezione dei lavoratori nell’ambiente di lavoro (la cosiddetta “legislazione tecnica” della metà degli anni ‘50) sotto forma prevalentemente di D.P.R. (Decreto del Presidente della Repubblica).
Fondamentali il D.P.R. 547/55 “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”, il D.P.R. 164/56 “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni” e il D.P.R. 303/56 “Norme generali per l’igiene del lavoro”.
Caratteristica di questo tipo di legislazione era quella di essere di tipo impositivo. Essa imponeva cioè al datore di lavoro una serie puntuale di obblighi da rispettare e/o di misure da adottare, ad esempio con riguardo alle protezioni nei macchinari o all’igiene degli ambienti, la cui violazione costituiva violazione di legge diversamente sanzionata, anche con sanzioni penali. Il lavoratore, per suo conto, doveva limitarsi a ubbidire alle eventuali disposizioni impartite dal datore di lavoro. E comunque a rispettare gli apprestamenti protettivi adottati.
In generale è da riconoscere che questo sistema di normative ha rappresentato, in qualche misura, un elemento di protezione che ha mantenuto la sua validità praticamente fino ai nostri giorni. L’abrogazione di quel sistema avverrà solo con l’emanazione del D.Lgs.81/08 (ma consistenti tracce “tecniche” sono ancora rinvenibili nei suoi Allegati).
Si dovranno attendere circa 40 anni perché, con il Decreto Legislativo n.626 del 19 settembre 1994, questa logica venisse capovolta in positivo. Anche se, per il vero, la Legge 300/70 (cosiddetto Statuto dei Lavoratori) col suo articolo 9 aveva in certa misura prefigurato e anticipato la futura direttrice comunitaria.
Articolo 9 – Tutela della salute e dell’integrità fisica
I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.
Il D.Lgs. 626/94 venne emanato in (tardo) come accoglimento della Direttiva della Comunità Economica Europea n.391 del giugno 1989 “Direttiva del Consiglio concernente l’attuazione di misure volte al miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro”. La norma comunitaria obbliga infatti gli Stati membri a recepire nelle rispettive legislazioni le Direttive europee.
Naturalmente, rispetto alle diverse materie, la Direttiva Comunitaria si limita a dettare le condizioni generali minime e inderogabili rispetto alle quali gli Stati membri sono chiamati al recepimento, adeguandole alle normazioni nazionali. Senza dunque poter trascurare o stravolgere le indicazioni generali dettate dalla Direttiva. Vale infatti il divieto espresso all’abbassamento delle tutele.
Il D.Lgs. 626/94 ha capovolto il modo di concepire la problematica della prevenzione e protezione in materia di salute e sicurezza sul lavoro (avrebbe anzi dovuto cambiarne radicalmente l’approccio).
Questa, infatti, non è più relegata al solo rispetto, da parte del datore di lavoro, di una serie di norme a carattere “tecnico” (e al conseguente obbligo di disciplina da parte dei lavoratori) ma si espande a tutti gli attori (nuovi) della prevenzione nei luoghi di lavoro e a tutti i rischi individuabili in ogni specifica realtà.
Anzi proprio questa “partecipazione equilibrata” (per usare il linguaggio della Direttiva 89/391/CEE) è la condizione essenziale perché il sistema della prevenzione possa operare correttamente.
Tra le nuove figure previste dal D.Lgs. 626/94 si segnalano il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione aziendale (RSPP), con il compito di collaborare con il datore di lavoro nella valutazione dei rischi e nella elaborazione del Documento di Valutazione dei Rischi e di coordinare il Servizio di Prevenzione e Protezione nelle figure degli Addetti (ASPP); il Medico Competente (MC), che partecipa alla valutazione dei rischi e provvede alla sorveglianza sanitaria nei casi previsti dalla normativa vigente; il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), il quale deve ricevere, a cura del datore di lavoro, una adeguata e specifica formazione, venire consultato rispetto alla valutazione dei rischi e ai programmi della prevenzione e che, più in generale, ha il compito di verificare che le condizioni di tutela vengano adottate e costantemente rispettate.
Per la prima volta, il D.Lgs. 626/94 prevede anche l’obbligo per il datore di lavoro di fornire ai lavoratori una informazione e formazione sufficienti, adeguate e non episodiche.
Nei suoi circa 14 anni di vigenza, il D.Lgs. 626/94 (con le modifiche e integrazioni successivamente intervenute sul testo originario) ha offerto grandi possibilità per il miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e suscitato negli RLS sensibili aspettative in questo senso.
Purtroppo, pur riconoscendo al Decreto una funzione protettiva e (grazie all’apparato sanzionatorio) deterrente rispetto alle ipotesi di violazione, pur riconoscendo agli enti istituzionalmente preposti alla vigilanza (in primo luogo i Servizi di Prevenzione delle ASL) un impegno significativo, ciò che è venuto a mancare è stato proprio lo spirito collaborativo che informava la legge e, prima ancora, la direttiva comunitaria, la quale rappresenta fonte primaria e inderogabile.
In via generale non è stata cioè superata, da parte delle imprese, la diffidenza nel far partecipare i lavoratori e le loro rappresentanze alla organizzazione della prevenzione; anche perché, non di rado, quest’ultima risultava ignorata, o percepita come costo “non sostenibile” e inutile aggravio burocratico. (non pare inutile richiamare, in questo contesto, l’inattuata previsione costituzionale dell’articolo 46 secondo cui “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”).
A ciò si aggiunga che, permanendo in vigore tutta la complessa decretazione degli anni ‘50 e quella via via succedutasi, s’era venuta a determinare una sorta di “iperfetazione” di leggi e regolamenti che rendevano la materia di difficile accessibilità e interpretazione.
Il problema che, a quest’altezza, si poneva al legislatore, era quello di accorpare, armonizzandola e integrandola, una legislazione/normazione vasta e complessa; per di più soggetta, a progressive rivisitazioni e modifiche.
Tale problema, a dire il vero, era già stato posto dalla Legge di riforma sanitaria del 1978 (la 833/78 “Istituzione del servizio sanitario nazionale”) nella parte in cui sollecitava il legislatore a procedere ad un riassetto e a una rivisitazione della materia.
A partire da allora, si succedettero diverse prefigurazioni di “riforma” e una proposta organica (ma scellerata) di Testo Unico che il governo del 2005 fu poi costretto a ritirare, sostanzialmente in conseguenza della pronuncia sfavorevole del Consiglio di Stato e del parere negativo delle Regioni.
Quella esigenza, posta già dalla legge del 1978, venne finalmente risolta dal legislatore del 2008 con l’emanazione del Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81.
Il D.Lgs. 81/08, che si presentava fattualmente come Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro pur non avendone qualificazione formale, soddisfaceva alla delega formulata un anno prima dall’articolo 1 della Legge 123/07 “Misure in tema di salute e sicurezza e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia”.
Articolo 1
“Il Governo è delegato ad adottare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per il riassetto e la riforma delle disposizioni vigenti in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro […]”.
Cosa fa il D.Lgs. 81/08, modificato dal Decreto integrativo e correttivo n. 106 del 2009?
Esso adempie al compito di rendere omogenea e aggiornata (rispetto alle Direttive comunitarie, alla normazione tecnica internazionale e alla giurisprudenza consolidata) tutta la materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Dunque anche abolendo grandissima parte della precedente legislazione di riferimento o, per certa parte, incorporandola.
Non è qui compito di addentrarci in specifiche valutazioni dei contenuti del Testo Unico.
Nostro compito è invece quello di individuare gli elementi di tali contenuti che possano riconnetterci al ragionamento su che cosa debba intendersi per “valore etico della sicurezza”.
Tali elementi sono quelli che “riassumono” e richiamano il dettato (e lo spirito) costituzionale, saldando (soprattutto) gli articoli 35 e 41 della Costituzione con la norma generale stabilita dall’articolo 2087 del codice civile.
Richiamiamoli brevemente:
- la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività;
- l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana;
- l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Ecco dunque che l’articolo 15 del D.Lgs. 81/08 elencando diffusamente le misure di tutela definisce il sovraordinato obbligo generale di sicurezza posto a carico del datore di lavoro dall’articolo 2087 del Codice Civile. In primo luogo nei confronti dei lavoratori; e però anche nei confronti di terzi (presenti sul luogo di lavoro) e dell’ambiente esterno (si pensi solo ai danni da emissioni nocive o da smaltimento di rifiuti tossici).
E tuttavia anche il lavoratore è sottoposto all’obbligo di sicurezza: nei confronti di sé stesso, come nei confronti dei colleghi di lavoro, come nei confronti di terzi, ad esempio lavoratori di altre imprese che si trovino a operare su quel luogo di lavoro, visitatori, clienti ecc. .
Ciò proprio perché la salute, che è un bene indisponibile (cioè non riducibile, né contrattabile) non rappresenta soltanto un diritto fondamentale dell’individuo (si parla, giuridicamente, di diritto soggettivo perfetto) ma, nel contempo, rappresenta un interesse altrettanto fondamentale per la collettività; basti pensare agli altissimi costi umani, sociali ed economici degli infortuni e delle malattie professionali.
E’ per questo che l’articolo 20 del Dlgs. 81/08 procede a definire gli obblighi dei lavoratori, indicando nel primo comma l’obbligo generale:
Articolo 20, comma 1
“Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni od omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”.
Vediamo dunque come il cerchio del ragionamento vada a chiudersi.
Abbiamo percorso e considerato, sia pure in modo estremamente sintetico, una “lunga storia”.
E’ la nostra storia. Quella dei nostri padri e dei “padri” costituenti.
Storia fatta dalle donne e dagli uomini di questa Repubblica (res publica) democratica (démos cràtos), dalle loro intelligenze e dalla loro passione, per una società progressiva.
Certamente di faticoso avanzamento sociale, del tutto diverso dalle “magnifiche sorti e progressive” della celebre critica leopardiana.
In questo senso, dobbiamo intendere l’etica, sul piano socio-politico, come il complesso delle leggi più nobili delle quali una società si dota per regolare il proprio svolgimento.
E invece, sul piano morale, essa deve intendersi (secondo le parole di Antigone nella grande tragedia di Sofocle) come le “eterne leggi non scritte”.
Pietro Ferrari
Commissione salute e sicurezza sul lavoro – FILCAMS CGIL Brescia
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AMIANTO, CONTINUA LA STRAGE DI LAVORATORI
Da Il Pane e le Rose
http://www.pane-rose.it
19 Gennaio 2016
Amianto, continua la strage di lavoratori.
4.000 mila morti ogni anno, mille morti solo per mesotelioma.
Articolo pubblicato dalla rivista “Nuova Unità”, gennaio 2016
A 23 anni dalla messa al bando dell’amianto, con la Legge 257 del 1992, ci sono in Italia ancora 32 milioni di tonnellate di amianto e le bonifiche sono tuttora da fare. Chi sperava che dopo l’approvazione della legge, l’amianto sarebbe stato rimosso dalle nostre vite deve ricredersi: la decontaminazione dalla fibra è fallita.
A oggi ci sono oltre 400 norme regionali e nazionali sull’amianto, un labirinto legislativo che fa comodo a molti che per i propri interessi speculano sulla vita delle persone.
Istituzioni, padroni, governi, giocano scaricando le responsabilità su altri.
Il profitto viene prima di qualsiasi diritto alla salute e alla sicurezza e si realizza sulla pelle dei lavoratori e cittadini.
L’amianto è un problema sociale, sanitario, medico, una bomba ecologica non ancora disinnescata, che prima ha ucciso i lavoratori esposti alla fibra killer e oggi avvelena la popolazione.
Nonostante la Legge 257/92 che metteva al bando l’amianto lo preveda, a tutt’oggi manca una mappatura completa dei siti contaminati da amianto e da bonificare e molto spesso le mappature sono datate o inattendibili. L’articolo 10 della Legge 257/92 stabilisce che le regioni in mancanza di adozione dei Piani Regionali amianto, possono essere commissariate, ma nonostante ciò diverse regioni non lo hanno ancora adottato e molte non lo hanno ancora rinnovato (come Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna, ad esempio).
In Italia come sempre fatta la legge si trova subito l’inganno. La legge ha bandito l’utilizzo del minerale killer ma non ha obbligato lo smaltimento, e la polvere d’amianto continua a uccidere almeno 8 italiani al giorno e avvelenarne altre migliaia.
In Italia esistono tuttora oltre 300 mila edifici (di cui almeno 3.000, rappresentano un grave rischio di contaminazione per tutta la popolazione, uomini, e donne, bambini e anziani, e più di 2.400 sono scuole italiane) tuttora contaminati dall’amianto e come ha riconosciuto la presidente della Commissione di Inchiesta sugli infortuni sul lavoro del Senato Camilla Fabbri, “di questo passo ci vogliano 85 anni per smaltirlo e eliminarlo dalle nostre vite”.
Tutti conosciamo la storia di Casale Monferrato grazie alle lotte condotte dagli ex lavoratori dell’Eternit e dai cittadini, ma lo sviluppo industriale, il “progresso” di questo paese si fonda sul sangue di decine di migliaia di proletari e i cittadini, spesso dimenticati.
La stessa Unione Europea nel quadro strategico per la sicurezza sul lavoro dal 2007 al 2011 afferma che anche se in Europa si assiste a una diminuzione degli infortuni del 28%, i morti per amianto sono in continuo aumento.
Il mesotelioma, il tipico tumore maligno continua a colpire e uccidere senza pietà, in tutto il paese, dal nord al sud, ma l’amianto provoca anche molti altri tumori maligni di cui si parla poco nei mass-media.
Secondo recenti dichiarazioni del presidente di INAIL, Massimo De Felice, i lavoratori vittime dell’asbesto decedute assicurate all’INAIL sono state 17.428 e oltre 21.000 i casi di mesotelioma tra il 1993 e il 2014.
I numeri ci dicono che l’amianto continua a uccidere oggi come nel passato e purtroppo senza bonifiche dei siti industriali e del territorio la lista dei morti e malati continuerà a crescere ancora per molti anni. Tutti sono a rischio, nessuno è esente dal pericolo.
Anche nel tempio della musica, il Teatro della Scala di Milano (dove abbiamo manifestato in occasione della prima) l’amianto ha fatto delle vittime, e per le morti sospette per amianto alla Scala sono indagati quattro ex sindaci di Milano, Carlo Tognoli, Gian Paolo Pillitteri, Giampiero Borghini e Marco Formentini. Indagato anche l’ex sovrintendente Carlo Fontana indagati, con altre persone, per omicidio colposo e lesioni colpose per sette decessi e altri casi di malattia dovuti all’amianto presente al Teatro alla Scala.
In questo le denunce dei lavoratori e comitati sono servite.
La procura contesta agli indagati di non essersi adoperati per rimuovere in passato l’amianto dai manufatti nei vari locali, soprattutto tecnici, ma anche dal famoso lampadario all’interno del teatro. Per l’accusa non sarebbe stato fatto il censimento dell’amianto previsto dalla legge del 1992, e il minerale avrebbe provocando la morte dei lavoratori. Tra le persone morte per esposizione alla sostanza cancerogena dagli anni ‘70-80, ci sono un siparista, un macchinista, un vigile del fuoco, un falegname, un addetto al trasporto delle scene e anche una cantante lirica. Questo dramma è solo uno dei tanti.
Anni di omertà e complicità da parte di tutte le istituzioni hanno finora garantito l’impunità a padroni e manager colpevoli di aver mandato consapevolmente a morte migliaia di lavoratori nelle fabbriche pur di realizzare i massimi profitti. In questi anni molti processi sono stati esempi d’ingiustizia per le vittime e i loro famigliari assolvendo i padroni nel merito o per prescrizione. In ogni caso la mobilitazione dei lavoratori e delle vittime organizzate in comitati è servita per portare sul banco degli accusati i padroni e manager assassini di tanti operai. Anche se la giustizia per le vittime dell’amianto non arriva quasi mai e quando arriva è tardiva come dimostra il processo Eternit di Casale Monferrato, le vittime, i comitati e le associazioni continuano a lottare: oggi in Italia sono in corso più di 50 processi per amianto.
Michele Michelino
Presidente del “Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio”
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IL MOBBING: GUIDA GIURIDICA
Da Studio Cataldi
http://www.studiocataldi.it
18 gennaio 2016
COSA E’ IL MOBBING
Con il termine “mobbing” si fa riferimento, in generale, all’insieme dei comportamenti che tendono a emarginare un soggetto dalla società di cui esso fa parte, tramite violenza psichica protratta nel tempo e in grado di causare seri danni alla vittima.
Non esiste un criterio specifico per individuare tali atti, nei quali rientra quindi ogni forma di angheria perpetrata da una o più persone nei confronti dell’individuo più debole: ostracismo, umiliazioni pubbliche e diffusione di notizie non veritierie.
ETIMOLOGIA DEL TERMINE
La parola mobbing è stata coniata ufficialmente da un etologo austriaco, Konrad Lorenz.
Il significato iniziale si riferiva, infatti, a tutti quegli atteggiamenti animali perpetrati da uno o più membri di un gruppo nei confronti di quello che potrebbe essere definito come l’anello debole dell’insieme, al fine di estraniare il soggetto dal resto branco e allontanarlo.
Più specificamente, il termine mobbing non è altro che una forma di gerundio sostantivato del verbo “to mob”, coniato, nella lingua inglese, nel corso del XVII secolo e diretto derivato di una comune espressione latina, mobile vulgus, con la quale ci si riferiva ai folti gruppi tipici di una parata o di un evento locale, che avevano la cattiva abitudine di muoversi in modo disordinato seminando il caos nei dintorni.
Con il termine “to mob”, in sostanza, si intende letteralmente: accalcarsi intorno a qualcuno, affollarsi, assalire tumultuando.
Oggi, tuttavia, l’accezione del termine si è sviluppata sino ad indicare, in generale, le persecuzioni psicologiche perpetrate da parte di uno o più individui nei confronti di un altro, nel contesto lavorativo e non solo.
RILEVANZA GIURIDICA
Come accennato, dunque, oggi con il termine mobbing si intende quella forma di terrore psicologico, esercitato, con modalità e tempistiche ben precise, in danno di un collega di lavoro, di un subordinato, di un individuo più debole, con il chiaro intento di danneggiarlo ed emarginarlo.
Affinché il mobbing assuma rilevanza sul piano giuridico è più in particolare necessario che il terrore psicologico si estrinsechi in comportamenti aggressivi e vessatori, che si protraggano nel tempo in maniera ripetitiva, regolare e frequente.
MOBBING E LAVORO
Il contesto principale con riferimento al quale si è iniziato a far riferimento al mobbing come a un comportamento illecito, giuridicamente rilevante, è quello lavorativo.
In tal contesto, sostanzialmente, il mobbing si estrinseca in tutti quei comportamenti che il datore di lavoro o i colleghi pongono in essere, per svariate ragioni, al fine di emarginare e allontanare un determinato lavoratore.
Da tale definizione è possibile far discendere una prima forma di classificazione del mobbing: quella che distingue il mobbing verticale dal mobbing orizzontale.
Il mobbing verticale (o bossing) è la classica forma nella quale si estrinseca il mobbing e consiste negli abusi e nelle vessazioni perpetrati ai danni di uno o più dipendenti da un loro diretto superiore gerarchico. In questi casi le possibilità di ribellarsi a tali atteggiamenti sono spesso molto limitate e di non facile attuazione, in ragione dei rapporti di forza sbilanciati tra mobber e mobbizzato.
Per mobbing orizzontale, invece, si intende l’insieme di atti persecutori messi in atto da uno o più colleghi nei confronti di un altro, spesso finalizzati a screditare la reputazione di un lavoratore mettendo in crisi la sua posizione lavorativa. Si tratta di comportamenti difficili da fronteggiare e denunciare soprattutto se attuati da un gruppo.
Per quanto esse siano del tutto inusuali, talvolta possono comunque verificarsi anche ipotesi di mobbing dal basso o low mobbing.
Si tratta di una serie di azioni che mirano a ledere la reputazione delle figure di spicco aziendali, magari a seguito di un loro comportamento ritenuto non idoneo da parte di un buon numero di dipendenti oppure per motivi semplici quanto futili, come antipatia o invidia per il potere mostrato o per la posizione raggiunta.
E’ una situazione che, ad esempio, può verificarsi in ipotesi di crisi economica aziendale. In questi casi, infatti, non è raro che la figura del capo sia considerata alla base della crisi e di ogni altra problematica come disorganizzazione, cattiva reputazione dell’azienda, incapacità di essere competitivi.
IN PARTICOLARE: IL BOSSING
Tra le diverse tipologie di mobbing che possono estrinsecarsi nel mondo del lavoro, di certo quella più diffusa è il bossing.
Su di esso, quindi, è il caso di soffermarsi qualche riga in più.
Innanzitutto occorre chiarire che questa pratica combina, in maniera premeditata, azioni a scopo intimidatorio con veri e propri atti di violenza psico-fisica e di esclusione dai privilegi aziendali solitamente riservati in forma equa ai vari dipendenti.
Tali provvedimenti riguardano spesso l’assegnazione d’incarichi lavorativi specifici, l’esclusione dai meeting del personale dipendente e il tenere nascoste solo ad alcuni dipendenti le informazioni che usualmente vengono diffuse tra tutti.
Tra gli altri atteggiamenti che caratterizzano il comportamento mobbizzante vi è poi, ad esempio, il fenomeno del ridimensionamento di ruolo nella comunità aziendale, che vede brillanti dipendenti (ritenuti potenzialmente pericolosi per lo status di alcuni alti membri del comitato direttivo a rischio) incaricati di mansioni di poco conto, come quella di fare fotocopie o gestire la posta di altri dipendenti di pari rango, che li demotivano e limitano l’espressione delle proprie capacità e conoscenze.
L’intento è quello di creare nella vittima, per varie ragioni, un senso di emarginazione e di cagionarle frustrazione e un’ansia sempre crescente e spesso insopportabile.
CAUSE ALLA BASE DEL MOBBING
Se i comportamenti individuati come mobbing hanno assunto rilevanza nei vari ordinamenti giuridici principalmente in relazione agli ambienti di lavoro, ciò è derivato dalle particolari caratteristiche che connotano il relativo ramo del diritto.
Il mobbing, non a caso, riguarda spesso grandi aziende, le quali lo utilizzano per aggirare la normativa a tutela dei licenziamenti cagionando nel lavoratore “sgradito” una condizione di stress psico-fisico, idonea a determinarlo ad abbandonare di sua “spontanea volontà” il luogo di lavoro.
Tuttavia le motivazioni che possono celarsi dietro gli atti mobbizzanti sono molteplici.
Talvolta, ad esempio, l’intento dei mobber è quello di riversare su un “capro espiatorio” alcune problematiche interne di vario genere.
Altre volte il mobbing è dettato da motivazioni di carattere strettamente personale.
Esso può anche essere la conseguenza del rifiuto, da parte della vittima, delle avances del superiore o del collega poi divenuto mobber.
Da tutto ciò emerge chiaramente che le conseguenze dannose del mobbing non sono necessariamente connesse alla perdita del posto di lavoro che esso può illecitamente e indirettamente cagionare. Essere vittima di ripetute vessazioni, attacchi e umiliazioni può, infatti, indurre nel lavoratore paure e insicurezze, idonee ad incidere in maniera anche rilevante sulla sua salute psico-fisica.
MOBBING SOCIALE
Sino ad ora, nel parlare di mobbing si è fatto riferimento esclusivo al mondo del lavoro.
Tuttavia, nonostante questo sia il contesto in cui il fenomeno assume la rilevanza maggiore, il mobbing riguarda anche altri contesti.
Un individuo, infatti, può essere “preso di mira” e può divenire vittima di ripetute vessazioni in qualsiasi contesto sociale.
Ciò accade, ad esempio, all’interno dell’ambiente scolastico, in cui i ragazzi possono divenire vittime del mobbing operato sia da altri studenti che dagli insegnanti.
Si pensi ai casi di disapprovazione infondata di alcune abitudini o idee dello studente o, ancora peggio, ai casi di pregiudizio nei suoi confronti derivante dalle origini, dalle tradizioni o dalla diversa etnia.
Anche nel caso di “mobbing scolastico” non sono da sottovalutare, seppur rari, i casi di mobbing dal basso che riguardano gruppi coalizzati di studenti che mirano a ledere le capacità organizzative e di dialogo di uno o più insegnanti ritenuti particolarmente deboli.
Un altro contesto sociale in cui il mobbing può estrinsecarsi è quello familiare.
Esso, ad esempio, riguarda i casi in cui un coniuge vuole ottenere il monopolio delle attenzioni della prole e, a tal fine, cerca di estromettere il partner dalle questioni familiari.
E’ chiaro che questo tipo di mobbing è nocivo non solo della stabilità del nucleo familiare e della salute della vittima diretta ma anche di quella dei figli e di tutto il nucleo familiare.
TUTELA GIURIDICA CONTRO IL MOBBING
Nel nostro ordinamento possono rinvenirsi diverse norme che permettono alle vittime di tutelarsi rispetto a fenomeni di mobbing.
LA COSTITUZIONE
La prima fondamentale tutela può essere rinvenuta nella Costituzione.
La carta fondamentale del nostro ordinamento, infatti, all’articolo 32 riconosce e tutela la salute come un diritto fondamentale dell’uomo, all’articolo 35 tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni e all’articolo 41 vieta lo svolgimento delle attività economiche private che possano arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
IL CODICE CIVILE E LE LEGGI SPECIALI
Spostandoci dal piano dei principi a quello pratico, nel nostro codice civile è possibile rinvenire due fondamentali norme in grado di aiutare le vittime di comportamenti mobbizzanti a trovare tutela rispetto alle lesioni subite.
Si tratta, innanzitutto, dell’articolo 2043 che prevede l’obbligo di risarcimento in capo a chiunque cagioni ad altri un danno ingiusto con qualunque fatto doloso o colposo.
Si tratta poi dell’articolo 2087 che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale di lavoratori.
Con riferimento alle leggi speciali, una tutela contro comportamenti mobbizzanti può essere ravvisata innanzitutto nello Statuto dei lavoratori, nella parte in cui pone una specifica procedura per le contestazioni disciplinari a carico dei lavoratori e laddove punisce i comportamenti discriminatori del datore di lavoro.
Un’ulteriore tutela, di carattere più generale, è ravvisabile, infine, nel Testo unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
IL CODICE PENALE
Il mobbing, nel nostro ordinamento può talvolta assumere rilevanza anche da un punto di vista penale, sebbene non esista una specifica figura di reato.
I comportamenti mobbizzanti, infatti, a determinate condizioni possono cagionare delle conseguenze riconducibili al reato di lesioni personali di cui all’articolo 590 del codice penale.
TUTELA CIVILISTICA
Le vittime di mobbing, quindi, trovano la loro principale fonte di tutela nella possibilità di esperire i tradizionali rimedi civilistici offerti dal nostro ordinamento.
Esse potranno insomma citare in giudizio il loro mobber nelle forme del rito ordinario al fine di vederne accertata la responsabilità per il danno che hanno cagionato nei loro confronti, ovverosia non solo il danno biologico ma anche il danno morale.
ONERE DELLA PROVA
Affinché possa essere risarcito del danno subito, tuttavia, è necessario che il mobbizzato fornisca una prova precisa e adeguata del mobbing.
Innanzitutto egli dovrà provare che, nei suoi confronti, è stata perpetrata una serie di comportamenti persecutori, con intento vessatorio.
Costituiscono esempi di tali comportamenti, si ricorda, le critiche continue e immotivate, la dequalificazione, l’emarginazione, le molestie.
Il mobbizzato dovrà provare, poi, che tali comportamenti non sono sfociati in un unico, isolato, evento, ma sono stati reiterati lungo un arco temporale medio-lungo, ovverosia per un periodo di tempo tale da rendere invivibile il contesto di riferimento.
Un’ulteriore fondamentale prova da fornire è quella relativa al danno subito. Essa potrà essere data con dichiarazioni testimoniali e, ancor più efficacemente, con perizie e certificati medici che attestino lo stato di depressione e frustrazione.
Infine, ed è questa la prova più delicata da fornire, dovrà essere accertato lo stretto rapporto causale tra la condotta denunciata e il danno subito.
MASSIME DELLA CASSAZIONE
Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 13693 del 03/07/15
“Il lavoratore vittima di mobbing non è tenuto a dimostrare la colpa del datore di lavoro ma è sempre tenuto a dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume siano state violate”.
Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 11547 del 04/06/15
“Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:
- la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano posti in essere in modo miratamene sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
- l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
- il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
- la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio”.
Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 10037 del 15/05/15
“Il fatto che le condotte persecutorie integranti la fattispecie di mobbing sino opera di un altro dipendente, superiore gerarchico della vittima, non esclude la responsabilità del datore di lavoro se questi è rimasto colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo. Nella specie la durata e le modalità con cui è stata posta in essere la condotta mobbizzante, quale risulta anche dalle prove testimoniali, sono tali da far ritenere la sua conoscenza anche da parte del datore di lavoro, nonché organo politico, che l’ha comunque tollerata”.
Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 1258 del 23/01/15
“Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi da parte del datore di lavoro comportamenti, anche protratti nel tempo, rivelatori (in modo inequivoco, di un’esplicita volontà di quest’ultimo di emarginazione del dipendente, occorrendo, pertanto dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte dirette (oggettivamente) all’espulsione dal contesto lavorativo, o comunque connotate da un alto tasso di vessatori età e prevaricazione, nonché sorrette (soggettivamente) da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall’unico fine intenzionale di isolare il dipendente”.
Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 1262 del 23/01/2015
“Per potersi parlare di mobbing è necessaria una pluralità di condotte ostili, protrattesi nel tempo, tese ad emarginare il singolo lavoratore. Per l’esattezza, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte affinché sia configurabile un mobbing devono ricorrere:
- una serie di comportamenti di carattere persecutorio (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
- l’evento lesivo della salute, della personalità e/o della dignità del dipendente;
- il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
- l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”.
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IL RISCHIO CHIMICO E LA RELAZIONE SULLA SICUREZZA CHIMICA
Da: PuntoSicuro
http://www.puntosicuro.it
05 gennaio 2016
di Tiziano Menduto
Un intervento si sofferma sui regolamenti europei REACH e CLP in materia di sostanze chimiche. Focus sulla relazione sulla sicurezza chimica (CSR), sulla valutazione della sicurezza chimica (CSA) e sugli obblighi dell’utilizzatore a valle.
Proprio per la complessità della disciplina europea relativa alla sicurezza delle sostanze chimiche e, più in generale, della tutela dal rischio chimico nei luoghi di lavoro, torniamo spesso a presentare documenti in grado di approfondire e chiarire eventuali dubbi su questo tema.
Proprio sul rischio chimico si sono soffermati alcuni interventi ad un recente Convegno che si è tenuto a Imola il 3 novembre 2015 nell’ambito delle Settimane della Sicurezza 2015 organizzate dall’ Associazione Tavolo 81 Imola.
Stiamo parlando del convegno “Rischio chimico e amianto: facciamo il punto” in cui è stato possibile fornire alle aziende un quadro sul tema delle sostanze chimiche e materie prime, prodotti o semplicemente sostanze usate per il funzionamento di macchinari o processi dal punto di vista dei Regolamenti europei, della tutela dei lavoratori e con riferimento particolare agli ambienti sospetti di inquinamento e alla normativa correlata (D.Lgs.177/11).
Possiamo avere alcune indicazioni sul regolamento REACH e sul regolamento CLP (ricordando che dal primo giugno 2015 è diventato obbligatorio seguire il Regolamento CLP nella classificazione delle miscele) attraverso uno degli atti pubblicati sul proprio sito dall’Associazione Tavolo 81 Imola e relativo a un intervento di Bruno Marchesini (Chem-Consulting) sulle “Novità in materia di gestione dei prodotti chimici”.
Nell’intervento vengono presentati diversi aspetti sia del Regolamento 1907/06 (REACH) che del Regolamento 1272/08 (CLP).
Ad esempio si ricorda che il Regolamento REACH si basa sul principio che ai fabbricanti, agli importatori e agli utilizzatori a valle spetta l’obbligo di fabbricare, immettere sul mercato o utilizzare sostanze che non arrecano danno alla salute umana o all’ambiente.
In breve gli elementi chiave del Regolamento REACH sono:
- registrazione: le sostanze fabbricate e importate nello SEE vengono registrate presso l’ECHA; l’informazione sull’uso sicuro vengono comunicate nella catena di approvvigionamento;
- valutazione: esame delle proposte di test del registrante; verifica di conformità dei dossier, valutazione delle sostanze;
- gestione del rischio: autorizzazione; restrizione; classificazione armonizzata.
L’intervento ricorda che, fatto salvo l’articolo 4 della Direttiva 98/24/CE (articolo 223 del D.Lgs.81/08), va effettuata una valutazione della sicurezza chimica e va compilata una relazione sulla sicurezza chimica per tutte le sostanze soggette a registrazione in forza del presente capo in quantitativi pari o superiori a 10 tonnellate all’anno per dichiarante.
Attenzione che, come già accennato, tale valutazione del rischio che deriva dagli obblighi del Regolamento REACH non è sostitutiva di quella che deve essere attuata ai sensi del D.Lgs.81/08.
La relazione sulla sicurezza chimica include dunque anche la valutazione della sicurezza chimica che deve contenere:
- valutazione dei pericoli per la salute umana;
- valutazione dei pericoli per la salute umana dovuti alle proprietà fisico-chimiche;
- valutazione dei pericoli per l’ambiente;
- valutazione PBT (Persistent, Bioaccumulative and Toxic) e VPVB (Very Persistent, Very Bioaccumulative).
La sostanza deve dunque essere valutata ancor prima di arrivare nell’ambiente di lavoro. E nel caso in cui si identifichi un pericolo (sostanza classificata pericolosa oppure PBT o VPVB), si deve procedere anche con:
- l’individuazione degli scenari di esposizione e la relativa valutazione dell’esposizione;
- la caratterizzazione del rischio.
E gli scenari di esposizione, valutazione e caratterizzazione dei rischi tengono conto di tutti gli usi identificati.
In definitiva la relazione sulla sicurezza chimica indica le misure di gestione del rischio che devono essere adottate. Tali misure, se del caso, devono essere indicate nelle Schede di Dati di Sicurezza (SDS).
Senza dimenticare che (come indicato dall’ Helpdesk Reach) l’utilizzatore a valle (persona fisica o giuridica diversa dal fabbricante e dall’importatore che utilizza una sostanza, in quanto tale o in quanto componente di una miscela, nell’esercizio delle sue attività industriali o professionali) deve:
- informare il proprio fornitore su un uso quando la sostanza non è ancora registrata;
- informare il proprio fornitore su un uso non contemplato nella SDS della sostanza registrata;
- intraprendere azioni appropriate quando si riceve una SDS (individuare e mettere in atto misure adeguate per controllare i rischi derivanti dall’uso della particolare sostanza; comunicare al fornitore se le misure di gestione del rischio sono inadeguate o si rendano note nuove informazioni sui pericoli di una sostanza; verificare se gli scenari di esposizione allegati alla SDS coprano l’uso della sostanza e le condizioni d’uso e se l’uso non è coperto informare il fornitore);
- comunicare informazioni riguardanti l’uso sicuro ai propri clienti mediante fornitura della propria SDS;
- preparare una relazione sulla sicurezza chimica dell’utilizzatore a valle se il proprio uso non è coperto dalla SDS fornita.
La relazione ricorda poi in particolare che se l’utilizzatore finale utilizza la sostanza al di fuori dello scenario descritto dal suo fornitore e preferisce che tali utilizzi rimangono sconosciuti al fornitore, deve provvedere in proprio a redigere una relazione sulla sicurezza chimica (in questo caso la soglia quantitativa è di 1 ton/anno).
Tale obbligo decade se:
- si tratta di una sostanza non pericolosa;
- si tratta di casi in cui il produttore o importatore non deve eseguire la valutazione della sicurezza chimica (esenzioni);
- si usa la sostanza o il preparato in quantitativi totali inferiori a 1 tonnellata all’anno;
- se la sostanza è contenuta in un preparato a concentrazione inferiore a limiti definiti;
- si usano misure di gestione del rischio più rigide di quelle raccomandate dal produttore/importatore;
- se l’uso è nell’ambito delle attività di ricerca e sviluppo orientate ai prodotti e ai processi e il rischio è adeguatamente controllato.
Concludiamo ricordando che, a proposito degli obblighi degli utilizzatori finali la “Guida per gli utilizzatori a valle” fornisce suggerimenti per verificare se gli usi e le condizioni d’uso di una sostanza chimica sono coperti dagli scenari di esposizione delineati dai fornitori con la scheda di sicurezza. E la guida fornisce una panoramica dei principali compiti degli utilizzatori a valle per quanto riguarda gli scenari di esposizione in ambito REACH.
Il documento “Le novità in materia di gestione dei prodotti chimici”, a cura di Bruno Marchesini è scaricabile all’indirizzo:
http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151214_gestione_prodotti_chimici.pdf
Il Regolamento (CE) n.1907/06 concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH) è scaricabile all’indirizzo:
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2007:136:0003:0280:it:PDF