Documenti Convegno “Diritto alla Salute e sanità integrativa” del 16/01/2016 – Milano

16 gennaio 2016In questa pagina sono pubblicati gli interventi e i documenti relativi al convegno ” Diritto alla Salute e sanità integrativa” del 16/01/2016 tenutosi a Milano presso la Casa delle Associazioni di via Marsala, 8.


Interventi:


Introduzione di Piergiorgio Duca


prof. Giorgio Cosmacini – docente di storia della medicina e della Sanità dell’Università Vita e Pensiero: “la nascita della sanità pubblica e la sua evoluzione ai giorni nostri”


dott. Alberto Donzelli (esperto di sanità pubblica): “dal mito della prestazione sanitaria alla sanità integrativa”


Aldo Gazzetti (esperto di sanità pubblica): “..la sanità integrativa minaccia la copertura sanitaria di tipo universale (esempio spagna da universale ad assicurativa obbligatoria —–> modello francese e tedesco)? forme di copertura sostitutiva


prof. Piergiorgio Duca – docente di biometria e statistica medica Università di Milano: l’Università serve per la formazione di operatori sanitari e sociali preparati per affermare il diritto alla salute?”


Documenti


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Emergenza Medica? La risposta è in una App

Emergenza Sorrisi è un’associazione che nasce con l’intento di restituire il sorriso e la speranza di una vita migliore ai bambini affetti da labio-palatoschisi, malformazioni del volto, ustioni, traumi di guerra, neoplasie, patologie ortopediche e oculistiche.

Dalla collaborazione tra Emergenza Sorrisi e altre strutture italiane è nato il progetto Emergenza Medica Online che ha come obiettivo quello di mettere a disposizione delle strutture di prima accoglienza un sistema di risposta medica poli-specialistica attraverso un’attività di telemedicina così da rendersi disponibili a condividere un percorso comune e qualificato a favore del benessere e del rispetto ambientale e della salute.
I primi beneficiari di questo progetto saranno i pazienti che potranno contare su un’assistenza medica specialistica gratuita, in modo da avere una rapida risposta sanitaria. Tutto funzionerà tramite un App, già scaricabile da Google Play Store per tutti gli smartphone e tablet basati su sistema operativo Android e da Gennaio 2016 disponibile anche su Apple Store.

Una volta collegato, tramite la App, il paziente potrà richiedere la consulenza on line dei medici specialisti convenzionati con il progetto che saranno quindi disponibili a ricevere tutte le richieste che giungeranno dai centri di accoglienza e rispondere in tempo reale, esaminando immagini fotografiche o referti Rx.

Per casi clinici di particolare rilevanza si prevede una visita specialistica presso un centro medico ospedaliero che i nostri medici contatteranno, in modo da informare il centro sulla probabile patologia del paziente in questione. Il sistema è dedicato anche ai migranti e richiedenti asilo che vivono da poco nel nostro Paese.

I medici che volessero entrare a far parte del circuito di Emergenza Medica Online devono, allo stesso modo dei pazienti, scaricare l’App dedicata collegandosi agli store e accedere all’area riservata ai medici e specialisti. Dopo aver seguito semplici passaggi all’interno del sistema, potranno offrire la loro assistenza e professionalità a tutti i pazienti registrati nel circuito.

La App di Emergenza Medica Online e questo innovativo circuito di assistenza saranno presentati il 10 febbraio a Montecitorio. Il nuovo e dinamico progetto sanitario fa perno sulla tecnologia e su un sistema di medicina online in cui medico e paziente hanno la possibilità di scambiarsi informazioni, domande o referti in tempo reale e, da oggi, anche digitale.

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.242 DEL 25/01/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.242 DEL 25/01/16

 

INDICE

  • L’esercito europeo di riserva
  • Come tutelare gli operai ILVA?
  • La gestione della sicurezza per i lavoratori che svolgono più mansioni
  • L’abrogazione del registro infortuni: una semplificazione fatta senza testa
  • Identificazione dei lavori ripetitivi e valutazione rapida del rischio
  • La responsabilità per il mancato controllo di un macchinario
  • Le aziende devono rifare la valutazione del rischio chimico?

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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L’ESERCITO EUROPEO DI RISERVA

 

Da Asimmetrie

http://www.asimmetrie.org

Agenor

 

Riporto a seguire un interessante articolo sulle tematiche del lavoro e dello stato sociale (e non solo).

A una prima lettura l’articolo può sembrare estraneo alle tematiche trattate di solito nella mia newsletter, ma a ben guardare esso permette di capire le dinamiche che stanno alla base dell’attuale sistema di sfruttamento della forza lavoro e di conseguenza alla base della voluta mancata tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, che fa parte anch’esso del “disegno strategico di fondo” di cui parla l’articolo.

Marco Spezia

 

* * * * *

 

Le grandi strategie sono sempre composte da una sequenza di piccole iniziative e il quadro finale diventa visibile solo quando tutti i singoli pezzi del puzzle sono stati inseriti al posto giusto. La divisione in singole iniziative permette di focalizzare le discussioni su aspetti minori, senza sottoporre la grande strategia al vaglio dell’opinione pubblica o del dibattito parlamentare. Le grandi strategie sovranazionali, poi, hanno anche il vantaggio di limitare il dibattito oltre che alle singole misure anche a specifiche questioni locali, interne ai singoli paesi. Il disegno strategico di fondo non può essere contestato perché non è reso esplicito, non è sottoposto a dibattito e supera i confini delle competenze nazionali. Esso rimane quindi perfettamente al riparo dal processo democratico.

 

Uno di questi grandi disegni strategici che si sta realizzando in questi anni è la trasformazione dello stato sociale e del mercato del lavoro in Europa. Il cambio di paradigma fu dichiarato vent’anni fa dall’OCSE: passare dall’attivismo dello stato in economia per promuovere la piena “occupazione” alle politiche liberiste e mercantiliste per promuovere la piena “occupabilità”.

Destra e sinistra in tutti i paesi si sono egualmente spese senza grandi distinzioni, in Italia come in Europa, per applicare il nuovo paradigma. Come tutte le grandi strategie, anche questa è composta da una sequenza di misure specifiche e ha un preciso modello di riferimento.

 

Il primo punto è il contenimento dei salari. E’ fondamentale che livello dei salari sia basso per mantenere competitivo il sistema produttivo. L’esigenza di essere più competitivi e di tirare un po’ tutti la cinghia in tempi di crisi sono le giustificazioni tipiche per far accettare questo contenimento. Come ben sappiamo questa esigenza diventa più pressante quando non si dispone del meccanismo del tasso di cambio. In altre parole, col cambio fisso il salario deve diventare flessibile. Nella zona euro abbiamo deciso di sostituire il tasso di cambio come meccanismo di aggiustamento degli squilibri esterni con il licenziamento e l’abbassamento dei salari. La riduzione dei salari nel settore pubblico si può fare per decreto (per ridurre il salario in termini reali, basta anche congelarlo in termini nominali, come spesso avviene), nel settore privato si ricorre alla decentralizzazione della contrattazione collettiva a livello di singola azienda. In quel modo il potere negoziale del singolo lavoratore è drasticamente ridotto. L’abbassamento dei salari, in generale, è facilitato dalla maggiore possibilità di licenziamento e dalla maggiore concorrenza per ottenere un posto di lavoro.

 

Subito dopo viene la ben nota questione della flessibilità, ovviamente flessibilità in uscita, come si chiama in linguaggio tecnico la possibilità di licenziare più facilmente. Si tratta di ridurre tutto il sistema di protezioni giuridiche che rendono difficile licenziare un lavoratore. Come si fa a rendere questo accettabile? Prima si colpisce una categoria, e dopo si scatena la classica guerra fra poveri: settore pubblico contro privato, giovani contro anziani, donne contro uomini, nord contro sud o est contro ovest, a seconda del paese. La giustificazione che accompagna questa misura è tipicamente quella di un’istanza di giustizia, modernità, e maggiore efficienza in tempi di crisi.

 

In Italia ce ne è voluto, ma alla fine dopo tanti tentativi l’Articolo 18 è stato abbattuto. Il Jobs Act ha sostanzialmente (anche se non formalmente) fatto sparire il concetto di contratto a tempo indeterminato, in quanto questo tipo di contratto ha perso tutte le tutele che lo rendevano effettivamente tale. Avendo così drasticamente penalizzato una parte dei lavoratori, nel settore privato, è stato poi facile convincerli che la colpa è di quegli altri, quelli del pubblico che sono più tutelati. Quindi anche loro adesso chiedono a gran voce di eliminare i “privilegi” del settore pubblico. Così pian piano si realizza la flessibilità in uscita per tutti. A titolo di esempio, nel paese modello per le recenti riforme del lavoro, la Spagna, ormai il 28% dei nuovi contratti ha una durata inferiore a 7 giorni: assunzione il lunedì mattina, licenziamento il venerdì sera, e poi si ricomincia il lunedì successivo.

 

Il terzo cardine è la mobilità della forza lavoro. Una volta licenziati, i disoccupati-potenziali-lavoratori sono comunque una risorsa utilizzabile altrove, quindi è utile facilitarne lo spostamento verso le zone in cui ce n’è più bisogno. Perché questo avvenga è necessario che ci sia un perfetto coordinamento dei servizi pubblici per l’impiego, non a caso una delle priorità stabilite in quasi tutti i paesi. I servizi pubblici per l’impiego, da centri di raccordo della domanda e dell’offerta a livello locale, devono diventare nodi di un’unica grande rete trans-europea che permetta il ricollocamento rapido di manodopera inutilizzata in un paese verso quello in cui ce n’è maggiormente bisogno. Anche qui la giustificazione è semplice: maggiore integrazione europea e maggiori opportunità di lavoro per chi non ce l’ha più.

 

Il quarto punto, anch’esso cruciale, è il mantenimento o la formazione di competenze adeguate a rendere “occupabile” il disoccupato-potenziale-lavoratore. Nessuno vuole un lavoratore che dopo anni d’inattività non è più capace di utilizzare i nuovi macchinari o sistemi informatici, perché rimasto tecnologicamente indietro. Bisogna quindi formarlo, ovviamente non finanziandogli una continuazione degli studi, che potrebbe permettergli un salto qualitativo sul mercato del lavoro, ma cercando invece di mantenerne aggiornate le competenze tecniche e professionali tali da renderlo utilizzabile immediatamente: saper usare l’ultimo macchinario o la tecnologia più recente introdotta in azienda. Ovviamente, questo tipo di misura si può ben presentare come sostegno ai disoccupati per facilitare l’apprendimento di competenze utili nel mercato del lavoro. In questo modo ci si assicura che tutta la popolazione in età lavorativa sia costantemente formata, addestrata anche nei periodi in cui è disoccupata, e sempre disponibile per le esigenze della produzione.

 

Questa costruzione però non sta in piedi se le persone rimangono disoccupate per lunghi periodi, o se i contratti sono talmente brevi e i periodi di lavoro troppo scarsi per garantire un minimo livello di sussistenza. Ecco che quindi entra in gioco il pezzo fondamentale del puzzle: il reddito minimo. Esso deve essere veramente “minimo”, nel senso di non creare un disincentivo ad accettare qualunque offerta di lavoro, anche la meno appetibile. Esso deve poi essere “condizionato”, cioè immediatamente revocabile nel caso di rifiuto dell’offerta ricevuta o di mancata frequentazione del corso di aggiornamento. E poi il disoccupato deve ovviamente sempre essere reperibile dal centro per l’impiego, pena il decadimento dal reddito minimo.

 

Non c’è bisogno di grandi acrobazie per “vendere” il reddito minimo come una grande conquista sociale. Ciò che veramente lo caratterizza come strumento di un quadro ben più reazionario, invece, è l’insieme di condizionalità a esso legate. Sarebbe tutt’altra cosa remunerare il lavoro nella giusta misura, in linea con la sua produttività, e garantire anche un salario minimo dignitoso a tutti. Come sarebbe tutt’altra cosa istituire un sistema pubblico di “impiego di ultima istanza”. Ma tutto questo ridarebbe al lavoratore un’autonomia, una dignità e una forza contrattuale che lo renderebbe molto meno ricattabile. La differenza fra salario minimo e reddito minimo sembra poco più di una questione semantica, e invece è la differenza fra dignità e dipendenza, fra libertà e schiavitù.

 

Il suggello su questo nuovo modello di stato sociale è poi la sempiterna riforma delle pensioni, che ritorna a intervalli regolari. Il motivo di questa sua ricorrenza è la volontà di passare progressivamente a una privatizzazione del sistema pensionistico, riducendo sempre più quelle pubbliche finché il cittadino non ha più scelta. Nel nuovo modello di stato sociale il costo di supportare il lavoratore vale la pena finché questi è in età lavorativa e può essere utile, dopodiché diventa solo un peso. Per questo motivo si preferisce tagliare sulle pensioni per spendere un po’ di più in formazione professionale e nella sussistenza del disoccupato. Chi può permetterselo, accumulerà in età lavorativa una ricchezza finanziaria che gli possa permettere di mantenersi anche dopo; chi non ce la fa, una volta smesso di lavorare emigrerà dove la vita costa meno o finirà in povertà. Così si riducono i costi per il settore pubblico, cosa ormai richiesta anche da chi avrebbe interesse a non farlo.

 

Queste sono le singole iniziative, che prese singolarmente sono anche accettabili e giustificabili agli occhi dell’opinione pubblica, come progressi verso una società più giusta ed efficiente. Mettendole tutte insieme e facendo attenzione ai dettagli con cui queste misure vengono poi applicate, però, si può vedere come esse concorrano a formare un quadro diverso. Tutta la popolazione in età lavorativa deve essere sempre a disposizione del sistema produttivo, utilizzabile e scartabile secondo il bisogno, formata in quelle competenze direttamente richieste dalla produzione e mantenuta al livello di sussistenza nei periodi in cui non è occupata, ma ricattabile e sottoposta alla concorrenza per il posto di lavoro, cioè con scarso potere contrattuale nel momento in cui viene assunta. Il modello di riferimento è quello tedesco, completato un decennio fa dalle riforme Hartz, dal nome dell’ex-manager Volkswagen, Peter Hartz, consigliere del governo Schröder.

 

Non si può capire quello che sta succedendo in Europa senza conoscere le riforme Hartz e in particolare il pacchetto Hartz IV. E non si possono capire le riforme Hartz senza conoscere i cardini del pensiero ordoliberistatedesco. Esso si differenzia dal cosiddetto neo-liberismo di matrice anglosassone, e ne diventa una versione molto più estrema, in quanto considera come compito esplicito dello stato quello di assicurare il quadro politico necessario per il libero dominio del capitale sul lavoro. In pratica l’ordoliberismo è un liberismo truccato, in cui la tensione fra i due fattori di produzione è ancora più squilibrata perché lo stato interviene esplicitamente per risolverla in favore del capitale a scapito del lavoro.

 

La cosiddetta economia sociale di mercato di matrice tedesca è il modello economico che stiamo applicando in Europa, prevalentemente nella zona euro, dove il margine di manovra dei governi nazionali è molto più limitato. Il quadro strategico complessivo che sta venendo fuori è la trasposizione del modello sociale tedesco nel resto d’Europa, cioè la scientifica costruzione di un esercito industriale di riserva su scala europea.

 

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COME TUTELARE GLI OPERAI ILVA?

 

Da Peacelink

http://www.peacelink.it/index.html

20 gennaio 2016

Fulvia Gravame

 

Appunti sugli strumenti utilizzabili per tutelare gli operai e gli abitanti di Taranto.

Come tutelare gli operai ILVA?

Dopo aver perso tre anni e mezzo facendo finta di salvare la nave (l’ILVA), direi che è il caso di cominciare a predisporre il piano di salvataggio dei marinai e non della nave.

 

Sono passati tre anni e mezzo da quel 26 luglio 2012 che portò al sequestro dell’impianti dell’area a caldo dell’ILVA e del protocollo d’intesa per le bonifiche, in realtà per una serie di interventi in parte già previsti per Taranto, quali i lavori del porto.

Il clima in città è segnato dalla paura degli operai, degli abitanti e dal nervosismo dei politici.

 

I ritardi nel piano governativo di “ambientalizzazione”, i rinvii delle scadenze previste dal Riesame 2012, la grave situazione debitoria dell’ILVA che produce dai cinquanta ai sessanta milioni di euro di debiti al mese, il rinnovo della “solidarietà” a più di 3.000 operai a rotazione, i tanti morti per incidenti nello stabilimento, l’avvio di due procedure europee contro l’Italia sono alla base di questa paura e di questo nervosismo. Sempre di più gli operai si convincono che le scelte del 2012 non stanno portando i frutti promessi e cioè non stanno dando garanzia di salvare l’ILVA e il loro posto di lavoro; le prospettive per il futuro diventano sempre più nere, senza che le istituzioni abbiano finora dato prova di essere in grado di costruire un’alternativa valida per 11.000 dipendenti e sostenibile per una città di 200.000 circa abitanti.

 

Bisognerebbe spiegare a tutti che, giustamente hanno paura di perdere lo stipendio, che l’Unione Europea non vieta di aiutare i lavoratori, ma solo di aiutare le imprese. Di questo abbiamo parlato nella conferenza stampa di Peacelink con Antonia Battaglia e Alessandro Marescotti che si è tenuta il 18 gennaio scorso.

E’ molto grave che gli operai siano tenuti nell’ignoranza di quello che si potrebbe fare per loro con diverse tipologie di finanziamenti e che non viene programmato dalle istituzioni.

 

La Commissione europea apprezzerebbe interventi a favore degli operai e potrebbe autorizzare anche la “no tax area” o altri interventi straordinari come le bonifiche, se adeguatamente motivati in base all’articolo 107 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) che vieta gli aiuti alle imprese, ma non ai lavoratori e alle zone economicamente più fragili.

Infatti l’articolo 107 del TFUE recita: “Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.

 

Sono sicura che non sarebbe una passeggiata preparare l’apposito dossier, sia per la complessità dell’intervento da realizzare a Taranto, sia perché le risorse europee interessano anche ad altri Paesi Membri della Unione, ma (dopo aver perso tre anni e mezzo) penso che sia proprio arrivato il momento di avviare tutto quello che può servire a salvare i marinai e non la nave. La battuta è di Cataldo Ranieri del Comitato lavoratori e cittadini liberi e pensanti.

 

La domanda potrebbe essere perché non lo si è fatto finora, ma io preferisco chiedere a chi di dovere di farlo e subito, considerato che l’ILVA sembra non avere le risorse per continuare a produrre e/o per attuare le prescrizioni AIA.

 

Tra l’altro lo strumento più conosciuto e comprensibile perché già utilizzato più volte nelle crisi industriali di grandi gruppi (Natuzzi ad esempio), è di competenza della Regione che ha a disposizione il Fondo sociale europeo ed in particolare i fondi per la formazione continua, quelli per i dipendenti delle imprese private.

 

La formazione continua (in inglese “continuing vocational training”) è volta a migliorare il livello di qualificazione e di sviluppo professionale delle persone che lavorano, assicurando alle imprese e agli operatori economici sia pubblici che privati, capacità competitiva e dunque adattabilità ai cambiamenti tecnologici e organizzativi.

 

Le disposizioni legislative che predispongono interventi nazionali per la formazione continua sono l’articolo 9 della Legge 236/93 e l’articolo 6 della Legge 53/00. Tali norme prevedono la ripartizione annuale delle risorse erariali a favore delle Regioni che, a loro volta, emanano avvisi pubblici destinati a imprese e lavoratori per il finanziamento di piani formativi aziendali, settoriali e individuali e voucher formativi (aziendali e individuali).

Inoltre, per la formazione dei propri dipendenti, le imprese possono scegliere di aderire a uno dei Fondi paritetici interprofessionali nazionali per la formazione continua, organismi di natura associativa costituiti attraverso accordi interconfederali, stipulati tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale.

 

L’offerta formativa si realizza attraverso la proposta a catalogo di percorsi interaziendali di aggiornamento del personale occupato; corsi interaziendali di alfabetizzazione, qualificazione, riqualificazione e specializzazione, volti all’acquisizione o allo sviluppo di nuove competenze professionali richieste in ambito lavorativo o per l’arricchimento del proprio patrimonio culturale; percorsi aziendali di riqualificazione e aggiornamento del personale occupato.

I corsi sono destinati a diverse categorie di persone, tra le quali:

  • soggetti occupati;
  • soggetti in CIG e mobilità, inoccupati, inattivi e disoccupati per i quali la formazione è propedeutica all’occupazione;
  • lavoratori con contratti di apprendistato e a progetto.

Sono argomenti proposti ripetutamente dal 2012 in poi ed inseriti nel programma amministrative 2012 di “Tarantorespira” che aveva Angelo Bonelli come candidato sindaco e di cui sono coportavoce Vittoria Orlando Giovanni Carbotti.

Analizzai questo problema nel maggio 2012, anche in un seminario di Peacelink in cui presentai i fondi strutturali utilizzabili.

 

Da allora però si contano sulle punta delle dite le interviste dei responsabili delle politiche del lavoro a livello di Governo e Regione. Sono stati al contrario molto frequenti le dichiarazioni del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), mentre (a mio modesto avviso) sarebbe stato opportuno avviare delle analisi su come tutelare i dipendenti diretti dell’ILVA, attraverso forme di prepensionamento e percorsi di riqualificazione. I responsabili delle politiche del lavoro a livello regionale e nazionale hanno taciuto finora!

Prepensionamenti, CIG, solidarietà, CCNL ecc, strumenti delle politiche del lavoro, sono di competenza del Ministero del lavoro e dell’apposito Assessorato regionale. Inutile protestare con il sindaco di Taranto com’è stato fatto negli ultimi anni. Si deve andare a Bari o a Roma. La prima indicazione che i sindacati dovrebbero dare agli operai è qual è l’interlocutore giusto con il quale prendersela. Gli strumenti della lotta sindacale quali scioperi, blocchi del ponte e delle statali e presidi non si devono utilizzare ancora una volta ai danni di chi vive in città.

 

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LA GESTIONE DELLA SICUREZZA PER I LAVORATORI CHE SVOLGONO PIU’ MANSIONI

 

Da Articolo 19

Citta Metropolitana

http://www.cittametropolitana.bo.it

Leopoldo Magelli

 

Come affrontare il problema della valutazione del rischio e della formazione per i lavoratori che svolgono più mansioni?

 

Questo problema ci è stato posto diverse volte da vari RLS, in quanto la situazione in questione è tutt’altro che rara e le soluzioni attivate dalle aziende sono tra loro dissimili. Abbiamo sempre rinviato la risposta a questi quesiti e forse, casualmente, abbiamo fatto bene perché pochi mesi fa, nel giugno del 2015 è stato sottoposto alla Commissione per gli Interpelli proprio questo stesso problema che è di frequentissimo riscontro nel mondo del lavoro, cioè come vanno valutati i rischi e impostata la formazione per quei lavoratori che vedono ricomprese nella loro figura e attività professionale diverse mansioni.

Il problema è stato posto dall’ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili) e la risposta della Commissione per gli Interpelli (n. 4/2015) è datata 24 giugno 2015.

Il problema posto era letteralmente il seguente:

“conoscere il parere…in merito alla formazione prevista dall’articolo 37 del D.Lgs. 81/08, nonché alla valutazione dei rischi specifici delle mansioni, nel caso in cui un lavoratore in possesso di formazione per lo svolgimento di una determinata attività venga adibito allo svolgimento di particolari mansioni, che tradizionalmente, e anche in base alla classificazione ISTAT-ISFOL, costituiscono compiti o attività specifiche ricompresi nell’attività principale per la quale è stata erogata la formazione stessa”.

 

Il quesito, come si può vedere, è un po’ criptico, tant’è vero che l’ANCE propone un esempio per meglio chiarire il senso della domanda :

“A titolo esemplificativo, è questo il caso in cui un lavoratore dei settori delle costruzioni stradali venga adibito alla rifinitura del manto stradale, o alla gestione del traffico veicolare durante le operazioni di rifacimento di una corsia stradale, pur non essendo in possesso di una formazione specifica ad hoc per tali singoli compiti, bensì avendo ricevuto una formazione specifica per asfaltista, figura professionale le cui mansioni comprendono, nella classificazione ISTAT-ISFOL, anche quella suddetta di rifinitura del manto o le operazioni connesse alla realizzazione di opere stradali in senso lato”.

 

Se avessimo risposto come Servizio Informativo per Rappresentanti della Sicurezza, avremmo liquidato così il problema: indipendentemente dagli aspetti formali o classificativi, la valutazione deve riguardare tutti i rischi cui il lavoratore è esposto nella sua attività, e la formazione modellarsi di conseguenza sui rischi valutati.

Quindi, nel caso specifico, se il lavoratore in questione rifinisce il manto stradale e gestisce il traffico veicolare, i rischi connessi a queste due fasi di lavoro (io le chiamerei così, non certo “mansioni”) devono essere puntualmente valutati e devono avere il dovuto spazio nei percorsi formativi (in particolare la gestione del traffico, che espone a rischio non solo il lavoratore addetto, ma anche i suoi colleghi e gli utenti della strada).

 

Vediamo allora come ha risposto la Commissione per gli Interpelli.

Constatiamo con piacere che la sua risposta è perfettamente coerente con la nostra ipotesi. Infatti la Commissione, nella premessa alla sua risposta, precisa che:

“la valutazione redatta dal datore di lavoro deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori… Nel documento redatto a conclusione della valutazione devono essere individuate le mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e addestramento… La formazione non può mai essere sostitutiva dell’addestramento… I contenuti e la durata della formazione in base all’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 costituiscono un percorso minimo e, tuttavia, sufficiente rispetto al dato normativo, salvo che esso non debba essere integrato tenendo conto di quanto emerso dalla valutazione dei rischi o nei casi previsti dalla legge (si pensi all’introduzione di nuove procedure di lavoro o nuove attrezzature)”.

 

Come si può notare, se pur con parole in parte diverse, la Commissione esprime una valutazione del tutto sovrapponibile alla nostra (cosa del resto inevitabile, visto che si deve garantire piena coerenza nell’applicazione della normativa).

La Commissione poi conclude fornendo una serie di indicazioni puntuali:

  • il DVR (Documento di Valutazione dei Rischi) deve contenere la puntuale individuazione di tutti i rischi concretamente connessi al lavoro da svolgere e non può riferirsi astrattamente alla mansione attribuita al lavoratore;
  • l’adeguatezza della formazione per ciascun lavoratore è correlata alla valutazione dei rischi e deve essere periodicamente ripetuta in relazione all’evoluzione o all’insorgenza di nuovi rischi;
  • fatto salvo l’obbligo di frequenza a corsi specifici o aggiuntivi (ove previsto da norme specifiche), se un lavoratore in possesso di formazione per lo svolgimento di una determinata attività venga adibito allo svolgimento di singole particolari mansioni, ricomprese nell’attività principale per la quale è stata erogata la formazione, la stessa può essere riconosciuta valida solo se all’interno del percorso formativo i rischi specifici, relativi a quelle particolari mansioni (ad esempio nel caso citato la gestione del traffico veicolare), sono stati adeguatamente trattati;
  • infine, se i compiti affidati a un lavoratore lo espongono a rischi diversi e ulteriori rispetto a quelli già oggetto di valutazione e formazione, si rendono necessarie, sia una nuova valutazione, che una corretta formazione integrativa.

 

Come si può vedere, le indicazioni fornite dalla Commissione sono molto chiare ed esplicite e non lasciano campo alcuno a riduttive interpretazioni di comodo.

 

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L’ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI: UNA SEMPLIFICAZIONE FATTA SENZA TESTA

 

Da Diario Prevenzione

http://www.diario-prevenzione.it

20 gennaio 2016

Gino Rubini

 

LA SEMPLIFICAZIONE RICHIEDE INTELLIGENZA. L’ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI, UNA SEMPLIFICAZIONE FATTA SENZA TESTA

 

Dal 23 dicembre 2015 il Registro degli infortuni è stato abrogato con il D.Lgs. 151/15. Esultano una parte dei consulenti poco avveduti e una parte della piccola imprenditoria più pasticciona.

 

L’abrogazione è avvenuta in assenza del SINP (Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione) che non è stato istituito. La scelta dell’abrogazione in assenza del SINP, avvenuta in forma affrettata per esigenze propagandistiche del governo, avrebbe messo in difficoltà gli Enti di vigilanza, in particolare INAIL e ASL.

INAIL si è perciò affrettata a mettere una pecetta a questa dissennata scelta del legislatore con l’istituzione del “cruscotto telematico” che non è stato progettato per agevolare la valutazione e gestione dei rischi a livello aziendale. Il cosidetto cruscotto INAIL è un database che raccoglie le notifiche degli infortuni per via telematica e registra gli eventi ai fini assicurativi, non serve a sviluppare le conoscenze utili per la prevenzione.

Con questo provvedimento la tracciabilità aziendale degli eventi, la verifica tramite i RLS sulla descrizione e la registrazione delle modalità dell’accadimento non sono più disponibili per la consultazione ai RLS.

 

Le aziende più serie, non quelle a gestione dilettantesca, continueranno a “tracciare” gli infortuni, le modalità e le cause di accadimento e a trarre da questi dati le indicazioni per migliorare la propria gestione della sicurezza.

Le aziende più serie hanno protocolli e metodologie di rilevazione e memorizzazione dei dati relativi anche ai “near miss”, ai mancati incidenti e su questa base programmano le correzioni e i miglioramenti della organizzazione del lavoro e degli strumenti e ambienti di lavoro.

Le aziende che adottano volontariamente, di propria scelta, queste pratiche positive sono grandi, ma sono, purtroppo, una minoranza dell’universo delle aziende italiane. Per la maggioranza delle piccole imprese il messaggio che viene dall’abrogazione è il seguente: “finalmente ci siamo liberati da questo adempimento burocratico, del problema degli infortuni ce ne occuperemo se ce ne saranno…”.

 

L’atto del Governo sarebbe stato positivo e utile se, in consonanza con l’abrogazione del Registro cartaceo avesse incaricato INAIL di predisporre una piattaforma più evoluta rispetto all’improvvisato “cruscotto”, con programmi di software gestionali adatti a monitorare il fenomeno e a elaborare “profili aziendali di rischio”, usando i dati provenienti dalle notifiche.

La “semplificazione” sarebbe stata per davvero un passo avanti nella modernizzazione della gestione dei dati per porre sotto governo il fenomeno infortunistico.

La fregola propagandistica, l’amabile indifferenza di questo Governo verso la condizione di chi vive del proprio lavoro ha portato invece, anche in questo caso, ad una scelta che fa arretrare i diritti dei lavoratori ad essere tutelati.

 

Si può ancora rimediare?

Si, se verrà affidato ad INAIL il compito di predisporre un sistema esperto con il quale i dati delle notifiche vengono elaborati e restituiti, in automatico alle aziende, che debbono renderli disponibili anche ai RLS. In questo senso avremmo una vera innovazione che semplifica il lavoro delle aziende senza deprivare della conoscenza dei dati i RLS e i lavoratori interessati.

 

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IDENTIFICAZIONE DEI LAVORI RIPETITIVI E VALUTAZIONE RAPIDA DEL RISCHIO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

15 gennaio 2016

Tiziano Menduto

 

Un Decreto regionale riporta le linee guida per la prevenzione delle patologie muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori.

Focus su identificazione dei lavori ripetitivi e “quick assessment” (valutazione rapida del rischio).

 

Presentiamo un Decreto della Regione Lombardia, il Decreto n. 7661 del 23 settembre 2015 che non solo riporta specifiche linee guida regionali per la prevenzione delle patologie muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori, ma definisce anche un percorso per la prevenzione e l’emersione di queste patologie.

 

Il Decreto riporta in un apposita tabella il percorso operativo delineato dalle linee guida, un percorso che prevede un approccio di preliminare valutazione dell’eventuale rischio articolato in tre passaggi:

  • identificazione dei compiti ripetitivi secondo criteri univoci;
  • valutazione rapida del rischio;
  • stima analitica del rischio.

Le linee guida indicano che il primo passaggio rappresenta lo snodo (la chiave di decisione) per definire la necessità o meno di procedere ai passaggi successivi, di fatto di valutazione vera e propria.

Mentre il complesso dei tre passaggi si configura come procedura di valutazione del rischio connesso a movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori nel contesto della più generale valutazione dei rischi lavorativi prevista dal D.Lgs. 81/08.

E i primi due passaggi vengono definiti dal documento regionale in coerenza con il Technical Report (TR) ISO 12295 “Ergonomics – Application document for International Standards on manual handling (ISO 11228-1, ISO 11228-2 and ISO 11228-3) and evaluation of static working postures (ISO 11226)”.

Uno dei punti su cui si soffermano le linee guida riguarda l’identificazione dei compiti ripetitivi attraverso la chiave di ingresso (“key-enter”) del TR ISO 12295.

Infatti l’uso di apposite “key-enters” è finalizzato a verificare l’esistenza di un pericolo (problema) lavorativo (nella fattispecie da sovraccarico biomeccanico per gli arti superiori) e l’eventuale necessità di una ulteriore analisi e valutazione.

Di fatto, attraverso le “key-enters”, si definisce il campo di applicazione delle quattro parti delle norme ISO specificamente trattate.

 

Se nella tabella 5.1 del documento è riportato l’elenco delle “key-enters” del TR ISO 12295, riprendiamo la key-enter per i lavori manuali ripetitivi, in applicazione della norma ISO 1128-3: vi sono uno o più compiti ripetitivi degli arti superiori con durata totale di 1 ora o più nel turno?

 

Ricordiamo che la definizione di compito ripetitivo è: “compito caratterizzato da cicli lavorativi ripetuti”, oppure “compito durante il quale si ripetono le stesse azioni lavorative per oltre il 50% del tempo”.

E tale formulazione sta a significare che laddove siano presenti uno o più compiti ripetitivi la cui durata complessiva nel turno superi 1 ora, è necessario procedere ad una specifica valutazione del rischio.

Si segnala che accertare la presenza di un lavoro ripetitivo serve unicamente a stabilire che lo stesso debba essere oggetto di valutazione, il cui esito può confermare/negare l’esistenza di un rischio e se, invece, il lavoro ripetitivo non è presente non è richiesta alcuna attività di valutazione. Ed è evidente che la stessa logica si applica agli altri aspetti trattati dal TR ISO 12295 (sollevamento e trasporto di carichi; traino e spinta; posture statiche di lavoro).

Veniamo alla valutazione rapida (il “quick assessment”).

Questa tipologia di valutazione consiste in una verifica rapida della presenza di potenziali condizioni di rischio per apparato muscolo-scheletrico degli arti superiori, attraverso semplici domande di tipo quali/quantitativo.

In pratica il “quick assessment” è indirizzato a identificare, in modo semplificato, tre possibili condizioni o esiti (outputs):

  • accettabile (verde): non sono richieste ulteriori azioni;
  • necessità di una analisi più dettagliata (giallo): è necessario procedere ad una stima o valutazione precisa attraverso strumenti più dettagliati di analisi (suggeriti nella fattispecie dagli standard della serie);
  • critica (rosso): è urgente procedere ad una riprogettazione del posto o del processo.

 

Nel caso si verifichi l’esistenza di condizioni rispettivamente di accettabilità e di criticità non è sempre necessario procedere a una stima più circostanziata del livello di esposizione (terzo livello), specie nel caso di condizioni critiche. Ogni sforzo andrà meglio indirizzato alla riduzione del rischio chiaramente emerso, piuttosto che a inutili, e, a volte, assai complessi approfondimenti della valutazione. Qualora, invece, come accade in gran parte dei casi, nessuna di queste due condizioni “estreme” emerga chiaramente, è necessario procedere alla valutazione, semplificata o anche dettagliata, del rischio con i tradizionali metodi di valutazione.

Con riferimento alle indicazioni del TR ISO 12295, dei compiti ripetitivi e della norma ISO 11228-3, è riportata una tabella con l’elenco delle condizioni che devono essere tutte contemporaneamente presenti per valutare come accettabile (verde) un compito manuale ripetitivo.

Si ricorda, a questo proposito, che il riferimento ad una valutazione rapida di accettabilità è desunto dal testo della norma ISO 11228-3 e dalla norma EN 1005-5. E laddove un compito ripetitivo venisse valutato come accettabile tramite la procedura di “quick assessment”, ciò equivarrebbe ad averlo valutato come accettabile attraverso i metodi di dettaglio indicati dagli standard di riferimento.

 

Riportiamo brevemente l’elenco delle condizioni per cui il compito esaminato è in area verde (accettabile) e non è necessario continuare la valutazione del rischio:

  • entrambi gli arti superiori lavorano per meno del 50% del tempo totale di lavoro ripetitivo (uno o più compiti);
  • entrambi i gomiti sono mantenuti al di sotto del livello delle spalle per il 90% del tempo totale di lavoro ripetitivo (uno o più compiti);
  • una forza moderata è attivata dall’operatore per non più di 1 ora durante il tempo totale di lavoro ripetitivo (uno o più compiti);
  • i picchi di forza sono assenti;
  • vi è presenza di pause (inclusa la pausa pasto) che durano almeno 8 minuti almeno ogni 2 ore;
  • i compiti ripetitivi sono eseguiti per meno di 8 ore al giorno.

 

Una ulteriore tabella riporta invece l’elenco delle situazioni che, anche singolarmente, portano a identificare una condizione critica. E quando una condizione di lavoro manuale ripetitivo risulta critica, anche per una sola situazioni elencata nella tabella l’indicazione è di orientarsi decisamente per un rapido e sostanziale intervento di miglioramento (riduzione del rischio) senza necessariamente approfondire la valutazione analitica; questa, peraltro, potrà essere operata successivamente, a verifica della potenziale validità degli interventi attuati.

Concludiamo riportando qualche breve riferimento alla identificazione di lavori problematici ai fini della successiva valutazione del rischio.

In questa parte delle linee guida si segnala infatti che la procedura, tratta dal TR ISO 12295, delle chiavi di ingresso e della valutazione rapida, è raccomandata, in particolar modo nelle Piccole o Medie Imprese e nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura.

 

Tuttavia in alternativa, si può ricorrere alla tecnica dell’identificazione dei “lavori problematici”, che prevede di procedere alla stima e valutazione del rischio e dell’esposizione.

Con riferimento ad una ulteriore tabella sono definiti problematici quei lavori in cui si verificano le seguenti condizioni:

  • il lavoratore ha un’esposizione pressoché quotidiana ad uno o più dei segnalatori di possibile esposizione riportati nella tabella;
  • vi sono segnalazioni di casi, uno o più anche tenendo conto della numerosità dei lavoratori coinvolti, di franche patologie muscoloscheletriche o neurovascolari degli arti superiori correlate al lavoro.

Si ricorda che i segnalatori della tabella sono stati individuati perché consentono di discriminare i contesti di lavoro in cui può risultare, e non necessariamente vi è, una più significativa esposizione ai fattori di rischio per le patologie degli arti superiori. Laddove sia individuata, per un gruppo di lavoratori (posto, linea, reparto, ecc.), la presenza di uno o più segnalatori, sarà necessario procedere ad un’analisi dell’esposizione più articolata secondo i metodi e i criteri descritti nei paragrafi seguenti. In caso contrario (segnalatori negativi) non è necessario procedere a una dettagliata valutazione dell’esposizione. La valutazione dell’esposizione è comunque raccomandata quando i segnalatori di possibile rischio sono negativi e sono presenti segnalazioni da parte del medico competente delle patologie di cui alla tabella.

Riportiamo infine i segnalatori:

  • ripetitività: lavori con compiti ciclici che comportino l’esecuzione dello stesso movimento (o breve insieme di movimenti) degli arti superiori ogni pochi secondi oppure la ripetizione di un ciclo di movimenti per più di 2 volte al minuto per almeno 2 ore complessive nel turno lavorativo;
  • uso di forza: lavori con uso ripetuto (almeno 1 volta ogni 5 minuti) della forza delle mani per almeno 2 ore complessive nel turno lavorativo;
  • posture incongrue: lavori che comportino il raggiungimento o il mantenimento di posizioni estreme della spalla o del polso per periodi di 1 ora continuativa o di 2 ore complessive nel turno di lavoro;
  • impatti ripetuti: lavori che comportano l’uso della mano come un attrezzo (ad esempio usare la mano come un martello) per più di 10 volte all’ora per almeno 2 ore complessive sul turno di lavoro.

Il Decreto n. 7661 del 23 settembre 2015 della Regione Lombardia che fa riferimento alle “Linee Guida Regionali per la prevenzione delle patologie muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.welfare.regione.lombardia.it//shared/ccurl/466/612/Decreto%207661%20del%2023%20settembre%202015%20%20%28comprensivo%20di%20allegato%29%20-%20Linee%20Guida%20Prevenzione%20Patologie%20Muscolo%20Scheletriche%20conne.pdf

 

Il documento “Linee Guida Regionali per la prevenzione delle patologie muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.welfare.regione.lombardia.it/shared/ccurl/764/680/Linee%20guida%20prevenzione%20patologie%20muscolo%20scheletriche.zip

 

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LA RESPONSABILITA’ PER IL MANCATO CONTROLLO DI UN MACCHINARIO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

Gerardo Porreca

 

Le disposizioni della Direttiva Macchine, pur indicando le prescrizioni di sicurezza necessarie per ottenere certificato di conformità e marcatura CE, non escludono il dovere di garanzia di coloro che consentono l’utilizzo di un macchinario.

Si è espressa la Corte di Cassazione in questa Sentenza sull’obbligo da parte del datore di lavoro di assicurarsi della regolarità di un macchina messa a disposizione dei propri lavoratori dipendenti anche se la stessa è in possesso della documentazione attestante la sua conformità alle Direttive europee e della marcatura di conformità CE con le quali il costruttore ha assicurato la sua rispondenza ai Requisiti Essenziali di Sicurezza (RES) previsti sia dalle normative tecniche che dalle disposizioni di legge antinfortunistiche.

La Corte di Appello aveva parzialmente riformata la sentenza emessa dal Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale rideterminando la pena inflitta al rappresentante legale di un’impresa in mesi cinque e giorni dieci di reclusione a seguito della rilevata prescrizione dei reati ascritti ai due capi di imputazione, confermando invece nel resto la sentenza di primo grado. Il Gidice dell’Udienza Preliminare, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato il rappresentante legale, quale datore di lavoro, colpevole del reato di cui all’articolo 589 del Codice Penale per avere cagionato la morte di un lavoratore per negligenza, imprudenza e inosservanza di legge perché aveva impiegato il predetto lavoratore, operaio agricolo qualificato super, a operazioni che hanno comportato l’utilizzo di una macchina “pellettizzatrice” adibita all’accatastamento su bancali di legno di sacchi di pellets per riscaldamento.

La macchina era stata modificata con l’apertura di una via d’accesso agli organi in movimento, in origine protetti da una barriera, e tale apertura non era stata munita di un dispositivo che impedisse l’avvio della macchina in caso di accesso del lavoratore, il quale era stato così schiacciato dalla parte mobile superiore di una pressa mentre stava riposizionando un bancale mal collocato dal dispositivo automatico della macchina bloccatasi per tale evento e rimessasi in movimento a seguito dell’operazione effettuata dal lavoratore. Il giudice di primo grado aveva dichiarato l’imputata colpevole, altresì, della contravvenzione di cui agli articoli 72 e 389 lettera c) del D.P.R. 547/55 per avere omesso di dotare la portiera che consentiva di superare la schermatura di protezione degli organi in movimento della macchina di un dispositivo che all’apertura ne bloccasse il movimento e della contravvenzione di cui agli articoli 35, comma 1, e 89 lettera a) del D.Lgs. 626/94 per avere messo a disposizione dei lavoratori dipendenti un impianto costituito dalla “linea di produzione dei bancali di pellets” non idoneo ai fini della sicurezza, ed ha assolta invece l’imputato dalla contravvenzione di cui agli articoli 41 e 389 lettera c) del D.P.R. 547/55 per avere omesso di munire la macchina di idonea protezione degli organi pericolosi.

Il Tribunale, accertato sulla base della consulenza tecnica del Pubblico Ministero, che l’infortunio si era verificato a causa della vanificazione delle misure di sicurezza delle quali era dotata la macchina, affermava che, ancorché non potesse ritenersi dimostrato che l’imputato ne avesse disposto direttamente la modifica, lo stesso dovesse esserne al corrente e che comunque fosse venuta meno all’obbligo di vigilanza.

La Corte di Appello, su impugnazione dell’imputato, ha confermato in punto di responsabilità la sentenza di primo grado, richiamandone sinteticamente la motivazione. La Corte territoriale ha evidenziato che la condotta della vittima non potesse considerarsi anomala ed imprevedibile, essendo il lavoratore intervenuto per consentire la ripresa del funzionamento della macchina e avendo utilizzato un accesso realizzato sulla struttura di protezione. Con riguardo all’elemento soggettivo, la Corte di Appello ha considerato che nella grata metallica alta circa due metri che isolava la macchina dal resto del capannone era stata realizzata una porta con due maniglie e profili in acciaio e, ritenendo trattarsi di un lavoro di una certa complessità che ha richiesto, oltre che capacità tecniche, anche qualche ora di lavoro, ha quindi desunto da tale considerazione che l’ignoranza di tale modifica da parte dell’imputato fosse colpevole, essendo tra l’altro la stessa avvenuta con modalità pubbliche e almeno quarantotto ore prima dell’infortunio così come riferito da un collega del lavoratore deceduto.

Avverso la Sentenza della Corte di Appello l’imputato ha ricorso in Cassazione censurando la sentenza impugnata e chiedendone l’annullamento. L’imputato ha preliminarmente contestata la individuazione del momento in cui è stata fatta la modifica alla macchina avvenuta, a suo parere, nella mattina stessa dell’infortunio e non 48 ore prima, evidenziando così il brevissimo lasso di tempo intercorso tra la modifica stessa e l’infortunio, elemento questo rilevante per escludere la sua colpevolezza per esserne all’oscuro a fronte della contestazione di aver messo a disposizione del lavoratore un macchinario inidoneo.

Con riferimento a quest’ultima motivazione del ricorso la Corte di Cassazione ha posto in rilievo che i giudici di merito hanno ritenuto accertato, anche sulla base della prova logica, che la modifica della macchina alla quale era adibito il lavoratore infortunato fosse conosciuta o conoscibile dall’imputato e che, contrariamente a quanto indicato nel ricorso, le sentenze di merito sono risultate conformi nel ritenere che la modifica apportata al macchinario abbisognasse di “una certa lavorazione” e che richiedesse “oltre che capacità tecniche, anche qualche ora di lavoro” per cui è risultato che correttamente gli stessi avessero ritenuto, così come descritto nel capo d’imputazione, che il datore di lavoro avesse messo a disposizione dei lavoratori una macchina che, sebbene inizialmente munita di idonea protezione, era stata modificata con l’apertura di una via d’accesso agli organi in movimento, omettendo tuttavia di dotarla di un dispositivo che all’apertura ne bloccasse il funzionamento e che quindi avesse messo a disposizione dei lavoratori un impianto non idoneo ai fini della sicurezza.

Per un corretto inquadramento del caso concreto esaminato dai Giudici di merito, la Sezione IV ha evidenziato che occorre prendere le mosse dalla normativa introdotta con il D.P.R. 459/96, la cosiddetta “Direttiva Macchine”, la quale ha disciplinato i presidi antinfortunistici concernenti le macchine e i componenti di sicurezza immessi sul mercato ed ha recepito la Direttiva Macchine europea 89/392/CE nata con l’obiettivo di armonizzare le disposizioni normative degli Stati membri. La Direttiva Macchine europea nella originaria versione è stata, successivamente, modificata e integrata con altre Direttive che sono state recepite nell’ordinamento italiano mediante il D.Lgs. 17/10.

Dal raccordo delle Direttive europee con il sistema prevenzionistico già in vigore in Italia, ha sottolineato la Suprema Corte, si è desunta un’anticipazione della tutela antinfortunistica al momento della costruzione, vendita, noleggio e concessione in uso delle macchine coinvolgendo nella responsabilità per la mancata rispondenza delle stesse alle normative di sicurezza tutti gli operatori ai quali siano imputabili dette attività. “Si è, in sostanza, introdotto”, ha proseguito la Sezione IV, “un minimum tecnologico obbligato comune che da un lato, ha esteso ad altri operatori l’obbligo di controllo della regolarità della macchina o del pezzo prima che gli stessi vengano messi a disposizione del lavoratore; d’altro canto, si è attribuito tale obbligo a soggetti individuati come costruttori in senso giuridico del macchinario quando, ad esempio, pur risultando il macchinario composto di pezzi prodotti da altre ditte, l’obbligo di controllare la regolarità del macchinario nel suo complesso al fine di ottenere la certificazione necessaria per immetterlo sul mercato spettasse ad una impresa in particolare, in ipotesi incaricata di assemblare tutte le componenti”.

La Corte Suprema ha avuto quindi modo di precisare che “le disposizioni che hanno dato attuazione alle Direttive macchine dell’Unione Europea, pur indicando le prescrizioni di sicurezza necessarie per ottenere il certificato di conformità e il marchio CE richiesti per immettere il prodotto nel mercato, non escludono ulteriori profili in cui si possa sostanziare il complessivo dovere di garanzia di coloro che pongono in uso il macchinario nei confronti dei lavoratori, che sono i diretti utilizzatori delle macchine stesse, non potendo costituire motivo di esonero della responsabilità del costruttore quello di aver ottenuto la certificazione e di aver rispettato le prescrizioni a tal fine necessarie”. La Suprema Corte ha tenuto, infatti, a ricordare che, a norma dell’articolo 3, comma 1 del D. Lgs. 626/94, le misure generali che il datore di lavoro deve adottare per la protezione della salute e per la sicurezza dei lavoratori sono, tra le altre, la valutazione dei rischi, l’eliminazione dei rischi in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, la riduzione dei rischi alla fonte, la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è o è meno pericoloso, l’uso di segnali di avvertimento o di sicurezza, la regolare manutenzione di ambienti, attrezzature, macchine e impianti, con particolare riguardo ai dispositivi di sicurezza in conformità alla indicazione dei fabbricanti.

Nel caso in esame, ha quindi proseguito la Sezione IV, era stata apportata alla macchina, in epoca antecedente l’infortunio, una modifica che aveva vanificato le misure di sicurezza delle quali la macchina stessa era inizialmente dotata per cui correttamente i giudici di merito hanno ritenuto esigibile dal datore di lavoro il rispetto dell’obbligo di controllare che la macchina messa a disposizione dei lavoratori fosse sicura. Il datore di lavoro, che aveva demandato al padre il potere di fatto di impartire direttive ai lavoratori, è stato ritenuto essere in grado di conoscere la non conformità della macchina alla regola dettata dall’articolo 72 del D.P.R. 547/55 a motivo delle circostanze riscontrate nel caso concreto (complessità della modifica, previo accordo circa la modifica tra il lavoratore ed il padre dell’imputato, posizione in luogo ben visibile della nuova porta di accesso alla macchina e tempo trascorso tra la modifica e l’infortunio).

La Corte di Cassazione ha quindi in conclusione rigettato il ricorso avendo ritenuto che correttamente i giudici di merito avevano fatto rientrare il caso in esame nella norma incriminatrice per non avere il datore di lavoro proceduto all’eliminazione di un rischio, prevedibile ed evitabile in quanto connesso ad una modifica eseguita sul macchinario.

La Sentenza n. 43425 del 28 ottobre 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14234:cassazione-penale-sez-4-28-ottobre-2015-n-43425-&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

 

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LE AZIENDE DEVONO RIFARE LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO CHIMICO?

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

19 gennaio 2016

Tiziano Menduto

 

In relazione alla scadenza del primo giugno 2015 e ai nuovi criteri di classificazione molte miscele possono essere diventate pericolose. Cosa devono fare le aziende? Ne parliamo con Ludovica Malaguti Aliberti del Centro Nazionale delle Sostanze chimiche.

In questi mesi si è parlato molto sul nostro giornale della scadenza del primo giugno 2015. Da questa data entra pienamente in vigore il Regolamento CLP (Regolamento CE n. 1272/2008) relativo alla classificazione, etichettatura ed imballaggio di sostanze e miscele. Ed è ora obbligatorio seguire il Regolamento CLP non solo per la classificazione delle sostanze (era già obbligatorio dal primo dicembre 2010), ma anche per la classificazione delle miscele.

Ma la scadenza del primo giugno e le novità sulla classificazione delle miscele possono avere anche altre ripercussioni sulle aziende italiane? Sono valide le valutazioni del rischio chimico fatte con riferimento alle precedenti classificazioni?

 

Per rispondere a queste domande e per fare luce su alcune delle più importanti novità in materia chimica, abbiamo intervistato, durante la manifestazione Ambiente Lavoro, che si è tenuta a Bologna nel mese di ottobre, la dottoressa Ludovica Malaguti Aliberti del Centro Nazionale delle Sostanze chimiche (Istituto Superiore di Sanità Roma).

La dottoressa Ludovica Malaguti Aliberti era relatrice a Bologna in due diversi convegni organizzati da INAIL e Regione Emilia Romagna: il 15 ottobre al convegno “REACH 2015 L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di lavoro” e il 16 ottobre al convegno “REACH Sanità L’applicazione dei Regolamenti Europei delle Sostanze Chimiche in ambito sanitario”.

Chiaramente la prima domanda che le abbiamo posto è relativa alla scadenza del primo giugno e alle sue conseguenze.

Come cambiano i criteri di classificazione di sostanze e miscele? Come può variare la pericolosità di una miscela? E ci sarà un regime di proroga per i prodotti immessi sul mercato prima della scadenza?

E se, come ci segnala la rappresentante dell’Istituto Superiore di Sanità, le miscele che con le Direttive precedenti non erano classificate come pericolose, possono ora diventare pericolose, come devono regolarsi le aziende che hanno a che fare con queste miscele?

Con la scadenza del primo giugno un’azienda deve anche cambiare la propria valutazione del rischio chimico?

Entro quando un’azienda dovrebbe aggiornare la propria valutazione? Quali sono le tempistiche?

 

Una domanda non potevamo poi non farla sulla percezione che il Centro Nazionale delle Sostanze chimiche dell’Istituto Superiore di Sanità ha della percezione e conoscenza nelle aziende dei regolamenti europei in materia di sostanze chimiche.

 

Nelle aziende c’è la consapevolezza delle conseguenze della piena entrata in vigore del Regolamento CLP?

Infine ci soffermiamo sulle conseguenze della scadenza sulle scheda dati di sicurezza.

Cosa cambia nell’elaborazione delle schede dati di sicurezza?

Che supporto possono dare le schede al datore di lavoro?

E come deve utilizzare il datore di lavoro gli scenari di rischio?

Come sempre diamo ai nostri lettori la possibilità di ascoltare integralmente l’intervista e/o di leggerne una parziale trascrizione.

 

Soffermiamoci sul convegno “L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di lavoro” e sulla nuova scadenza del primo giugno 2015. E’ una scadenza importante? E con quali conseguenze?

LUDOVICA MALAGUTI ALIBERTI

Certamente è una scadenza importante, perché si tratta dell’entrata in vigore piena del Regolamento CLP, che, come acronimo, sta per classificazione, etichettatura e imballaggio di sostanze e miscele pericolose.

Nel 2010 il Regolamento è entrato in vigore per le sole sostanze, per cui già nel 2010 c’era la possibilità di conoscere i nuovi pittogrammi, indicazioni di pericolo, consigli di prudenza.

Con la nuova scadenza non avremo più in circolazione etichette con pittogrammi, con indicazioni di pericolo e consigli di prudenza secondo le vecchie Direttiva sui prodotti e le miscele pericolose. Questo significa che non avremo più i pittogrammi arancioni con quadrati, ma avremo i rombi con il fondo bianco e con il segnale di pericolo che fondamentalmente ricalca quelli precedenti, salvo che per i cancerogeni, mutageni, reprotossici, sensibilizzanti che riportano la figura dell’ “uomo esploso”.

Ma le novità non si riducono a questo.

Sono modificati anche i criteri di classificazione.

I criteri di classificazione di sostanze e miscele diventano più ristrettivi e sono una garanzia in più per la salute umana e anche per l’ambiente. Perché questi regolamenti si applicano alla salute umana e all’ambiente. Diversamente dalla normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro dove l’ambiente non è tenuto in conto.

E dunque le miscele che con le Direttive precedenti non erano classificate come pericolose, possono ora diventare pericolose, ai sensi dei criteri più ristrettivi.

Questa entrata in vigore non è però così netta. Come nel 2010 noi andiamo incontro ad un regime di proroga per ciò che è già immesso sul mercato. Ci sarà anche in questo caso un regime di proroga di due anni per i produttori, fabbricanti e importatori per arrivare nel 2017 con un assoluto cambio di passo: tutto ciò che sarà etichettato, classificato, lo sarà con il regolamento CLP. Quindi di fatto oggi possiamo avere prodotti (ad esempio la varechina o altre sostanze reattive nel mondo dell’industria e nei luoghi di lavoro) che marciano con etichette diverse ma con la stessa miscela.

Entriamo nello specifico degli obblighi delle aziende. Con questa novità del primo giugno un’azienda deve anche cambiare la propria valutazione del rischio chimico?

LUDOVICA MALAGUTI ALIBERTI

Sicuramente per gli ambienti di lavoro, il datore di lavoro che ha nella propria valutazione dei rischi l’applicazione del Titolo IX del D.Lgs. 81/08, quindi sia il Capo I che il Capo II, dovrà rivedere la valutazione perché potrebbe essere che si trovi con miscele che hanno cambiato classificazione e che quindi possono diventare pericolose.

Quindi la valutazione dei rischi va sicuramente aggiornata. O quanto meno ripresa in mano e analizzata per vedere se c’è bisogno di aggiornamenti…

In teoria dunque già dai primi giorni di giugno un’azienda dovrebbero avere già aggiornato la loro valutazione.

LUDOVICA MALAGUTI ALIBERTI

Lo sta facendo, io credo. Anche perché il rischio chimico nelle aziende è solitamente analizzato con degli algoritmi. Questo significa che gli algoritmi hanno avuto necessità di essere aggiornati. E’ stato lungo il processo di aggiornamento degli algoritmi, ed è un processo lungo quello di aggiornare. E’ chiaro che in teoria dal 2 giugno le valutazioni dovrebbero essere aggiornate. Però credo che, ed è il messaggio da dare, l’importante è che ci sia consapevolezza di questo cambio.

Perché mentre da un lato la grande industria, soprattutto l’industria chimica, ne è al corrente, perché ha altri obblighi rispetto ai Regolamenti, la micro, piccola e media impresa hanno delle difficoltà non solo a saper come fare, ma anche solo a sapere che c’è bisogno di questo cambio.

Concludiamo questa intervista cercando di capire se la scadenza del primo giugno 2015 ha conseguenze anche sull’elaborazione delle schede dati di sicurezza. Che supporto possono dare al datore di lavoro? Come deve utilizzare il datore di lavoro gli scenari di rischio?

LUDOVICA MALAGUTI ALIBERTI

Le schede dati di sicurezza sono normate dal Regolamento REACH e riviste poi dal Regolamento n. 453/2010. Però visto che sarà necessario aggiornare la classificazione delle miscele anche nelle schede dati di sicurezza, sicuramente dal primo giugno noi andremo ad utilizzare l’Allegato II del Regolamento n. 453/2010.

Le schede dati di sicurezza sono uno strumento formidabile di supporto per il datore di lavoro perché gli forniscono tutta le informazioni sulla gestione e sul corretto utilizzo delle miscele. Anche perché per quelle che sono messe sul mercato in quantità superiore alle 10 tonnellate, c’è l’obbligo di inserire nella scheda un “Chemical Safety Report” che comprende gli scenari di esposizione studiati, con le relative “Risk Management Measures”.

E quindi il datore di lavoro dovrà verificare che la sua lavorazione, la sua tipologia di esposizione, rientri in quegli scenari. Laddove ciò non succeda, dovrà, risalendo nella catena di approvvigionamento, chiedere di far verificare il proprio uso con un uso sicuro.

Tutto questo è un meccanismo assai complesso, molto più difficile di quanto possa apparire raccontandolo, perché coinvolge professionalità estremamente specifiche sia nel fare gli scenari, sia nel verificare che la propria attività rientri in quegli scenari.

Il datore di lavoro può poi avere un ulteriore supporto perché per le miscele che non sono classificate come pericolose, ma che contengono delle sostanze pericolose fino allo 0,1%, si può richiedere la scheda dati di sicurezza.

Noi in realtà diciamo ai datori di lavoro di richiederle sempre. Perché su questo è il D.Lgs. 81/08 che comanda, rispetto all’invito che fa il Regolamento Reach.

E ricordo anche che quello che si trova negli scenari non è la valutazione dei rischi secondo il D.Lgs. 81/08, ma è quello che il fabbricante scrive. Il datore di lavoro deve far proprio lo scenario, lo deve adattare alla propria attività in funzione dell’esposizione. Il datore deve porsi in modo attivo anche nei confronti delle schede dati di sicurezza.

 

Il video dell’intervista completa alla dottoressa Ludovica Malaguti Aliberti è consultabile all’indirizzo:

https://www.youtube.com/watch?v=9P1F-5zEgw0

 

Il Regolamento (UE) della Commissione Europea n. 453/10 del 20 maggio 2010 “Recante modifica del regolamento (CE) n. 1907/06 del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH)” è scaricabile all’indirizzo:

http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ:L:2010:133:FULL&from=IT

 

Il Regolamento (CE) del Parlamento e del Consiglio Europeo n. 1272/08 del 16 dicembre 2008 “Relativo alla classificazione, all’etichettatura e all’imballaggio delle sostanze e delle miscele che modifica e abroga le direttive 67/548/CEE e 99/45/CE e che reca modifica al regolamento CE n. 1907/06 è scaricabile all’indirizzo”:

http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2008:353:0001:1355:it:PDF

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.242 DEL 25/01/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

Il clima con occhi diversi

fragile-thumb-406x455-39961(Elena Camino, Gruppo ASSEFA* Torino: www.assefatorino.org)

 

Guerra alla Terra

Quando vedrete il prossimo film di guerra, provate a guardarlo da un punto di vista diverso: quello di un fringuello, di una salamandra, di una talpa, di un ciliegio, se la battaglia si svolge in Europa; oppure, se lo scenario è tropicale (magari il Vietnam), immaginate di essere una scimmia, un coccodrillo, un boschetto di mangrovie.  Tutte le creature che popolano i campi di battaglia sono colpite, come e più delle persone, dalla furia della guerra. Milioni di creature innocenti perdono la vita quando gli umani si fanno la guerra. E quando gli scontri finiscono, e torna (almeno in apparenza) la pace, ancora a lungo gli ecosistemi soffrono: gli habitat di molti animali sono sconvolti, i veleni rilasciati durante i combattimenti percolano nelle falde, il suolo crivellato di esplosioni perde la sua fertilità.

Di queste creature non si è parlato nella XXI Conferenza delle Parti (COP 21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) tenuta a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre 2015.

Si è parlato di ‘squilibri ambientali’, si è discusso sulle strategie da mettere in atto per ridurre la produzione di gas a effetto serra… ma non mi sembra che il tema della guerra sia stato tra le priorità. Eppure la guerra, sia nelle fasi di preparazione che nei momenti di violenza esplosiva, è forse (perché i conti dei danni sono difficili da fare con accuratezza) la maggiore produttrice di sostanze climalteranti.

 

Militari climalteranti

Sara Flaunders, in un articolo del 2009, sosteneva che “il Pentagono è il maggior consumatore istituzionale di prodotti petroliferi e di energia in generale. Ma il Pentagono gode di una implicita esenzione in tutti gli accordi internazionali sul clima” (http://www.iacenter.org/o/world/climatesummit_pentagon121809/).

H. Patricia Hynes, una studiosa che si è occupata di salute ambientale alla Boston University School of Public Health, ha pubblicato alcuni anni fa una serie di articoli dal titolo ‘Pentagon pollution’: nel n. 7 di questa serie (pubblicato nel 2011) che riguarda l’assalto militare al clima globale, l’Autrice segnala il ruolo preminente delle attività militari americane nel produrre sostanze climalteranti.  (http://climateandcapitalism.com/2015/02/08/pentagon-pollution-7-military-assault-global-climate/)

Adam J. Liska e  Richard K. Perrin hanno pubblicato sulla rivista Environment (luglio-agosto 2011)   un articolo dal titolo “Garantirsi il  petrolio straniero: includere le attività operative militari nello studio dell’ impatto dei combustibili fossili nei cambiamenti climatici” (http://www.environmentmagazine.org/Archives/Back%20Issues/July-August%202010/securing-foreign-oil-full.html).

Un recente numero della rivista Peace studies journal (Vol. 8 (1), October 2015: http://peaceconsortium.org/wp-content/uploads/2014/07/PSJ-Vol-7-Issue-2-2014.pdf) è dedicato espressamente al tema degli impatti ambientali delle guerre. Traduco alcune frasi dell’Introduzione, scritte dall’Autore che ha curato questo volume, Joel T. Helfrish. “Mentre scrivo le isole di Pagan e Tinian nel Pacifico sono minacciate dai corsi di addestramento dei militari USA, per imparare a svolgere azioni con fuoco e bombe.  Sono minacciate la barriera corallina e le altre forme di vita acquatica, sono a rischio di estinzione specie endemiche, sono sotto tiro antiche meraviglie geologiche e le acque profonde, ancora in parte inesplorate. Sono minacciati luoghi storici e spiagge incontaminate, e i residenti dell’Arcipelago delle Isole Marianne. […] Sebbene i Comandi Militari degli Stati Uniti sappiano da tempo che il cambiamento climatico è una minaccia ancora più grave del terrorismo, continuano a svolgere le loro attività come al solito – occupando luoghi da cui poi non si ritirano più, in cui distruggono terre e habitat critici, e utilizzano sempre più risorse per farlo.   Insediata ormai su più di 800 basi in tutto il mondo, con i suoi test e l’uso di animali, con i suoi consumi di carburanti fossili e la costruzione di armi, la potenza militare USA distrugge l’ambiente, mentre vomita gas climalteranti e altre sostanze che provocano letali inquinamenti”.

Più difficile trovare dati sugli effetti ambientali delle attività militari della Russia, e in generale degli altri Paesi impegnati nelle forme di difesa militare e armata.  La stessa Italia è stata di recente impegnata nelle esercitazioni della NATO: tra ottobre e novembre 2015 si è svolta in Italia, Spagna e Portogallo, dopo due anni di preparazione, la Trident Juncture 2015 (TJ15), una delle più grandi esercitazioni Nato. Vi hanno partecipato oltre 230 unità terrestri, aeree e navali e forze per le operazioni speciali di 28 paesi alleati e 7 partner, con 36 mila uomini, oltre 60 navi e 200 aerei da guerra, anzitutto cacciabombardieri a duplice capacità convenzionale e nucleare (Di Franceso e Dinucci, http://ilmanifesto.info/la-nato-prepara-altre-guerre/). Quante emissioni climalteranti sono state prodotte in queste esercitazioni? E quante nelle attività che le hanno rese possibili, cioè la costruzione di armi, la formazione dei militari, l’uso di suolo, acqua e aria per le esercitazioni?

 

A Parigi bisogna parlare di disarmo e di nonviolenza

Tamara Lorinz è l’autrice di un Report pubblicato nel settembre 2014 dall’International Peace Bureau dal titolo: “Demilitarizzazione per una radicale decarbonizzazione. Ridurre il militarismo e le spese militari per investire nel Green Climate Fund delle Nazioni Unite e per creare economie a basso carbonio e comunità resilienti”. (http://www.inesglobal.com/picture/upload/file/Green_Booklet_working_paper_17_09_2014.pdf).

Come sottolinea l’Autrice, la comunità internazionale si è dichiarata impegnata a dare sicurezza energetica a tutti: occorre quindi che ci sia un’equa distribuzione del ‘budget’ limitato di carbonio di cui si consente l’utilizzo (nella prospettiva di ridurre l’effetto serra). Di fronte a queste limitazioni, non è forse irresponsabile – si chiede la Lorinz – usarlo per i serbatoi dei carri armati e degli aerei da guerra, invece che per favorire la transizione a una economia a basso carbonio?

Non è possibile – questa è la sua tesi – ridurre le emissioni di gas a effetto serra se non attraverso processi che includono pace e disarmo.   Nella parte finale di un capitolo del Report che ha per titolo “Pace e disarmo, vie per una profonda decarbonizzazione”, Tamara Lorinz si sofferma su alcuni aspetti specifici, tra cui:

· Occorre rifiutare la militarizzazione della crisi climatica: lo scopo dei militari è fare la guerra, non offrire aiuti umanitari. Non ci sono soluzioni militari alle crisi ambientali.

· Bisogna ridurre drasticamente le spese militari, per investire invece in attività volte a mitigare i cambiamenti. In particolare occorre colmare il vuoto di informazione sugli impatti ambientali dei sistemi militari: è necessario che gruppi di ricerca indipendenti possano avere accesso ai dati e calcolare i consumi di carburanti, le emissioni di gas serra e gli impatti ambientali di tutti i Paesi impegnati in attività militari.

· Da molti anni sono disponibili studi e progetti di conversione economica da attività militari a impieghi civili. Con il sopraggiungere della crisi climatica, un piano di conversione da una economia di guerra a un’economia di pace soddisferebbe contemporaneamente le esigenze di pace e di equilibrio ecologico.

 

Infine, l’ultimo punto che Tamara Lorinz richiama è l’opportunità e la possibilità di “integrare cooperazione, costruzione di pace e nonviolenza per costruire comunità resilienti ai cambiamenti climatici”. L’Autrice cita alcuni documenti in cui vengono suggerite modalità nonviolente per affrontare in modo cooperativo – anziché competitivo e violento – gli inevitabili conflitti prodotti dai cambiamenti ambientali.  Ma fa notare che, salvo poche eccezioni, la maggior parte di questi documenti non chiama in causa la guerra e il disarmo.  Occorre invece impegnarsi affinché vengano portate alla luce le connessioni tra sistemi militari e crisi climatica. Solo così si potranno affrontare alla radice i problemi che nascono da una appropriazione violenta e ingiusta delle risorse naturali.

 

Il ruolo dell’educazione

Nel numero speciale del Peace Studies Journal (già citato) un articolo finale di Tom H. Hasting ha per titolo “Insegnare ecologia della guerra e della pace: un riassunto”. L’ Autore racconta della propria esperienza personale, e del Corso che egli ha iniziato a tenere ai suoi studenti fin dal 1997.  Il Corso è organizzato in quattro sezioni: (a) gli impatti ambientali della guerra; (b) gli impatti ambientali della preparazione alla guerra; (c) le risorse naturali come ‘drivers’ (motori, pretesti) per la guerra; (d) come potrebbe realizzarsi un sistema di pace: un sistema che – secondo le parole di Gandhi (che l’autore cita espressamente) – soddisfi le necessità di tutti e non l’avidità di pochi.

A conclusione del suo articolo Tom Hasting fa notare che per 11.000 anni abbiamo studiato la guerra, ma solo da pochi decenni si stanno approfondendo gli ambiti di ricerca sulla pace e sui conflitti. Trent’anni fa erano pochissimi i corsi universitari sui temi dei conflitti e della pace, ora sono alcune centinaia.  L’Autore prevede che – grazie all’introduzione di queste tematiche nei sistemi educativi – sia possibile un cambiamento dei ‘venti politici’, in grado di portare a nuove scelte e a nuove leggi.

 

Per gli insegnanti interessati, sul sito del Gruppo ASSEFA Torino è disponibile un ipertesto dal titolo “Una matassa da sbrogliare: violenza, ambiente, guerra. La nonviolenza per trovare il bandolo”, che offre spunti di riflessione e proposte di percorsi educativi da realizzare con gli studenti.

 

Si tratta di un ipertesto ideato proprio per esplorare le interconnessioni tra ambiente, violenza e nonviolenza. Un tema complesso e scomodo, ma che vorremmo veder trattare in tutte le scuole (e università…) e sentir discutere tra la gente: violenze esplicite e occulte, violenze dirette e indirette vengono esercitate ogni giorno – contro persone e più in generale contro gli ecosistemi da cui totalmente dipendiamo. Troppo spesso, però, vengono date per scontate, come se fossero fatti spiacevoli ma ineluttabili.

 

Le narrazioni di queste violenze fanno parte dell’attualità: sono illustrate nelle news della televisione, conquistano spesso i titoli di cronaca, sono soggetto privilegiato di innumerevoli film. Insieme alle cerimonie di commemorazione alimentano incessantemente l’immaginario dominante della nostra società.

Noi vogliamo mettere in discussione questa visione, e abbiamo realizzato questo progetto per offrire strumenti di informazione, di riflessione critica, di alternative assieme a una sezione per ospitare i risultati di esperienze e osservazioni di insegnanti che abbiano voluto sperimentare alcuni dei percorsi suggeriti.

L’ipertesto può essere consultato on-line e scaricato in formato pdf dal seguente link (http://www.assefatorino.org/index.php?option=com_content&view=article&id=75&Itemid=178).  

 

 

L’articolo Il clima con occhi diversi sembra essere il primo su Medicina Democratica.

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.241 DEL 22/01/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.241 DEL 22/01/16

 

INDICE

  • In tema di valore etico della salute e sicurezza sul lavoro
  • Amianto, continua la strage di lavoratori
  • Il mobbing: guida giuridica
  • Il rischio chimico e la relazione sulla sicurezza chimica

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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IN TEMA DI VALORE ETICO DELLA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

14 gennaio 2016

di Pietro Ferrari

 

Dalla Costituzione al Decreto 81: quale deve essere il valore etico attribuibile alla sicurezza sul lavoro.

 

Di fronte al profilarsi di pericolose involuzioni (anche in sede di Commissione europea) rispetto alle politiche di prevenzione e protezione in ambito lavorativo, forse non è inutile fermarsi a considerare quello che deve essere il valore etico attribuibile alla sicurezza sul lavoro (altri ha detto, e dirà, sul valore propriamente economico).

Se davvero vogliamo ragionare, oggi, intorno al tema del valore etico della sicurezza sul lavoro, non possiamo esimerci dallo sforzo di individuare, di “ricostruire” la traccia storica che ci consenta di articolare il discorso.

E’ una traccia antica e di straordinaria importanza quella che si vuole considerare: essa rappresenta il solco tracciato molti anni fa dalla Costituzione della Repubblica per regolare il nostro vivere civile e democratico.

 

Perché dunque partire dalla Costituzione? E cosa rappresenta la nostra Costituzione?

Le Costituzioni, in generale, rappresentano le regole fondamentali che una organizzazione sociale complessa, qual è lo stato democratico moderno, adotta per regolare il proprio funzionamento.

Ma la nostra Costituzione ha, in più, una caratteristica: essa è nata, alla fine della tragica esperienza della seconda guerra mondiale, dalla lotta di resistenza.

In questa lotta, i lavoratori (operai e contadini) hanno svolto, con le proprie organizzazioni, un ruolo fondamentale ed hanno pagato un grave prezzo per giungere al giorno della Liberazione.

Con questa lunga lotta, alfine vittoriosa, la classe dei lavoratori si è emancipata definitivamente dalla condizione di subalternità, ponendo la dignità ed il valore del suo ruolo quale base fondante della convivenza sociale.

E’ per questo che nel primo articolo dei Principi Fondamentali la Carta Costituzionale stabilisce che “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”.

A differenza di quanto stabilito nel previgente “Statuto Albertino”, all’interno del quale il cardine del sistema dei diritti statutari era costituito dal diritto di proprietà.

Ma facciamo ora un passo indietro e torniamo a quella fase storica denominata “Periodo costituzionale transitorio” che è compresa tra il 25 luglio 1943 (caduta del governo fascista, arresto di Mussolini e nomina del generale Badoglio quale capo del Governo) ed il 1 gennaio 1948 (entrata in vigore della Costituzione).

Nel periodo compreso tra la caduta del governo fascista e l’ingresso a Roma delle truppe alleate (4 giugno 1944) si affermò un nuovo soggetto politico unitario, il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) il quale raggruppava i partiti e le forze che dalla clandestinità avevano combattuto prima il regime fascista, e poi l’occupazione nazi-fascista.

Dopo la liberazione di Roma il CLN entrò a far parte del nuovo governo e il suo presidente, Ivanoe Bonomi, fu nominato Presidente del Consiglio. Nel frattempo continuavano però l’occupazione nazifascista e la lotta partigiana nel nord dell’Italia laddove operava, in clandestinità, il CLN Alta Italia.

L’anno successivo, conclusa vittoriosamente la lotta di liberazione (25 aprile 1945), gran parte del territorio nazionale veniva ricondotto sotto l’autorità formale del governo “romano” e la sovranità formale del Re.

Nuovo Presidente del Consiglio venne nominato Ferruccio Parri, comandante partigiano del Partito d’Azione, il quale provvide a istituire il Ministero per la Costituente con il compito di raccogliere e coordinare i materiali necessari per il lavoro di elaborazione e stesura che l’Assemblea Costituente sarebbe stata chiamata a svolgere.

Le elezioni del 2 giugno 1946 che chiamavano i cittadini (e per la prima volta le donne) al voto, li impegnavano a effettuare la scelta tra monarchia e repubblica e, altresì, a scegliere i componenti dell’Assemblea Costituente: vinse la scelta repubblicana (con 12.717.923 voti contro 10.719.284) e venne eletta l’Assemblea, con l’assegnazione dei 556 seggi alle diverse parti politiche.

L’Assemblea Costituente della Repubblica Italiana cominciò i suoi lavori il 25 giugno 1946 in quanto organo preposto alla stesura di una Carta Costituzionale per la nuova forma dello Stato italiano: la Repubblica Democratica.

La Commissione (la cosiddetta “Commissione dei 75”) incaricata di stendere il progetto generale concluse i suoi lavori nel gennaio 1947. Dopodiché (marzo ‘47) iniziò il dibattito sul testo in sessione plenaria.

Qual è dunque il compito che si poneva ai costituenti?

E come lo affrontarono?

In primo luogo si poneva il difficile compito di ricostituire il tessuto sociale e identitario, dopo le tragiche lacerazioni prodotte dalla guerra. Si trattava, perciò, anche di portare a compimento il difficile processo di riconciliazione nazionale; condizione, questa, necessaria non soltanto per giungere a sentirsi tutti “cittadini della stessa nazione” ma, altresì, per poter avviare il faticoso percorso della ricostruzione materiale ed economica.

Per giungere a ciò i padri costituenti compresero che avrebbero dovuto formulare, nel testo costituzionale, “i diritti inalienabili e imprescrittibili della persona umana come presupposto e limite legale permanente all’esercizio di ogni pubblico potere”, prima ancora che le parti relative ai rapporti civili, economici e di ordinamento della Repubblica.

E compresero (nonostante l’ultima lacerazione nel frattempo intervenuta con la rottura del Patto di unità nazionale) che questo obiettivo generale si sarebbe potuto raggiungere soltanto tramite lo strumento del compromesso, utilizzato per mediare e comporre le diverse posizioni.

 

C’è però compromesso e compromesso!

Nel caso dei costituenti si trattò di un compromesso alto. Perché essi si sentirono pienamente investiti del compito straordinario al quale venivano chiamati in quel preciso frangente storico e lo affrontarono con un atteggiamento che non è retorico definire sacrale. Come ebbe a dire uno di essi “La Costituzione è veramente una cosa sacra. La Costituzione è per il popolo la legge propria che lo garantisce e lo tutela; è la legge che esso primieramente si dà e che scaturisce dalla sua situazione storica, dalle sue esigenze morali e religiose e da tutto quell’insieme che forma il popolo stesso. Noi dobbiamo dare a questa Costituzione un prestigio di fronte al paese che la renda veramente sacra.”

La Costituzione della Repubblica Italiana entrò in vigore il 1 gennaio 1948.

Se torniamo ora a cercare di stabilire le connessioni rispetto a quello che è il nostro argomento (cioè che cosa si voglia e si debba intendere per valore etico della sicurezza sul lavoro), dobbiamo subito verificare il dettato costituzionale nelle formulazioni dettate nei suoi “Principi Fondamentali” (articoli da 1 a 12), e poi le parti in cui definisce i diritti e i doveri dei cittadini (articoli da 13 a 54).

 

Articolo 1

“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Articolo 2

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo […]”.

Articolo 3

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge […] E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana […]”.

 

Articolo 4

“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

 

Articolo 32

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti […]”.

 

Articolo 35

“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni e […] cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”.

 

Articolo 37

“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.

Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione”.

 

Articolo 41

“L’iniziativa economica è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

 

Vediamo dunque come la nostra Costituzione stabilisca qui (per quanto di interesse al nostro ragionamento) alcuni diritti fondamentali e, in quanto tali, inalienabili e garantiti (Articolo 2). Vale a dire, diritti cosiddetti indisponibili.

Essi sono: il diritto alla salute (articoli 2, 32, 35, 37, 41), il diritto al lavoro (articoli 1, 2, 4, 35, 37, 41), la pari dignità sociale di tutti i cittadini (articoli 3, 4).

Non è difficile notare quanto già accennato all’inizio rispetto alla nuova dignità conquistata dal ruolo del lavoratore. Notare cioè come il complesso degli articoli citati vada a reticolare una sorta di “combinato disposto” che concorre a definire il principio, riconosciuto e garantito dalla Repubblica Italiana su decisione del Legislatore costituzionale (articolo 2), ad avere un lavoro che sia sano, sicuro e dignitoso.

La stessa importantissima iniziativa economica/imprenditoriale è sottoposta al limite di non potersi svolgere in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza e alla dignità del lavoratore (articolo 41). Sotto questo aspetto, decisivo risulta quanto dettato dall’articolo 2087 del Codice Civile; articolo ormai considerato universalmente come “norma di chiusura” rispetto alla legislazione e alle politiche di prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Articolo 2087 – Tutela delle condizioni di lavoro

“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Ma il dettato costituzionale dice un’altra cosa ancora, anch’essa decisiva: dice che non solo la salute (e dunque la salute e sicurezza sul lavoro) è un diritto fondamentale dell’individuo ma che, nel contempo, essa è un interesse fondamentale della collettività (articolo 32). Dunque la condizione di salute del singolo lavoratore (come di qualunque cittadino) è un problema per tutta la collettività e ha perciò diritto alla tutela più alta prevista dalla norma superprimaria, la Costituzione appunto.

E’ su queste fondamenta che nel decennio successivo alla entrata in vigore della Costituzione si svilupperà una legislazione (molto avanzata per quel tempo) in materia di prevenzione e protezione dei lavoratori nell’ambiente di lavoro (la cosiddetta “legislazione tecnica” della metà degli anni ‘50) sotto forma prevalentemente di D.P.R. (Decreto del Presidente della Repubblica).

Fondamentali il D.P.R. 547/55 “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”, il D.P.R. 164/56 “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni” e il D.P.R. 303/56 “Norme generali per l’igiene del lavoro”.

Caratteristica di questo tipo di legislazione era quella di essere di tipo impositivo. Essa imponeva cioè al datore di lavoro una serie puntuale di obblighi da rispettare e/o di misure da adottare, ad esempio con riguardo alle protezioni nei macchinari o all’igiene degli ambienti, la cui violazione costituiva violazione di legge diversamente sanzionata, anche con sanzioni penali. Il lavoratore, per suo conto, doveva limitarsi a ubbidire alle eventuali disposizioni impartite dal datore di lavoro. E comunque a rispettare gli apprestamenti protettivi adottati.

In generale è da riconoscere che questo sistema di normative ha rappresentato, in qualche misura, un elemento di protezione che ha mantenuto la sua validità praticamente fino ai nostri giorni. L’abrogazione di quel sistema avverrà solo con l’emanazione del D.Lgs.81/08 (ma consistenti tracce “tecniche” sono ancora rinvenibili nei suoi Allegati).

Si dovranno attendere circa 40 anni perché, con il Decreto Legislativo n.626 del 19 settembre 1994, questa logica venisse capovolta in positivo. Anche se, per il vero, la Legge 300/70 (cosiddetto Statuto dei Lavoratori) col suo articolo 9 aveva in certa misura prefigurato e anticipato la futura direttrice comunitaria.

 

Articolo 9 – Tutela della salute e dell’integrità fisica

I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.

Il D.Lgs. 626/94 venne emanato in (tardo) come accoglimento della Direttiva della Comunità Economica Europea n.391 del giugno 1989 “Direttiva del Consiglio concernente l’attuazione di misure volte al miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro”. La norma comunitaria obbliga infatti gli Stati membri a recepire nelle rispettive legislazioni le Direttive europee.

Naturalmente, rispetto alle diverse materie, la Direttiva Comunitaria si limita a dettare le condizioni generali minime e inderogabili rispetto alle quali gli Stati membri sono chiamati al recepimento, adeguandole alle normazioni nazionali. Senza dunque poter trascurare o stravolgere le indicazioni generali dettate dalla Direttiva. Vale infatti il divieto espresso all’abbassamento delle tutele.

Il D.Lgs. 626/94 ha capovolto il modo di concepire la problematica della prevenzione e protezione in materia di salute e sicurezza sul lavoro (avrebbe anzi dovuto cambiarne radicalmente l’approccio).

Questa, infatti, non è più relegata al solo rispetto, da parte del datore di lavoro, di una serie di norme a carattere “tecnico” (e al conseguente obbligo di disciplina da parte dei lavoratori) ma si espande a tutti gli attori (nuovi) della prevenzione nei luoghi di lavoro e a tutti i rischi individuabili in ogni specifica realtà.

Anzi proprio questa “partecipazione equilibrata” (per usare il linguaggio della Direttiva 89/391/CEE) è la condizione essenziale perché il sistema della prevenzione possa operare correttamente.

Tra le nuove figure previste dal D.Lgs. 626/94 si segnalano il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione aziendale (RSPP), con il compito di collaborare con il datore di lavoro nella valutazione dei rischi e nella elaborazione del Documento di Valutazione dei Rischi e di coordinare il Servizio di Prevenzione e Protezione nelle figure degli Addetti (ASPP); il Medico Competente (MC), che partecipa alla valutazione dei rischi e provvede alla sorveglianza sanitaria nei casi previsti dalla normativa vigente; il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), il quale deve ricevere, a cura del datore di lavoro, una adeguata e specifica formazione, venire consultato rispetto alla valutazione dei rischi e ai programmi della prevenzione e che, più in generale, ha il compito di verificare che le condizioni di tutela vengano adottate e costantemente rispettate.

Per la prima volta, il D.Lgs. 626/94 prevede anche l’obbligo per il datore di lavoro di fornire ai lavoratori una informazione e formazione sufficienti, adeguate e non episodiche.

Nei suoi circa 14 anni di vigenza, il D.Lgs. 626/94 (con le modifiche e integrazioni successivamente intervenute sul testo originario) ha offerto grandi possibilità per il miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e suscitato negli RLS sensibili aspettative in questo senso.

Purtroppo, pur riconoscendo al Decreto una funzione protettiva e (grazie all’apparato sanzionatorio) deterrente rispetto alle ipotesi di violazione, pur riconoscendo agli enti istituzionalmente preposti alla vigilanza (in primo luogo i Servizi di Prevenzione delle ASL) un impegno significativo, ciò che è venuto a mancare è stato proprio lo spirito collaborativo che informava la legge e, prima ancora, la direttiva comunitaria, la quale rappresenta fonte primaria e inderogabile.

In via generale non è stata cioè superata, da parte delle imprese, la diffidenza nel far partecipare i lavoratori e le loro rappresentanze alla organizzazione della prevenzione; anche perché, non di rado, quest’ultima risultava ignorata, o percepita come costo “non sostenibile” e inutile aggravio burocratico. (non pare inutile richiamare, in questo contesto, l’inattuata previsione costituzionale dell’articolo 46 secondo cui “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”).

A ciò si aggiunga che, permanendo in vigore tutta la complessa decretazione degli anni ‘50 e quella via via succedutasi, s’era venuta a determinare una sorta di “iperfetazione” di leggi e regolamenti che rendevano la materia di difficile accessibilità e interpretazione.

Il problema che, a quest’altezza, si poneva al legislatore, era quello di accorpare, armonizzandola e integrandola, una legislazione/normazione vasta e complessa; per di più soggetta, a progressive rivisitazioni e modifiche.

Tale problema, a dire il vero, era già stato posto dalla Legge di riforma sanitaria del 1978 (la 833/78 “Istituzione del servizio sanitario nazionale”) nella parte in cui sollecitava il legislatore a procedere ad un riassetto e a una rivisitazione della materia.

A partire da allora, si succedettero diverse prefigurazioni di “riforma” e una proposta organica (ma scellerata) di Testo Unico che il governo del 2005 fu poi costretto a ritirare, sostanzialmente in conseguenza della pronuncia sfavorevole del Consiglio di Stato e del parere negativo delle Regioni.

Quella esigenza, posta già dalla legge del 1978, venne finalmente risolta dal legislatore del 2008 con l’emanazione del Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81.

Il D.Lgs. 81/08, che si presentava fattualmente come Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro pur non avendone qualificazione formale, soddisfaceva alla delega formulata un anno prima dall’articolo 1 della Legge 123/07 “Misure in tema di salute e sicurezza e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia”.

 

Articolo 1

“Il Governo è delegato ad adottare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per il riassetto e la riforma delle disposizioni vigenti in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro […]”.

Cosa fa il D.Lgs. 81/08, modificato dal Decreto integrativo e correttivo n. 106 del 2009?

Esso adempie al compito di rendere omogenea e aggiornata (rispetto alle Direttive comunitarie, alla normazione tecnica internazionale e alla giurisprudenza consolidata) tutta la materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Dunque anche abolendo grandissima parte della precedente legislazione di riferimento o, per certa parte, incorporandola.

 

Non è qui compito di addentrarci in specifiche valutazioni dei contenuti del Testo Unico.

Nostro compito è invece quello di individuare gli elementi di tali contenuti che possano riconnetterci al ragionamento su che cosa debba intendersi per “valore etico della sicurezza”.

Tali elementi sono quelli che “riassumono” e richiamano il dettato (e lo spirito) costituzionale, saldando (soprattutto) gli articoli 35 e 41 della Costituzione con la norma generale stabilita dall’articolo 2087 del codice civile.

Richiamiamoli brevemente:

  • la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività;
  • l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana;
  • l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Ecco dunque che l’articolo 15 del D.Lgs. 81/08 elencando diffusamente le misure di tutela definisce il sovraordinato obbligo generale di sicurezza posto a carico del datore di lavoro dall’articolo 2087 del Codice Civile. In primo luogo nei confronti dei lavoratori; e però anche nei confronti di terzi (presenti sul luogo di lavoro) e dell’ambiente esterno (si pensi solo ai danni da emissioni nocive o da smaltimento di rifiuti tossici).

E tuttavia anche il lavoratore è sottoposto all’obbligo di sicurezza: nei confronti di sé stesso, come nei confronti dei colleghi di lavoro, come nei confronti di terzi, ad esempio lavoratori di altre imprese che si trovino a operare su quel luogo di lavoro, visitatori, clienti ecc. .

Ciò proprio perché la salute, che è un bene indisponibile (cioè non riducibile, né contrattabile) non rappresenta soltanto un diritto fondamentale dell’individuo (si parla, giuridicamente, di diritto soggettivo perfetto) ma, nel contempo, rappresenta un interesse altrettanto fondamentale per la collettività; basti pensare agli altissimi costi umani, sociali ed economici degli infortuni e delle malattie professionali.

 

E’ per questo che l’articolo 20 del Dlgs. 81/08 procede a definire gli obblighi dei lavoratori, indicando nel primo comma l’obbligo generale:

 

Articolo 20, comma 1

“Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni od omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”.

Vediamo dunque come il cerchio del ragionamento vada a chiudersi.

Abbiamo percorso e considerato, sia pure in modo estremamente sintetico, una “lunga storia”.

E’ la nostra storia. Quella dei nostri padri e dei “padri” costituenti.

Storia fatta dalle donne e dagli uomini di questa Repubblica (res publica) democratica (démos cràtos), dalle loro intelligenze e dalla loro passione, per una società progressiva.

Certamente di faticoso avanzamento sociale, del tutto diverso dalle “magnifiche sorti e progressive” della celebre critica leopardiana.

In questo senso, dobbiamo intendere l’etica, sul piano socio-politico, come il complesso delle leggi più nobili delle quali una società si dota per regolare il proprio svolgimento.

E invece, sul piano morale, essa deve intendersi (secondo le parole di Antigone nella grande tragedia di Sofocle) come le “eterne leggi non scritte”.

Pietro Ferrari

Commissione salute e sicurezza sul lavoro – FILCAMS CGIL Brescia

 

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AMIANTO, CONTINUA LA STRAGE DI LAVORATORI

 

Da Il Pane e le Rose

http://www.pane-rose.it

19 Gennaio 2016

 

Amianto, continua la strage di lavoratori.

4.000 mila morti ogni anno, mille morti solo per mesotelioma.

 

Articolo pubblicato dalla rivista “Nuova Unità”, gennaio 2016

 

A 23 anni dalla messa al bando dell’amianto, con la Legge 257 del 1992, ci sono in Italia ancora 32 milioni di tonnellate di amianto e le bonifiche sono tuttora da fare. Chi sperava che dopo l’approvazione della legge, l’amianto sarebbe stato rimosso dalle nostre vite deve ricredersi: la decontaminazione dalla fibra è fallita.

A oggi ci sono oltre 400 norme regionali e nazionali sull’amianto, un labirinto legislativo che fa comodo a molti che per i propri interessi speculano sulla vita delle persone.

Istituzioni, padroni, governi, giocano scaricando le responsabilità su altri.

 

Il profitto viene prima di qualsiasi diritto alla salute e alla sicurezza e si realizza sulla pelle dei lavoratori e cittadini.

L’amianto è un problema sociale, sanitario, medico, una bomba ecologica non ancora disinnescata, che prima ha ucciso i lavoratori esposti alla fibra killer e oggi avvelena la popolazione.

 

Nonostante la Legge 257/92 che metteva al bando l’amianto lo preveda, a tutt’oggi manca una mappatura completa dei siti contaminati da amianto e da bonificare e molto spesso le mappature sono datate o inattendibili. L’articolo 10 della Legge 257/92 stabilisce che le regioni in mancanza di adozione dei Piani Regionali amianto, possono essere commissariate, ma nonostante ciò diverse regioni non lo hanno ancora adottato e molte non lo hanno ancora rinnovato (come Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna, ad esempio).

In Italia come sempre fatta la legge si trova subito l’inganno. La legge ha bandito l’utilizzo del minerale killer ma non ha obbligato lo smaltimento, e la polvere d’amianto continua a uccidere almeno 8 italiani al giorno e avvelenarne altre migliaia.

 

In Italia esistono tuttora oltre 300 mila edifici (di cui almeno 3.000, rappresentano un grave rischio di contaminazione per tutta la popolazione, uomini, e donne, bambini e anziani, e più di 2.400 sono scuole italiane) tuttora contaminati dall’amianto e come ha riconosciuto la presidente della Commissione di Inchiesta sugli infortuni sul lavoro del Senato Camilla Fabbri, “di questo passo ci vogliano 85 anni per smaltirlo e eliminarlo dalle nostre vite”.

 

Tutti conosciamo la storia di Casale Monferrato grazie alle lotte condotte dagli ex lavoratori dell’Eternit e dai cittadini, ma lo sviluppo industriale, il “progresso” di questo paese si fonda sul sangue di decine di migliaia di proletari e i cittadini, spesso dimenticati.

La stessa Unione Europea nel quadro strategico per la sicurezza sul lavoro dal 2007 al 2011 afferma che anche se in Europa si assiste a una diminuzione degli infortuni del 28%, i morti per amianto sono in continuo aumento.

 

Il mesotelioma, il tipico tumore maligno continua a colpire e uccidere senza pietà, in tutto il paese, dal nord al sud, ma l’amianto provoca anche molti altri tumori maligni di cui si parla poco nei mass-media.

Secondo recenti dichiarazioni del presidente di INAIL, Massimo De Felice, i lavoratori vittime dell’asbesto decedute assicurate all’INAIL sono state 17.428 e oltre 21.000 i casi di mesotelioma tra il 1993 e il 2014.

I numeri ci dicono che l’amianto continua a uccidere oggi come nel passato e purtroppo senza bonifiche dei siti industriali e del territorio la lista dei morti e malati continuerà a crescere ancora per molti anni. Tutti sono a rischio, nessuno è esente dal pericolo.

 

Anche nel tempio della musica, il Teatro della Scala di Milano (dove abbiamo manifestato in occasione della prima) l’amianto ha fatto delle vittime, e per le morti sospette per amianto alla Scala sono indagati quattro ex sindaci di Milano, Carlo Tognoli, Gian Paolo Pillitteri, Giampiero Borghini e Marco Formentini. Indagato anche l’ex sovrintendente Carlo Fontana indagati, con altre persone, per omicidio colposo e lesioni colpose per sette decessi e altri casi di malattia dovuti all’amianto presente al Teatro alla Scala.

In questo le denunce dei lavoratori e comitati sono servite.

 

La procura contesta agli indagati di non essersi adoperati per rimuovere in passato l’amianto dai manufatti nei vari locali, soprattutto tecnici, ma anche dal famoso lampadario all’interno del teatro. Per l’accusa non sarebbe stato fatto il censimento dell’amianto previsto dalla legge del 1992, e il minerale avrebbe provocando la morte dei lavoratori. Tra le persone morte per esposizione alla sostanza cancerogena dagli anni ‘70-80, ci sono un siparista, un macchinista, un vigile del fuoco, un falegname, un addetto al trasporto delle scene e anche una cantante lirica. Questo dramma è solo uno dei tanti.

 

Anni di omertà e complicità da parte di tutte le istituzioni hanno finora garantito l’impunità a padroni e manager colpevoli di aver mandato consapevolmente a morte migliaia di lavoratori nelle fabbriche pur di realizzare i massimi profitti. In questi anni molti processi sono stati esempi d’ingiustizia per le vittime e i loro famigliari assolvendo i padroni nel merito o per prescrizione. In ogni caso la mobilitazione dei lavoratori e delle vittime organizzate in comitati è servita per portare sul banco degli accusati i padroni e manager assassini di tanti operai. Anche se la giustizia per le vittime dell’amianto non arriva quasi mai e quando arriva è tardiva come dimostra il processo Eternit di Casale Monferrato, le vittime, i comitati e le associazioni continuano a lottare: oggi in Italia sono in corso più di 50 processi per amianto.

 

Michele Michelino

Presidente del “Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio”

 

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IL MOBBING: GUIDA GIURIDICA

 

Da Studio Cataldi

http://www.studiocataldi.it

18 gennaio 2016

 

COSA E’ IL MOBBING

Con il termine “mobbing” si fa riferimento, in generale, all’insieme dei comportamenti che tendono a emarginare un soggetto dalla società di cui esso fa parte, tramite violenza psichica protratta nel tempo e in grado di causare seri danni alla vittima.

Non esiste un criterio specifico per individuare tali atti, nei quali rientra quindi ogni forma di angheria perpetrata da una o più persone nei confronti dell’individuo più debole: ostracismo, umiliazioni pubbliche e diffusione di notizie non veritierie.

 

ETIMOLOGIA DEL TERMINE

La parola mobbing è stata coniata ufficialmente da un etologo austriaco, Konrad Lorenz.

Il significato iniziale si riferiva, infatti, a tutti quegli atteggiamenti animali perpetrati da uno o più membri di un gruppo nei confronti di quello che potrebbe essere definito come l’anello debole dell’insieme, al fine di estraniare il soggetto dal resto branco e allontanarlo.

Più specificamente, il termine mobbing non è altro che una forma di gerundio sostantivato del verbo “to mob”, coniato, nella lingua inglese, nel corso del XVII secolo e diretto derivato di una comune espressione latina, mobile vulgus, con la quale ci si riferiva ai folti gruppi tipici di una parata o di un evento locale, che avevano la cattiva abitudine di muoversi in modo disordinato seminando il caos nei dintorni.

Con il termine “to mob”, in sostanza, si intende letteralmente: accalcarsi intorno a qualcuno, affollarsi, assalire tumultuando.

Oggi, tuttavia, l’accezione del termine si è sviluppata sino ad indicare, in generale, le persecuzioni psicologiche perpetrate da parte di uno o più individui nei confronti di un altro, nel contesto lavorativo e non solo.

 

RILEVANZA GIURIDICA

Come accennato, dunque, oggi con il termine mobbing si intende quella forma di terrore psicologico, esercitato, con modalità e tempistiche ben precise, in danno di un collega di lavoro, di un subordinato, di un individuo più debole, con il chiaro intento di danneggiarlo ed emarginarlo.

Affinché il mobbing assuma rilevanza sul piano giuridico è più in particolare necessario che il terrore psicologico si estrinsechi in comportamenti aggressivi e vessatori, che si protraggano nel tempo in maniera ripetitiva, regolare e frequente.

 

MOBBING E LAVORO

Il contesto principale con riferimento al quale si è iniziato a far riferimento al mobbing come a un comportamento illecito, giuridicamente rilevante, è quello lavorativo.

In tal contesto, sostanzialmente, il mobbing si estrinseca in tutti quei comportamenti che il datore di lavoro o i colleghi pongono in essere, per svariate ragioni, al fine di emarginare e allontanare un determinato lavoratore.

Da tale definizione è possibile far discendere una prima forma di classificazione del mobbing: quella che distingue il mobbing verticale dal mobbing orizzontale.

Il mobbing verticale (o bossing) è la classica forma nella quale si estrinseca il mobbing e consiste negli abusi e nelle vessazioni perpetrati ai danni di uno o più dipendenti da un loro diretto superiore gerarchico. In questi casi le possibilità di ribellarsi a tali atteggiamenti sono spesso molto limitate e di non facile attuazione, in ragione dei rapporti di forza sbilanciati tra mobber e mobbizzato.

Per mobbing orizzontale, invece, si intende l’insieme di atti persecutori messi in atto da uno o più colleghi nei confronti di un altro, spesso finalizzati a screditare la reputazione di un lavoratore mettendo in crisi la sua posizione lavorativa. Si tratta di comportamenti difficili da fronteggiare e denunciare soprattutto se attuati da un gruppo.

Per quanto esse siano del tutto inusuali, talvolta possono comunque verificarsi anche ipotesi di mobbing dal basso o low mobbing.

Si tratta di una serie di azioni che mirano a ledere la reputazione delle figure di spicco aziendali, magari a seguito di un loro comportamento ritenuto non idoneo da parte di un buon numero di dipendenti oppure per motivi semplici quanto futili, come antipatia o invidia per il potere mostrato o per la posizione raggiunta.

E’ una situazione che, ad esempio, può verificarsi in ipotesi di crisi economica aziendale. In questi casi, infatti, non è raro che la figura del capo sia considerata alla base della crisi e di ogni altra problematica come disorganizzazione, cattiva reputazione dell’azienda, incapacità di essere competitivi.

 

IN PARTICOLARE: IL BOSSING

Tra le diverse tipologie di mobbing che possono estrinsecarsi nel mondo del lavoro, di certo quella più diffusa è il bossing.

Su di esso, quindi, è il caso di soffermarsi qualche riga in più.

Innanzitutto occorre chiarire che questa pratica combina, in maniera premeditata, azioni a scopo intimidatorio con veri e propri atti di violenza psico-fisica e di esclusione dai privilegi aziendali solitamente riservati in forma equa ai vari dipendenti.

Tali provvedimenti riguardano spesso l’assegnazione d’incarichi lavorativi specifici, l’esclusione dai meeting del personale dipendente e il tenere nascoste solo ad alcuni dipendenti le informazioni che usualmente vengono diffuse tra tutti.

Tra gli altri atteggiamenti che caratterizzano il comportamento mobbizzante vi è poi, ad esempio, il fenomeno del ridimensionamento di ruolo nella comunità aziendale, che vede brillanti dipendenti (ritenuti potenzialmente pericolosi per lo status di alcuni alti membri del comitato direttivo a rischio) incaricati di mansioni di poco conto, come quella di fare fotocopie o gestire la posta di altri dipendenti di pari rango, che li demotivano e limitano l’espressione delle proprie capacità e conoscenze.

L’intento è quello di creare nella vittima, per varie ragioni, un senso di emarginazione e di cagionarle frustrazione e un’ansia sempre crescente e spesso insopportabile.

 

CAUSE ALLA BASE DEL MOBBING

Se i comportamenti individuati come mobbing hanno assunto rilevanza nei vari ordinamenti giuridici principalmente in relazione agli ambienti di lavoro, ciò è derivato dalle particolari caratteristiche che connotano il relativo ramo del diritto.

Il mobbing, non a caso, riguarda spesso grandi aziende, le quali lo utilizzano per aggirare la normativa a tutela dei licenziamenti cagionando nel lavoratore “sgradito” una condizione di stress psico-fisico, idonea a determinarlo ad abbandonare di sua “spontanea volontà” il luogo di lavoro.

Tuttavia le motivazioni che possono celarsi dietro gli atti mobbizzanti sono molteplici.

Talvolta, ad esempio, l’intento dei mobber è quello di riversare su un “capro espiatorio” alcune problematiche interne di vario genere.

Altre volte il mobbing è dettato da motivazioni di carattere strettamente personale.

Esso può anche essere la conseguenza del rifiuto, da parte della vittima, delle avances del superiore o del collega poi divenuto mobber.

Da tutto ciò emerge chiaramente che le conseguenze dannose del mobbing non sono necessariamente connesse alla perdita del posto di lavoro che esso può illecitamente e indirettamente cagionare. Essere vittima di ripetute vessazioni, attacchi e umiliazioni può, infatti, indurre nel lavoratore paure e insicurezze, idonee ad incidere in maniera anche rilevante sulla sua salute psico-fisica.

 

MOBBING SOCIALE

Sino ad ora, nel parlare di mobbing si è fatto riferimento esclusivo al mondo del lavoro.

Tuttavia, nonostante questo sia il contesto in cui il fenomeno assume la rilevanza maggiore, il mobbing riguarda anche altri contesti.

Un individuo, infatti, può essere “preso di mira” e può divenire vittima di ripetute vessazioni in qualsiasi contesto sociale.

Ciò accade, ad esempio, all’interno dell’ambiente scolastico, in cui i ragazzi possono divenire vittime del mobbing operato sia da altri studenti che dagli insegnanti.

Si pensi ai casi di disapprovazione infondata di alcune abitudini o idee dello studente o, ancora peggio, ai casi di pregiudizio nei suoi confronti derivante dalle origini, dalle tradizioni o dalla diversa etnia.

Anche nel caso di “mobbing scolastico” non sono da sottovalutare, seppur rari, i casi di mobbing dal basso che riguardano gruppi coalizzati di studenti che mirano a ledere le capacità organizzative e di dialogo di uno o più insegnanti ritenuti particolarmente deboli.

Un altro contesto sociale in cui il mobbing può estrinsecarsi è quello familiare.

Esso, ad esempio, riguarda i casi in cui un coniuge vuole ottenere il monopolio delle attenzioni della prole e, a tal fine, cerca di estromettere il partner dalle questioni familiari.

E’ chiaro che questo tipo di mobbing è nocivo non solo della stabilità del nucleo familiare e della salute della vittima diretta ma anche di quella dei figli e di tutto il nucleo familiare.

 

TUTELA GIURIDICA CONTRO IL MOBBING

Nel nostro ordinamento possono rinvenirsi diverse norme che permettono alle vittime di tutelarsi rispetto a fenomeni di mobbing.

 

LA COSTITUZIONE

La prima fondamentale tutela può essere rinvenuta nella Costituzione.

La carta fondamentale del nostro ordinamento, infatti, all’articolo 32 riconosce e tutela la salute come un diritto fondamentale dell’uomo, all’articolo 35 tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni e all’articolo 41 vieta lo svolgimento delle attività economiche private che possano arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

 

IL CODICE CIVILE E LE LEGGI SPECIALI

Spostandoci dal piano dei principi a quello pratico, nel nostro codice civile è possibile rinvenire due fondamentali norme in grado di aiutare le vittime di comportamenti mobbizzanti a trovare tutela rispetto alle lesioni subite.

Si tratta, innanzitutto, dell’articolo 2043 che prevede l’obbligo di risarcimento in capo a chiunque cagioni ad altri un danno ingiusto con qualunque fatto doloso o colposo.

Si tratta poi dell’articolo 2087 che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale di lavoratori.

Con riferimento alle leggi speciali, una tutela contro comportamenti mobbizzanti può essere ravvisata innanzitutto nello Statuto dei lavoratori, nella parte in cui pone una specifica procedura per le contestazioni disciplinari a carico dei lavoratori e laddove punisce i comportamenti discriminatori del datore di lavoro.

Un’ulteriore tutela, di carattere più generale, è ravvisabile, infine, nel Testo unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

 

IL CODICE PENALE

Il mobbing, nel nostro ordinamento può talvolta assumere rilevanza anche da un punto di vista penale, sebbene non esista una specifica figura di reato.

I comportamenti mobbizzanti, infatti, a determinate condizioni possono cagionare delle conseguenze riconducibili al reato di lesioni personali di cui all’articolo 590 del codice penale.

 

TUTELA CIVILISTICA

Le vittime di mobbing, quindi, trovano la loro principale fonte di tutela nella possibilità di esperire i tradizionali rimedi civilistici offerti dal nostro ordinamento.

Esse potranno insomma citare in giudizio il loro mobber nelle forme del rito ordinario al fine di vederne accertata la responsabilità per il danno che hanno cagionato nei loro confronti, ovverosia non solo il danno biologico ma anche il danno morale.

 

ONERE DELLA PROVA

Affinché possa essere risarcito del danno subito, tuttavia, è necessario che il mobbizzato fornisca una prova precisa e adeguata del mobbing.

Innanzitutto egli dovrà provare che, nei suoi confronti, è stata perpetrata una serie di comportamenti persecutori, con intento vessatorio.

Costituiscono esempi di tali comportamenti, si ricorda, le critiche continue e immotivate, la dequalificazione, l’emarginazione, le molestie.

Il mobbizzato dovrà provare, poi, che tali comportamenti non sono sfociati in un unico, isolato, evento, ma sono stati reiterati lungo un arco temporale medio-lungo, ovverosia per un periodo di tempo tale da rendere invivibile il contesto di riferimento.

Un’ulteriore fondamentale prova da fornire è quella relativa al danno subito. Essa potrà essere data con dichiarazioni testimoniali e, ancor più efficacemente, con perizie e certificati medici che attestino lo stato di depressione e frustrazione.

Infine, ed è questa la prova più delicata da fornire, dovrà essere accertato lo stretto rapporto causale tra la condotta denunciata e il danno subito.

 

MASSIME DELLA CASSAZIONE

Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 13693 del 03/07/15

“Il lavoratore vittima di mobbing non è tenuto a dimostrare la colpa del datore di lavoro ma è sempre tenuto a dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume siano state violate”.

Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 11547 del 04/06/15

“Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:

  • la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano posti in essere in modo miratamene sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
  • l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
  • il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
  • la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio”.

Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 10037 del 15/05/15

“Il fatto che le condotte persecutorie integranti la fattispecie di mobbing sino opera di un altro dipendente, superiore gerarchico della vittima, non esclude la responsabilità del datore di lavoro se questi è rimasto colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo. Nella specie la durata e le modalità con cui è stata posta in essere la condotta mobbizzante, quale risulta anche dalle prove testimoniali, sono tali da far ritenere la sua conoscenza anche da parte del datore di lavoro, nonché organo politico, che l’ha comunque tollerata”.

Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 1258 del 23/01/15

“Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi da parte del datore di lavoro comportamenti, anche protratti nel tempo, rivelatori (in modo inequivoco, di un’esplicita volontà di quest’ultimo di emarginazione del dipendente, occorrendo, pertanto dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte dirette (oggettivamente) all’espulsione dal contesto lavorativo, o comunque connotate da un alto tasso di vessatori età e prevaricazione, nonché sorrette (soggettivamente) da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall’unico fine intenzionale di isolare il dipendente”.

Cassazione Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 1262 del 23/01/2015

“Per potersi parlare di mobbing è necessaria una pluralità di condotte ostili, protrattesi nel tempo, tese ad emarginare il singolo lavoratore. Per l’esattezza, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte affinché sia configurabile un mobbing devono ricorrere:

  • una serie di comportamenti di carattere persecutorio (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  • l’evento lesivo della salute, della personalità e/o della dignità del dipendente;
  • il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  • l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”.

 

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IL RISCHIO CHIMICO E LA RELAZIONE SULLA SICUREZZA CHIMICA

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

05 gennaio 2016

di Tiziano Menduto

 

Un intervento si sofferma sui regolamenti europei REACH e CLP in materia di sostanze chimiche. Focus sulla relazione sulla sicurezza chimica (CSR), sulla valutazione della sicurezza chimica (CSA) e sugli obblighi dell’utilizzatore a valle.

 

Proprio per la complessità della disciplina europea relativa alla sicurezza delle sostanze chimiche e, più in generale, della tutela dal rischio chimico nei luoghi di lavoro, torniamo spesso a presentare documenti in grado di approfondire e chiarire eventuali dubbi su questo tema.

Proprio sul rischio chimico si sono soffermati alcuni interventi ad un recente Convegno che si è tenuto a Imola il 3 novembre 2015 nell’ambito delle Settimane della Sicurezza 2015 organizzate dall’ Associazione Tavolo 81 Imola.

Stiamo parlando del convegno “Rischio chimico e amianto: facciamo il punto” in cui è stato possibile fornire alle aziende un quadro sul tema delle sostanze chimiche e materie prime, prodotti o semplicemente sostanze usate per il funzionamento di macchinari o processi dal punto di vista dei Regolamenti europei, della tutela dei lavoratori e con riferimento particolare agli ambienti sospetti di inquinamento e alla normativa correlata (D.Lgs.177/11).

Possiamo avere alcune indicazioni sul regolamento REACH e sul regolamento CLP (ricordando che dal primo giugno 2015 è diventato obbligatorio seguire il Regolamento CLP nella classificazione delle miscele) attraverso uno degli atti pubblicati sul proprio sito dall’Associazione Tavolo 81 Imola e relativo a un intervento di Bruno Marchesini (Chem-Consulting) sulle “Novità in materia di gestione dei prodotti chimici”.

Nell’intervento vengono presentati diversi aspetti sia del Regolamento 1907/06 (REACH) che del Regolamento 1272/08 (CLP).

Ad esempio si ricorda che il Regolamento REACH si basa sul principio che ai fabbricanti, agli importatori e agli utilizzatori a valle spetta l’obbligo di fabbricare, immettere sul mercato o utilizzare sostanze che non arrecano danno alla salute umana o all’ambiente.

In breve gli elementi chiave del Regolamento REACH sono:

  • registrazione: le sostanze fabbricate e importate nello SEE vengono registrate presso l’ECHA; l’informazione sull’uso sicuro vengono comunicate nella catena di approvvigionamento;
  • valutazione: esame delle proposte di test del registrante; verifica di conformità dei dossier, valutazione delle sostanze;
  • gestione del rischio: autorizzazione; restrizione; classificazione armonizzata.

L’intervento ricorda che, fatto salvo l’articolo 4 della Direttiva 98/24/CE (articolo 223 del D.Lgs.81/08), va effettuata una valutazione della sicurezza chimica e va compilata una relazione sulla sicurezza chimica per tutte le sostanze soggette a registrazione in forza del presente capo in quantitativi pari o superiori a 10 tonnellate all’anno per dichiarante.

Attenzione che, come già accennato, tale valutazione del rischio che deriva dagli obblighi del Regolamento REACH non è sostitutiva di quella che deve essere attuata ai sensi del D.Lgs.81/08.

La relazione sulla sicurezza chimica include dunque anche la valutazione della sicurezza chimica che deve contenere:

  • valutazione dei pericoli per la salute umana;
  • valutazione dei pericoli per la salute umana dovuti alle proprietà fisico-chimiche;
  • valutazione dei pericoli per l’ambiente;
  • valutazione PBT (Persistent, Bioaccumulative and Toxic) e VPVB (Very Persistent, Very Bioaccumulative).

La sostanza deve dunque essere valutata ancor prima di arrivare nell’ambiente di lavoro. E nel caso in cui si identifichi un pericolo (sostanza classificata pericolosa oppure PBT o VPVB), si deve procedere anche con:

  • l’individuazione degli scenari di esposizione e la relativa valutazione dell’esposizione;
  • la caratterizzazione del rischio.

E gli scenari di esposizione, valutazione e caratterizzazione dei rischi tengono conto di tutti gli usi identificati.

In definitiva la relazione sulla sicurezza chimica indica le misure di gestione del rischio che devono essere adottate. Tali misure, se del caso, devono essere indicate nelle Schede di Dati di Sicurezza (SDS).

Senza dimenticare che (come indicato dall’ Helpdesk Reach) l’utilizzatore a valle (persona fisica o giuridica diversa dal fabbricante e dall’importatore che utilizza una sostanza, in quanto tale o in quanto componente di una miscela, nell’esercizio delle sue attività industriali o professionali) deve:

  • informare il proprio fornitore su un uso quando la sostanza non è ancora registrata;
  • informare il proprio fornitore su un uso non contemplato nella SDS della sostanza registrata;
  • intraprendere azioni appropriate quando si riceve una SDS (individuare e mettere in atto misure adeguate per controllare i rischi derivanti dall’uso della particolare sostanza; comunicare al fornitore se le misure di gestione del rischio sono inadeguate o si rendano note nuove informazioni sui pericoli di una sostanza; verificare se gli scenari di esposizione allegati alla SDS coprano l’uso della sostanza e le condizioni d’uso e se l’uso non è coperto informare il fornitore);
  • comunicare informazioni riguardanti l’uso sicuro ai propri clienti mediante fornitura della propria SDS;
  • preparare una relazione sulla sicurezza chimica dell’utilizzatore a valle se il proprio uso non è coperto dalla SDS fornita.

La relazione ricorda poi in particolare che se l’utilizzatore finale utilizza la sostanza al di fuori dello scenario descritto dal suo fornitore e preferisce che tali utilizzi rimangono sconosciuti al fornitore, deve provvedere in proprio a redigere una relazione sulla sicurezza chimica (in questo caso la soglia quantitativa è di 1 ton/anno).

Tale obbligo decade se:

  • si tratta di una sostanza non pericolosa;
  • si tratta di casi in cui il produttore o importatore non deve eseguire la valutazione della sicurezza chimica (esenzioni);
  • si usa la sostanza o il preparato in quantitativi totali inferiori a 1 tonnellata all’anno;
  • se la sostanza è contenuta in un preparato a concentrazione inferiore a limiti definiti;
  • si usano misure di gestione del rischio più rigide di quelle raccomandate dal produttore/importatore;
  • se l’uso è nell’ambito delle attività di ricerca e sviluppo orientate ai prodotti e ai processi e il rischio è adeguatamente controllato.

Concludiamo ricordando che, a proposito degli obblighi degli utilizzatori finali la “Guida per gli utilizzatori a valle” fornisce suggerimenti per verificare se gli usi e le condizioni d’uso di una sostanza chimica sono coperti dagli scenari di esposizione delineati dai fornitori con la scheda di sicurezza. E la guida fornisce una panoramica dei principali compiti degli utilizzatori a valle per quanto riguarda gli scenari di esposizione in ambito REACH.

Il documento “Le novità in materia di gestione dei prodotti chimici”, a cura di Bruno Marchesini è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151214_gestione_prodotti_chimici.pdf

 

Il Regolamento (CE) n.1907/06 concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH) è scaricabile all’indirizzo:

http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2007:136:0003:0280:it:PDF

 

L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.241 DEL 22/01/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.

TAC e RM: una risoluzione per sensibilizzare i medici

Ogni volta che si prescrive una procedura diagnostica o interventistica che comporta il rischio da radiazioni ionizzanti è importante tenere in considerazione il rapporto tra rischi e benefici. È per questo che WONCA Italia (afferente all’omonima organizzazione internazionale dei medici di famiglia, al quale Direttivo partecipa anche ISDE Italia) ha approvato una risoluzione riguardante l’appropriatezza e l’applicazione del principio di giustificazione sulla quale intende sensibilizzare i medici italiani.


Solo il 56% degli esami radiologici eseguiti in Italia risulta pienamente appropriato e siamo tra i Paesi più forniti di impianti TC e RM: soltanto la Regione Puglia ha lo stesso numero di impianti di tutta l’Inghilterra. Esistono larghissimi margini di intervento per evitare la prescrizione di esami inutili o superflui che potrebbero comportare per il paziente rischi da radiazioni.
Il Coordinamento delle Società Scientifiche aderenti al WONCA ha chiesto alle società scientifiche della radiologia e al Ministero della Salute di collaborare in vista dell’applicazione della direttiva EURATOM del 2013, che dovrà essere applicata nel nostro Paese entro la fine di quest’anno. Questa sottolinea la comune responsabilità dei medici che prescrivono gli esami e dei medici e operatori della radiologia che li eseguono. Soltanto una forte collaborazione tra tutti i soggetti coinvolti e con le istituzioni preposte può favorire la corretta applicazione del principio di giustificazione e l’appropriatezza, a tutto vantaggio dei pazienti.
La risoluzione è stata inviata anche al Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin.
Leggi la risoluzione di WONCA Italia

L’articolo TAC e RM: una risoluzione per sensibilizzare i medici sembra essere il primo su ISDE.

Lettera al Ministro Lorenzin

On. Lorenzin,
Molti operatori della sanità, dai ricercatori ai volontari, si chiedono come sia accettabile che un’azienda a larga partecipazione statale quale è la RAI possa avallare la convinzione che senza Telethon non ci sia ricerca per le malattie rare.

Ci si meraviglia che fino ad ora Lei non abbia preso le difese dei ricercatori che si suppone non si occupino solo di ricerche che tornano utili alle ditte farmaceutiche, ma si dedichino, usando fondi pubblici, anche a ricerche degne di rilievo scientifico, pur se utili solo a pochi individui.

La RAI dovrebbe fornire agli italiani informazioni più equilibrate. Non è possibile che si calendarizzi solo il fascino della bontà, sotto forma di donazione, e non ci s’impegni maggiormente nell’attivare l’attenzione verso l’educazione al bene comune, verso l’impegno che il Suo Ministero deve porre nei confronti di tutti i malati affetti da qualunque tipo di malattia.

Il nostro disagio è certamente anche il Suo. Tutti devono avere il diritto di donare ciò che ritengono opportuno a chicchessia; altro è sostituirsi al compito precipuo dello Stato. Le chiediamo pertanto che con la Sua autorevole voce rivaluti il ruolo della ricerca con fondi pubblici, che opera in modo scevro da interessi privati perché ciascun malato abbia pari dignità e pari diritto a trattamenti che agevolino la vita.

Grazie per l’attenzione.

Per gli associati e le associate a NoGrazie (http://www.nograzie.eu/)

Adriano Cattaneo

17 Gennaio 2016

 

Sprechi alimentari: a che punto siamo?

Acquistare merci che verranno presto buttate è uno degli effetti più eclatanti del consumismo. Siamo così abituati a possedere e a poter avere sempre di più, che raramente ci accorgiamo di quanto sprechiamo le risorse. Sappiano bene che le risorse del mondo sono limitate, eppure per molte persone questo non appare come un problema.

La FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, stima che nel mondo circa un terzo del cibo prodotto per il consumo umano venga buttato, corrispondente a circa 1.3 miliardi di tonnellate all’anno[i], e circa 800 milioni di persone risultano cronicamente sottonutrite[ii][iii].

Le perdite alimentari non sono solo un danno dal punto di vista della nutrizione mondiale, ma implicano corrispondenti sprechi delle risorse usate per la produzione: terreno, acqua, energia, incrementando le emissioni dei gas serra[iv],[v].

Il cibo si perde o spreca in più passaggi, durante la produzione agricola, la raccolta, la processazione industriale, la distribuzione, fino ad arrivare al consumatore finale[vi].

In Italia circa il 3% della produzione agricola rimane nei campi, ovvero circa 1.5 milioni di tonnellate. Nella trasformazione industriale si perderebbero altri 2 milioni di tonnellate e circa 300 mila tonnellate verrebbero sprecate nella distribuzione[vii]. Lo spreco domestico pro-capite si attesterebbe a circa 2,5 kg di cibo gettati ogni mese, per un costo di circa 32 euro al mese.

Recentemente abbiamo letto che in Francia è stata approvata una legge che costringerà i supermercati a donare il cibo invenduto in beneficenza[viii]. In Italia gli sprechi alimentari legati alla grande distribuzione sembrano essere in diminuzioni, grazie ad alcune iniziative come quella del Banco Alimentare[ix] o la vendita scontata dei prodotti in scadenza a fine giornata[x],[xi],[xii].

Il Ministero dell’Ambiente ha proposto una semplificazione normativa per quanto riguarda la donazione degli alimenti invenduti[xiii] ma ad oggi non sembra prevista una legge che, come avviene in Francia, la renda obbligatoria. Da qualche mese Avaaz  promuove una petizione che lo richiede[xiv].

In Italia, come nel resto del mondo, vi anche è il grosso problema della frutta e la verdura scartate dai supermercati per questioni estetiche, imponendo standard su taglia, forma e colore accettati, indipendentemente dai valori nutritivi, il gusto e la qualità del prodotto[xv].

Una possibile soluzione a questo è stata applicata Francia, dove una catena di supermercati ha iniziato a vendere la frutta e verdura di qualità ma non esteticamente bella a prezzi scontati del 30%[xvi], iniziative simili sono state portate avanti in altri paesi europei e negli USA[xvii].

Non sarebbe ora di prendere esempio?

Per quanto riguarda lo spreco domestico, cosa possiamo impegnarci a fare noi?

L’Unione Europea ci suggerisce 10 semplici passi per limitare gli sprechi[xviii].

Programmare la spesa per la settimana in base agli alimenti presenti nel frigo.

  1. Scrivere una lista dettagliata di cosa manca ed in quale quantità. Prediligere alimenti sfusi in modo da poterne acquistare esattamente la quantità necessaria.
  2. Verificare le date di scadenza.
    Ricordare che in caso di dicitura “da consumare preferibilmente entro” si parla di prodotti che garantiscono inalterato il proprio valore nutrizionale se consumati entro la data segnalata e successivamente le loro caratteristiche potrebbero venire alterate o compromesse. Se il prodotto è visivamente ed olfattivamente ancora buono, può essere consumato anche qualche giorno dopo la data scritta. La dicitura “da consumare entro”, invece, riguarda gli alimenti maggiormente deperibili (latte fresco, uova, yogurt, ricotta, …) . Il termine è rigido, perché il suo superamento potrebbe aver ripercussioni sulla salute. In alcuni casi è possibile una certa tolleranza, a patto che il prodotto sia stato conservato correttamente[xix].
  3. Considerare il proprio budget: sprecare cibo significa anche sprecare soldi
  4. Mantienere il frigo alla giusta temperatura, generalmente attorno ai 4°C
  5. Conservare il cibo conformemente a quanto scritto sull’involucro e in base alle esigenze dei diversi tipi di alimenti[xx],[xxi],[xxii].
  6. Cambiare la posizione degli alimenti in base alla data di acquisto (o autoproduzione).
    Portate gli alimenti più vecchi davanti e riponete quelli nuovi o a scadenza più lontana dietro, in modo da consumare prima quelli più vecchi o con scadenza più ravvicinata.
  7. Servire porzioni non abbondanti di cibo, in modo da evitare sprechi nel piatto. Ci sarà sempre tempo per un bis quando il piatto sarà vuoto!
  8. Usare gli avanzi! Invece di esser buttati nel cestino, gli avanzi possono essere usati il giorno seguente o congelati per un’altra occasione.La frutta che inizia ad ammollarsi può essere usata per fare frullati o torte. Le verdure vecchie possono essere usate per brodi o zuppe. Sul web si possono trovare molte ricette interessanti con gli scarti di frutta e verdura[xxiii].
  9. Congelare.
    Se si mangio poco pane si può congelarne dei pezzi e prenderli successivamente quando ce ne sarà bisogno.
    Molti alimenti già cotti possono essere surgelati in previsione delle volte in cui non si abbia voglia di cucinare.
    Inoltre la verdura fresca non acquosa può essere congelata, meglio dopo esser stata sbollentata. Si può per esempio preparare dei sacchetti per il minestrone tagliando la verdura sbollentata a cubetti.
  10. Convertire gli scarti in compost.
    Ovviamente non è sempre possibile recuperare tutto, soprattutto le bucce ed altri scarti alimentari. Però si può preparare del compost per le piante con una compostiera domestica, eventualmente fai da te[xxiv].

 

Noi aggiungeremmo anche

11.  Quando si va a mangiar fuori, ordinare solo ciò che si pensa di poter consumare. Se proprio non si riesce a finire tutto, si può domandare al ristoratore se sia possibile portar via gli avanzi. Sempre più ristoranti sono attrezzati per farlo, per cui chiedete pure senza imbarazzo!

Questi sono solo alcuni spunti per iniziare a rimboccarci le maniche.

Combattiamo anche noi gli sprechi alimentari!

 

Selene Bianco, circolo MDF di Torino

 



SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.240 DEL 18/01/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.240 DEL 18/01/16

 

INDICE

  • I pareri della Commissione degli Interpelli – N.5
  • Lavoro agile, tanto “agile” da essere volatile e insicuro per la salute e sicurezza
  • Jobs Act, la legge dell’insicurezza
  • Rischio fumo di tabacco: la politica aziendale
  • Macchine agricole: le scadenze della revisione e della formazione
  • L’esorbitanza nel comportamento del lavoratore infortunato

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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I PARERI DELLA COMMISSIONE DEGLI INTERPELLI – N.5

 

L’articolo 12 del D.Lgs.81/08 (Testo Unico sulla sicurezza) ha previsto la costituzione della Commissione degli Interpelli, composta da rappresentanti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del Ministero della salute, della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome con lo scopo di rispondere a “quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro” posti da Organismi associativi, Enti pubblici, Organizzazioni sindacali dei datori di Lavoro e dei lavoratori, Consigli nazionali degli ordini.

La Commissione degli Interpelli è stata effettivamente costituita con Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 28 settembre 2011.

Secondo il comma 3 dell’articolo 12 del D.Lgs.81/08 “Le indicazioni fornite nelle risposte ai quesiti di cui al comma 1 [quelli posti alla Commissione] costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza”.

Riporto pertanto in una nuova rubrica della mia newsletter tali pareri con il link per scaricare il testo completo del quesito e del parere della Commissione.

Marco Spezia

 

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IDONEITA’ TECNICO PROFESSIONALE DEI LAVORATORI AUTONOMI NELL’AMBITO DEL TITOLO IV DEL D.LGS. 81/2008

Interpello in materia di sicurezza n.7 del 2 maggio 2013

 

RICHIEDENTE

ANCE – Associazione Nazionale Costruttori Edili

 

QUESITO

L’ANCE, Associazione Nazionale Costruttori Edili, ha avanzato istanza d’interpello per conoscere il parere della Commissione relativamente alla corretta interpretazione di quanto riportato nell’allegato XVII comma 2, lettera d) del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni, con particolare riferimento alla documentazione minima che i lavoratori autonomi devono esibire al committente o al responsabile dei lavori ai fini della dimostrazione della idoneità tecnico professionale prevista per operare in un cantiere temporaneo o mobile cosi come definito nell’articolo 89 del D.Lgs.81/08.

 

CHIARIMENTO

Al riguardo va premesso che gli obblighi in materia di salute e sicurezza di un lavoratore autonomo sono in via generale riportati nell’articolo 21 del D.Lgs.81/08 e, con specifico riferimento al “cantiere temporaneo o mobile”, nell’articolo 94 del medesimo provvedimento.

In particolare, il primo comma dell’articolo 21, citato, identifica gli obblighi del lavoratore autonomo nell’utilizzo di attrezzature di lavoro e Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) in modo conforme “alle disposizioni di cui al Titolo III” (lettere a e b), e del munirsi di “tessera di riconoscimento” (lettera c).

L’articolo 21, comma 2, citato, prevede inoltre che i lavoratori autonomi, relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico hanno pure facoltà di:

  1. beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’articolo 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali;
  2. partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’articolo 37, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali.

Il Legislatore, nel rispetto dei principi e criteri direttivi generali contenuti nell’articolo 1 della Legge 3 agosto 2007, n.123, che prevedevano “adeguate e specifiche misure di tutela per i lavoratori autonomi, in relazione ai rischi propri delle attività svolte e secondo i principi della raccomandazione 2003/134/CE del Consiglio, del 18 febbraio 2003” ha introdotto non uno specifico obbligo ma una facoltà di “beneficiare della sorveglianza sanitaria” e di “partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro”.

Ai fini delta verifica dell’idoneità tecnico professionale di un lavoratore autonomo destinato a operare in un cantiere temporaneo o mobile, il Legislatore nell’allegato XVII, comma 2, lettera d) del D.Lgs.81/08 aveva previsto che il lavoratore autonomo dovesse esibire gli “attestati inerenti la propria formazione e la relativa idoneità sanitaria previsti dal presente Decreto Legislativo”.

Questa formulazione aveva creato notevoli difficoltà in quanto sembrava che quella “facoltà” di “beneficiare della sorveglianza sanitaria” e di “partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro diventasse invece, per un lavoratore autonomo, un obbligo necessario per dimostrare la propria idoneità tecnico professionale per operare in un cantiere temporaneo o mobile”.

Con la modifica introdotta con il D.Lgs.106/09, espressamente richiesta dalle parti sociali, il lavoratore autonomo deve esibire al committente o al responsabile dei lavori o, in caso di subappalto, al Datore di Lavoro dell’impresa affidataria gli “attestati inerenti la propria formazione e la relativa idoneità sanitaria ove espressamente previsti dal presente Decreto Legislativo”.

La modifica introdotta con il D.Lgs.106/09, all’allegato XVII, citata e volta a rilevare la non obbligatorietà della formazione e della sorveglianza sanitaria per i lavoratori autonomi tranne che le stesse non siano espressamente previste da disposizioni speciali anche di attuazione del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni.

Tale concetto, peraltro, è stato ribadito nel documento della Conferenza Stato-Regioni “Adeguamento e linee applicative degli accordi ex articolo 34, comma 2, e 37, comma 2 del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni”, in cui a stato specificato che le previsioni di cui all’accordo ex articolo 37 del “testo unico” di salute e sicurezza sulla formazione di lavoratori, dirigenti e preposti, non hanno efficacia obbligatoria, ma sono dirette a fornire ai lavoratori autonomi utile parametro di riferimento per la formazione. La medesima fonte rimarca che è altresì obbligatoria altra formazione rispetto a quella oggetto di regolamentazione da parte dell’accordo ex articolo 37 qualora quest’ultima sia disciplinata da disposizioni di legge speciali rispetto alla previsione generale riportata all’articolo 21, comma 2 (e ad esempio il caso della formazione necessaria per effettuare lavori in ambienti confinati obbligatoria anche per i lavoratori autonomi, ai sensi del D.P.R.177/11) del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni.

Pertanto un committente o un’impresa affidataria, in fase di verifica dell’idoneità tecnico professionale del lavoratore autonomo, è tenuto a verificare il possesso della documentazione, di cui all’allegato XVII da parte del lavoratore autonomo, ma non anche ad esigere, al medesimo, l’esibizione degli attestanti inerenti la propria formazione e l’idoneità sanitaria.

Di conseguenza, risulta legittimo sia l’affidamento di lavori al lavoratore autonomo in possesso di documentazione inerente la formazione e l’idoneità sanitaria sia l’affidamento di lavori al lavoratore autonomo privo dei predetti requisiti.

Resta fermo per il committente la facoltà di richiedere al lavoratore autonomo ulteriori requisiti rispetto a quelli minimi individuati dall’allegato XVII, anche qualora essi consistano nel possesso della documentazione appena citata.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.7 del 2 maggio 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.07.pdf

 

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ARTICOLO 41, COMMA 2 DEL D.LGS.81/08 E VISITA MEDICA PREVENTIVA

Interpello in materia di sicurezza n.8 del 24 ottobre 2013

 

RICHIEDENTE

Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro

 

QUESITO

Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, su proposta del Consiglio provinciale di Palermo, ha inoltrato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito alla corretta interpretazione dell’articolo 41, comma 2 del D.Lgs.81/08.

In particolare l’istante chiede di sapere “se la previsione di visita medica preventiva di cui all’ articolo 41, comma 2, lettera a) del Decreto debba ritenersi dovere operare ogni qualvolta il datore di lavoro provvede a effettuare l’assunzione del lavoratore o se nel caso in cui vi siano assunzioni dello stesso lavoratore successive a una interruzione del rapporto di lavoro, per mansioni uguali o sostanzialmente collegate alto stesso rischio, per il quale sia trascorso un termine breve e comunque entro la periodicità prevista dal medico competente per la visita successiva non necessita una nuova visita preventiva”.

 

CHIARIMENTO

Al riguardo si osserva che ]a sorveglianza sanitaria, disciplinata dall’articolo 41 del D.Lgs.81/08, è effettuata dal medico competente nei casi previsti dalla normativa vigente.

In particolare l’articolo 41, comma 2, lettera a) del D.Lgs.81/08 prevede una visita medica preventiva con l’obiettivo di “constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato, al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica”.

Il successivo comma prevede una “visita medica periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica la cui periodicità, qualora non prevista dalla relativa normativa, viene stabilita, di norma, in una volta l ‘anno”.

Tutto ciò premesso la Commissione ritiene che, nel caso di assunzioni successive, qualora il lavoratore sia impiegato in mansioni che lo espongono allo stesso rischio nel corso del periodo di validità della visita preventiva o della visita periodica di cui all’articolo 41, comma 2, lettera b) del D.Lgs.81/08 e comunque per un periodo non superiore ad un anno, il datore di lavoro non è tenuto ad effettuare una nuova visita preventiva, in quanto la situazione sanitaria del lavoratore risulta conosciuta dal medico competente.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.8 del 24 ottobre 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.08.pdf

 

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IMPRESE FAMILIARI

Interpello in materia di sicurezza n.9 del 24 ottobre 2013

 

RICHIEDENTE

CNA – Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e media impresa

 

QUESITO

La Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa ha inoltrato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito alla applicazione del D.Lgs.81/08 alla “impresa familiare di fatto (ai sensi dell’articolo 230 bis del Codice Civile) che opera con collaboratori senza essersi costituita con atto espresso: atto notarile dichiarativo”.

 

CHIARIMENTO

Al riguardo va premesso che l’articolo 230 bis del Codice Civile prevede che “salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato […]”.

Pertanto, il legislatore ha voluto introdurre una figura di impresa familiare fondata sulla “solidarietà familiare” e non su un rapporto contrattuale.

Tutto ciò premesso, la Commissione fornisce le seguenti indicazioni.

La Commissione ritiene sia possibile costituire, ai sensi dell’articolo 230 bis del Codice Civile, un’impresa familiare senza la necessità di uno specifico atto notarile.

E opportuno sottolineare che ai fini dell’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, alle imprese familiari si applica l’articolo 21 del D.Lgs.81/08 e successive modifiche e integrazioni.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.9 del 24 ottobre 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.09.pdf

 

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FORMAZIONE ADDETTI EMERGENZA

Interpello in materia di sicurezza n.10 del 24 ottobre 2013

 

RICHIEDENTE

Consiglio Nazionale degli Ingegneri

 

QUESITO

Il Consiglio Nazionale degli Ingegneri ha avanzato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito ai corsi tenuti dagli ingegneri abilitati ai sensi della Legge n.818/84. In particolare chiedono di sapere se il suddetto professionista sia:

  • adeguatamente titolato, agli effetti del D.M.10/03/98, quale soggetto formatore per gli addetti alle aziende valutate a rischio media e basso;
  • sia abilitato al rilascio di attestati di frequenza per gli stessi corsi e se tali attestati siano validi agli effetti della documentazione e della formazione obbligatoria prevista nel D.Lgs.81/08.

 

CHIARIMENTO

Il D.M.10/03/98 non prevede né requisiti specifici né titoli ai fini dell’idoneità del soggetto formatore per gli addetti all’emergenza. I soggetti formatori devono possedere competenza nella materia antincendio.

Pertanto si ritiene che gli ingegneri, abilitati ai sensi della Legge n.818/84, possano svolgere i corsi per addetti all’emergenza e, quindi, rilasciare i relativi attestati di frequenza. Inoltre si sottolinea come, per le aziende individuate dall’allegato X del Decreto, “i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle emergenze”, debbano conseguire “l’attestato di idoneità tecnica di cui all’articolo 3 della Legge n.609/96”.

Infine la Commissione ritiene validi ai fini della formazione prevista dall’articolo 37, comma 9 del D.Lgs.81/08 i suddetti attestati.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.10 del 24 ottobre 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.10.pdf

 

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ACCORDO STATO-REGIONI DEL 21 DICEMBRE 2011

Interpello in materia di sicurezza n.11 del 24 ottobre 2013

 

RICHIEDENTE

Federambiente

 

QUESITO

La Federazione Italiana Servizi Pubblici Igiene Ambientale (Federambiente) ha avanzato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito all’Accordo Stato Regioni del 21/12/11 relativo alle modalità di svolgimento della formazione dei lavoratori, ai sensi dell’articolo 37, comma 2 del D.Lgs.81/08.

In particolare l’interpellante chiede di conoscere se la durata e i contenuti della formazione dei lavoratori possa prescindere dall’appartenenza a uno specifico settore Ateco e possa essere tarata sulla effettiva condizione di rischio che si rileva, per ciascuna attività lavorativa, a valle del processo di valutazione.

 

CHIARIMENTO

L’Accordo Stato Regioni del 21/12/11 disciplina la durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione, nonché l’aggiornamento dei lavoratori, ai sensi dell’articolo 37, comma 2 del D.Lgs.81/08. La suddetta formazione, come esplicitato nella premessa dell’Accordo in parola, da erogare al lavoratore e, per quanto facoltativa nell’articolazione, ai dirigenti e ai preposti, costituisce un percorso minimo da organizzare e integrare sulla base delle risultanze della valutazione dei rischi.

L’Accordo Stato Regioni del 25/07/12, concernente le linee guida applicative e integrative dell’Accordo Stato Regioni del 21/12/11, chiarisce che la classificazione dei lavoratori, “può essere fatta anche tenendo conto delle attività concretamente svolte dai soggetti medesimi, avendo a riferimento quanto nella valutazione dei rischi”.

Tutto ciò premesso la Commissione fornisce le seguenti indicazioni.

L’articolo 37, comma 1 del D.Lgs.81/2008, prevede che “il datore di lavoro assicura che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento ai […] rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda”.

Alla luce delle vigenti disposizioni normative e in particolare sulla base di quanto indicato negli Accordi Stato-Regioni citati in premessa, la formazione (che deve essere “sufficiente e adeguata”) va riferita all’effettiva mansione svolta dal lavoratore, considerata in sede di valutazione dei rischi; pertanto la durata del corso può prescindere dal codice Ateco di appartenenza dell’azienda.

 

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.11 del 24 ottobre 2013 è scaricabile al link:

http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2015/03/is-2013.11.pdf

 

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LAVORO AGILE, TANTO “AGILE” DA ESSERE VOLATILE E INSICURO PER LA SALUTE E SICUREZZA

 

Da: Diario Prevenzione

http://www.diario-prevenzione.it

sabato 16 gennaio 2016

 

Abbondano i disegni di legge per dare una parvenza di “legalità” alle forme di lavoro “precario” con la sostituzione delle parole che lo definiscono.

Da “precario” il lavoro diviene “agile”, e in alcune accezioni diviene addirittura “smart” dove di “smart” per il lavoratore vi è molto poco.

Tutto diviene indefinito, la cosiddetta cornice costruita per dare una parvenza di “legalità” per alcuni elementi diviene risibile rispetto, ad esempio, alle norme per la gestione della sicurezza sul lavoro.

 

Abbiamo tra le mani un ibrido che sta tra il regolamento aziendale tipo e un contratto commerciale ove il lavoratore è un fornitore in una relazione di potere sbilanciata. L’aspetto della prestazione è affidato al contratto individuale tra lavoratore e impresa, in una condizione di totale subalternità del lavoratore.

 

Orari, tempi di lavoro, aspetti gestionali sono consegnati alla trattativa individuale tra lavoratore e impresa. Abusi, truffe e compensi non pagati in ragione di contestazione della qualità della prestazione erogata dal lavoratore saranno possibili e numerosi in quanto le clausole contro gli abusi riguardano solo gli aspetti formali del contratto.

Il “dominus” è l’azienda committente “versus” il lavoratore che è monade isolata e debole.

Non esiste nessun accenno che richiami l’ergonomicità delle attrezzature fornite dal committente o proprie del lavoratore. Per fare un esempio i lavoratori “agili” del call center potranno operare con cuffie da tre soldi, apparecchiature di bassa qualità…

Non parliamo poi della prevenzione dello stress lavoro correlato totalmente ignorata in quanto il lavoro “agile” non sarebbe stressante per definizione…

 

I commi 2 e 3 dell’articolo 6 del Disegno di Legge sul “Lavoro agile” sono emblematici dell’assenza di tutela della salute di questi lavoratori.

Il Parlamento dovrà discutere seriamente prima di licenziare questo pericoloso pastrocchio ove di “agile” vi è solo l’amabile disinvoltura a evitare di affrontare la complessità dei problemi che questa tipologia di lavoro produrrà nel mercato del lavoro.

La pericolosità sta nella diffusione di un rapporto di lavoro di natura altamente subordinata spacciato come rapporto di lavoro autonomo “leggero” e senza rischi per la salute. La sua “pericolosità sociale” è pari solo a quella generata dai “Voucher”.

 

L’articolo 6 “Sicurezza sul lavoro” del Disegno di Legge sul “Lavoro agile” riporta quanto segue:

Il datore di lavoro deve garantire la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile.

Al fine di dare attuazione all’obbligazione di sicurezza, e tenuto conto dell’impossibilità di controllare i luoghi di svolgimento della prestazione lavorativa, il datore di lavoro deve consegnare una informativa periodica, con cadenza almeno annuale, nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alle modalità di svolgimento della prestazione.

Il lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile, per i periodi nei quali si trova al di fuori dei locali aziendali, deve cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro”.

 

La bozza del Disegno di Legge sul “Lavoro agile” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.diario-prevenzione.it/ddl/DDL-lavoro-autonomo-e-lavoro-agile-1%20%281%29%281%29.pdf

 

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JOBS ACT, LA LEGGE DELL’INSICUREZZA

 

Da: Rassegna.it

http://www.rassegna.it

15 gennaio 2016

 

Abolizione del Registro infortuni, riduzione dei componenti sindacali in Commissione consultiva, non applicazione delle tutele ai lavoratori con i voucher: questi i punti più controversi, che porteranno all’aumento di infortuni e malattie professionali

 

Non verrà certo meno nei prossimi mesi (e forse anni) l’esigenza da parte della CGIL di approfondire e soppesare gli effetti concreti che il Jobs Act (articolato finora in otto Decreti) dispiegherà nel prossimo futuro, soprattutto in materia di salute, sicurezza e prevenzione per i lavoratori e le lavoratrici.

Occorre dire subito, però, che non solo le misure specifiche dell’articolo 20 del D.Lgs.151/15 (cosiddetto “Decreto semplificazione”) e del Decreto riguardante le attività ispettive avranno un effetto sulle condizioni di vita e di lavoro nel nostro paese.

 

La norma sul demansionamento ad esempio, che abbiamo giudicato molto negativamente, oltre ad avere permesso alle aziende azioni finora non possibili, ha anche introdotto il concetto della “non obbligatorietà” della formazione specifica alla mansione prima del cambio della mansione stessa.

Può sembrare un dettaglio, ma non lo è. Cosa succede, in concreto, quando un lavoratore viene immediatamente adibito a un compito del quale non conosce i rischi specifici e le relative misure di prevenzione da adottare? Succede che l’incidenza di infortuni e malattie professionali aumenta, e aumenterà nei prossimi anni, per un’intrinseca falla che si crea nel sistema di prevenzione e protezione aziendale.

 

Come non pensare anche alla questione della sorveglianza elettronica (o classicamente “videosorveglianza”), che assegna al datore di lavoro la possibilità del controllo attraverso apparecchiature specificamente fornite per l’espletamento della prestazione lavorativa (come smartphone, tablet, personal computer), senza alcuna negoziazione con le rappresentanze sindacali o altro?

Oltre ai noti e sollevati problemi di privacy, è evidente come l’eventuale uso disciplinare o discriminatorio dei dati provenienti da questo tipo di controllo solleverà molti contenziosi, non aiutando certo il clima di benessere organizzativo necessario al nostro tessuto produttivo e aziendale.

 

Le misure contenute, infine, nel Decreto che istituisce l’Ispettorato nazionale per l’attività ispettiva, lasciano aperti molti problemi: il coordinamento sarà limitato ai soli Ministero del Lavoro, INPS e INAIL, o si realizzerà il famoso e auspicato coordinamento con il sistema di Regioni e ASL?

E le funzioni del cosiddetto “Ispettore unico”, la sua dote formativa e strumentale, quando vedranno la luce? Sono ancora molti, quindi, gli aspetti non chiariti da questo intervento di riforma che ha bisogno di decretazione attuativa per essere pienamente giudicato. Bisognerà dunque lavorarci sopra come Confederazione e come categorie, per far sì che, nelle possibilità concrete, esso possa rappresentare un reale elemento di avanzamento.

 

Ma torniamo all’articolo 20 del Decreto “semplificazioni”, che riguarda direttamente le materie di salute e sicurezza. Il primo problema evidente a chi legge (e a chi ha seguito la nostra campagna contraria, sfociata anche in un avviso comune, unitario con Confindustria, avverso al provvedimento) è la riduzione dei componenti della Commissione consultiva permanente (ex articolo 6 del D.Lgs.81/08) di espressione delle parti sociali, con l’introduzione al loro posto di componenti espressione del mondo associazionistico e tecnico professionale.

E’ evidente a chiunque abbia un po’ di discernimento e buona fede che in questo modo la “governance” della Commissione viene mutata con la modifica dei numeri necessari per l’espressione del parere, violando il principio del “tripartitismo” cui è informata la legislazione italiana ed europea in materia di salute e sicurezza. Il giusto ruolo delle parti sociali, a questo punto soccombente con la nuova disciplina rispetto alla parte di Stato e Regioni, è invece importantissimo e centrale per la trattazione di problemi che le suddette organizzazioni risolvono o tentano di risolvere ogni giorno nei posti di lavoro (reali e fisici) di questo paese. Ma la vulgata imperante rispetto alla “pletoricità” della Commissione stessa e al ruolo non più “utile” o “necessario” dei corpi intermedi all’interno della dinamica sociale e politica, ha deciso altro.

 

Gli altri due aspetti assolutamente negativi contenuti nel Decreto (rispetto ai quali come CGIL stiamo pensando a ricorsi di tipo giuridico in sede sia europea sia italiana), sono quelli relativi ai lavoratori retribuiti attraverso i voucher e all’abolizione del Registro infortuni.

Per i primi si prevede la non applicazione delle tutele relative alla prevenzione previste dal D.Lgs.81/08, se questi non prestano la propria opera nei confronti di un’impresa o di un professionista.

Ci si dimentica però che questa forma di lavoro, nata per regolamentare in qualche modo il lavoro accessorio e occasionale, riconducendolo nell’ambito della regolarità, è subito diventata una dilagante forma di precarietà: è evidente, dunque, la discriminatorietà della norma in questione nei confronti di centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici.

 

Altro punto negativo è quello dell’abolizione dell’obbligatorietà della tenuta del Registro infortuni, che doveva essere una misura collaterale al famoso Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione (SINP), sistema peraltro mai partito né deliberato dai governi dal 2008 a oggi.

La misura è del tutto favorevole a quelle aziende scorrette che non gradiscono che si tenga traccia di quanto succede all’interno dei loro luoghi di lavoro, che non gradiscono “intrusioni” da parte degli organi di vigilanza. E pensare, invece, che proprio la legislazione europea e la Direttiva relativa a queste materie prevedono che le aziende sono tenute ad adottare una simile forma di registro, che tracci gli accadimenti e sia a disposizione delle autorità e delle rappresentanza sindacali aziendali e territoriali.

 

Solo un accenno, in conclusione, a un’ulteriore questione la cui interpretazione è ancora controversa, ovvero l’abolizione dell’obbligo di comunicazione degli infortuni con una prognosi sotto i 30 giorni da parte del datore di lavoro, sostituita da una comunicazione da parte dell’INAIL. Oltre alle evidenti conseguenze di opacità e problematicità che la norma comporterebbe (fra cui la mancata comunicazione automatica all’autorità giudiziaria), la farraginosità della misura assegna all’INAIL un ruolo molto rilevante e anche rischioso.

 

Sebastiano Calleri

Responsabile nazionale Salute e Sicurezza CGIL

 

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RISCHIO FUMO DI TABACCO: LA POLITICA AZIENDALE

 

Da: PuntoSicuro

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4 gennaio 2016

 

L’approccio gestionale del fumo di tabacco è il modo concreto di trattare questo rischio per i lavoratori: conseguenze, vantaggi e svantaggi, le attività di promozione della salute.

 

In azienda è opportuno che il fumo di tabacco venga considerato attentamente sia per l’applicazione del divieto che per la valutazione del rischio globale. L’approccio gestionale del fumo di tabacco è il modo concreto di trattare un rischio per la salute in maniera efficace anche in azienda, offrendo ai lavoratori informazione e consulenza sull’argomento al fine di proteggerli dal fumo passivo, proponendo la disassuefazione ai fumatori attivi e cercando di evitare l’iniziazione al fumo dei non fumatori.

La presenza di lavoratori fumatori può comportare per l’azienda:

  • maggiori assenze per malattia;
  • aumento di incidenti e infortuni;
  • contrasti con i colleghi non fumatori;
  • possibile interazione fra i prodotti del fumo di tabacco e i fattori di rischio occupazionale, con maggiore probabilità di insorgenza di patologie.

 

Una gestione aziendale mirata al fumo di tabacco può determinare per tutti i lavoratori i seguenti vantaggi:

  • miglioramento delle condizioni di salute;
  • miglioramento delle relazioni con i colleghi (benessere personale e di gruppo);
  • miglioramento dell’ambiente di lavoro;
  • promozione della salute.

L’azienda può limitarsi all’applicazione di un piano che preveda il solo rispetto del divieto oppure può creare uno strumento di promozione della salute.

Nel primo caso il progetto sarà improntato per diffondere informazioni ai dipendenti sul rispetto della normativa, i divieti, le sanzioni, l’informazione sui danni da fumo attivo e passivo e avrà come obiettivo la difesa dei lavoratori dal fumo passivo.

Nel secondo caso potrà essere attivato un vero e proprio percorso di promozione della salute dedicato ai fumatori.

Il progetto di promozione della salute, oltre al rispetto della normativa sul posto di lavoro per la tutela dei non fumatori, si prefigge anche l’intento di aiutare i fumatori presenti in azienda a smettere, coinvolgendo il Medico Competente (ove previsto dalla normativa vigente), le ASL, i centri territoriali antifumo, il personale, sanitario e non, che possa essere di aiuto e supporto al fumatore che decida di smettere.

La politica aziendale deve essere strutturata in modo da fornire adeguata informazione ai lavoratori, sostegno costante e indicazioni sui soggetti e le strutture cui rivolgersi.

 

A questo fine appare essenziale:

  • costituire un Gruppo di lavoro aziendale con la partecipazione dei lavoratori;
  • valutare la situazione esistente nella propria azienda (sopralluoghi, questionari, ecc.);
  • scegliere fra divieto assoluto o parziale (zone per fumatori);
  • definire obiettivi (divieto o promozione della salute) e piano d’azione;
  • redigere il regolamento (regole, divieti, luoghi dove poter fumare, referenti, sanzioni, ecc.);
  • comunicare a tutti la politica aziendale (cartelli, incontri, ecc.);
  • offrire programmi per smettere di fumare (interni o esterni all’azienda);
  • monitorare l’attuazione del progetto (punti critici);
  • valutare i risultati a breve e lungo termine (6 – 12 mesi)
  • riproporre periodicamente il progetto.

Il Gruppo di lavoro, istituito dalla direzione aziendale, dovrebbe essere costituito da rappresentanti dei diversi settori (reparti, manutenzione, personale, ufficio tecnico, economato, ecc.), dal Medico Competente (ove previsto), dal Responsabile o da un Addetto del Servizio di Prevenzione e Protezione, dal Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, da lavoratori volontari ed eventualmente da rappresentanti dei servizi territoriali (ASL).

All’interno del gruppo dovrebbe essere nominato un referente con il compito di curare i rapporti con la direzione aziendale nelle varie fasi del progetto.

Sarebbe importante definire dei ruoli che possano persistere anche nel caso di cessazione degli incarichi.

 

Prima di stendere il progetto dovrebbe essere valutata la situazione presente in azienda riguardo l’abitudine al fumo di tabacco (presenza di fumatori, contrasti con i non fumatori, aree esterne per fumare, ecc.) e il rispetto del divieto.

L’opinione dei lavoratori potrebbe essere raccolta tramite la formulazione di un questionario da distribuire via mail o con il cedolino dello stipendio. Lo stesso potrebbe essere fatto periodicamente durante la realizzazione del progetto per verificare gli effetti della politica antifumo. Un’azione di propaganda sul progetto dovrebbe essere effettuata tramite gli stessi mezzi e con poster e dépliant illustrativi appositamente predisposti e collocati nelle varie strutture aziendali.

Il documento dell’INAIL “La gestione del fumo di tabacco in azienda” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/intranet/documents/document/ucm_201604.pdf

 

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MACCHINE AGRICOLE: LE SCADENZE DELLA REVISIONE E DELLA FORMAZIONE

 

Da: PuntoSicuro

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4 gennaio 2016

 

Un intervento si sofferma sulle novità normative nel comparto agricolo. La rete per il lavoro di qualità, la revisione delle macchine agricole e la formazione degli operatori. La scadenza del 31 dicembre 2015 per la revisione e l’abilitazione.

 

Nel nostro paese agricoltura e selvicoltura sono settori ad alto numero di infortuni. E se il nostro paese è caratterizzato dal grande impegno nell’ambito della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, i risultati in questi settori continuano ad essere altalenanti malgrado la buona qualità della legislazione e dalla grande competenza e passione degli operatori.

Ad affermarlo, intervenendo al Convegno “Salute e sicurezza in agricoltura e selvicoltura. Le prospettive. Il piano 2014-2018” che si è tenuto l’8 settembre 2015 a Lodi, è la senatrice Maria Grazia Gatti, componente della Commissione Agricoltura del Senato della Repubblica.

La senatrice è intervenuta nel Convegno, organizzato dall’ASL di Lodi, su due aspetti: la costituzione della rete per il lavoro agricolo di qualità e la Risoluzione in Commissione Agricoltura del Senato relativa alla revisione delle macchine agricole e alla formazione degli operatori votata prima della successiva emanazione del Decreto Ministeriale del 20 maggio 2015.

L’intervento ricorda che la rete per il lavoro agricolo di qualità (la cui cabina di regia nazionale è già operante) procederà a monitoraggi costanti, su base trimestrale, anche accedendo ai dati INPS su instaurazione, trasformazione e cessazione dei rapporti di lavoro, dell’andamento del mercato del lavoro agricolo, valutando in particolare il rapporto tra il numero dei lavoratori stranieri che risultano impiegati e il numero di lavoratori stranieri ai quali è stato richiesto il nulla-osta per il lavoro agricolo dagli sportelli unici per l’immigrazione. Promuoverà iniziative anche d’intesa con le autorità competenti e le parti sociali, in materia di politiche attive del lavoro, contrasto al lavoro sommerso e all’evasione contributiva, organizzazione e gestione dei flussi di manodopera stagionale, assistenza ai lavoratori stranieri immigrati.

Per quanto riguarda invece la revisione delle macchine agricole e la formazione professionale per il conseguimento dell’abilitazione all’uso, la relatrice racconta innanzitutto come si è arrivati al Decreto.

Se agricoltura e selvicoltura continuano a essere fra i settori con più infortuni mortali, anche nell’ultimo periodo una grande percentuale sono avvenuti su trattori e la principale causa è stata il ribaltamento/rovesciamento del mezzo. Nella maggior parte dei casi il capovolgimento trasversale e/o longitudinale del mezzo è avvenuto per sovraccarico del trattore, per sforzo eccessivo di traino, per manovre brusche e per eccessiva pendenza del terreno.

Si ricorda che i principali dispositivi di protezione sono rappresentati dall’installazione direttamente sul trattore di una struttura di protezione ROPS (Roll Over Protection Structure – Struttura di Protezione contro il Ribaltamento) tale da evitare o limitare i rischi in caso di capovolgimento e di schiacciamento e dalla cintura di sicurezza. Ai fini di sicurezza è indispensabile la contemporanea presenza dei due dispositivi.

Tuttavia dalle indagini sugli infortuni emerge anche che gli infortuni legati all’uso dei trattori agricoli o forestali sono, nella maggior parte dei casi, determinati oltre che dalle carenze delle attrezzature sotto il profilo della sicurezza e dall’eccessiva obsolescenza del parco macchine circolante, anche da carenze di formazione specifica degli operatori addetti all’uso. Quindi la revisione delle macchine con la eventuale rottamazione e la formazione degli operatori sono i due strumenti attraverso cui rendere il lavoro in agricoltura un lavoro più sicuro.

Una risoluzione della Commissione Agricoltura in Senato (di cui la senatrice è stata relatrice) ha fissato gli impegni per il governo nella attuazione del Decreto.

 

La risoluzione impegnava il Governo a:

  • far sì che non si prevedessero ulteriori proroghe rispetto all’entrata in vigore dell’obbligo della revisione delle macchine agricole e della formazione degli operatori, considerato che erano già tre le proroghe intervenute circa la revisione e due quelle sull’abilitazione obbligatoria;
  • prevedere, nella scrittura del Decreto Ministeriale con cui disporre le modalità di esecuzione della revisione, disposizioni volte a garantire non solo i profili di sicurezza di circolazione stradale delle macchine agricole ma anche quelli attinenti alla sicurezza sui luoghi di lavoro; questo è il punto fondamentale e richiederà un impegno particolare del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali;
  • prevedere che la revisione si effettui non solo con controlli visivi ma anche con controlli adeguati (sull’usura e su altri profili);
  • a prevedere una scalettatura delle revisioni che permetta una copertura progressiva in tempi adeguati di tutto il parco macchine e, a regime, una revisione periodica;
  • a prevedere la possibilità di utilizzare officine mobili presso le aziende o punti di raccolta che facilitino il conferimento delle macchine agricole oggetto di revisione;
  • a prevedere meccanismi che consentano la rottamazione delle macchine agricole più obsolete con tariffe e procedure semplificate che incentivino l’eliminazione delle macchine più pericolose;
  • a prevedere tariffe di revisione che favoriscano l’avvio della campagna tenendo anche conto della difficile situazione economica delle imprese;
  • per quanto riguarda i finanziamenti, a incrementare, da parte del Governo e degli enti strumentali (INAIL), i fondi per i bandi specifici per la revisione delle macchine agricole, oltre a stabilire una relazione con le Regioni affinché i Piani di sviluppo rurale inseriscano nella specifica della misura 17 le revisioni delle macchine agricole come misura di ammodernamento delle imprese ed incremento della sicurezza sul lavoro.

Inoltre per quanto concerne la formazione degli operatori la risoluzione impegnava il Governo a:

  • a rafforzare le sperimentazioni realizzate anche in collaborazione con l’INAIL e il Ministero del lavoro, dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca negli istituti tecnici-agrari con l’obiettivo di rendere istituzionalizzato il conseguimento del patentino;
  • a verificare tutte le possibilità per favorire la formazione all’uso dei trattori come strumenti di lavoro con tariffe adeguate, prendendo parte eventualmente a stabilire relazioni fra soggetti formatori e produttori di macchine agricole per un utilizzo migliore della disponibilità data dai produttori a fornire le macchine per la formazione;

Infine per quanto riguarda la revisione delle macchine agricole e la formazione degli operatori la risoluzione impegnava il Governo a:

  • prevedere dei punti di controllo per verificare l’andamento dei processi e la necessita di aggiustamenti o di nuove norme (in particolare, per quanto riguarda la formazione sarà importante verificare la necessita di adeguare i programmi, anche per una più completa integrazione e formazione della manodopera straniera molto presente nel settore).

Ricordiamo che il decreto del 20 maggio 2015 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.149 del 30 giugno 2015) ha stabilito i tempi per procedere alla revisione obbligatoria delle macchine agricole e delle macchine operatrici.

Tuttavia le modalità di esecuzione della revisione (articolo 5, comma 1) dovranno essere definite con un Decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, ed è con questo Decreto che si dovrà corrispondere alle altre richieste del Parlamento.

 

E poi si tratterà di monitorare attentamente il processo per intervenire in caso di intoppi e rallentamenti ed inoltre bisognerà favorire in tutti i modi sia il processo di revisione che quello della formazione.

Segnaliamo in conclusione che il Decreto prevede che i trattori agricoli siano sottoposti a revisione generale “a far data dal 31 dicembre 2015 e, successivamente, ogni 5 anni, entro il mese corrispondente alla prima immatricolazione secondo l’anno stabilito nella tabella” di cui all’allegato 1 del Decreto Ministeriale.

Mentre le altre macchine agricole semoventi a due o più assi e i rimorchi agricoli (aventi massa complessiva a pieno carico superiore a 1,5 tonnellate e con massa complessiva inferiore a 1,5 tonnellate, se le dimensioni d’ingombro superano i 4 metri di lunghezza e 2 metri di larghezza) sono sottoposte a revisione generale obbligatoria a far data dal 31 dicembre 2017.

 

E’ diversa invece la data per alcune particolari macchine operatrici:

  • macchine impiegate per la costruzione e la manutenzione di opere civili o delle infrastrutture stradali o per il ripristino del traffico;
  • macchine sgombraneve, spartineve o ausiliarie, quali spanditrici di sabbia e simili;
  • carrelli, quali veicoli destinati alla movimentazione di cose.

Queste macchine sono sottoposte alla revisione generale a far data dal 31 dicembre 2018.

Senza dimenticare, infine, che riguardo alla formazione professionale per il conseguimento dell’abilitazione all’uso delle macchine agricole, il Decreto rinvia a quanto già stabilito dall’ Accordo Stato-Regioni del 22 febbraio 2012, concernente l’individuazione delle attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori, nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione, i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di validità della formazione, in attuazione dell’articolo 73, comma 5, del Decreto Legislativo del 9 aprile 2008, n.81.

E anche in questo caso è da segnalare la scadenza del 31 dicembre 2015.

E’ infatti in questa data che (dopo le proroghe del “Decreto del Fare”: Legge n.98/13 e della Legge 11/15) è entrato in vigore l’obbligo dell’abilitazione all’uso delle macchine agricole considerate nell’Accordo del 22 febbraio 2012.

L’Intervento della senatrice Maria Grazia Gatti al convegno “Salute e sicurezza in agricoltura e selvicoltura. Le prospettive. Il piano 2014-2018” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151230_Sicurezza_agricoltura_gatti.pdf

Il Decreto 20 maggio 2015 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti “Revisione generale periodica delle macchine agricole ed operatrici, ai sensi degli articoli 111 e 114 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285” è consultabile all’indirizzo:

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/06/30/15A04679/sg

 

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L’ESORBITANZA NEL COMPORTAMENTO DEL LAVORATORE INFORTUNATO

 

Da: PuntoSicuro

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11 gennaio 2016

di Gerardo Porreca

 

Nel concetto di esorbitanza del comportamento del lavoratore infortunato vanno incluse l’inosservanza di norme antinfortunistiche e una condotta contraria a precise direttive organizzative ricevute.

 

In questa Sentenza la Corte di Cassazione ha focalizzata la propria attenzione sui limiti di responsabilità del datore di lavoro e su quando il comportamento del lavoratore che ha subito un infortunio costituisce una evidente causa interruttiva del nesso causale fra una omissione del datore di lavoro stesso e l’evento lesivo, argomento sul quale per la verità la suprema Corte non sembra aver trovato una linea comune, univoca e condivisa.

Pur se il criterio idoneo a discriminare il comportamento anomalo del lavoratore da quello che non lo è, ha sostenuto nella Sentenza stessa la Corte suprema, è basato sullo svolgimento delle proprie mansioni nel concetto di esorbitanza vanno incluse anche l’inosservanza a precise norme antinfortunistiche o la condotta del lavoratore contraria a precise direttive organizzative ricevute sempre a condizione che tale comportamento non risulti determinato da carenze o inidoneità delle norme di sicurezza adottate dal datore di lavoro.

La Corte di Appello ha riformato, con esclusivo riferimento alla concessione delle circostanze attenuanti generiche e rideterminazione della pena in quindici giorni di reclusione, la pronuncia di condanna emessa dal Tribunale nei confronti di un datore di lavoro, imputato del reato previsto dall’articolo 590 del Codice Penale in relazione all’articolo 583 del Codice Penale perché, nella sua qualità, per colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia e inosservanza delle norme dettate per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in particolare per violazione dell’articolo 68 del D.P.R.547/55, omettendo di proteggere o comunque di dotare di idoneo dispositivo di sicurezza gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, ha cagionato ad una dipendente, con la qualifica di operaia addetta al reparto frigo, lesioni personali guaribili in 92 giorni.

L’infortunio era accaduto mentre la lavoratrice svolgeva mansioni di addetta a una foratrice allorquando questa si è inceppata a causa di una basetta facente parte del macchinario che si era incastrata nei meccanismi di trazione. In particolare la lavoratrice, nonostante fosse a conoscenza della procedura idonea a sbloccare la foratrice in sicurezza, ha preso un cacciavite e ha infilato la mano, protetta dal guanto, in un piccolo varco presente nel recinto di protezione in plexiglas posto a copertura degli ingranaggi del macchinario. Una volta sbloccato il meccanismo, la foratrice si è riattivata agganciando il guanto di protezione e trascinando la mano della lavoratrice stessa tra gli ingranaggi, con conseguente frattura esposta del terzo dito della mano destra.

Il datore di lavoro ha ricorso per Cassazione censurando la decisione impugnata sostenendo che la Corte di Appello avesse desunto la sua colpa dalla violazione di una generica norma cautelare, ossia dall’aver omesso di adottare la cautela di impedire l’avvicinamento della lavoratrice alla zona di operazione della macchina, mentre l’imputazione si riferiva alla specifica norma cautelare dettata dall’articolo 68 del D.P.R.547/55 che prevede che “gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, quando possono costituire un pericolo per i lavoratori, devono, per quanto possibile, essere protetti o segregati oppure provvisti di dispositivo di sicurezza”.

Secondo il ricorrente, quindi, il Giudice avrebbe dovuto accertare in concreto l’avvenuta violazione della più generica regola cautelare così identificata e avrebbe dovuto altresì motivare l’insufficienza della barriera protettiva di plexiglas posta attorno alla macchina, tanto sotto il profilo dell’inidoneità della decisione aziendale di posizionare tale barriera alla distanza di almeno 85 centimetri dagli ingranaggi quanto sotto il profilo del posizionamento del varco di 10 centimetri a un’altezza tale da rendere necessaria una condotta positiva del lavoratore finalizzata al superamento dell’ostacolo costituito dalla posizione in quota della predetta fessura.

Nel ricorso l’imputato ha riscontrato, altresì, una violazione della legge penale sostanziale con riferimento ai principi che regolano l’individuazione della violazione di una regola cautelare. Premesso che l’infortunio era stato causato da una deliberata decisione della lavoratrice, munitasi di un cacciavite e arrampicatasi sui caricatori della macchina per accedere per il tramite di un varco di dieci centimetri alla zona meccanica della macchina, il ricorrente ha sostenuto l’erroneità della decisione di ritenere penalmente rilevante la condotta del datore di lavoro per aver tratto dall’articolo 2087 del Codice Civile il suo dovere di garantire la sicurezza assoluta dei lavoratori, per aver trascurato che la presenza dei varco di dieci centimetri costituiva una condizione essenziale per il funzionale esercizio della macchina e che la segregazione richiesta dall’articolo 68 del D.P.R.547/55 è imposta “per quanto possibile”, per avere altresì omesso di considerare il legittimo affidamento dell’imputato nel comportamento della dipendente conforme alle direttive ricevute, desumibile dall’obbligo diffuso che grava su tutti i soggetti dell’organizzazione aziendale, ivi inclusi i lavoratori a norma dell’articolo 20 del D.Lgs.81/08, a carico dei quali sono previste sanzioni penali in caso di inosservanza delle direttive comportamentali derivanti da soggetti apicali, per avere ritenuto che la condotta della lavoratrice rientrasse nel segmento lavorativo attribuitole nonostante si trattasse di condotta difforme dalle direttive di organizzazione ricevute ed esorbitante dalle mansioni attribuitele e per avere infine omesso di applicare il principio secondo il quale il vigente sistema penale non assicura la sua protezione a chi, nella piena consapevolezza del pericolo, si espone per propria decisione ad esso.

Il ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione. E’ risultata pacifica e condivisa, ha messo in evidenza la Corte suprema, la circostanza che la lavoratrice fosse stata adeguatamente informata sulle procedure che, in assoluta sicurezza e senza rischio alcuno per la sua incolumità, le avrebbero consentito di fronteggiare la situazione da cui si è originato l’infortunio. La stessa, infatti, per accedere alla macchina avrebbe dovuto aprire la porta di sicurezza, dotata di dispositivo di blocco del funzionamento all’apertura, ovvero chiamare l’addetto alla manutenzione. Nella Sentenza inoltre, ha fatto osservare la Sezione IV, è stato riportato quanto dalla stessa dichiarato e cioè che aveva già operato in precedenti analoghe occasioni nel rispetto delle prescrizioni di sicurezza.

E’ risultata pacifica, inoltre, la circostanza che il varco nel quale la lavoratrice ha infilato il braccio fosse funzionale al processo produttivo e che gli organi lavoratori della macchina fossero integralmente protetti e segregati, fatta eccezione per il suindicato varco, da un recinto di protezione. Sulla base di tali premesse la Corte territoriale, a differenza del Tribunale, non aveva ravvisata la violazione della specifica regola cautelare contestata, ossia quella di cui all’articolo 68 del D.P.R.547/55, ma ha confermata la pronuncia di condanna sussumendo la violazione nella generale norma prevenzionale dettata dall’articolo 2087 del Codice Civile secondo la quale l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

In merito al nesso di causalità, ha fatto notare altresì la Sezione IV, la Corte territoriale aveva escluso che il comportamento della lavoratrice avesse avuto effetto interruttivo sul presupposto che l’infortunio era riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta, essendo la dipendente addetta al controllo della macchina foratrice ed essendosi l’infortunio verificato all’interno del ciclo produttivo, e che la lavoratrice aveva compiuto un’operazione rientrante nel segmento di lavoro attribuitole. Secondo la stessa Corte territoriale quindi il comportamento della lavoratrice non è consistita in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e pertanto prevedibili scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro, ma è stato solo un gesto imprudente compiuto nell’esercizio delle proprie mansioni lavorative.

La Corte di Cassazione al fine di valutare la legittimità delle argomentazioni svolte in proposito dai giudici di merito ha ritenuto opportuno richiamare in sintesi alcuni principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in tema di condotta cosiddetta abnorme del lavoratore, da valutare in applicazione dell’articolo 41, comma 2 del Codice Penale, a norma del quale il nesso eziologico può essere interrotto da una causa sopravvenuta che si presenti come atipica, estranea alle normali e prevedibili linee di sviluppo della serie causale attribuibile all’agente e costituisca, quindi, un fattore eccezionale.

La Corte di Cassazione ha quindi messo in evidenza che nelle decisioni assunte precedentemente in merito dalla stessa Corte “se da un lato, è stato posto l’accento sulle mansioni del lavoratore, quale criterio idoneo a discriminare il comportamento anomalo da quello che non lo è, nel concetto di esorbitanza si è ritenuto di includere anche l’inosservanza di precise norme antinfortunistiche, ovvero la condotta del lavoratore contraria a precise direttive organizzative ricevute, a condizione che l’infortunio non risulti determinato da assenza o inidoneità delle misure di sicurezza adottate dal datore di lavoro”.

“In sintesi” – ha così proseguito la Sezione IV – “si può cogliere nella giurisprudenza di legittimità la tendenza a considerare interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore non solo quando essa si collochi in qualche modo al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso, ma anche quando, pur collocandosi nell’area di rischio, sia esorbitante dalle precise direttive ricevute e, in sostanza, consapevolmente idonea a neutralizzare i presidi antinfortunistici posti in essere dal datore di lavoro; quest’ultimo, dal canto suo, deve aver previsto il rischio e adottato le misure prevenzionistiche esigibili in relazione alle particolarità del lavoro”.

Dai principi così richiamati, ha così concluso la suprema Corte, si può, dunque, sviluppare il seguente corollario: “si deve ritenere abnorme o, comunque, eccezionale e, in quanto tale, idoneo a interrompere il nesso di causa tra la condotta datoriale e l’evento il comportamento del lavoratore esorbitante dalle precise direttive impartitegli, così qualificabile qualora, per la serie di operazioni messe in atto al fine di superare le barriere poste a presidio della sua sicurezza, riveli la piena consapevolezza di violare le prescrizioni datoriali ponendo inoltre in essere, come nel caso in esame, una condotta, ex se, fonte di pericolo (nella concreta fattispecie, la lavoratrice si era addirittura arrampicata sui bidoni di alimentazione del macchinario allungandosi per raggiungere in quota una piccola feritoia di 10 centimetri in cui infilare una mano con la quale impugnava un cacciavite, e ciò in assenza di qualsiasi esigenza tecnica che rendesse necessaria una così azzardata ed anomala e dunque imprevedibile manovra)”.

Alla luce in definitiva dei principi sopra indicati la Corte di Cassazione ha ritenuta quindi la pronuncia impugnata viziata dalla violazione dell’articolo 41, comma 2 del Codice Penale, laddove si è ritenuto che il comportamento della lavoratrice non fosse qualificabile come causa sopravvenuta sufficiente a determinare l’evento, nonostante fosse stato accertato che il datore di lavoro avesse adottato le misure prevenzionistiche funzionali a segregare gli organi lavoratori della macchina e avesse adeguatamente informato e formato la lavoratrice in merito ai comportamenti da adottare qualora si fosse verificato l’inceppamento del macchinario al quale era addetta e nonostante fosse stato accertato che la lavoratrice avesse violato le direttive ricevute mettendo in atto una serie di operazioni (prendere un cacciavite, raggiungere allungandosi il varco di dieci centimetri presente nel recinto segregatore e infilarvi il braccio) rivelatrici della piena consapevolezza di violare tali direttive.

Pertanto la Corte di Cassazione ha annullata la Sentenza impugnata senza rinvio “perché le pacifiche acquisizioni istruttorie enunciate nel provvedimento non consentivano di pervenire alla condanna, in presenza di una evidente causa interruttiva del nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e l’evento infortunistico ascrittogli”.

La Sentenza n.4890 del 2 febbraio 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:

http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=12580:2015-02-12-18-11-37&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60

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Non asfaltiamo il futuro

2016.01.25 Parma - Sì al TI-BRE ferroviario e ciclabile - Locandina-programmaLunedì 25 Gennaio presso l’Auditorium Toscanini di Parma si terrà l’evento “Non asfaltiamo il futuro. No al TI-BRE autostradale. Sì al TI-BRE ferroviario e ciclabile”.

Tra i promotori la Sezione ISDE di Parma, il cui Presidente, Manrico Guerra, interverrà.

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